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6 L’Alleanza Atlantica alla vigilia di importanti decisioni sul suo futuro
L’Alleanza Atlantica
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Massimo de Leonardis
Approcci diversi al tema della NATO
Oltre che da altri fattori, come le proprie convinzioni ideologico-politiche, l’approccio dell’autore di uno scritto sull’Alleanza Atlantica è comprensibilmente influenzato dal suo ruolo o professione. Un funzionario della NATO non potrà che darne una visione del tutto positiva, elaborando il classico mantra che essa è «l’alleanza di maggior successo della storia». Un diplomatico di un paese della NATO esprimerà un’opinione più sfumata, magari accennando a qualche ombra, e riflet-
Professore Ordinario (a. r.) di Storia delle relazioni e delle istituzioni internazionali e docente di Storia dei trattati e politica internazionale nell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove dal 2005 al 2017 è stato direttore del Dipartimento di scienze politiche. Presidente dal 2015 della International Commission of Military History. Consigliere scientifico della Marina Militare per l’area umanistica e membro decano del Comitato consultivo dell’Ufficio Storico della Forza armata. Dal 1999 coordinatore delle discipline storiche al master in Diplomacy dell’Istituto per gli studi di politica internazionale. Membro della European Academy of Sciences and Arts e insignito della medaglia «Marin Drinov» dell’Accademia delle scienze bulgara.
Sede della Nato a Bruxelles (nato.int).

tendo le posizioni nazionali. Alcuni osservatori freelance, per attirare l’attenzione, lanceranno invece allarmi sulla sopravvivenza dell’Alleanza. Un noto commentatore di politica estera, scriveva circa tre anni fa un articolo dal titolo RIP (Requiescat in pace) the Trans-Atlantic Alliance, 1945-2018 (1). Nulla di nuovo. Gli allarmi sulla «crisi» della NATO, già lanciati talvolta durante la Guerra Fredda, sono diventati più frequenti e concitati a partire dagli anni 90, suscitando anche qualche ironia sulla sindrome di Pierino che grida «Al lupo! Al lupo!» (2). Con il sottotitolo NATO is dying-again (3), si apriva un articolo del 2004. Secondo un suo alto funzionario, «la NATO ha avuto più resurrezioni di Dracula» (4).
Chi scrive è sempre stato un’atlantista convinto, senza per questo rinunciare a un motivato approccio critico. Soprattutto, da storico, ritiene che il presente possa essere correttamente compreso solo alla luce delle esperienze del passato. Dopo la Guerra Fredda, la NATO ha avuto un’evoluzione profonda, ma quasi sempre si scopre che vecchie idee ricompaiono anche in un contesto assai diverso. Continuità e trasformazione sono le due bussole dell’Alleanza.
Le critiche di Trump e Macron
Fino a qualche anno fa, drastiche critiche alla NATO venivano solo dai commentatori; da decenni nessun politico di primo piano negli Stati membri aveva mai espresso giudizi negativi su di essa. Poi sono venuti il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron.
Eletto ma non ancora in carica, Trump definì la NATO «obsoleta», perché focalizzata contro la Russia e non contro il terrorismo islamico (5) e ammonì che gli Stati Uniti non avrebbero più accettato di pagare la maggior parte delle sue spese, posizione, quest’ultima, condivisa anche dal suo predecessore Obama e tema ricorrente sollevato da tutti i Presidenti americani. Parlando poi al nuovo Quartier Generale della NATO il 25 maggio 2017, Trump sembrò glissare sulla clausola di aiuto reciproco contenuta nell’art. 5 del Trattato NordAtlantico. In realtà, però i documenti più importanti dell’amministrazione Trump, la National Security Strategy del dicembre 2017 e la 2018 National Defense Strategy hanno fortemente riaffermato il valore della NATO per la politica estera americana.
Una valutazione della politica dell’amministrazione

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Trump nei confronti della NATO deve attentamente distinguere tra la retorica pubblica e la realtà (6). Anche volendo non sopravvalutare l’importanza dei documenti ufficiali, soccorrono i fatti. Da questo punto di vista, l’impegno di lungo periodo di Washington verso la NATO è rimasto immutato anche durante l’amministrazione Trump. Come gesto simbolico, il 3 aprile 2019 per la prima volta in assoluto un Segretario Generale della NATO è stato invitato a parlare al Congresso americano. Considerando fatti più sostanziali, per esempio il numero di truppe americane dispiegate in permanenza o temporaneamente in Europa è salito da 63.000 nel 2016 a 74.000 nel 2018.
Più recentemente, nel novembre 2019, è stato il presidente francese Macron a pronunciare un durissimo giudizio sulla NATO. Un «bobo» francese, non un «rozzo palazzinaro» del Queens. Quindi lo ha espresso non con un tweet, ma nell’ambito di una pensosa riflessione. In un colloquio pubblicato sull’Economist (7), assai ricco di considerazioni interessanti sia dell’intervistato sia dell’intervistatore e di altri commentatori, Macron ha proclamato la «morte cerebrale della NATO», spiegandola così: «non c’è alcun tipo di coordinamento tra gli Stati Uniti e i loro alleati europei nel processo decisionale in campo strategico. Nessuno. Abbiamo un’azione aggressiva non coordinata da parte di un altro alleato strategico, la Turchia, in un’area dove sono in gioco i nostri interessi». Alla domanda «ciò significa che l’art. 5 — l’idea che se uno dei membri della NATO fosse attaccato gli altri verrebbero in suo aiuto, che sostiene la deterrenza dell’alleanza — è tuttora operativo?», l’inquilino dell’Eliseo risponde «non so, […] ma cosa significherà l’articolo 5 domani?». Queste frasi di Macron contengono varie imprecisioni e comunque la Francia si è resa più volte colpevole proprio di ciò di cui oggi accusa Ankara.
In verità, seguendo la tradizione gollista, che ispira tutti i Presidenti francesi, Macron vuole marcare le distanze da Washington e porre il suo paese alla guida dell’organizzazione europea. Peraltro, sa benissimo che un’Europa della difesa totalmente autonoma è un’utopia e pensare di costruirla senza il Regno Unito è una sciocchezza. Infatti parla di «complementarietà» della PESCO rispetto alla NATO e apre alla collaborazione con il Regno Unito nel campo della difesa anche dopo la Brexit. In reazione all’attacco di Macron, Trump si definì un fan della NATO.
Il dibattito sulla cosiddetta «Europa della difesa» ha da molti anni caratteri stucchevolmente ripetitivi. Si consideri per esempio il rapporto Nato 2030: United for a new era. Analysis and recommendations of the Reflection Group appointed by the NATO Secretary General (8), presentato dal Segretario Generale Jens Stoltenberg nel dicembre 2020, che in proposito rielabora posizioni tradizionali: «la NATO dovrebbe guardare con favore agli sforzi della UE in direzione di una più forte ed efficiente capacità europea di difesa nella misura in cui essi rafforzano la NATO, contribuiscono a un’equa condivisione del fardello a livello transatlantico e coinvolgono pienamente alleati non membri della UE. Gli sforzi europei in corso dovrebbero essere utilizzati meglio per aumentare la quota degli alleati europei a sostegno degli obiettivi relativi alle capacità della NATO».
Sia pure con toni meno perentori, sostanzialmente sono gli stessi concetti espressi nel 1999 dal segretario di Stato americano Madeleine Albright, a proposito delle iniziative europee nel campo della difesa, che dovevano rispettare le tre «d», «no decoupling», «no duplication», «no discrimination» (9). A quell’epoca, il principale alleato membro della NATO ma non della UE che non doveva essere «discriminato» era la Turchia. Ora si è aggiunto il Regno Unito. Londra ha le Forze armate più efficienti della NATO (ma di dimensioni contenute), Ankara ha l’Esercito più grande dopo quello degli Stati Uniti. Il rapporto consiglia anche il modello sperimentato delle «coalizioni di volenterosi» tra Stati membri o partner della NATO per operazioni che non coinvolgono tutti.
La cosiddetta «Europa della difesa» è un continuo gioco dell’oca, nel quale ad annunci di presunte svolte non seguono poi rilevanti sviluppi concreti. L’Alto Rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, ha sostenuto in settembre la necessità di creare una forza d’intervento rapido europea di almeno cinquemila militari da impiegare nelle future crisi, come quella dell’Afghanistan, dichiarando: «come europei non siamo stati in grado di mandare seimila soldati attorno all’aero-

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Afghanistan, civili tentano la fuga dall’aeroporto di Kabul (cnn.com).
porto (di Kabul) per proteggere la zona. Gli americani ci sono riusciti, noi no» (10).
Già il Consiglio europeo di Helsinki del dicembre 1999 aveva deciso di dotare la UE di propri organi militari per la gestione delle crisi e di una propria Forza militare d’intervento, la European Rapid Reaction Force (ERRF), per la quale il Consiglio fissò una precisa scadenza: «entro l’anno 2003, cooperando insieme su base volontaria, gli Stati membri saranno in grado di dispiegare entro 60 giorni e poi di sostenere (per almeno un anno, si dice successivamente) forze capaci della piena gamma dei compiti Petersberg quali descritti nel trattato di Amsterdam, compresi i più impegnativi, in operazioni fino a livello di corpo d’armata (fino a 15 brigate o 50-60mila persone)» (11). Come è noto, tra i «compiti di Petersberg» non rientrano le major combat operations e il peace enforcement robusto.

Il 2022 anno di importanti decisioni
Il 2021 è stato segnato dal frenetico ritiro delle forze americane e della NATO dall’Afghanistan. A proposito della missione ISAF, nel febbraio 2009 il segretario generale della NATO Jaap deHoop Schefferdichiarò: «non possiamo permetterci il prezzo del fallimento» (12). La NATO vanta la sua resilienza, ma certamente la sconfitta lascia il segno. Non è questa la sede per elencare le molte cose che sono andate storte in Afghanistan, paese indomabile, come hanno sperimentato i britannici e i sovietici nel XIX e XX secolo: incertezza sugli scopi della missione, diversione dell’attenzione americana verso l’Iraq nel 2003, i famigerati caveat che limitavano l’operatività dei contingenti nazionali di ISAF. Di fatto, dopo la Corea, il Vietnam e l’Iraq (2003) un’altra guerra ingaggiata dagli Stati Uniti finisce senza una vittoria; la Corea fu un pareggio, il Vietnam una sconfitta totale, in Iraq permane un equilibrio precario. In Vietnam e in Afghanistan il progressivo ritiro degli americani è avvenuto all’insegna del trasferimento del fardello militare alle Forze armate locali: la vietnamizzazione del conflitto in Indocina andò meglio e durò più a lungo della afghanizzazione, ma il risultato finale è stato comunque il medesimo.
Il ministro della Difesa britannico Robert B. L. Wallace ha cercato magre consolazioni, ammettendo che «la campagna politica della NATO in Afghanistan è fallita», ma insistendo che «l’alleanza occidentale non aveva subito una sconfitta militare a opera dei Talebani» (13). Commenti simili furono fatti dopo la sconfitta in Vietnam; pur corretti da un punto di vista strettamente militare, non possono nascondere il fatto che in entrambi casi (e non solo in questi) i paesi occi-
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dentali non hanno avuto la determinazione di continuare la lotta fino all’eliminazione della guerriglia. Si possono vincere «battaglie», ma non si ottiene lo scopo politico per il quale si era ricorso alle armi. Quanto meno, come ha detto sempre Wallace, «abbiamo conseguito per vent’anni un successo nell’anti-terrorismo».
Nel 2022 la NATO dovrà fare due scelte importanti: adottare il nuovo Concetto Strategico e nominare il nuovo Segretario Generale. Dal canto suo, anche l’UE è impegnata a stilare la sua «bussola strategica» e le due organizzazioni dovrebbero firmare una dichiarazione congiunta, rinnovando quanto già fatto in passato, da ultimo nel 2016 e nel 2018,
Nella storia dell’Alleanza, da quando nel 1952 fu istituita tale carica, solo due su tredici sono stati i Segretari Generali provenienti dal fronte meridionale, l’italiano Manlio Brosio (1964-1971) e lo spagnolo Javier Solana (1995-1999). Naturalmente fu impossibile nominare un francese nel lungo periodo in cui Parigi restò fuori dalla struttura militare integrata (19672009). Il Segretario attualmente in carica viene da un paese non membro della UE, la Norvegia, e da alcune parti si giudica che sarebbe opportuno che il successore appartenesse a un paese di doppia membership. Ciò contrasterebbe con le ambizioni britanniche, mentre giocherebbe a favore di quelle della Francia e dell’Italia, che potrebbe far valere, oltre a un impeccabile atlantismo, l’attuazione di un sia pur modesto incremento del bilancio della Difesa, attuato dal governo di Mario Draghi invertendo un trend al ribasso.
Le ambizioni nazionali devono concretizzarsi in una personalità che possieda i giusti requisiti. Il gradimento di Washington è indispensabile; inoltre, tutti i segretari generali avevano ricoperto incarichi governativi di primo piano, Primo Ministro, Ministro degli Esteri o della Difesa. Il primo, Lord Ismay, stretto collaboratore di Winston Churchill, era stato ministro per il Commonwealth; Brosio era stato ministro della guerra per sei mesi nel 1945-46, prima di abbandonare la politica per intraprendere la carriera diplomatica come ambasciatore di nomina politica nelle maggiori capitali: Mosca, Londra, Washington e Parigi.
Seguendo l’esempio di quanto era stato fatto per i lavori preparatori del Concetto Strategico del 2010 con il gruppo di lavoro presieduto dalla Signora Albright, il segretario generale Stoltenberg ha istituito un team di esperti che ha prodotto, dopo ampie consultazioni, il già citato rapporto Nato 2030. Si tratta di un lungo documento di 67 pagine, talvolta ripetitivo, ma anche tal altra abbastanza outspoken, come quando parla di «migrazioni di massa illegali», contravvenendo al gergo buonista e politicamente corretto che imporrebbe di parlare di «migranti». Il rapporto formula ben 138 raccomandazioni, che nella maggior parte dei casi appaiono sensate. Come osservarono i «tre saggi» (Halvard Lange, Gaetano Martino e Lester Pearson) presentando nel 1956 il loro rapporto sul futuro dell’Alleanza, non era stato tanto difficile stilare le proposte, più arduo sarebbe stato per i governi metterle in pratica. Per comodità di esposizione, si potrebbero dividere i problemi della NATO in interni ed esterni. In realtà una parte dei dissensi interni ha a che fare con una diversa visione dei pericoli esterni. Un caso peculiare è quello della Turchia, responsabile di un fatto senza precedenti: l’acquisto di sistemi d’arma da un paese, la Russia, che l’Alleanza considera un avversario. Il rapporto

Manlio Brosio, Segretario Generale della Nato dal 1964 al 1971 durante una conferenza stampa a Bruxelles (nato.int).

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Nato 2030 propone alcune misure per ovviare alle diverse visioni strategiche: attenuare la regola del consenso, rafforzare i poteri del Segretario Generale e intensificare il dialogo interno. Aggiustamenti istituzionali possono essere di qualche utilità, ma non risolutivi.
La maggior parte degli Stati dell’Europa centro-orientale (PECO), già satelliti dell’Unione Sovietica (o membri di essa, come i tre Stati baltici), guardano con preoccupazione alla Russia. Non a caso, i sondaggi (14) mostrano che le opinioni pubbliche in Polonia e in Lituania hanno il più alto grado di approvazione della NATO, rispettivamente l’82% e il 77%. In due paesi, Grecia e, soprattutto Turchia, la maggioranza dell’opinione pubblica non ha un’immagine positiva della NATO.
Alcuni paesi, come l’Italia, pur rispettando scrupolosamente le decisioni prese per rassicurare i PECO e partecipando attivamente alle misure messe in atto come deterrente verso Mosca, condividono assai meno la visione della Russia come «nemico». In teoria nessuno mette in discussione il casus foederis dell’art. 5, ma sempre i sondaggi rivelano che alla domanda se il proprio paese dovrebbe o meno impiegare la forza militare in difesa di un membro della NATO attaccato dalla Russia in solo cinque Stati — Canada, Lituania, Paesi Bassi, Regno Unito e Stati Uniti — dei sedici nei quali è stato effettuato il sondaggio la maggioranza risponde affermativamente. Fra tutti una media del 50% sostiene che il proprio paese non dovrebbe difendere un alleato NATO attaccato dalla Russia, mentre solo il 38% afferma che dovrebbe farlo. Del resto, come sanno tutti gli esperti, l’art. 5, la cui formulazione fu oggetto di un serrato negoziato, non obbliga gli Stati membri a impiegare le proprie Forze armate in caso di aggressione a uno di loro.
Il rapporto Nato 2030 sostiene che «lo scopo fondamentale della NATO può essere dimostrato oggi molto



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più chiaramente che nei decenni precedenti». Se così fosse, sarebbe un progresso rispetto a quanto ammetteva nel 2008, un alto funzionario dell’Alleanza: «quasi vent’anni dopo il crollo dell’Unione Sovietica porzioni significative delle popolazioni della maggior parte dei paesi NATO hanno tutt’ora idee vaghe sull’Alleanza, il suo scopo e i suoi ruoli» (15). In sé, se riferita alle intere popolazioni, quest’ultima considerazione non avrebbe nulla di sorprendente e potrebbe valere per molte istituzioni e organizzazioni a livello nazionale e internazionale: quanti saprebbero spiegare a cosa servono il CNEL o il Consiglio di Stato oppure l’OSCE o l’OCSE? Vi è però da credere che anche tra le élites informate vi possano essere ancora oggi perplessità, determinate dal fatto che nei trent’anni abbondanti dopo la fine della Guerra Fredda la NATO ha attraversato diverse fasi e svolto ruolo differenti.
Gli anni 90 del XIX secolo furono piuttosto «tranquilli» rispetto ai decenni successivi e la NATO con le operazioni in Bosnia-Erzegovina e in Kosovo appariva un pilastro del «nuovo ordine mondiale» che sembrava in gestazione. L’11 settembre 2001 vi fu il brusco risveglio: la storia non era finita, come aveva avventatamente predetto Francis Fukuyama. La lotta contro il terrorismo internazionale di matrice islamica comportò per la NATO la definitiva fine delle remore ad agire «fuori area» e generò un riavvicinamento con la Russia; si svilupparono inoltre discorsi sulla NATO come alleanza globale delle democrazie. La seconda decade del nuovo millennio ha visto per molti versi un ribaltamento di tali posizioni: il Presidente americano Barack Obama decretò la fine della missione in Afghanistan. Inoltre, da multi-culturalista con radici eterogenee, Obama non era un paladino dell’Occidente e flirtò con le «primavere arabe» nella ingenua speranza di una democratizzazione della regione MENA (Medio Oriente e Nord Africa); era la stessa motivazione di fondo che aveva ispirato l’intervento americano in Iraq nel 2003 (quanto meno da parte dei neo-con). Due furono i frutti avvelenati delle «primavere arabe». Uno l’intervento della NATO in Libia nel 2001, motivato, come in Kosovo nel 1999, con ragioni «umanitarie», che ha generato una ferita ancora aperta e irrisolta e ha aperto la porta alle influenze russe e turche. L’altro la nascita del cosiddetto «Stato Islamico dell’Iraq e della Siria» o «Stato Islamico dell’Iraq e del Levante», sconfitto dall’intervento di vari paesi con alla fine una partecipazione della NATO formale ma non sul campo. Insomma, un bilancio per la NATO non proprio brillante.
A rilanciare la NATO, sovveniva nel 2014 la politica aggressiva della Russia verso l’Ucraina, annessione della Crimea e sostegno al separatismo nelle province orientali di Kiev, che rimetteva in primo piano il tradizionale ruolo di deterrenza verso Mosca, dando nuovo smalto all’art. 5, messo in ombra nei decenni precedenti a favore delle missioni «fuori area» in base all’art. 4. Si configurava così la situazione descritta all’inizio di questo articolo.
Più in generale era cambiato il clima internazionale, profilandosi «un mondo di Grandi Potenze in competizione, nel quale Stati autoritari con assertive agende revisioniste in politica estera cercano di espandere il loro potere e la loro influenza» (così si esprime il rapporto Nato 2030). Tra questi Stati autoritari figura ovviamente la Cina (che più propriamente sarebbe da definire totalitaria). Nato 2030 identifica tre principali ragioni di preoccupazione: la Russia, la Cina e il terrorismo internazionale. Mosca è definita «la sfida principale», Pechino una «sfida emergente». Nel dicembre 2019 la dichiarazione dopo il vertice di Londra fu il primo documento pubblico ufficiale della NATO a menzionare la Cina, la cui «crescente influenza e la cui politica in campo internazionale presenta sia sfide sia opportunità che dobbiamo affrontare insieme come Alleanza». Una classica formula diplomatica aperta a molteplici sviluppi.
Un impegno della NATO contro la Cina nel campo della hard security è da escludere. La stragrande mag-


Il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg (nato.int).
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gioranza degli Stati membri non ne ha né la capacità né la volontà. La NATO si limiterà a monitorare e fronteggiare le attività cinesi nei campi della Cybersecurity, delle EDT (Emerging and Disruptive Technologies), del mantenimento del vantaggio tecnologico.
Il compito di difendere gli equilibri strategici in Estremo Oriente, nel Pacifico Occidentale e nel Sud-Est Asiatico continuerà a essere assolto dagli Stati Uniti, insieme ai suoi alleati tradizionali nell’area, in primis i popoli di lingua inglese. L’accordo AUKUS del settembre 2021 tra Australia, Regno Unito e Stati Uniti, con il significato di fondo di contenere l’espansionismo cinese, si pone in continuità storica con l’ANZUS (Australia, Nuova Zelanda, Stati Uniti), in vigore dal settembre 1951 e con l’intesa nel campo dell’intelligence esistente dal dopoguerra denominata «Five Eyes», tra Australia, Canada, Nuova Zelanda, Regno Unito e Stati Uniti. Macron può lamentare il modo forse maldestro con cui la Francia è stata estromessa da un contratto di fornitura di sottomarini, ma non può cambiare la storia e la geopolitica.
Negli ultimi mesi del 2021, la tensione con la Russia ha visto da un lato l’escalation di una guerra di nervi tra Mosca e la NATO dall’altro timidi spunti di dialogo. Un fatto non nuovo nella storia dell’Alleanza che, come nella crisi degli Euromissili nel 1979, ha sempre indicato di voler percorrere contemporaneamente i due percorsi di una forte deterrenza e del dialogo, tra loro non incompatibili. Il segretario generale Stoltenberg si è distinto per dichiarazioni allarmistiche, che per la maggior parte degli osservatori non avevano riscontro nella realtà della situazione.
La Russia ha messo le carte in tavola, chiedendo la fine del progressivo avanzamento della NATO verso Est. Gli storici che hanno studiato la questione sembrano essere giunti alla definitiva conclusione che al riguardo né Bush Sr. né tanto meno Clinton andarono mai al di là di generiche assicurazioni verbali a Gorbaciov. Ciò però ha un interesse limitato nella realtà odierna. La Russia non è più quella debole di Eltsin o la morente Unione Sovietica di Gorbaciov e l’Occidente non dovrebbe commettere l’errore di spingere Mosca nelle braccia della Cina. Putin chiede in particolare la garanzia che l’Ucraina non sarà mai ammessa nell’Alleanza e la riduzione delle truppe e dei missili della NATO nei paesi che vi sono entrati dopo la fine della Guerra Fredda. La risposta rituale è che non si possono accettare veti sulle decisioni di liberi Stati sovrani. La diplomazia può però trovare soluzioni di compromesso. Di fatto l’ammissione alla NATO dell’Ucraina e della Georgia sono congelate dai tempi del vertice di Kehl-Strasburgo dell’aprile 2009.

Conclusione
La NATO è al bivio tra una semplice continuazione dell’esistente, garantita dal fatto che la garanzia fornita dall’art. 5 del Trattato mantiene tutta la sua rilevanza, e un rilancio strategico per dimostrare che il suo «cervello» non è atrofizzato. La «politica» dell’Alleanza Atlantica è quella che le permettono di fare i suoi azionisti, soprattutto quelli maggiori. Come sempre, ci piaccia o meno, sarà soprattutto Washington a dettare la linea, se e quando ne avrà decisa una. 8
NOTE
(1) J. Traub, RIP the Trans-Atlantic Alliance, 1945-2018, Foreign Policy, 11.5.2018, https://foreignpolicy.com/2018/05/11/rip-the-trans-atlantic-alliance-1945-2018. (2) G. Cucchi, La crisi d’identità della NATO, Relazioni Internazionali, n. 20 (dicembre 1993), pp. 19-26. (3) P. Cornish, NATO: the Practice and Politics of Transformation, International Affairs, n. 80, 1 (2004), pp. 63-74. (4) J. Shea, NATO and Terrorism, Rusi Journal, vol. 147, n. 2, April 2002, pp. 32-40. (5) https://www.bbc.com/news/world-us-canada-38635181. (6) Cfr. M. de Leonardis (a cura di), La Presidenza Trump: bilancio ed eredità, Milano, Educatt, 2021. (7) Briefing. Macron’s view of the world. A president on a mission, The Economist, 7 novembre 2019. (8) https://www.nato.int/nato_static_fl2014/assets/pdf/2020/12/pdf/201201-Reflection-Group-Final-Report-Uni.pdf. (9) Press Briefing at the Conclusion of the NATO 50th Anniversary and Euro-Atlantic Partnership Council Meetings, Washington, 25 April 1999, http://www.usia.gov/topical/pol/eap/alberg25.htm. (10)https://www.corriere.it/economia/finanza/21_agosto_30/borrell-afghanistan-catastrofe-europa-crei-forza-primo-intervento-d045301e-0904-11ec-92cef1aac6dc2317.shtml. (11) W. Van Eekelen, Building European Defence: NATO’s Esdi and the European Union’s Esdp, rapporto al Sub-committee on Transatlantic Defence della North Atlantic Assembly, 18-4-2000. (12) http://news.bbc.co.uk/2/hi/south_asia/7900367.stm, 19th February 2009. (13) Nato was a political failure in Afghanistan, says defence secretary, The Guardian, 26th October 2021, https://www.theguardian.com/politics/2021/oct/26/natowas-a-political-failure-in-afghanistan-says-defence-secretary. (14) Pew Research Center, NATO Seen Favorably Across Member States, Report, 9 February 2021. https://www.pewresearch.org/global/2020/02/09/nato-seen-favorably-across-member-states/. (15) S. Babst, Reinventing NATO’s Public Diplomacy, Nato Defense College, Research Paper, 2008. Stefanie Babst era all’epoca Deputy Assistant Secretary General, Communication Coordination, quindi sapeva di cosa parlava.