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PROFESSIONE “EMBEDDED” I rischi dell’informazione in area di crisi Rivista Aeronautica
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Professione “Embedded”
testo e foto di Nico Piro
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Nico Piro, giornalista, scrittore e blogger italiano, è un inviato speciale della Rai in aree di crisi e zone di conflitto. Attualmente inviato della redazione esteri del Tg3, negli anni si è occupato, in particolare, di Afghanistan ma anche di Georgia, Sierra Leone, Grecia e della drammatica situazione dei migranti a Calais. Per il suo lavoro ha ricevuto diversi riconoscimenti come il Premio Frajese, il Premio Ilaria Alpi e il Premiolino. È, inoltre, il fondatore in Italia del Mobile Journalism.
uando il portellone di carico si apre la luce fa stringere gli occhi, ormai abituatisi alla penombra, un rettangolo abbagliante spunta da un versante di quella che sembra l’interno della chiglia di una nave: il grigio-verde è il colore dominante, interrotto solo dall’arancione delle reti passeggeri. A vederlo dall’interno sembra che questo aereo possa essere letteralmente smontato in volo, l’idraulica e l’avionica sono accessibili solo sganciando qualche pannello di protezione, parte di quella praticità che fa del C-130 l’indispensabile “mulo” dei cieli. Il rumore delle slitte che corrono sui rulli riporta il pensiero al motivo per cui siamo a bordo: dalla Seconda Guerra Mondiale, per la prima volta le Forze Armate italiane riprendono gli aviolanci di rifornimenti. In sequenza, pallet carichi di provviste e altro materiale finiscono nel vuoto e il loro paracadute si apre; sono destinati nella vallata di Bala Morghab, provincia di Baghdis, Afghanistan nord-occidentale al confine con il Turkmenistan. Una zona remota, già di per sé difficilmente raggiungibile nonostante la mappa riporti una linea indicata come “Highway 2”, una strada che dovrebbe essere la seconda a scorrimento veloce del Paese ma sulla quale i 200 km circa che separano la vallata dalla città di Herat si percorrono in due giorni. Non è solo una questione di tempi e assenza di strade degne di questo nome ma anche di sicurezza; questa provincia era un tempo famosa per la raccolta dei pistacchi, la transumanza del bestiame da cui si ricavava la lana ispida per cappotti e cappelli venduta ai mercanti russi, persino per i suoi panorami cari ai pochi turisti che arrivavano sin qui; dalla guerra contro le truppe di Mosca è diventata base per ogni genere di forza anti-governativa: mujaheddin prima, talebani poi, ormai anche trafficanti che tengono aperto il canale della droga verso le ex-repubbliche sovietiche d’Asia. L’operazione dura una manciata di, cruciali, secondi in cui se qualcosa va storto può fare grossi danni. Trascinare via un membro dell’equipaggio, mandare del
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In queste pagine, momenti della difficile attivita degli inviati in zone di crisi; l’obiettivo di ogni giornalista, inviato sul campo, dovrebbe essere quello di ergersi a fonte autonoma per il proprio pubblico, distinta dalle parti in conflitto, in condizione di muoversi in via indipendente. È sempre più difficile trovare condizioni che lo consentano in aree di conflitto e quindi la scelta è molto spesso quella di raccontare i fatti con modalità “embedded” (ovvero al seguito di truppe).
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carico prezioso fuori obiettivo, colpire personale o civili a terra. È il 2008, ci siamo svegliati all’alba e abbiamo volato per una trentina di minuti, “godendo” dello stile sbrigativo del volo tattico, quello che ti impedisce di trasformarti in un bersaglio, grosso e attraente, per assistere a un’operazione volata via in un attimo e che in realtà è solo parte di una più vasta catena logistica, cominciata con l’allestimento dei bancali e finita con il loro recupero da parte delle unità al suolo. Ne è valsa la pena? Andare a vedere con i propri occhi è sempre indispensabile e necessario per un giornalista. Personalmente ho avuto esperienze di quello che oggi viene esoticamente chiamato embedded con truppe di di-
versi Paesi, con diverse unità e specialità, spesso in luoghi ad alta intensità di combattimenti. Sono esperienze che un giornalista deve valutare e gestire con grande rigore e lucidità ma sono sempre più indispensabili. Negli anni 80, giornalisti entrati poi nella leggenda – come l’italiano Ettore Mo’ – si univano a unità dei mujaheddin in Pakistan per entrare in Afghanistan a piedi, clandestinamente e attraverso le montagne. Si facevano vivi in redazione con il proprio reportage magari un mese dopo, ma quei tempi sono purtroppo passati. Purtroppo perché ormai nelle aree di conflitto (ma anche in quartieri difficili delle nostre città, verrebbe da notare) i giornalisti vengono considerati dalle fazioni in lotta come nemici. In particolare, vengono accusati di essere spie, collaboratori del nemico, pericoli da “eliminare”
oppure merce di scambio, obiettivi di sequestri quando non macabri trofei per richiamare attenzione mediatica globale da esibire in video di propaganda, è capitato tristemente in Siria negli ultimi anni, nel territorio del sedicente Califfato, ma anche già subito dopo il 2001 in Pakistan. L’obiettivo di ogni giornalista, inviato sul campo, dovrebbe essere quello di ergersi a fonte autonoma per il proprio pubblico, distinta dalle parti in conflitto, in grado di muoversi in via indipendente. È sempre più difficile trovare condizioni che lo consentano in aree di conflitto e quindi la scelta è molto spesso quella di raccontare con modalità embedded (ovvero al seguito di truppe) oppure non raccontare affatto. Ho sempre escluso la seconda ipotesi ed è per questo che sono riuscito a raccontare quello che accadeva in luoghi già di per sé logisticamente inaccessi-
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bili, dove mettere il naso da soli avrebbe significato venir sequestrati o uccisi in poche ore. Penso, per esempio, alla valle del fiume Pech, Provincia di Kunar, Afghanistan sud-orientale, il luogo più difficile per le truppe statunitensi nel Paese. È stato un modo per raccontare l’assurdità di quel conflitto e la sua inutilità tattica, senza guadagni strategici possibili. È anche evidente che “al seguito” di forze militari (ma anche di ONG, organizzazioni umanitarie, delegazioni commerciali o politiche in altri contesti) il giornalista vede la realtà dal punto di vista della struttura a cui si accompagna – questo a prescindere dalle potenziali limitazioni o meno al proprio lavoro (censure più o meno mascherate, regole da seguire magari giustificate con motivi come la sicurezza, ecc.). E allora sta al giornalista precisare al lettore le condizioni in cui lavora, precisare quegli elementi che possono dichiarare il punto di vista “di parte”, la non autonomia in termini di spostamenti e di logistica, quindi di prospettiva. Sta al giornalista non cercare di ottenere quello che la sua condizione embedded non gli potrà offrire. Uscendo in pattuglia con le truppe Rivista Aeronautica
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aviotrasportare o di fanteria meccanizzata nella valle del Pech, ad esempio, non mi sono mai sognato che le chiacchiere scambiate con la popolazione locale fossero opinioni liberamente espresse; si parlava con persone che in quei momenti erano sotto pressione perché non volevano creare tensioni con chi aveva una base super-armata a pochi chilometri dalle proprie case, perché magari avevano qualcosa da nascondere, perché temevano di essere bollate come “collaborazioniste” dagli scout della guerriglia infiltrati nel proprio villaggio. Sono anticorpi che il giornalista deve sviluppare per poter fare il proprio lavoro al meglio anche in condizioni embedded, fermo restando che – in un’Italia dove troppo spesso tutto diventa “tifoseria” – andrebbe ricordato che questo giornalismo esiste da sempre e che pagine straordinarie sono state scritte, per esempio, “al seguito” delle truppe repubblicane da Robert Capa durante la guerra di Spagna piuttosto che nel conflitto sovietico-afghano marciando – lo ricordava prima – assieme ai mujaheddin. Bisognerebbe quindi evitare di condonare il giornali-
smo “al seguito” quando è embedded con una parte che ci piace e condannarlo quando invece viene realizzato con soggetti a noi sgraditi, bisognerebbe invece concentrarsi sulla qualità del lavoro e di quanto prodotto nelle condizioni date (che non sono ideali, lo si ribadisce). Insomma, diffidare di giornalisti militanti piuttosto che di giornalisti al seguito dei militari (siano essi inseriti in forze armate regolari o guerriglieri). Da questo punto di vista, sarebbe interessante e utile che le nostre Forze Armate – che pure negli ultimi anni hanno visto moltiplicarsi le proprie attività di comunicazione e la qualità del personale addetto alla “pubblica informazione” – continuino nel loro percorso di evoluzione, puntando agli standard delle strutture militari statunitensi, la forza armata più “aperta” in assoluto al mondo. Un’apertura all’informazione e ai giornalisti che è anche figlia di quell’idea di Forze Armate come istituzione pubblica a diretto contatto con il cittadino, a cui non rapportarsi solo tramite la rappresentanza fatta dalla politica e dal potere esecutivo. n
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