![](https://static.isu.pub/fe/default-story-images/news.jpg?width=720&quality=85%2C50)
16 minute read
Carta della ritirata della "Cuneense" e della "Tridentina"
from VERSO CASA
Difatti il giorno successivo il comandante passò in rivista i nostri soldati ed, avendone avuto un'ottima impressione, passammo a far parte del 311° ftr. Cambiammo le mostrine e fummo trasferiti, prima, alle caserme jugoslave di Terzatto e, dopo otto giorni, a Delnice in Croazia. Qui eravamo di scorta lungo la strada alle colonne che rifornivano i vari distaccamenti nella Ravnagora nelle cui gole fu distrutto un nostro reggimento poco prima del nostro arrivo in zona di operazione. In questa zona montana eravamo soggetti ad attacchi da parte dei partigiani sia di giorno che di notte. Tutti gli uomini erano "al bosco"; nelle case c'erano solo donne e bambini. Una mattina, durante il servizio di scorta, ho sorpreso nel sonno in una casa un uomo (un partigiano). Chi avesse trovato un partigiano avrebbe usufruito di un mese di licenza premio. Ho informato il mio capitano che era poco lontano. Ci siamo guardati in faccia dicendo: "Vedremo al ritorno il da farsi!".
Al ritorno l'uomo non c'era più. Una sera, dopo che ero stato tutto il giorno in servizio di ronda, rientrando in caserma, il comandante mi comunicò che bisognava uscire subito perché a Kupiac (località sulla linea ferroviaria per Zagabria chiamata "cimitero dei treni" per il grande numero di convogli saltati in aria) era stata scoperta una bomba sotto i binari. Siamo subito usciti dal presidio con la mia compagnia; comandavo il plotone mitraglieri. Era una serata stupenda con una luna bellissima: sembrava di giorno. Mentre gli artificieri toglievano la bomba fummo attaccati dai partigiani; ci ritirammo nel fortino di Kupiac e rispondemmo per tutta la notte al fuoco dei partigiani. Al mattino rientrammo, per fortuna senza feriti, portando sulle spalle la bomba recuperata (un 149). In Croazia ho trovato Gianni Denegri (l'ex capo stazione di Isola) che prestava servizio nel genio ferrovieri a Karlovac, poco lontano da Delnice. Ci siamo salutati tramite un suo collega che comandava il treno armato che giornalmente ci portava a Kupiac. Al momento del suo rientro in Italia ci siamo incontrati, salutati, abbracciati; quando è arrivato a Isola con mie notizie, io ero già in ospedale ferito. Infatti sono stato ferito il 30 giugno 1943 in una azione di guerra a Iopsidal. Il giorno prima avevo assistito da una altura ad un combattimento tra croati e serbi (cetnici)
Advertisement
all'arma bianca. Uno spettacolo orrendo!270 Il giorno dello scontro dapprima ero col mio plotone di rincalzo: pioveva a dirotto quando sono passato in prima linea. Io, quale comandante ero soggetto al tiro continuo da parte dei partigiani; infatti poco dopo sento un gran colpo alla spalla destra; mi tocco e vedo sangue. Cerco di tamponare la ferita dalla quale sgorgava molto sangue. Mi riparo dietro ad un cespuglio, avverto a voce il sergente del mio plotone e poi, per sottrarmi al fuoco continuo mi butto in una scarpata e riesco a trovare il comandante la compagnia. Con un telo da tenda mi hanno portato al posto di medicazione dove il dottore mi ha fatta la puntura antitetanica e dato da bere un bicchiere di fernet perché avevo tanto freddo essendo bagnato fradicio. Con un'autocarretta mi hanno portato all'ospedale da campo. Ho perso molto sangue durante la notte e al mattino, quando è arrivato il colonello medico, il sangue aveva passato il materassino ed era arrivato a terra. Fui poi portato all'ospedale di Fiume e quindi a Valdoltra vicino a Trieste. Qui sono stato per 97 giorni; dopo, nel novembre sono ritornato a casa. Quindi sono stato dichiarato invalido di guerra. Attualmente percepisco la pensione di guerra a vita (5a categoria). Sono stato proposto per la medaglia d'argento».
Aldo Desirello non fu il solo studente isolese ad essere chiamato a militare: pure Luigi (Gigi) Rivara, iscritto ad ingegneria, riceve la cartolina precetto. Prima di seguire le sue mosse in Grecia vediamo quanto riporta Silvio Bertoldi in Anni in grigioverde 271:
“(...) Mussolini ebbe una trovata propagandistica. Come la classe del'99 era stata quella della vittoria nella Prima Guerra Mondiale, così bisognava trovarne adesso una a cui affidare la stessa funzione, con lo stesso carisma, con gli stessi effetti, per una guerra tanto scarsa di partecipazione popolare. La classe del '99 era composta di ragazzi sui 19 anni. Ebbene, i dicianovenni universitari della classe 1921
270 L'intervista a Desirello fu il 17 agosto 1989: allora non sapevamo distinguere all'interno della Jugoslavia le varie etnie. Solo in questi ultimi anni abbiamo capito, purtroppo, la differenza tra croati, serbi, bosniaci, sloveni e montenegrini e quindi il vero significato di quelle parole. 271 BERTOLDI (1991) pag. 41 e segg.
avrebbero preso il posto degli antichi coetanei vittoriosi. In fondo una scelta scaramantica. Tutti volontari. Gli caddero le braccia quando constatò che proprio gli universitari non rispondevano all'appello. Allora, in un momento di rabbia, ordinò di chiamarli alle armi con cartolina precetto e di considerarli volontari per forza, volenti o nolenti (...) gli universitari del 1921 avrebbero formato speciali reparti per frequentare un corso extra di sei mesi, al termine del quale li aspettavano i gradi da sergente. A questo punto sarebbero stati ammessi a un secondo corso di sei mesi, non più presso i reggimenti, ma presso le accademie e le scuole, diventando alla fine dei sottotenenti di complemento (...)”.
«Chiamato alle armi nel febbraio 1941 come "volontario" universitario. Aggregato ad un corso per "volontari universitari", prima a Verona e poi a Bolzano. Poi Pavia, alla Scuola Allievi Ufficiali del Genio, caserma "Menabrea". Il corso terminò nel febbraio del 1942». Così comincia il racconto di Luigi Rivara intercalato da aneddoti di vita isolese, di viaggi in tutto il mondo e di personaggi come Vittorio Gassman, da lui conosciuto nello studio di Bice De Lorenzi a Genova:
«Destinato alla divisione "Siena", reparto del 4° reggimento genio, vengo inviato a Trani, in attesa di imbarco. Questo avvenne a Bari circa due mesi dopo, di notte, in grande confusione, su un piccolo vapore, preda bellica, nome di origine Prince of Wales. Non ricordo il nome che ebbe nella flotta mercantile italiana. L'equipaggio era composto da genovesi, compreso il comandante. Io allora avevo circa 19 anni ed una grande carica di spirito di avventura che, malgrado tutto non mi abbandonerà più durante tutto il corso della mia vita. Tra Brindisi e Corfù fummo attaccati da aerei inglesi che ci mitragliarono incendiando il carico in coperta formato in buona parte da balle di paglia. Passammo il resto della notte a scaricare in mare le balle di paglia. All'inizio del mitragliamento, il comandante che mi stava osservando dal ponte di comando, mi incitò: "Scia se cacce in tera, belinun ! " 272 .
272 - Si butti in terra, sciocco!
A Corfù navi da guerra leggere italiane scaricavano feriti. Questo fu l'inizio. Ci sbarcarono al Pireo dove cominciai a prendere visione dei disastri causati dalla guerra. C'era la fame e nelle strade vi erano dei morti, forse per fame o per ferite. Da Atene, dopo qualche settimana a Creta con un nostro aereo, mi pareva fosse un S82. Naturalmente, benché volassimo a pelo d'acqua, fummo attaccati dalla caccia britannica. L'equipaggio era composto di giovanissimi - il comandante aveva forse vent'anni come me - e non si poteva qualificare molto esperto: uno dei viaggiatori che aveva le mostrine di fanteria, fu invitato a piazzarsi alla mitragliatrice in centro della fusoliera. Questa era la nostra efficienza militare. Comunque fummo fortunati e atterrammo ad Iraklion indenni. Da Iraklion raggiunsi Sitia, villaggio di pescatori sul mare di una bellezza straordinaria. Oggi è meta balneare turistica molto apprezzata. Mi spostai da Iraklion a Sitia al comando di una autocolonna di camions sbarcati in quei giorni e caricati in fretta di materiali di ogni genere. Naturalmente alla partenza ci beccammo un attacco aereo inglese che fece qualche morto anche nella povera popolazione civile. Nessun camion andò perduto, ma la trasferta fu molto più lunga del previsto: strade non molto degne di questo nome e camions continuamente in panne. Gomme, benzina o nafta mancanti e soprattutto freni poco efficienti.
A Sitia rimasi circa un anno, con molta noia e le ormai abituali interruzioni dei mitragliamenti, qualche bombardamento dal mare e un gran daffare con le "despinides" locali, disponibili e affettuose. Nel luglio del 1943 finalmente in licenza. Prima a Rodi, allora ancora italiana, dove per non perdere l'abitudine, durante la notte un sommergibile inglese scocca due siluri che, mancato il bersaglio, un cacciatorpediniere italiano, esplodono con fragore contro la banchina. Da Rodi ad Atene con un aereo tedesco maledettamente lento - la "paura" degli attacchi aerei inglesi - gli Spitfires erano più veloci - non ci abbandonava mai in queste circostanze. Da Atene all'Italia con una specie di tradotta, attraverso la Macedonia e la Jugoslavia. Non mancarono anche in questo tutto sommato piacevole viaggio le usuali avventure, questa volta dovute ai partigiani di Tito, oltre che agli onnipresenti aerei inglesi. Prima a casa, a Isola per un po' di riposo e
distensione, mentre la situazione politica, in Italia cominciava a deteriorarsi.
Mi recai vicino a Roma, in Abruzzo, dove mio fratello Giuseppe (Pippo) era militare in un reggimento chimico; lui era studente universitario di chimica. All'andata tutto liscio. Ma al ritorno venni coinvolto nel primo grande bombardamento aereo di Roma - era il 19 luglio 1943. La "littorina" nella quale mi trovavo, per fortuna in piedi vicino alla cabina di guida, era in entrata nella stazione di Roma Prenestina. I conduttori stavano dicendo: "Semo papalini, nun ce bombarderanno mai! " 273 .
Appena detta questa frase, una bomba, fortunatamente non troppo grossa, colpisce in pieno centro la "littorina". Esco, arrampicandomi sui rottami e mi rifugio in una buca di bomba dove faccio cordiale conoscenza con due neo sposi svizzeri in viaggio di nozze. certamente anche loro pensavano che Roma non sarebbe stata bombardata. L'attacco durò due ore. La licenza passò presto: raggiunsi Mestre e di lì in treno, Lecce. Da Lecce, aereoporto di Galatina, ad Atene e poi di nuovo Creta, a Sitia».
Riprendiamo il discorso di Primo Valente anche lui a Roma:
«Il 1° ottobre 1942 viene accettata la mia domanda e passo dagli alpini alla Guardia Forestale per frequentare il 42° corso a Cittaducale fino al luglio del '43. Eravamo sette o otto di Gallio. Destinato a Roma, alle undici di mattina del 19 luglio ero in via XX settembre, in alloggio: mentre si consumava il rancio inizia il bombardamento. Non mi risulta che ce ne sia stato uno anche al pomeriggio. Il nostro servizio era di fare la guardia a Villa Torlonia, dove abitava Mussolini».
Un bombardamento ben preparato da James Doolittle, uno specialista che diresse personalmente i bombardieri. La prima ondata, partita all'alba dalle basi algerine (158 fortezze volanti) e da quelle libiche (112 Liberator), arriva sulla capitale alla quota di ottomila metri. Furono particolarmente danneggiati gli scali ferroviari e gli stabilimenti dell'Ala Littoria: “(...) decine di convogli ferroviari
273 - Siamo papalini, non ci bombarderanno mai!
restano polverizzati (...) e nel primo pomeriggio entrano in azione altri 170 bombardieri medi scortati da 61 caccia (...) furono ore terrificanti per i romani, convinti che la loro città, così ricca di monumenti e di storia e che ospitava il Papa, sarebbe stata risparmiata dagli orrori della guerra (...)”274 .
Ma anche chi era in zone di presidio tranquille poteva essere spostato in ogni momento. Così Paolo (Gigi) Repetto, classe 1917, dopo la campagna di Francia torna in Italia, per 3 o 4 mesi in Val Sesia a Riva Valdobbia e da lì a Chatillon e Aosta poi di nuovo a Chatillon. Sentiamolo: «Dopo sei mesi di presidio in Francia sono passato sergente nel 1941: ero alle salmerie. Da permanente, 18 mesi di militare ad Aosta, ho preso due licenze: una invece me l'hanno data quando ero in Francia. D'inverno si stava in caserma (a parte i campi) ma d'estate si era sempre fuori. Una sede estiva fu a Dondenaz275 .
L'11 gennaio 1942 siamo partiti per la Jugoslavia. Abbiamo dato il cambio ad altri alpini, forse quelli del "Val d'Orco", non ricordo bene. Ci siamo imbarcati a Bari e sbarcati a Ragusa, sull'altra sponda: un sottufficiale è stato ucciso dai ribelli appena siamo scesi. Facevamo presidio a Bocca di Cattaro. Poi siamo andati a Plevia con otto giorni di marcia. Ho visto il cimitero della divisione "Murge" con ottanta croci. Pioveva per decine di giorni, eravamo sempre bagnati e senza poterci cambiare, dormire in tenda, niente paglia: ti sentivi di lamenti de notte chi te sciancavo u coeu ...276. Infine a casa in esonero da sergente maggiore: l'8 settembre 1943 non mi sono presentato. Anche i miei due figli, Franco e Giuseppe, sono stati alpini della "Taurinense", erano insieme e facevano gli autisti».
In terra russa
274 ROCCA (1991) pag. 282 e segg. 275 In alta Val d'Ayasse, pendici Monte Glacier. 276 - Sentivi dei lamenti di notte che ti strappavano il cuore! (Repetto come sottufficiale durante le guardie notturne ispezionava gli accampamenti e gli alpini si confidavano con lui della situazione logistica, igienica e di alimentazione.
N.d.I.)
(testo di Bruno Bertuccio, Vanda Camicio e Sergio Pedemonte)
C'è nella storia della Seconda Guerra Mondiale un capitolo nel quale, forse più che in altri, risaltano le qualità ed il senso del dovere dei nostri soldati. I luoghi nei quali si svolsero i fatti sono quelli in cui operarono i reparti italiani sul fronte russo. Le doti di umanità vennero ben presto alla luce prima che iniziasse la disfatta; infatti nel momento in cui i reggimenti italiani presero contatto col suolo russo, vi trovarono una popolazione formata quasi totalmente da donne, bambini ed anziani277. Chi non diede qualcosa ad un bambino? Chi durante la marcia verso il Don non aiutò un vecchio? Quegli episodi, quel fraternizzare con un popolo nonostante la diversità degli usi e l'impossibilità di comunicare hanno un perché: essi trovarono, soprattutto gli alpini, un legame al disopra di ogni barriera perché erano tutti figli della terra; contadini i russi, contadini in maggior parte gli italiani. Rispettosi com'erano della propria terra e della propria casa, rispettarono la terra e la casa che, per ordine ricevuto, era toccato loro invadere e più di una volta udirono dai russi: "Talianski karasciò!"278 .
Quanti di quei giovani che nel freddo atroce camminavano verso ovest furono rifocillati, per quanto era loro possibile, dalle donne russe? Furono tanti e forse questo era il frutto del seme che avevano gettato nell'estate precedente, quando marciavano in direzione opposta. E' doveroso, a questo punto, prendere in considerazione l'effetto che gli eventi verificatisi dalla partenza dei reparti dal suolo italiano alla loro disposizione in linea ebbero sul morale dei soldati delle nostre divisioni. La maggior parte di essi, contadini e montanari come detto, non riuscivano a capire l'utilità di un loro impiego in luoghi così lontani dalle loro valli, dai loro campanili, per giunta in un paese del quale sapevano poco o niente. Non è altresì trascurabile il
277 L'Unione Sovietica perse nella Seconda Guerra Mondiale, tra civili e militari, circa 27 milioni di cittadini (VALLA-ROGGERO, 1993). 278 - Gli italiani sono buoni!
fatto che, nonostante gli accordi intercorsi tra il comando tedesco e quello italiano che prevedevano l'impiego delle divisioni alpine nel Caucaso, le nostre unità finirono per essere schierate in pianura nell'ansa del Don. La dipendenza dai tedeschi per quanto concerne i trasporti ed i carburanti fu un'altra condizione che non contribuì di certo a dare fiducia alle truppe; infatti i nostri alleati ce li concessero solo quando ne avevano in eccedenza per i loro bisogni o quando si presentò la necessità di far affluire celermente i nostri reparti in linea per tamponare le falle nello schieramento. Per la quasi totalità degli alpini e fanti, il viaggio verso la Russia rappresentò l'impatto con cose nuove, mai viste prima di allora, con quella tecnologia della quale ben pochi di loro avevano immaginato l'esistenza. Carri armati pesanti, cannoni semoventi, lanciagranate multipli, davano un senso di potenza enorme, ma cosa avrebbe potuto opporre il corpo d'armata alpino ad un simile armamento? Durante il viaggio avevano incontrato colonne di prigionieri ebrei che lavoravano lungo la ferrovia: erano laceri, affamati, guardavano passare le tradotte nella speranza che qualche soldato italiano gettasse loro un pezzo di pane, cosa che spesso avvenne e che procurò non pochi problemi nei rapporti con i tedeschi. Era inconcepibile per la mentalità dei nostri, usare la forza e la prepotenza contro persone inermi ed il trattamento cui erano sottoposti gli ebrei polacchi o ungheresi fece cambiare opinione a molti sulla civiltà dei nostri alleati.
L'attacco russo (Operazione "Piccolo Saturno") contro le linee italiane partì l'11 dicembre 1942 nel settore della "Cosseria" e "Ravenna" dove vi era appena un italiano ogni sette metri279. Le forze sovietiche, nonostante la superiorità in uomini, mezzi ed equipaggiamento, riuscirono a sfondare solo il 16 dicembre ed il 21 conclusero l'accerchiamento dei fanti italiani. Il c.d.a. alpino era
279 PETACCO (s.i.) pag. 942, vol. 3. Il rapporto tra forze sovietiche-italiane nella zona di rottura del fronte era: battaglioni fanteria 5,75-1; battaglioni carri 15-1; artiglierie 6,13-1; mortai 11,6-1; SME (1993) pag. 331.
invece schierato più a nord, su di un fronte di circa 70 chilometri280 . Consapevoli di avere utilizzato al meglio ogni mezzo di cui disponevano per respingere eventuali attacchi, iniziarono la loro battaglia di retroguardia con il rigido inverno e con i russi. Anche in questo campo era una lotta impari, gli indumenti dei quali disponevano non erano assolutamente adatti alle temperature dell'inverno russo con le scarpe chiodate che favorivano la formazione di una suola di ghiaccio tra le calze ed il cuoio, le giacche in finta lana e i cappotti ingombranti. Nonostante la vastità del settore loro assegnato, i russi non riuscirono mai ad intaccare il fronte tenuto dagli alpini. Ci provarono prima attraversando il fiume con barche poi, quando il Don gelò, con pattuglioni di truppe siberiane equipaggiate con tute mimetiche bianche che potevano sfuggire facilmente alle vedette. Ma il giorno in cui gli alpini dovettero abbandonare i rifugi perché il fronte era stato sfondato a nord nel settore della 2a armata ungherese e a sud, tutti i dubbi e le angosce che li avevano attanagliati durante il viaggio tornarono prepotentemente d'attualità. La potenza di fuoco della loro artiglieria era affidata in massima parte al cannone 47/32 delle compagnie armi di accompagnamento ed ai pezzi da 75/13 dei gruppi di artiglieria alpina. I primi erano del tutto inefficaci contro ogni tipo di blindato, i secondi richiedevano tempo per essere messi in batteria perché ogni pezzo, non avendo a disposizione mezzi atti al traino, era trasportato su sette muli e doveva esporsi al fuoco nemico per poter essere utilizzato con alzo zero a distanza ravvicinata per avere un tiro efficace. Con queste premesse, il 21 gennaio, quattro giorni dopo aver ricevuto l'ordine di ripiegamento, la "Cuneense" al completo più una colonna della "Julia", si trovarono la strada sbarrata dalla 3a armata motocorazzata sovietica nei pressi di Nowo Postojalowka. Nella battaglia, che si protrasse per oltre trenta ore, la "Cuneense", nel tentativo di rompere l'accerchiamento, si vide annientati quattro battaglioni alpini ed un gruppo d'artiglieria. I dubbi che avevano tormentato gli alpini nei mesi precedenti trovarono la più
280 L'8a armata presiedeva un tratto del Don di circa 270 km (DE LAUGIER-BEDESCHI, 1980, pag. 209).