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RIVISTA
NOVEMBRE 2020
MARITTIMA MENSILE DELLA MARINA MILITARE DAL 1868
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* RIVISTA MARITTIMA *
NOVEMBRE 2020 - Anno CLIII
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La formazione marittima e navale in Italia Flavio Biaggi, Massimiliano Siragusa, Antonio Donato, Emiliano Beri, Fabio De Ninno, Giuseppe Piazza
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Sommario IL SUPPLEMENTO PER GLI ABBONATI Glossario di Diritto del Mare
PANORAMICA TECNICO-PROFESSIONALE
60 Maritime cyber security per la shipping industry Francesco Chiappetta
di Fabio Caffio
QUESTO MESE CON LA RIVISTA MARITTIMA
PRIMO PIANO
6 La formazione in Accademia navale, tra passato, presente e futuro Flavio Biaggi
SAGGISTICA E DOCUMENTAZIONE
66 Le campagne idrografiche italiane nel Mar Rosso e nell’oceano Indiano Aldo Caterino
18 L'Istituto di Studi Militari Marittimi di Venezia Massimiliano Siragusa
26 La formazione dei marescialli della Marina Militare Antonio Donato
STORIA E CULTURA MILITARE
80 Buona Guardia! Enrico Cernuschi
RUBRICHE
34 Il NavLab. Laboratorio di storia marittima e navale nell’Università di Genova
Emiliano Beri, Fabio De Ninno
42 Istruzione e formazione dell’ufficiale della Marina
mercantile: evoluzione dell’ordinamento Giuseppe Piazza
56 Le navi scuola della Marina Militare Rivista Marittima Novembre 2020
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Focus diplomatico Lettere al Direttore Osservatorio internazionale Marine militari Scienza e tecnica Che cosa scrivono gli altri Recensioni e segnalazioni
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RIVISTA
MARITTIMA MENSILE DELLA MARINA MILITARE DAL 1868
PROPRIETARIO ED EDITORE
UFFICIO PUBBLICA INFORMAZIONE E COMUNICAZIONE DIREZIONE E REDAZIONE Via Taormina, 4 - 00135 Roma Tel. +39 06 36807248-54 Fax +39 06 36807249 rivistamarittima@marina.difesa.it www.marina.difesa.it/media-cultura/editoria/marivista/Pagine/Rivista_Home.aspx
DIRETTORE RESPONSABILE Capitano di vascello Daniele Sapienza
CAPO REDATTORE Capitano di fregata Diego Serrani
REDAZIONE Guardiamarina Giorgio Carosella Secondo capo scelto QS Gianlorenzo Pesola Tel. + 39 06 36807254
SEGRETERIA DI REDAZIONE Primo luogotenente Riccardo Gonizzi Addetto amministrativo Gaetano Lanzo
IN
COPERTINA: Nave AMERIGO VESPUCCI e allievi impegnati in attività addestrativa a bordo.
UFFICIO ABBONAMENTI E SERVIZIO CLIENTI Primo luogotenente Carmelo Sciortino Primo luogotenente Giovanni Bontade Tel. + 39 06 36807251/12 rivista.abbonamenti@marina.difesa.it
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REGISTRAZIONE TRIBUNALE CIVILE DI ROMA
NOVEMBRE 2020 - anno CLIII HANNO COLLABORATO: Contrammiraglio Flavio Biaggi
N. 267 - 31 luglio 1948
Capitano di vascello Massimiliano Siragusa
Codice fiscale 80234970582 Partita IVA 02135411003 ISSN 0035-6964
Capitano di fregata Antonio Donato
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Professor Fabio De Ninno
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Dottor Aldo Caterino
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Dottor Enrico Cernuschi Ambasciatrice Jolanda Brunetti, Circolo di Studi Diplomatici
COMITATO SCIENTIFICO DELLA RIVISTA MARITTIMA Prof. Antonello BIAGINI Ambasciatore Paolo CASARDI Prof. Danilo CECCARELLI MOROLLI Prof. Massimo DE LEONARDIS Prof. Mariano GABRIELE Prof. Marco GEMIGNANI C.A. (aus) Pier Paolo RAMOINO A.S. (ris) Ferdinando SANFELICE DI MONTEFORTE Prof. Piero CIMBOLLI SPAGNESI
Dottor Enrico Magnani Dottor Luca Peruzzi Ammiraglio ispettore (aus) Claudio Boccalatte Contrammiraglio (ris) Ezio Ferrante Contrammiraglio (ris) Paolo Bembo Professor Alessandro Mazzetti
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E ditoriale
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a formazione è un argomento complesso, anzi scottante, perché rappresenta la base stessa di qualsiasi attività umana, sia individuale, sia sociale. Per formazione si intende, infatti, un vero e proprio amalgama di cultura e pensiero: l’anima stessa della nazione che si traduce nello Stato. È lo strumento che dà senso al sapere, elevandolo dal rango della mera erudizione a qualcosa di più profondo, rivelatosi sempre decisivo nei secoli. Ogni cultura, spesso in modo diverso, cerca di capitalizzare, a beneficio di se stessa e delle nuove generazioni, le proprie esperienze facendo anche tesoro dei propri errori. Formare, beninteso, non è sinonimo del ben più gretto modellare o, peggio, distorcere, tipico della propaganda. Formare significa far acquisire pensiero e raziocinio e, soprattutto, senso di responsabilità e di dignità verso la propria gente; di uomini liberi che si identificano in un’Istituzione donando a essa tutto se stessi. Certo, non si tratta di una formula e di un dosaggio semplice, ma la formazione serve proprio a questo: sano contributo alla crescita di ogni individuo incluso nella prospettiva del libero impegno personale assunto nell’ambito e nell’interesse della collettività, per tutta la vita. Nessuna civiltà ha volutamente trascurato la formazione. Non sono però mancati gli errori, tanto più gravi in quanto la formazione è la strategia della vita e, come insegnava il grande teorico von Clausewitz, agli errori tattici si può porre rimedio, magari a caro prezzo, ma a quelli strategici no. In Italia, realtà millenaria a vocazione marittima — spesso inconsapevole —, la formazione non può non rispecchiarsi nel mare, così come non ci si può dimenticare di respirare. Certo, occorre farlo con metodo, consapevoli delle solide e profonde radici di un passato (e di un presente) navale e marittimo vivo e indispensabile. L’Italia ha bisogno oggi più che mai di una rinnovata e maggiore consapevolezza della propria marittimità. Nel Mediterraneo — scrisse il celebre storico francese Braudel (1) — «l’Italia trova il senso del proprio destino». Oggi abbiamo concettualizzato, con espressione felice dovuta a uno dei nostri maggiori pensatori navali contemporanei, l’ammiraglio Pier Paolo Ramoino ben noto ai nostri lettori: il «Mediterraneo Allargato». Un mare che, sia geograficamente, sia dal punto di vista degli interessi, spazia dal Medio Oriente al Golfo Persico passando per l’oceano Indiano, il Golfo di Guinea, il Mar Nero e l’Atlantico fino all’Artico. Un’area vasta, come ha recentemente sottolineato il Capo di Stato Maggiore della Marina nel corso di un’apposita audizione alla Commissione difesa della Camera dei deputati: «… densa d’interessi vitali per il nostro paese, ma altrettanto ricca di focolai di crisi e minacce emergenti che si riverberano su tutta l’Europa, influenzando da sempre gli equilibri globali. E colgo l’occasione per sottolineare come il Mediterraneo Allargato, citato dal ministro della Difesa Lorenzo Guerini in numerose occasioni, sia un concetto la cui connotazione SEGUE A PAGINA 4
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geografica ha visto una costante espansione dalla sua introduzione, a metà anni Novanta, a oggi, in linea con l’evoluzione degli scenari geopolitici e geostrategici». La marittimità del nostro paese è (e deve essere), a sua volta, il frutto di una forte presa di coscienza nata da una formazione culturale (e, per gli addetti ai lavori, professionale) libera, critica, completa e sempre aperta a nuovi approdi. E proprio per contribuire a quello che deve essere lo spirito della formazione, ovvero di progresso e di coraggio del pensiero, nel panorama di uno sforzo collettivo che si rinnova anche se con sacrificio nei secoli, questo numero della Rivista Marittima propone una panoramica a giro d’orizzonte, il più possibile vasta. Tutto è, e contribuisce alla formazione navale e marittima del popolo, dalle Scuole superiori alle Università fino agli Istituti militari, rivolgendosi alla collettività. Nessuno deve essere escluso perché solo l’apporto di tutti rispecchia l’anima profonda di un popolo, le sue scelte e il suo futuro. Non è un caso che Augusto Antonio Riboty, comandante della fregata corazzata Re di Portogallo a Lissa e decorato di medaglia d’oro per la propria valorosa condotta, poi ammiraglio comandante la Squadra navale e, infine, più volte ministro della Marina tra il 1868 e il 1873, abbia messo immediatamente in agenda, a un tempo, sia una rinnovata formazione e preparazione del personale, sia l’espansione della flotta sia, «si parva licet», l’immediata nascita, appunto nell’aprile del 1868, della Rivista Marittima; una rivista che fosse strumento di formazione navale e marittima dello Stato Maggiore, rivolta a tutti, classe dirigente e cittadini. Un’altra significativa azione fu, meno di sei mesi dopo, con il Regio Decreto del 20 settembre 1868, l’unificazione delle due Scuole navali di Napoli e Genova: «sia per la unicità dell’indirizzo degli studi, sia per la migliore fusione e affratellamento degli allievi», ponendo le basi di quella che sarebbe poi divenuta l’Accademia navale di Livorno. Una «vision a 360°», come si direbbe oggi, messa in chiaro in Parlamento già nel febbraio 1868, affermando e superando, ancora una volta, schemi vecchi e consolidati: «Non vi ha nessuno che ponga in dubbio che il nostro paese, per la sua posizione geografica, per l’immenso sviluppo delle sue coste, per le numerose e ricche sue isole, per il suo esteso commercio, e finalmente per le sue tradizioni, non sia un paese eminentemente marittimo… ci incombe l’obbligo di mantenere una Forza navale capace di raggiungere siffatto scopo tanto vitale per la nostra esistenza». Parole che non hanno perso una sillaba di attualità e nel cui ambito globale, è il caso di dirlo, la formazione ha un preciso ruolo strategico e costituisce essa stessa, a pieno titolo, un elemento fondante del potere marittimo nazionale. Non siamo quindi davanti a un passato sbiadito color seppia, ma a un sistema, anzi metodo, di idee coerenti, collaudato con successo attraverso le prove più dure e imprevedibili cui possono guardare, con orgoglio e speranza di legittime soddisfazioni, i ragazzi che scelgono liberamente un cammino d’eccellenza non facile né agevole, ma parimenti ricco di conoscenza, di avventura e, diciamolo pure, di bellezza.
NOTE (1) Fernand Paul Achille Braudel (Luméville-en-Ornois, 24 agosto 1902-Cluses, 28 novembre 1985): Il Mediterraneo. Lo spazio, la storia, gli uomini, le tradizioni. Milano, Bompiani VII ed., 1977, p. 12.
DANIELE SAPIENZA Direttore della Rivista Marittima
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PRIMO PIANO
La formazione in Accademia navale, tra passato, presente e futuro
Sfide e opportunità della formazione nel blue century, per lo storico Istituto che prepara gli ufficiali di Marina dal 1881 Flavio Biaggi (*)
Il blue century «Oggi l’interpretazione del potere marittimo non è più solo economica e militare, ma anche culturale e di-
plomatica». Con queste parole, lo scorso 15 ottobre 2019, il Capo di Stato Maggiore della Marina, ammiraglio Cavo Dragone, dava ufficialmente il via ai lavori del XII Regional Seapower Symposium (XII Venice RSS) incentrato sul tema «Shaping our Navies for the Blue Century». Un secolo blu, quindi, quello che viviamo ormai da
(*) Contrammiraglio, nato a Milano il 17 luglio 1966. Ha frequentato l’Accademia navale di Livorno dal 1985 al 1989. Dopo aver conseguito i brevetti di pilota di aereo e di elicottero presso le scuole di volo della Marina degli Stati Uniti, è stato imbarcato in qualità di pilota di elicottero sulla fregata Maestrale e successivamente sulla fregata Libeccio, dove ha ricoperto l'incarico di capo Componente volo con il grado di tenente di vascello. Nel 1997 ha frequentato il Corso Normale di Stato Maggiore presso l’Istituto di Guerra marittima di Livorno e la Scuola di Comando navale ad Augusta. Nel 2001 è stato inviato a frequentare la United States Naval Test Pilot School di Patuxent River (Maryland - Stati Uniti) dove ha conseguito il titolo di Pilota collaudatore sperimentatore. Promosso capitano di fregata ha frequentato il 104 Senior Course del NATO Defense College a Roma. Nel luglio 2009 è stato promosso capitano di vascello e ha svolto l’incarico di Direttore dei Corsi allievi in Accademia navale. Promosso Contrammiraglio nel 2015, dal 7 novembre 2017 al 18 luglio 2019 è stato Comandante della 3a Divisione navale (COMDINAV TRE), Comandante della Task Force Anfibia (CATF) nazionale e vice Comandante delle Forze marittime italiane (Deputy COMITMARFOR). Ha ricoperto i seguenti comandi navali: pattugliatore d’altura Spica; fregata Grecale; Prima squadriglia pattugliatori e relatore della Scuola comando navale di Augusta; Seconda squadriglia pattugliatori; incrociatore portaeromobili Garibaldi. Durante la sua carriera militare ha partecipato alle operazioni della NATO e dell’Unione europea in ex-Jugoslavia, all’operazione NATO Active Endeavour nel Mediterraneo Orientale e, quale IT SNR presso il comando degli Stati Uniti di CENTCOM, alla operazione Inherent Resolve. Ha conseguito con lode la Laurea specialistica in Scienze marittime e navali presso l'Università di Pisa. Ha maturato circa 2.300 ore di volo su diversi aerei ed elicotteri tra cui: T-38, F-18, T-2, T-44, T-34, UH-60, P-3 Orion, SH-60B, SH-3D, AB-212, NH90, EH-101, TH-6, OH-58, C-12, Bell 427. Dal 24 luglio 2019 è il comandante dell’Accademia navale.
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Il piazzale dell’Accademia navale è il luogo simbolo per tutti gli ufficiali di Marina, i quali hanno mosso i primi passi proprio qui, con coraggio e predilezione verso una vita ricca di emozioni e soddisfazioni (Tutte le immagini dell’articolo appartengono al repertorio Accademia navale, dove non diversamente indicato).
vent’anni con un sistema economico globalizzato e incentrato sui traffici marittimi sempre più intensi grazie alle capacità di carico imparagonabili con quelle dei mezzi su terra e con un impatto sull’ambiente decisamente minore. I numeri poi, lo definiscono in maniera inequivocabile. Più del 90% del commercio globale si svolge attraverso il mare, circa l’ottanta per cento della popolazione mondiale vive entro 200 km dalle coste e più del 99% del traffico e delle telecomunicazioni mondiali si svolge tramite una rete strategica di cavi sottomarini. Sono questi i dati che negli ultimi venti anni hanno portato, una dopo l’altra, le più grandi economie mondiali a dotarsi di una «Strategia Marittima» che conciliasse interessi economici e politici, delineando un piano di predisposizioni volte a garantire che l’alto mare, global common per eccellenza, possa rimanere un luogo di diritto ove lo sfruttamento delle risorse av-
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venga in maniera controllata e legale. In tale contesto i recenti avvenimenti che hanno interessato il Mediterraneo Orientale, con la contesa greco-turca sulla definizione delle Zone Economiche Esclusive, sono un campanello d’allarme e dimostrano come il cosiddetto fenomeno della «territorializzazione dei mari» necessiti di regole specifiche e soprattutto condivise, riflettendo l’inefficacia dei paradigmi normativi della Convenzione di Montego Bay del 1982. Risultano, quindi cruciali la presenza e la sorveglianza sul mare. Il prerequisito è la capacità di continuare a garantire il libero accesso ai mari a favore di tutti gli attori che operano nel pieno rispetto delle leggi marittime internazionali, compito questo che solo le Marine militari, tradizionalmente per la loro funzione, possono assicurare. Pirateria, traffico d’armi e di essere umani, terrorismo, sfruttamento delle risorse energetiche in maniera non coerente, sono queste le principali sfide che hanno
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dapprima riguardato l’oceano Indiano, e in particolare il Golfo di Aden, e che oggi interessano più aree del pianeta: dal «Mare Giallo», al Golfo Persico, dal Golfo di Guinea al Mediterraneo. «A vederlo nel mappamondo, il Mediterraneo è una culla situata al centro del pianeta. E al centro di questo bacino, di questa culla, c’è la penisola italiana e le sue isole. La centralità dell’Italia nel Mediterraneo e del Mediterraneo nel mondo è davvero una realtà prima che un pensiero. Tre continenti si affacciano su questo balcone unico al mondo». Così scrive il saggista Marcello Veneziani. Al suo interno, con ottomila chilometri di coste, l’Italia: un paese che vanta grandi flotte mercantili e pescherecce, i cui porti godono di una posizione baricentrica rispetto ai due passaggi ristretti di Gibilterra e Suez, rappresentando un fondamentale crocevia per il traffico commerciale e una fonte strategica di approvvigionamento per l’industria manifatturiera non solo italiana ma dell’intera Europa. Ed è proprio la sua posizione geografica che ha consentito all’Italia di svilupparsi come paese marittimo e diventare la culla di una delle più grandi civiltà della storia, con un rapporto diretto e quotidiano con il mare che non è mai mutato e ha permesso la nascita nel tempo di illustri marinai
ed esploratori italiani che hanno contribuito a scoprire il mondo come oggi lo conosciamo.
La Marina Militare e il suo capitale umano Lo scenario delineato, caratterizzato da numerosi fattori di instabilità e dimensioni conflittuali intra e interstatali, pone la Marina Militare, con i suoi uomini e le sue donne, in un ruolo da protagonista nella tutela degli interessi nazionali sul mare, nel garantire la libertà di navigazione e di commercio, condizione strategicamente determinante per lo sviluppo e la crescita del «Sistema-Paese». I fenomeni che si svolgono nel nostro mondo multi sfaccettato e fortemente interconnesso hanno, infatti, riverberi a lunga distanza. Solo per citare un esempio, lo scioglimento dei ghiacci nell’Artico sta aprendo a nuove opportunità e a ulteriori contese, tra rotte commerciali e giacimenti di risorse naturali. Anche in questo teatro la Marina Militare è ormai presente stabilmente con l’operazione High North, non solo a dimostrazione delle capacità di proiezione dello strumento operativo ma anche e soprattutto a tutela degli interessi nazionali. Risulta quindi evidente la necessità di sforzi comuni volti a ottimizzare l’impiego delle capacità marittime
Cerimonia dell’ammaina Bandiera solenne dell’equipaggio di nave LUIGI DURAND DE LA PENNE, un’esperienza indimenticabile per gli allievi del Corso Spartani.
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«LO GIURO!». Queste sono le parole che riecheggiano nel Piazzale dell’Accademia navale alla fine del giuramento solenne degli allievi della Prima classe dei Ruoli Normali.
con un approccio intergovernativo, inter-istituzionale, inter-agenzia, nonché alla cooperazione con le altre Marine mondiali al fine di sviluppare fiducia e interoperabilità. Un’area, questa, in cui la Marina Militare fornisce un contributo fondamentale, grazie alla sua versatilità strategica intrinseca e alla flessibilità operativa, tramite lo sfruttamento completo delle postazioni in mare, forte di un supporto logistico autonomo. Non meno importante, la capacità di «show the flag», ovvero di mostrare la bandiera tricolore nel mondo, solcando i mari nell’alveo della cosiddetta naval diplomacy che storicamente affida alla Marina Militare quel ruolo di ambasciatrice del concreto livello di competenza che l’Italia è in grado di esprimere a 360 gradi dal punto di vista non solo militare ma anche tecnologico e industriale. È pertanto fondamentale l’azione degli istituti di formazione volta a consegnare alla Forza armata, e al paese, uomini e donne preparate, non solo dal punto di vista tecnico-professionale, ma anche e soprattutto dal punto di vista caratteriale ed etico. Una volta impiegati a bordo o presso i comandi ed enti a terra, essi saranno, infatti, chiamati a operare giorno e notte, con coraggio
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e passione, adattandosi alle innovazioni e alle trasformazioni proprie di una vita sul mare e per il mare. Le sfide sono molteplici e imprevedibili. Se pensiamo a coloro che nel 1982 avevano fatto da poco ingresso in Accademia navale, questi si vedevano proiettati in uno scenario in cui la guerra simmetrica in mare era plausibile, con due grandi paesi che si affrontavano con cannoni, siluri e missili. Le navi affondavano e la gente moriva (1) in una guerra combattuta dagli inglesi a oltre 12.000 chilometri da casa, per quella che, di fatto, era una disputa territoriale relativa a un arcipelago sperduto nell’Atlantico. Oggi, quegli allievi, sono gli ammiragli chiamati a dirigere una Forza armata impegnata in contesti nazionali e internazionali per la salvaguardia della libera navigazione e circolazione delle merci, nel contrasto alla pirateria, al terrorismo e ai traffici illeciti sul mare. Il tutto fronteggiando la contrazione dei budget, la riduzione degli organici e la transizione, mai banale, verso un nuovo concetto operativo connesso all’entrata in servizio delle unità navali di nuova generazione. Sono questi gli impegni operativi per i quali gli uomini e le donne che entrano a far parte della Marina oggi devono prepararsi. Si tratta di attività che richie-
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oltre 80 anni dalla sua pubblicazione, la preparazione professionale del capitale umano della Forza armata assume una valenza altissima e rappresenta il substrato da cui ergere lo strumento militare del futuro, uno strumento moderno, tecnologico, dotato di grande attitudine all’innovazione, di versatilità di impiego, di intrinseca capacità di integrazione e di percezione del contesto sociale, giuridico, politico ed economico nazionale e internazionale, in cui la Forza armata è chiamata a operare. La formazione si colloca, quindi, al centro della strategia della Forza armata, ne costituisce il nocciolo da cui sviluppare tutte le future linee di azione e ne rappresenta il valore aggiunto, valore di cui l’Accademia navale (definita «Università del mare»), costituisce il cuore pulsante. All’interno dell’Istituto livornese, si forgia, infatti, la futura classe dirigente della Forza armata, si gettano le fondamenta per una Marina sempre La formazione dell’ufficiale di Marina più caratterizzata da un solido connubio tra attitudine «Nell’evoluzione dalla vecchia Marina alla nuova, militare e istruzione qualificata di alto livello che rapcon il suo enorme sviluppo materiale, la sua complipresentano due facce della stessa medaglia. cazione di macchinari e di apparecchi, con la sua mole Si tratta di oltre cento tra giovani, uomini e donne, e le sue cifre, i suoi compartimenti stagni e il suo deche ogni anno varcano il cancello verde dell’Istituto centramento di autorità, con le continue innovazioni per far ingresso in Marina Militare. Molteplici le prove nei suoi vari rami, si è verificata una forte tendenza a selettive, condotte da personale altamente qualificato, perdere di vista l’uomo rispetto alla macchina. Nessun comprensive di accertamenti medici, psico-attitudinali, errore potrebbe essere più grande, ne racchiudere in di efficienza fisica, di cultura generale, di conoscenza sé maggior pericolo di disastri» (2). della matematica, della biologia (3) e delle lingue. Partendo da questo assunto, quanto mai attuale a Una volta entrati in Accademia, nulla è lasciato al caso. Ogni giorno, infatti, gli inquadratori ispezionano la divisa dei propri allievi affinché questa sia sempre in ordine. Controllano che le scarpe siano state correttamente lucidate, che i pantaloni abbiano una perfetta piega, che il maglione sia pulito e spazzolato. Piccoli gesti che possono sembrare maniacali, ma che invece sono alla base dell’ordine e della disciplina. Essere perfetti fuori è il primo passo per diventarlo anche dentro. Essere perfetti dentro per essere un Un momento che non si dimentica mai, la prima volta che si varca il cancello verde di San professionista adeguato domani. Jacopo. Gli ufficiali che vengono formati in Acdono un processo di crescita professionale che, pur non prescindendo da un’attenta e mirata formazione di base, si fonda su flessibilità, umiltà, generosità, spirito di iniziativa, determinazione e capacità di gestire situazioni di crisi. Al contempo, per mantenere la Forza armata moderna ed efficace, al personale è richiesto il possesso di adeguate competenze e conoscenze, indispensabili per poter agire in un contesto di sempre maggiore interoperabilità e sinergia con le Marine europee, alleate e dei paesi rivieraschi, situati nelle aree di interesse strategico della nazione. Passione, coraggio e spirito di sacrificio miste a elevata preparazione, continuo accrescimento professionale e propensione all’interazione culturale, costituiscono, quindi, il substrato su cui poggia il prezioso capitale umano della nostra Marina Militare.
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La formazione in Accademia navale, tra passato, presente e futuro
Gli studenti che entrano in Accademia vengono a contatto con il cuore della tradizione su cui poggia la Marina, ne assorbono la linfa e ne rappresentano al contempo i futuri frutti, che consentiranno di piantare i nuovi semi da cui germoglieranno altri ufficiali di Marina. L’allievo in Accademia vive con entusiasmo le sue giornate, pur se scandite da ritmi serrati, e impronta ogni attività ai valori fissati sulla torre dell’orologio del Piazzale Allievi: Patria e Onore.
La formazione dell’allievo dell’Accademia navale inizia sin dal mattino.
Il mare innanzitutto L’ufficiale di Marina vive un legame inscindibile con il mare. Egli, infatti, opererà sul mare, e con il mare si abituerà a convivere in ogni condizione, senza mai temerlo e nutrendo per esso un profondo rispetto. L’ufficiale di Marina è, quindi, innanzitutto un marinaio. Ed è quindi a bordo delle barche a vela ormeggiate nei due porticcioli dell’Accademia navale, che gli allievi hanno il loro primo contatto con il mare, in un crescendo di esperienze che li porterà dalle derive quali i Tridente 16 ai J24, alle barche d’altura. Dall’essere semplicemente parte dell’equipaggio nei primi tre anni, a essere responsabili della pianificazione e della condotta di attività su imbarcazioni d’altura che includono la navigazione notturna e l’ormeggio nei porti del litorale toscano. In aggiunta, a sugello della profonda vocazione velica e marinara dell’Istituto, ogni anno l’Accademia è tra gli organizzatori della Settimana Velica Internazio-
cademia navale saranno presto chiamati a operare in mare, mettendo al servizio del paese le loro capacità e le loro competenze professionali. In mare non si possono fingere competenze che non si hanno e loro non potranno, in quest’impervio e affascinante cimento, guidare i loro uomini verso il successo, se non sapranno dimostrarsi autorevoli. Non potranno essere autorevoli, se non saranno preparati. La preparazione che si raggiunge in Accademia navale avviene attraverso un binomio indissolubile: educazione e istruzione. L’educazione militare si struttura di tutti quegli elementi peculiari del militare e del marinaio, tramite attività etico-militari, professionali-marinaresche e fisico-sportive. L’istruzione, di contro, si estrinseca nel campo della didattica e si prefigge lo scopo di fornire e completare le conoscenze specialistiche e culturali per consentire l’acquisizione delle competenze professionali di base parimenti il conseguimento dei titoli di studio previsti per i differenti Corpi e Ruoli della Marina Militare. La vita in Accademia insegna la disciplina rispettando l’individuo ed esaltandone le peculiarità e le attitudini. Si basa su dinamiche di gruppo in grado di far comprendere, attraverso l’esempio del passato e del presente, ovvero attraverso i formatori e i frequentatori dei corsi più anziani, quali siano le qualità e i valori che nel proseguo della carriera dovranno es«Arma la prora e salpa verso il mondo», cit. Gabriele D’Annunzio. Attività velica in Accademia. sere di riferimento.
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La formazione in Accademia navale, tra passato, presente e futuro
«Il mare che unisce», cerimonia di inaugurazione della Settimana Velica Internazionale dell’Accademia navale città di Livorno (SVIANCL).
La SVIANCL è un evento internazionale, dove la passione per il mare e lo sport si conciliano in una manifestazione di estrema bellezza.
Coadiuvati dal fischio del nostromo, gli allievi della Prima classe spiegano le vele sul trevo di maestra di nave AMERIGO VESPUCCI, un’esperienza unica.
Il simulatore di plancia è un fiore all’occhiello dell’Accademia navale, dove ogni giorno gli allievi si addestrano per il futuro impiego a bordo.
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nale, una competizione internazionale che nell’ultima edizione ha visto la partecipazione di oltre 600 imbarcazioni con 1.000 regatanti provenienti da 26 paesi. Non meno importanti, inoltre, le attività di canottaggio e condotta mezzi navali minori attraverso le quali i frequentatori sviluppano il c.d. «piede marino» che nei successivi imbarchi si rivelerà fondamentale. Infine, ai margini del Piazzale Allievi, è presente il «simulatore» per eccellenza, per l’insegnamento dell’arte marinaresca: il brigantino interrato G. Cappellini. Salendo a riva, gli allievi della 1a Classe si esercitano in sicurezza nelle manovre alle vele per l’imbarco sulla Regina del mare, nave Vespucci, durante i tre mesi estivi. Durante la campagna sulla nave più bella del mondo i giovani allievi apprendono l’arte marinaresca da qualificati istruttori e sviluppano un profondo e stabile legame di corpo che li accompagnerà per la vita. Le difficoltà di uno sono quelle di tutti, così come la gioia, i successi, le paure e le sconfitte. Infine, merita particolare menzione il simulatore di plancia dell’Istituto, un moderno e sofisticato simulatore di manovra che, mediante una riproduzione realistica delle diverse condizioni di navigazione e grazie all’ausilio di qualificato personale docente, accompagna i frequentatori lungo
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un percorso, al termine del quale, essi avranno appreso tutte le nozioni pratiche e teoriche, consolidate nella cosiddetta «Abilitazione al servizio di Guardia in Plancia Basico» (AGPB) che gli consentirà di poter essere responsabili di navigazioni addestrative diurne a bordo delle unità della Marina Militare.
La cultura dello sport Gli allievi in Accademia vengono formati nella cultura dello sport. Essi, infatti, imparano a prendersi cura quotidianamente del proprio fisico preparandosi, così, a operare negli ambienti operativi, spesso ardui e ostili, in cui saranno un domani protagonisti. Lo sport in Accademia costituisce una parte fondamentale del profilo dell’ufficiale di Marina e rappresenta un bagaglio che il frequentatore si porterà dietro per il resto della carriera. Attraverso lo sport, gli allievi rinsaldano quegli stessi valori cui è orientato tutto il processo formativo. Senso di appartenenza, lealtà, coraggio, leadership, spirito di sacrificio contraddistinguono tanto il lato professionale, quanto quello sportivo dell’allievo dell’Accademia navale e rappresentano il magma dell’Istituto di formazione. A latere dell’attività di educazione sportiva, necessaria al mantenimento dell’efficienza fisica del militare, accertata ogni anno mediante dedicate prove, i frequentatori svolgono un ampio spettro di attività, quali il nuoto nella piscina coperta dell’Istituto, la pallavolo, la pallacanestro, il rugby, il calcio, le discipline dell’atletica leggera.
Lo sport è un elemento imprescindibile per la formazione dei militari, agli allievi sono richiesti tanti sacrifici che si tramuteranno in ricchissime soddisfazioni.
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Lealtà e Passione, questi sono i sentimenti che uniscono la «Brigata Allievi».
A loro disposizione vi sono oltre 20 professionisti fra insegnanti civili e istruttori militari, e un complesso di strutture sportive con campi polifunzionali di rugby, calcio, basket, volley e tennis e una palestra che include un campo coperto per le attività di basket e volley, una sala pesi e una sala attrezzata per esercizi a corpo libero. Ogni anno viene organizzato un torneo inter-classi con diverse competizioni, mentre, ogni due anni, a rotazione fra le accademie delle F.A., una rappresentativa di frequentatori partecipa al torneo inter-accademie. In Istituto è presente inoltre un poligono coperto per il tiro sportivo e un maneggio, nel quale i frequentatori svolgono attività massiva di introduzione all’equitazione, mentre gli allievi selezionati preparano l’annuale partecipazione al Concorso ippico.
L’offerta formativa Sono diversi i corsi di laurea specialistica erogati nelle aule dell’Accademia e delle Università con cui l’Istituto è convenzionato, al termine dei quali i giovani ufficiali dei Ruoli Normali conseguono la laurea magistrale prevista per ciascun Corpo. Nel dettaglio vi sono sei corsi di laurea attivi: «Scienze marittime e navali» per il Corpo di Stato Maggiore, «Ingegneria Navale» per il Corpo del Genio Marina-Genio Navale, «Ingegneria civile ed ambientale» per il Corpo del Genio Marina-Infrastrutture, «Ingegneria delle Telecomunicazioni» per il Corpo del Genio Marina-Armi Navali, «Giurisprudenza» per il Corpo di Commissariato e delle Capitanerie di porto, «Medicina e chirurgia» per il Corpo Sanitario.
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La preparazione dei giovani allievi ufficiali può contare sulle eccellenze professionali dell’Università di Pisa, grazie al connubio con l’Accademia navale.
A ogni modo, come detto, tutti gli ufficiali sono formati in Accademia e ricevono quell’imprinting fondamentale che unisce, ai valori tradizionali dell’Istituto, un profondo senso d’appartenenza e una solida preparazione professionale. Vivono all’interno dell’Istituto, ne rispettano le regole e vi frequentano le lezioni interagendo tra essi, con gli studenti civili e con i docenti militari e universitari. Al termine del primo triennio di studi, gli ufficiali del Corpo dello Stato Maggiore conseguono il diploma di laurea triennale e, dopo un ulteriore anno, la laurea magistrale. Gli ufficiali del Corpo del Genio della Marina, invece, al termine dei quattro anni di frequenza in Istituto, proseguono col biennio presso gli atenei di Genova, Napoli e Trieste, per la specialità Genio Navale e Infrastrutture e Pisa, per la specialità Armi Navali. Gli ufficiali del Corpo di Commissariato e delle Capitanerie di porto, invece, svolgono l’intero iter accademico presso l’Istituto, mentre gli ufficiali del Corpo Sanitario, dopo i primi quattro anni in Accademia, ultimano il proprio iter presso la facoltà di medicina e chirurgia dell’Università di Pisa. Le discipline universitarie e i piani di studio sono sviluppati in sinergia con gli atenei e la didattica si ca-
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ratterizza per l’impiego di ausili didattici moderni e innovativi quali piattaforme informatiche, simulatori e laboratori multimediali.
La vocazione internazionale della formazione Oggi più di ieri, entrare a far parte della Marina Militare non significa soltanto divenire membri di una prestigiosa istituzione nazionale ma anche, e soprattutto, aver la possibilità di partecipare a operazioni nazionali e multinazionali come quelle dell’Unione europea, della NATO e delle Nazioni unite, solo per citarne alcune. Sono numerosi, infatti, gli impegni oltre confine che vedono coinvolti gli ufficiali della Marina Militare, sia a bordo di navi di paesi alleati, sia a terra in contesti internazionali, facendo dell’ufficiale, non solo un professionista del mare e un esperto della Difesa, ma anche un ambasciatore della professionalità, dell’ingegno e delle capacità che caratterizzano la parte migliore del nostro paese. In tale scenario, al fine di predisporre uno strumento militare sempre più internazionale, grande importanza viene data allo studio della lingua inglese, in modo da conferire, dai momenti iniziali della carriera, la propensione e l’attitudine a operare nei succitati contesti inter-
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Conferenze Internazionali in inglese per gli Aspiranti guardiamarina, consci del fatto che questi insegnamenti saranno indispensabili a bordo.
1a Classe, gli allievi si abituano a studiare su testi tecnici appositamente tradotti, partecipano a conferenze e seminari e producono elaborati scritti e orali in lingua inglese. Ma il vero valore aggiunto, sotto il profilo della didattica in inglese, è rappresentato dall’introduzione dell’International Naval Semester: un progetto didattico innovativo, cui partecipano gli ufficiali frequentatori del quarto anno del Corpo di Stato Maggiore; un’esperienza dall’elevato spessore formativo, che si inserisce nel programma EMILYO (European Initiative for the Exchange Pillole di formazione, con l’obiettivo di renderli ancora più consapevoli della scelta che hanno fatto: amare il mare, senza differenze di nazioni e bandiere. of Military Young Officers inspired by Erasmus) nell’ambito delle iniziative patrocinate dall’ESDC (European Security and Defense College) nazionali in cui la conoscenza e la padronanza della linche estendono i benefici del programma ERASMUS gua straniera si traduce in un efficiente canale di comu(EuRopean Community Action Scheme for the Mobility nicazione con colleghi di altre Marine e Forze armate. of University Students) anche ai frequentatori degli istiPersonale docente altamente qualificato e madrelintuti di formazione militari europei. gua cura, quindi, la formazione dei frequentatori a 360 Lo studio dell’inglese, quindi, si innesta su una pregradi, dalla grammatica, alla sintassi, alla terminologia parazione tecnico-professionale già spinta e all’avantecnica e navale, attraverso il ricorso, anche, a eserciguardia e proietta l’ufficiale verso il contesto tazioni individuali e di gruppo. Per ciascun anno accamultinazionale della Forza armata, risolvendosi in indemico, per tutti i corsi di laurea attivi, interi moduli discusso valore aggiunto per la sua futura carriera quale didattici, inclusi i relativi esami, vengono svolti in linprofessionista del mare. gua inglese da docenti militari o universitari e, già dalla
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Gli esami che semestralmente gli allievi devono affrontare sono un connubio di preparazione e dedizione che si costruisce passo dopo passo.
Innovazione nella tradizione La formazione universitaria erogata presso l’Accademia navale trova, in conclusione, un ulteriore punto di forza nel largo utilizzo dei più moderni sistemi didattici offerti dalla tecnologia, quali aule didattiche multimediali, le variegate e versatili risorse offerte tramite la piattaforma e-learning Moodle dell’Istituto, il SISDAN (Sistema Informativo per il Supporto Didattico dell’Accademia navale), impiegato anche per la formazione dei corsi e delle discipline professionali non universitarie e i laboratori ad alta valenza tecnologica come i laboratori di chimica, di fisica, GMDSS (Global Maritime Distress and Safety System), di telerilevamento e di biologia marina. Una struttura tecnologica, questa, che ha fatto sì che, in occasione dell’emergenza sanitaria nazionale dovuta al Covid-19, le attività siano proseguite in modalità telematica, con un impatto minimo sotto il profilo dell’efficienza, consentendo la continuità, attraverso le
piattaforme digitali impiegate, di lezioni ed esami e assicurando il completamento, senza alcun ritardo, di tutte le attività curriculari, ivi inclusa la laurea. Lo scorso 3 aprile 2020 si è, infatti, tenuta, per la prima volta nella storia dell’Accademia navale, la prima seduta di laurea in modalità «a distanza» per quattordici guardiamarina del Corpo dello Stato Maggiore, che hanno discusso la propria tesi, non nell’Aula Magna dell’Istituto, bensì in un’aula virtuale, nella quale, al termine della sessione di laurea, hanno potuto ricevere l’accademica stretta di mano. Innovazione nella tradizione, quindi, come il buon marinaio che non dimentica mai la terra da cui proviene quando dirige la prora verso il mare aperto, così i frequentatori dell’Istituto, formati in Accademia navale dall’esperienza dei predecessori e dall’esempio degli educatori, saranno pronti per le sfide di domani e preparati a servire l’Italia, paese a vocazione marittima, con competenza e consapevolezza. 8
NOTE (1) Guerra delle Falkland. (2) Da «Alcuni consigli ai giovani e ufficiali e agli altri», Tipografia della Regia Accademia navale, 1938. (3) Per i concorrenti al Corpo sanitario della Marina Militare.
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PRIMO PIANO
L’Istituto di Studi Militari Marittimi di Venezia Ente di istruzione superiore per la formazione avanzata degli ufficiali e polo culturale della Marina Militare
Massimiliano Siragusa (*)
(*) Capitano di vascello, Direttore del Centro Studi presso l’Istituto di Studi Militari Marittimi, dove si è dedicato per 4 anni alla formazione avanzata dei futuri dirigenti della Marina come docente di comunicazione; nel 2019 ha anche svolto l’incarico di Direttore ai Corsi. Qualificato formatore esperienziale interforze, dal 2016 collabora attivamente nel campo delle competenze gestionali con il Centro Alti Studi per la Difesa (tutor nel Master di 2° livello in Leadership, Change Management & Problem Solving) e l’Istituto Superiore di Stato Maggiore Interforze (tutor nei moduli di Leadership e Problem Solving). Insegna anche Staff Communication Skills, in inglese, nei corsi Training Building organizzati dal Centre of Excellence for Stability Police Units (CoESPU) di Vicenza. Ha al suo attivo più di 18 anni di imbarco su unità navali eterogenee della Marina Militare e di Marine alleate, molti dei quali trascorsi lavorando in vari incarichi di staff. Ha comandato il cacciamine Termoli (2004-5) e la fregata Aliseo (2013-14). Quale capo Ufficio operazioni, piani e addestramento (N3/5/7) della Seconda Divisione navale e assistant Chief of Staff operations (ACOS N3) dell’Italian Maritime Forces Command, ha gestito varie attività addestrative e operative nazionali e multinazionali. Nel 2020 è stato impiegato per 4 mesi nel Force HQs dell’Operazione EUNAVFOR Somalia «Atalanta», imbarcato sulla fregata spagnola ESPS Numancia, prima come Chief of Staff e poi quale acting Force Commander.
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L’Istituto di Studi Militari Marittimi di Venezia
L’
Istituto di Studi Militari Marittimi (ISMM) di Venezia è un ente di istruzione militare superiore che ha il compito principale di assicurare la formazione avanzata degli ufficiali della Marina Militare, aggiornandone e integrandone le competenze professionali e culturali, in previsione del successivo impiego in incarichi di staff — sia nell’ambito degli organismi centrali e periferici della Forza armata, sia in ambito interforze e inter-agenzia — o in incarichi di comando presso enti periferici. L’ISMM svolge anche la funzione di «polo culturale» della Marina Militare, curando lo studio, la ricerca e la sperimentazione nel settore della formazione e in quelli afferenti alle tematiche strategiche, operative e ordinamentali di interesse della Forza armata. Gli ulteriori compiti dell’Istituto riguardano: — la valorizzazione del patrimonio storico e culturale dell’Arsenale MM di Venezia, di cui fanno parte il Museo Storico Navale e le infrastrutture presenti nel comprensorio arsenalizio; — il supporto logistico e amministrativo a favore di tutti i comandi/enti MM presenti nella sede, incluse le
due unità navali ausiliarie permanentemente basate presso l’Arsenale di Venezia (la nave idrografica Aretusa e la nave moto-trasporto fari Ponza); — l’organizzazione di eventi di rilievo per la Forza armata, quali il Venice Seapower Symposium, un importante evento di «diplomazia navale», giunto ormai alla sua XII edizione, che si svolge con cadenza biennale e vede la partecipazione di circa 80 delegazioni delle Marine di tutto il mondo e di industrie/organizzazioni/agenzie del cluster marittimo internazionale. Nel prosieguo dell’articolo si illustreranno la storia dell’Istituto e il contenuto dei corsi attualmente svolti.
Storia dell’Istituto L’Istituto affonda le sue radici nella Scuola navale di Guerra, la cui prima sessione venne inaugurata dal re Vittorio Emanuele III l’8 settembre 1908, nella Sala a Tracciare dell’Arsenale della Spezia. Contestualmente a questo avvenimento sorse, di fatto, il primo Centro superiore navale della Regia Marina. Secondo il decreto istitutivo, la Scuola doveva «coltivare e affermare un pensiero navale sulla nostra preparazione
Venezia, ottobre 2019. Foto di gruppo dei partecipanti al XII Regional Seapower Symposium.
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L’Istituto di Studi Militari Marittimi di Venezia
Dal 1939 al 1947 le attività dell’Istituto vennero alla guerra valendosi della cooperazione di tutti gli ufsospese a causa della concentrazione delle energie ficiali a mezzo di conferenze di organica, arte e tecnica della Forza armata prima verso il Secondo conflitto militare navale, discussioni relative ai detti argomenti mondiale e poi nella ricostruzione; successivamente e applicazione del gioco di guerra navale». i lavori ripresero con lo svolgimento di due tipi di La Scuola interruppe la sua attività nel 1911, a causa corsi: uno per capitani di corvetta di recente promodello scoppio della guerra italo-turca e poi della Prima zione e uno per capitani di fregata/capitani di vascello guerra mondiale. Negli anni successivi al termine del che, per esigenze belliche, non avevano potuto freconflitto prese corpo una duplice esigenza: consolidare quentare l’Istituto. Nel 1956 le sessioni del primo una dottrina militare navale sulla scorta degli insegnacorso assunsero la denominazione di Corso di Stato menti della guerra e affiancare ai vertici militari, chiaMaggiore (SM), mentre le sessioni del secondo quella mati ad assumere decisioni sempre più gravi e di Gruppo di Studi di SM, con compiti di studio su immediate, ufficiali più preparati. specifici problemi assegnati dal Capo di Stato MagIl ministro per la Marina, Giovanni Sechi, durante il giore della Marina. Nello stesso anno, la partecipasuo mandato (1919-21), affidò a un brillante ufficiale suzione ai Corsi di SM venne aperta agli ufficiali degli periore, Romeo Bernotti, l’incarico di progettare un altri corpi della Marina, che avrebbero potuto essere nuovo Istituto ispirato alla Scuola navale di Guerra. Berinseriti come collaboratori tecnici negli Stati Magnotti raccolse approfondite informazioni sulle scuole di giori. Si sottolinea che ai corsi già partecipavano ufguerra esistenti all’estero e pubblicò un breve saggio ficiali dell’Esercito e dell’Aeronautica. esponendo intenzioni e prospettive tra le quali quella di Nel 1963 l’Istituto dovette sospendere nuovamente creare un nuovo centro di formazione: «(...) affinché gli le lezioni, stavolta per carenza di potenziali frequentaufficiali di vascello possano meglio provvedere alla propria cultura negli studi che interessano la preparazione tori dovuta all’aumento delle destinazioni di impiego. e la condotta della guerra marittima e possano acquiNei tre anni successivi l’attività didattica continuò in stare maggiore attitudine e competenza per i servizi di forma ridotta ad Augusta (SR), proponendo moduli di Stato Maggiore. (...) L’Istituto deve essenzialmente co«Servizio di Stato Maggiore» in favore dei tenenti di stituire un libero centro di studi ove gli ufficiali intendano vascello selezionati per il Comando navale, a margine la necessità di riesaminare la propria esperienza pratica in rapporto ai principi della condotta della guerra, di formarsi, con unità di criteri direttivi, l’attitudine intellettuale a considerare e risolvere i problemi di strategia, di tattica e di organica». Il nuovo centro di formazione, la cui costituzione fu disposta con Regio Decreto del 5 maggio 1921, venne istituito il 1° novembre 1921 con la denominazione di Istituto di Guerra marittima (IGM), iniziando la sua attività l’anno successivo nel sedime dell’Accademia navale a Livorno. Bernotti ne fu il primo comandante, con il grado di capitano Vista aerea dell’Istituto di Studi Militari Marittimi (ISMM). di vascello, e lo diresse fino al 1924.
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L’Istituto di Studi Militari Marittimi di Venezia
delle attività svolte a bordo durante le sessioni di Scuola comando. Dal 1966 l’Istituto riprese pienamente la sua attività a Livorno con sessioni frequentate da ufficiali compresi in un’ampissima fascia di anzianità, per far recuperare coloro che non avevano potuto seguire i corsi in precedenza. Nel 1969 entrò in vigore un nuovo Ordinamento degli Studi che prevedeva lo svolgimento annuale di due corsi complementari: un Corso Normale di SM (CNSM), per tenenti di vascello inclusi nell’aliquota di avanzamento al grado superiore (della durata di due mesi) e un Corso Superiore di SM, per capitani di fregata e un’aliquota di ufficiali superiori di altri corpi della Marina Militare (della durata di quattro mesi). Dal 1980 il CNSM venne soppresso, a causa delle
difficoltà di organico nei gradi degli ufficiali inferiori, contestualmente la durata del Corso Superiore di SM venne portata a un intero anno accademico. Dal 1993 riprese l’erogazione dei CNSM, ma la durata del Corso Superiore venne mantenuta immutata fino al 1998, quando ne fu disposta la soppressione contestualmente alla costituzione dell’Istituto superiore di Stato Maggiore interforze (ISSMI). Lo Stato Maggiore della Difesa decise, infatti, che da quell’anno la formazione di alto livello degli ufficiali superiori di tutte le Forze armate sarebbe stata congiunta. Nell’estate del 1999, nel quadro della generale riorganizzazione dei comandi e delle strutture della Forza armata e per tener conto dell’esigenza di valorizzare la sede di Venezia quale «polo culturale» della Marina Militare, venne deciso di cambiare la sede dell’Istituto; senza interrompere le proprie attività e funzioni, l’Ente si trasferì nella città lagunare, all’interno dello storico Arsenale, occupando le sistemazioni del locale Comando Marina e assorbendone le funzioni di Presidio. Contestualmente al trasferimento a Venezia la denominazione dell’Ente cambiò da «Istituto di Guerra Marittima» (IGM) a «Istituto di Studi Militari Marittimi» (ISMM), conosciuto in ambito internazionale quale Italian Naval Staff College. Venne trasferita da Livorno a Venezia anche la Biblioteca «Dante Alighieri», che è ancora più antica dell’Istituto poiché la sua apertura risale al 1905; oggi ospita circa 96.000 volumi prodotti da oltre 53.000 autori diversi. È aperta al pubblico su prenotazione ed è inserita nell’On-line Public Access Catalogue (OPAC),
Biblioteca «Dante Alighieri», lato consultazione.
Biblioteca «Dante Alighieri», lato conferenze.
Arsenale di Venezia, ingresso Porta di Terra o Porta Magna.
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L’Istituto di Studi Militari Marittimi di Venezia
il catalogo internazionale informatizzato delle biblioteche che offre, a chiunque sia collegato al web, la possibilità di interagire per cercare informazioni e programmare visite per consultare i volumi. A supporto della funzione di «polo culturale» dell’ISMM, a seguito del trasferimento nella nuova sede veneziana, venne istituito il Centro studi militari marittimi al fine di disporre, all’interno dell’Istituto, di un organismo specificamente deputato a promuovere lo sviluppo del pensiero navale, svolgendo attività di ricerca e studio nel campo militare marittimo, con particolare riguardo alle tematiche strategiche, operative e ordinative di interesse della Marina Militare. Il Centro organizza Giornate di Studio e Seminari per dibattere temi di attualità e di interesse generale nei settori strategico-militare, tecnicoscientifico e sociologico. Intrattiene rapporti con enti militari analoghi, con varie università italiane e con altri organismi interessati alle tematiche di carattere strategico e della politica di sicurezza. Ha il compito di redigere e diffondere pubblicazioni a carattere periodico quali il Bollettino d'Informazione (annuale) e l'Osservatorio (quadrimestrale).
I corsi erogati Le principali attività formative di cui l’Istituto è attualmente responsabile comprendono il Corso Normale di Stato Maggiore (CNSM) e il Seminario per capitani di vascello e capitani di fregata designati al Comando navale e territoriale (Seminario CCVV/CCFF). Ulteriori moduli didattici, corsi e seminari possono essere organizzati, di volta in volta, sulla base di specifiche esigenze formative prospettate anche da enti esterni al comparto militare. Un recente esempio in tal senso è rappresentato dal Corso di Competenze gestionali, della durata di due settimane, erogato a ottobre scorso in favore degli ispettori della Polizia locale di Venezia. Corso Normale di Stato Maggiore L’erogazione del CNSM è l’attività principale dell’Istituto: vengono svolte 3 sessioni l’anno, della durata di 13 settimane ciascuna; ogni sessione è frequentata da circa 35 ufficiali — di massima, nel grado di capitano di corvetta/tenente di vascello — appartenenti ai
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Aula lezioni standard.
vari corpi della Marina Militare, con un’esperienza media di 15 anni di servizio. Il Corso, indirizzato a preparare i frequentatori per affrontare incarichi di livello gerarchico superiore, fornisce i presupposti essenziali, in termini di conoscenze, competenze e comportamenti, per lavorare efficacemente negli staff degli organismi decisionali della Forza armata e interforze. In virtù di un accordo di collaborazione stipulato nel 2014 con l’Università Ca’ Foscari di Venezia, al termine del CNSM i frequentatori conseguono un Master di 2° livello in «Studi strategici e sicurezza internazionale». Sulla base dell’accordo con l’ateneo veneziano, il Corso può essere frequentato anche da studenti civili in possesso di Laurea magistrale (mediamente vi partecipano 3 civili per ogni sessione) che svolgono le stesse attività previste per i militari. L’insegnamento segue criteri di approfondimento progressivo delle materie trattate, attraverso una didattica che comprende: insegnamento diretto, conferenze integrative (anche in lingua inglese), attività applicative/esperienziali individuali e di gruppo, partecipazione a eventi culturali e periodi di studio individuale. I moduli proposti nel CNSM per l’Anno Accademico 2020/21 sono i seguenti: — servizio di Stato Maggiore, mirato a far comprendere e applicare il metodo di lavoro in uso negli staff degli enti centrali; — comunicazione, predisposto per migliorare le competenze nella comunicazione scritta e orale attraverso fondamenti teorici, esercizi di public speaking (secondo precisi vincoli di tempo, con e senza ausili
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L’Istituto di Studi Militari Marittimi di Venezia
Interviste individuali di comunicazione.
audiovisivi), applicazione degli standard in uso negli staff degli enti centrali, coinvolgimento nelle dinamiche della comunicazione istituzionale e pubblica informazione (inclusi esercizi di intervista con giornalisti specializzati nel settore difesa); — scienze manageriali, ideato per fornire conoscenze sui principi, strumenti manageriali ed elementi socio-psicologici delle organizzazioni complesse, come strumento per la gestione delle risorse; — scienze giuridiche, approntato per approfondire le norme più significative del Diritto internazionale pubblico, Diritto internazionale marittimo e Diritto internazionale dei conflitti armati; — dottrina delle operazioni militari, costruito per illustrare i concetti fondamentali della Dottrina interforze nazionale, marittima nazionale e NATO, nonché i principi delle operazioni marittime; — studi strategici, preparato per spiegare i concetti fondamentali della strategia, con particolare enfasi
Lavoro di gruppo di scienze manageriali.
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sulla Strategia marittima, nella prospettiva di far comprendere le dinamiche che sottendono le interazioni tra Stati e analizzare in maniera olistica e oggettiva gli eventi internazionali. Il modulo è arricchito da contenuti di geopolitica, storia militare ed economia; — pianificazione operativa, organizzato per illustrare la metodologia per la risoluzione dei problemi militari di azione operativi e le procedure di lavoro dei comandi operativi, anche internazionali. I moduli di Studi strategici e Pianificazione operativa sono proposti in lingua inglese, per fornire agli ufficiali una ulteriore valenza formativa finalizzata all’impiego in consessi internazionali; sono aperti a ufficiali stranieri di paesi alleati e amici. Alla frequenza del CNSM possono essere ammessi anche funzionari civili dell’amministrazione della Difesa, ufficiali di altre Forze armate o Corpi armati dello Stato e ufficiali di altri paesi (purché abbiano una buona conoscenza della lingua italiana).
Lavoro di gruppo di pianificazione operativa.
Presentazione briefing pianificazione operativa.
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L’Istituto di Studi Militari Marittimi di Venezia
Seminario per capitani di vascello e capitani di fregata designati al Comando navale e territoriale Il Seminario CCVV/CCFF viene tradizionalmente svolto a Taranto ed è indirizzato agli ufficiali superiori designati per il Comando navale di unità maggiore, la direzione o vice direzione di enti territoriali e il Comando di Compartimenti/Direzioni marittimi. Costituisce un importante momento di aggiornamento professionale in vista del fondamentale impegno di comando, in relazione sia al tempo intercorso dall’ultima analoga esperienza, sia alla diversificata attività che ciascuno ha nel frattempo effettuato. Ha un carattere preminentemente informativo ed è caratterizzato da una spiccata connotazione interattiva, con interventi tenuti da ammiragli, ufficiali superiori e dirigenti civili che ricoprono posizioni di vertice nell’organizzazione Difesa/Marina. I briefing sono sempre seguiti da ampi periodi destinati alla discussione, in cui i frequentatori hanno la possibilità di chiedere approfondimenti. Gli obiettivi del Seminario sono: — spiegare le più recenti e significative novità di carattere normativo, ordinativo e procedurale; — illustrare tematiche particolarmente sensibili quali comunicazione esterna, gestione del personale civile, tutela ambientale, responsabilità amministrativa, tutela del segreto, sensibilizzazione di natura contro informativa; — aggiornare la formazione in campo antinfortunistico; — favorire la conoscenza diretta tra i futuri comandanti/direttori/vice direttori e i vertici degli organismi MM, per facilitare le successive relazioni. Il Corso è strutturato su un «Modulo Congiunto», a cui partecipano tutti gli ufficiali frequentatori, e tre «Moduli Specifici», che hanno luogo a latere: — modulo navale, riservato a ufficiali di vascello destinati a comandare unità navali o comandi complessi alle dipendenze della Squadra navale; — modulo Capitanerie di porto, riservato a ufficiali delle CCPP destinati a ricoprire un incarico di comando nell’ambito dell’organizzazione centrale e periferica delle Capitanerie di porto; — modulo territoriale, riservato a ufficiali degli altri
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corpi destinati a rivestire un incarico di comando, direzione o vice direzione (o incarichi equipollenti) presso un ente territoriale.
Conclusione Il primo ottobre scorso, in occasione della cerimonia di apertura dell’Anno Accademico 2020/21, l’ammiraglio di Squadra Giuseppe Cavo Dragone, Capo di Stato Maggiore della Marina Militare, ha definito l’Istituto di Studi Militari Marittimi il «tempio del pensiero della nostra Forza armata, cui è affidato l’indispensabile e difficilissimo compito di concepire, in piena e severa libertà intellettuale, il futuro della nostra Marina e, con esso, in un certo senso, anche il futuro del nostro paese, dato l’intimo e indissolubile rapporto che, storicamente, lega l’Italia al mare». L’ammiraglio Cavo Dragone ha spronato i frequentatori della 84a sessione del CNSM presenti in sala, con queste parole: «Voi, che vi affacciate alla fase più produttiva della vostra vita professionale, ne dovrete essere i protagonisti, con il confronto costruttivo delle idee, la franchezza nell’esprimere le vostre convinzioni, ma anche e soprattutto la disponibilità intellettuale a comprendere e accettare il nuovo. Approfittate di questa eccellente opportunità di riflessione e approfondimento che vi permetterà di affrontare il vostro futuro professionale meglio attrezzati e con rinnovato entusiasmo». In effetti, lo spirito che da sempre caratterizza l’offerta formativa dell’ISMM è quello di puntare non solo a elevare il livello culturale e professionale individuale dei frequentatori, ma anche di armonizzare e valorizzare, in un’ottica unitaria, le professionalità acquisite dagli ufficiali dei vari corpi nella prima parte della loro carriera, per prepararli ad assolvere efficacemente incarichi di maggiore responsabilità. Il miglioramento nel «saper fare» e nel «saper essere», oltre all’approfondimento del «sapere», vengono stimolati attraverso la proposta di numerose attività volte a promuovere il pensiero critico e la condivisione delle idee nei lavori di gruppo, nell’ottica di creare un network virtuoso tra coloro che, tra alcuni anni, ricopriranno posizioni di rilevo nei vari settori della Forza armata e degli organismi interforze. 8 Rivista Marittima Novembre 2020
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CODIN – le PMI alla guida dell’Innovazione e del Real Time Analytics. Una rivoluzione in ambito Cyber and Home Land Security Sempre più spesso si viene a conoscenza che in qualche particolare settore sia stato realizzato qualcosa di nuovo e di innovativo impiegando quella che viene definita Intelligenza Artificiale; una disciplina che viene dottrinalmente inserita nell’informatica ma che in realtà si basa sulla convergenza di diverse discipline. “Per CODIN – che oggi impiega 70 professionisti attraverso 3 sussidiarie in Italia – spiega Walter Tisone, da oltre 30 anni alla guida dell’Azienda, portare le proprie soluzioni di machine learning più innovative è diventato business as usual ma le prime esperienze furono molto difficili, tutta l’azienda ha dovuto sapersi adattare ad un profondo cambiamento del modo di lavorare, si è deciso di investire più di 1 Mln di Euro nella creazione di un laboratorio interno di R&S, inserendo giovani laureati che hanno portato in azienda competenze variegate che, di fatto, hanno permesso di immergerci in un ambiente fatto di discipline legate non solo all’informatica ma ai processi fino ai modelli matematici complessi. Il framework ESSG – spiega Roberto Leuzzi, a capo della funzione R&D - include librerie di algoritmi Real Time Analytics che permettono di analizzare i comportamenti di tutti gli attori coinvolti: utenti, applicazioni, sistemi, infrastrutture di comunicazione.
fornire ai Command&Control delle marine. L’analisi dei dati è realizzata utilizzando algoritmi basati su reti neurali artificiali. “Ci siamo trovati in uno scenario – continua Leuzzi – in cui il contrabbando, l’immigrazione clandestina ed il terrorismo trovano punti di accesso strategici nelle frontiere marittime europee compromettendo la sicurezza dei cittadini e del territorio. Particolare attenzione è necessaria per indirizzare efficacemente i temi posti da questa sfida. Occorrono misure innovative per garantire la diagnosi precoce di eventi di rischio e attivare immediatamente le contromisure utili a contrastare le potenziali minacce. La complessità delle problematiche che devono essere affrontate comporta una modellazione matematica estremamente complessa dove metodi deterministici e metodi euristici contribuiscono a creare le leggi di controllo desiderate, affidandosi ad un’analisi più qualitativa del sistema in esame. L’utilizzo congiunto di tali metodologie permette la realizzazione di soluzioni che mettono l’utente in condizione di prendere decisioni nel più breve tempo possibile, fornendogli tutte le informazioni necessarie allo scopo, attraverso un intelligente gestione delle informazioni stesse.” Il sistema realizzato da CODIN si basa su un’architettura multilayer con l’obiettivo di
coordinare e supervisionare l’acquisizione e l’integrazione di informazioni eterogenee e definire un innovativo sistema di supporto alle decisioni che ottimizza i tempi di intervento a salvaguardia dell’incolumità delle persone, ottimizza gli asset nelle operazioni di controllo, garantisce elevati livelli di sicurezza e contiene i danni all’ambiente marino. Il progetto si concluderà a Febbraio 2021, a quel punto, ne è convinto Tisone, non si potrà più prescindere da sistemi intelligenti in ambienti e scenari sempre più complessi e connessi, sia in campo militare che civile.
This project has received funding from the European Union’s Horizon 2020 research and innovation programme under grant agreement No 833881. This article reflects only the author’s view and the Research Executive Agency (REA) is not responsible for any use that may be made of the information it contains.
Nell’ambito dei progetti finanziati CODIN sta partecipando al progetto ANDROMEDA (An EnhaNceD Common InfoRmatiOn Sharing EnvironMent for BordEr CommanD, Control & CoordinAtion Systems) - Grant Agreement No 833881 - finanziato nell’ambito del Programma Quadro europeo “Horizon 2020” in consorzio insieme con la Marina Militare Italiana, il CMCC (Centro euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici) ed altri sedici partner europei ed extraeuropei (https:// www.andromeda-project.eu/). Il progetto mira a realizzare un sistema innovativo ed unitario di monitoraggio del territorio, finalizzato a migliorare la sicurezza delle frontiere marittime e terrestri. In particolare, il contributo di CODIN è finalizzato al monitoraggio delle rotte navali rilevate grazie a sistemi AIS e Radar a cui si aggiungono dati metereologici al fine di rilevare comportamenti “anomali” e generando alert da informazione pubblicitaria
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La formazione dei marescialli della Marina Militare La Scuola sottufficiali di Taranto, una storia di oltre settant’anni
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Antonio Donato (*)
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a Scuola sottufficiali della Marina Militare di Taranto, unica scuola di Forza armata deputata alla formazione dei marescialli, ha una storia di oltre settant’anni. La prima sede, nell’immediato secondo dopoguerra, fu su nave Cadorna, ove essa venne costituita ufficialmente il 7 maggio 1947, con la denominazione di Comando scuole CEMM (Corpo equipaggi militari marittimi). Il 17 maggio 1957 la Scuola, già nella sede attuale di Taranto San Vito, fu intitolata alla memoria del capitano di corvetta Lorenzo Bezzi, medaglia d’oro al valor militare, scomparso in mare nel giugno del 1940 al comando del sommergibile Liuzzi, fulgido esempio delle virtù eroiche e umane che contraddistinguono da sempre il marinaio. Oggi la Scuola sottufficiali (MARISCUOLA Taranto) si presenta come un moderno campus universitario, con una superficie di circa 32 ettari di larghi viali costeggiati da palazzine e infrastrutture immerse nel verde; un luogo nel quale il tempo è scandito dai ritmi della vita militare e dell’attività didattica e dove ci si accorge di essere in un’area militare, solo quando i frequentatori in divisa si spostano per i viali, inquadrati in sezione al ritmo degli ordini formali di marcia. L’Istituto, dal punto di vista delle infrastrutture didattiche, può contare su 55 aule, 48 laboratori attrezzati e un’Aula Magna da 534 posti e, per le attività sportive, su una piscina coperta, due campi da calcetto, tre campi da tennis, tre da pallavolo, tre da pallacanestro e su un porticciolo con le imbarcazioni a vela, a remi e a motore. Uffici, alloggi, mense, sale ricreative e TV, infermeria, biblioteca, diverse officine, una centrale elettrica, un depuratore, fanno del comprensorio una vera e propria città completamente autosufficiente.
Giuramento solenne 1ª Classe NMRS e VFP1 - piazza d'armi Mariscuola Taranto (Tutte le immagini dell’articolo sono state fornite da Mariscuola Taranto).
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(*) Capitano di fregata, nato a Gallipoli il 27 febbraio 1970. Al termine dell’iter formativo presso l’Accademia navale è stato impiegato nella Componente sommergibili e, successivamente, a bordo delle UU.NN. nelle mansioni di comandante in 2a e comandante. Nelle recenti esperienze nel settore formativo presso la Scuola Sottufficiali della Marina Militare di Taranto, ha espletato prima l’incarico di direttore Corsi e, attualmente, l’incarico di direttore degli Studi.
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In media, da ottobre a giugno, la Scuola sottufficiali di Taranto ospita circa 900 allievi e frequentatori, con picchi fino a 1.250 unità, nel periodo di massimo afflusso. L’attività cardine è la formazione dei marescialli appartenenti a tutte le dieci categorie di sottufficiali: Specialisti del sistema di combattimento, Tecnici del sistema di combattimento, Specialisti del sistema di piattaforma, Supporto e servizio amministrativo logistico, Incursori, Fucilieri di Marina, Palombari, Servizio sanitario, Nocchieri e Nocchieri di porto. Si continua, poi, con la formazione del ruolo sergenti, dei graduati e della truppa, a eccezione delle categorie Nocchieri, Nocchieri di porto e Tecnici di macchine, che seguono i rispettivi corsi presso MARISCUOLA La Maddalena. A partire dall’A.A. 2005-06, la Marina Militare ha
introdotto, per il ruolo marescialli, dei percorsi formativi finalizzati al conseguimento della laurea triennale, in forza delle convenzioni in vigore dapprima con l’Università degli Studi della Tuscia di Viterbo e, oggi, con l’Università degli Studi di Bari Aldo Moro. Attualmente, per gli allievi marescialli, è prevista l’immatricolazione: — al Corso di laurea triennale in «Scienze e gestione delle attività marittime», che ha l’obiettivo di assicurare al frequentatore un’adeguata padronanza di metodi e contenuti scientifici generali, nonché l’acquisizione di specifiche conoscenze professionali nel settore delle attività marittime e portuali e contribuisce alla formazione culturale e professionale dei sottufficiali del ruolo marescialli; — al Corso di laurea triennale in «Infermieristica» per i Normali marescialli (i cui frequentatori sono vincitori di pubblico concorso) della categoria/specialità SS/I; — a partire dall’anno accademico 2015-16, anche al Corso triennale in «Informatica e comunicazione digitale» per i Normali marescialli della categoria/specialità TSC/Ead. Ai primi due corsi di laurea, che si svolgono presso l’Istituto (sede didattica dell’ateneo barese), sono iscritti anche studenti civili, circostanza che favorisce ulteriormente il processo di integrazione e osmosi tra il mondo civile e quello militare. La formazione nella Scuola sottufficiali ha l’obiettivo di creare dei professionisti capaci e leali, in grado di anteporre il bene della collettività all’interesse per-
Allievi NMRS, attività piscina.
Allievi NMRS, attività sportiva.
Allievi 2a cl. NMRS, lezione presso il dipartimento insegnamento nocchieri.
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Allievi NMRS, dipartimento insegnamento sanitario, lezione di anatomia.
Allievi NMRS, dipartimento nocchieri di porto, lezione al simulatore.
sonale, sempre pronti a intervenire in soccorso degli altri e con valori di patria, disciplina e onore, radicati e profondi. Ecco perché i formatori militari dell’Istituto non si pongono come semplici insegnanti, ma come guida costante ed esempio, cercando sempre di evidenziare i legami tra la pura teoria e la prassi quotidiana, per non correre il rischio di trasmettere concetti decontestualizzati che, inevitabilmente, rimarrebbero inerti. Fondamentale, per questo habitat formativo, sono la collaborazione e il dialogo che devono instaurarsi, sempre nel rispetto delle regole e dei ruoli, a tutti i livelli e in tutte le direzioni, nell’ottica condivisa che il «fare formazione» deve essere il risultato di una vera e propria comunità di esperienze, in grado di alimentare quello spirito di corpo, vero cardine di una disciplina consapevole e partecipata e, come tale, autoimposta.
Presso l’Istituto di formazione, poi, si svolgono anche altri corsi professionalizzanti, tra i quali il corso per sottufficiali inquadratori e quello per sottufficiali istruttori, personale destinato a essere impiegato presso tutti gli istituti di formazione della Marina Militare in compiti delicatissimi e di prioritaria e fondamentale importanza per la Forza armata. L’emergenza sanitaria correlata alla pandemia di Covid-19 che, purtroppo, ha coinvolto la quasi totalità del globo terrestre, ha indotto anche il mondo della formazione a orientarsi verso l’erogazione di soli corsi on-line, in tutti gli ambiti e in tutte le discipline. MARISCUOLA Taranto non si è fatta trovare impreparata a questa nuova sfida e la risposta è stata pressoché immediata, avendo l’Istituto già consolidato, nel campo dell’e-learning, una consolidata espe-
Allievi della scuola sottufficiali Marina Militare di Taranto in audizione generale da Papa Francesco.
Allievi NMRS in visita al quirinale per saluto al Presidente della Repubblica.
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Celebrazione della santa Messa, presso la cappella dell’Istituto, in occasione del Precetto Pasquale.
Cerimonia, in Piazza d’armi, della consegna, da parte dell’Ammiraglio Comandante, dei gradi agli Allievi NMRS.
Allievi e frequentatori riuniti presso l’Aula Fasan in occasione della cerimonia di apertura dell’anno accademico.
L’Ammiraglio Comandante (CA Enrico Giurelli) durante un momento della cerimonia di fine corso SGT.
rienza, attraverso la propria piattaforma per la didattica a distanza, mediante la quale già veniva erogata una molteplicità di corsi a favore degli allievi e frequentatori militari. In tal modo, sulla piattaforma didattica on-line della Marina Militare, così come sulla piattaforma utilizzata dall’ateneo barese per le lezioni universitarie, è stato possibile costituire delle vere e proprie «aule virtuali» che hanno consentito di tracciare le attività formative (login, durata, azioni intraprese durante la sessione formativa), di confrontarsi on-line con i docenti, di utilizzare la chat di gruppo per lo scambio di opinioni con gli altri partecipanti, di visualizzare le slide o la lavagna virtuale per condividere i contenuti del corso, di monitorare, attraverso sondaggi o test in tempo reale, il livello di gradimento della lezione e l’efficacia dell’apprendimento e, non ultimo, di sostenere anche gli esami. Il tutto nella piena consapevolezza dell’im-
portanza del rapporto tra docente e discente, che va salvaguardato a prescindere. Nello stesso comprensorio di San Vito è ubicato anche il Centro addestramento aero-navale (MARICENTADD), la culla degli equipaggi della Marina Mi-
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Palazzo studi, cerimonia di consegna delle lauree infermieristiche al personale militare e civile.
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Giuramento VFP1.
litare che, con i suoi sofisticatissimi apparati, provvede anche all’addestramento dei frequentatori di MARISCUOLA Taranto appartenenti alle categorie/specialità più propriamente operative. Una collaborazione che dura da oltre trent’anni e che con il tempo non ha mancato di trasmettere, sistematicamente, al personale docente della Scuola sottufficiali un po’ della professionalità specialistica di altissimo livello che caratterizza gli istruttori di MARICENTADD.
Giuramento solenne 1ª classe NMRS e VFP1.
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Gli uomini in divisa che vediamo varcare il cancello in uscita dell’Istituto sono gli stessi che a bordo delle unità navali dovranno impiegare apparati e sistemi d’arma sofisticati, che rappresentano lo stato dell’arte della moderna tecnologia. La Scuola sottufficiali della Marina Militare si occupa della formazione di base degli allievi e dei frequentatori intesa non solo come momento di acquisizione di nozioni al fine di sviluppare il «sapere», costruendo solide fondamenta e ampliando le conoscenze, ma anche in modo intrinseco e complementare come «saper essere», infondendo i principi, comportamenti e valori che contraddistinguono lo status proprio di militare. Un processo delicato e continuo che si pone l’obiettivo di plasmare figure professionali in grado di agire con consapevolezza all’interno della Forza armata, alimentando fin dal giorno dell’arruolamento, la passione per la professione, la diffusione della «cultura marittima» e la consapevolezza dell’importanza della Marina Militare per lo sviluppo del «Sistema Paese». Piazza d’Armi, il cui suolo nel tempo è stato calcato con onore da migliaia di allievi e frequentatori che hanno giurato fedeltà alla patria, è testimone di questa metamorfosi. Inoltre, dal 2019 l’Istituto affronta una nuova sfida, l’erogazione dei Corsi di formazione di base a favore del personale della Marina del Qatar (QENF - Qatar Emiri Naval Forces) nell’ambito del progetto industriale correlato al contratto siglato dal ministero della Difesa del Qatar con Fincantieri SpA (FCN) per la fornitura di nuove unità navali. Tali
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Schieramento sul lungomare Vittorio Emanuele a Taranto in occasione del giuramento solenne degli allievi 1a classe NMRS e personale VFP1.
corsi hanno una durata che varia dai 4 mesi, per il personale di truppa, ai 7 mesi, per i sottufficiali e rappresentano, per consistenza di frequentatori e durata complessiva, i corsi a favore di militari esteri più importanti nella storia recente dell’Istituto.
Lectio Magistralis tenuta dal diplomatico Staffan de Mistura, a favore degli allievi e frequentatori presso l’Aula Fasan.
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In conclusione, MARISCUOLA Taranto rappresenta «l’Accademia dei sottufficiali», non solo per il volume dell’attività formativa che qui si svolge, senza eguali nella Forza armata, ma soprattutto per il livello qualitativo dei contenuti delle attività di istruzione e di educazione svolte dal suo personale altamente qualificato, la cui missione è formare professionisti capaci, nei quali radicare culturalmente il metodo della conoscenza e, moralmente, una forte etica della responsabilità. L’odierna figura del militare è, infatti, quella del difensore dello Stato, disciplinato e attento alla sua società, in quanto sempre pronto a intervenire in soccorso degli altri. Tale figura richiede una profonda preparazione culturale e tecnica, in continuo aggiornamento, al fine di conseguire puntuale e costante perfezionamento delle proprie capacità, per un livello sempre più elevato di professionalità e competenza al servizio dello Stato. 8 Rivista Marittima Novembre 2020
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informazione pubblicitaria
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Il NavLab. Laboratorio di storia marittima e navale nell’Università di Genova Emiliano Beri (*) - Fabio De Ninno (**)
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accontare la realtà e l’esperienza di un Laboratorio di storia marittima e navale impone in prima battuta una premessa terminologica.
«Laboratorio» richiama subito alla mente una realtà fisica in cui si svolge un’attività di ricerca scientifica e di analisi, in primo luogo strumentale. Qui ci troviamo in una dimensione molto diversa, perché il NavLab è sì una realtà di ricerca, ma una realtà di ricerca di un ambito disciplinare umanistico. La sua dimensione fisica
(*) Ricercatore di storia moderna presso la Scuola di Scienze umanistiche dell’Università di Genova, dove insegna storia sociale e storia militare e dove coordina l’attività di divulgazione scientifica del Laboratorio di storia marittima e navale. È stato membro del Centro interuniversitario di studi «Le polizie e il controllo del territorio» e dell’organizzazione scientifica internazionale «Red Columnaria». Ha partecipato a diversi progetti di ricerca nazionali ed europei. È autore di tre monografie e di numerosi articoli e contributi scientifici. (**) Professore a contratto e assegnista di ricerca presso l’Università di Siena, segretario di redazione di Italia contemporanea, coordinatore del progetto della bibliografia italiana di storia militare 2008-17, del Centro interuniversitario di studi e ricerche storico militari. Collabora con il Second World War Research Group del King’s college di Londra. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Fascisti sul mare: la Marina e gli ammiragli di Mussolini (2017) e I sommergibili del fascismo (2014), oltre a numerosi capitoli e articoli in pubblicazioni scientifiche italiane e straniere.
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Università di Genova, fondata nel 1481 e avente la sede principale nel centro storico della città (repubblica.it).
è fatta di uffici, con una biblioteca tematica (che raccoglie circa un migliaio di titoli) e un archivio digitale in cui sono conservate le riproduzioni di migliaia di documenti fotografati nelle missioni di ricerca condotte in archivi italiani — Genova, Venezia, Firenze, Napoli, Palermo, Torino ecc. — e stranieri — Parigi, Simancas, Londra, Marsiglia, Siviglia, Dubrovnik ecc.). Il Laboratorio è un centro di ricerca; un centro di ricerca che non si chiama in questo modo per una scelta di carattere pratico: la normativa accademica configura il Laboratorio come una struttura di ricerca più snella e agile da gestire, sotto il profilo burocratico, rispetto al centro di ricerca. La sua dimensione fisica è un mero riferimento, è la sede della struttura di ricerca, mentre
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la sua reale configurazione materiale è quella del gruppo di ricerca, di docenti, ricercatori, dottorandi e studenti che si occupano di storia marittima e storia navale nelle più svariate declinazioni della disciplina. Si tratta di una realtà recente, che non ha ancora superato il traguardo della decade di vita. Il laboratorio, infatti, è nato nel 2012 grazie all’iniziativa di Luca Lo Basso, oggi professore ordinario di storia moderna dell’Università di Genova, nel 2012 ricercatore nello stesso Ateneo, e di Guido Candiani, oggi ricercatore di storia moderna dell’Università di Padova, nel 2012 ricercatore del CNR (Consiglio nazionale delle ricerche) presso la sede di Genova. In Italia, in ambito accademico, la storia marittima e navale non ha mai goduto di grande fortuna: sono pochi gli studiosi che le hanno dedicato tempo e attenzione, e ancor meno sono quelli che ne hanno fatto il fulcro della loro attività di ricerca e didattica. Non è stato così per Lo Basso e Candiani, sia sotto il profilo della ricerca, con decine di pubblicazioni, sia sotto il profilo della didattica, con Lo Basso che è titolare ormai da diversi anni della cattedra (nel linguaggio burocratico accademico il termine corretto oggi è «insegnamento») di Storia marittima e navale nel corso di Laurea magistrale in Scienze storiche dell’Università di Genova e con Candiani che, da quest’anno, è titolare della cattedra di Storia marittima e navale nel corso di Laurea in Scienze storiche dell’Università di Padova. Candiani è uno studioso della Repubblica di Venezia, Lo Basso principalmente della Repubblica di Genova
Nicola La Banca (a sinistra), Luca Lo Basso (al centro) e Guido Candiani (a destra) durante il Convegno internazionale «L’Italia e il mare dal Medioevo all’età Contemporanea. Controllo politico, economia e società», Università di Siena, Centro interuniversitario di studi e ricerche storicomilitari, Laboratorio di storia marittima e navale - Università di Genova, Siena 22-23 giugno 2018 (NavLab).
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Il NavLab. Laboratorio di storia marittima e navale nell’Università di Genova
(anche se i suoi primi lavori hanno avuto come oggetto la Marina veneziana e quella sabauda). È come se le due antiche realtà marittime italiane, ostili l’una all’altra per secoli, avessero trovato un ideale punto di incontro nel tentativo di dare maggiore vitalità agli studi marittimo-navali nel mondo accademico. Nella loro idea di fondare una struttura di ricerca incentrata sulla storia marittima e navale (ossia sulla storia civile e sulla storia militare del mare, del mare inteso come ambiente sociale, economico e politico) Lo Basso e Candiani hanno voluto dare corpo a una realtà che potesse essere un punto di riferimento generale per tutti coloro che si occupano, a vario titolo, di discipline storiche legate al mare e che potesse essere di stimolo agli studi marittimi, a partire da un nucleo «genovese». Nel 2012, nel progetto iniziale di fondazione del Laboratorio, hanno coinvolto due assegnisti di ricerca liguri: Paolo Calcagno ed Emiliano Beri, allievi, come Lo Basso, di Giovanni Assereto. Oggi il nucleo del NavLab, con Candiani in servizio all’Università di Padova, gravita intorno a Lo Basso, Calcagno (oggi professore associato di storia moderna) e Beri (oggi ricercatore di storia moderna), con Calcagno e Beri che sono stati convertiti da Lo Basso agli studi marittimi — a partire da interessi iniziali in ambito di ricerca che marittimi non erano — e che dedicano ampio spazio alla storia marittima nella didattica dei loro insegnamenti (una menzione la merita, vista la sede di questo articolo, la cattedra di cui Beri è titolare nel corso di Laurea di Scienze storiche dell’ateneo genovese: Storia militare. È un insegnamento che tratta anche di storia navale, con
Paolo Calcagno al Festival del Mare di Genova, 19 maggio 2019 (NavLab).
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Emiliano Beri alla «Journée d’étude FED 4124 Histoire et Archéologie Maritimes, GRAN, SEAS, NavLab Università di Genova». Maison de la Recherche de Sorbonne Université, Parigi, 7 novembre 2019 (NavLab).
un approccio che va ad accostarsi, in forma complementare, a quello adottato da Lo Basso nell’insegnamento di Storia marittima e navale). Il nucleo originale del NavLab, come si intuisce dalla sua genesi, è stato principalmente, per tre quarti, liguregenovese, totalmente, per quattro quarti, modernista, ossia formato da studiosi dell’età moderna. Da questo primo nucleo, però, la proposta portata dal NavLab si è estesa. L’idea di Lo Basso e Candiani è stata quella di dare corpo a una realtà che superasse i limiti fisici e scientifici dell’Ateneo genovese, coinvolgendo studiosi italiani e stranieri e collaborando con strutture di ricerca e pubbliche nelle più svariate forme e accezioni. Questa idea si è tradotta in un’impostazione che emerge già dalla configurazione del suo comitato scientifico del NavLab, formato da molti tra i principali accademici italiani che si occupano, o si sono occupati in tempi recenti, di storia marittima e navale, oltre ad alcuni studiosi stranieri (riconducibili in primo luogo agli studi mediterranei, e al panorama accademico francese e spagnolo). Non solo, il NavLab ha anche una dimensione che va oltre quella del suo nucleo originale e del comitato scientifico: la dimensione degli «associati». È la forma attraverso cui Lo Basso, che dirige il NavLab dal 2012, ha scelto per collegare in una sorta di realtà di ricerca nazionale, e in parte internazionale, una molteplicità di studiosi della materia storico-marittima e storico-navale. È una realtà plurale e priva di vincoli. Mi spiego: chi si associa alla struttura non deve ottemperare a nessun particolare obbligo. L’associarsi è un semplice strumento che permette di costruire
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Il NavLab. Laboratorio di storia marittima e navale nell’Università di Genova
legami di collaborazione, interazione e, in materia di ricerca, didattica e divulgazione. Quella degli associati è una nutritissima squadra di studiosi, accademici e non (alcuni inseriti anche nel comitato scientifico). Gli associati accademici appartengono a una pluralità di atenei italiani, e si occupano dei più svariati rami della disciplina. Ne cito solo alcuni: Walter Panciera, modernista dell’Università di Padova; Elisabetta Tonizzi, contemporaneista dell’Università di Genova; Salvatore Bottari, modernista dell’Università di Messina, Fabio De Ninno, contemporaneista dell’Università di Siena; Antonio Musarra, medievista della Sapienza-Università di Roma; Giampaolo Salice, modernista dell’Università di Cagliari; Claudio Marsilio, modernista dell’Universidade de Lisboa; Massimo Corradi, dell’Università di Genova, storico della scienza e docente di storia delle costruzione navali. Accanto agli accademici troviamo i «non accademici»: studiosi delle più svariate tematiche storico-marittime che non operano, quantomeno stabilmente, all’interno di un ateneo. La presenza dei non-accademici arricchisce il panorama, sia portando competenze scientifiche e tecniche che non di rado gli accademici padroneggiano solo parzialmente, sia coprendo aree tematiche che sfuggono agli studi accademici, sia per questioni di approccio che, più semplicemente, di ristrettezza numerica (pochi studiosi accademici, in Italia, a fronte di una moltitudine di temi da affrontate).
Mi limito ad alcuni esempi: gli archeologi navali e subacquei, come Francesco Tiboni, Renato Gianni Ridella (studioso anche, e soprattutto, di artiglieria cinquecentesca) e Fabrizio Ciacchella; studiose del mondo marittimo ligure e napoletano, come Luciana Gatti e Maria Sirago; studiosi di storia navale dell’Ottocento e del Novecento come Maurizio Brescia, direttore della rivista Storia militare, e Aldo Antonicelli. Lo scopo è quello di avere un approccio che sia, il più possibile, a tutto tondo, attraverso una sinergia di competenze e conoscenze che il NavLab promuove e favorisce, quale punto di riferimento (e, quando necessario, e se richiesto, quale organo di coordinamento), mettendo in contatto, anche e soprattutto a distanza — lontano dal nucleo centrale, fisico, genovese della struttura — tutti gli studiosi, ricercatori e docenti che si occupano di storia marittima e navale. È uno scopo che si manifesta anche nella dimensione, molto attuale, della divulgazione scientifica per mezzo dei social media, con la presenza del Laboratorio su Facebook, attraverso una pagina («Laboratorio di storia marittima e navale - Università di Genova») e un gruppo collegato («Storia militare Scienze Storiche Unige») alla cui amministrazione, e proposta scientifico-divulgativa, collaborano alcuni associati accademici e non accademici — con l’ausilio anche di alcuni collaboratori reclutati, ci si passi il termine, tra le fila degli studenti dell’ateneo genovese — con sinergia di competenze e prospettive.
Fabio De Ninno, assegnista di ricerca e professore a contratto, Università di Siena, ideatore del convegno «L’Italia e il mare», qui alla conferenza «Il Piemonte e la Marina Militare» organizzata dall’ANMI di Torino (NavLab).
Fabrizio Ciacchella durante la «Journée d’étude FED 4124 Histoire et Archéologie Maritimes, GRAN, SEAS, NavLab Università di Genova». Maison de la Recherche de Sorbonne Université, Parigi, 7 novembre 2019 (NavLab).
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Il NavLab. Laboratorio di storia marittima e navale nell’Università di Genova
Alcune delle monografie pubblicate dai membri del Laboratorio, negli ultimi anni (NavLab).
La dimensione della divulgazione al pubblico, della storia marittima e navale, è un’attività a cui, fin dalla sua fondazione, i membri del nucleo centrale del Laboratorio hanno dedicato una costante e intensa attenzione, sia attraverso lo strumento classico delle conferenze, sia aprendo al pubblico i convegni e seminari scientifici. Non che questi siano mai stati eventi chiusi, ma l’intento si è manifestato promuovendo la partecipazione del pubblico, pubblicizzando gli eventi anche fuori dal mondo scientifico. Sulla stessa linea, l’approccio si colloca, da alcuni anni, alla scelta di fa-
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vorire l’accesso degli «uditori» alle lezioni degli insegnamenti universitari tenuti dai docenti del Laboratorio. Un «uditore» è un non iscritto all’università che segue le lezioni degli insegnamenti universitari. Le lezioni universitarie sono pubbliche, ossia anche i non iscritti all’università possono seguirle (in alcuni casi con limitazioni normative imposte dal singolo ateneo). Si tratta di una possibilità per il cittadino e di una possibilità per una struttura, come il NavLab, attenta alla dimensione della divulgazione al pubblico. Il problema si colloca nel fatto che la possibilità sia poco nota ai cittadini; da qui l’intenzione di pubblicizzarla, per diffonderne la conoscenza. La dimensione della divulgazione in cui si muove il nucleo genovese del Laboratorio si è arricchita, negli ultimi anni, di attività rivolte alle scuole, con alcuni incontri tenuti in scuole secondarie e licei, e di un evento organizzato dall’Ateneo genovese, il Festival del Mare. Nel Festival — di cui nel 2020 avrebbe dovuto tenersi la terza edizione, cancellata poi a causa dell’emergenza sanitaria — tutte le anime dell’Università di Genova, che si occupano a vario titolo del mare, propongono alla cittadinanza incontri, laboratori didattici e conferenze. E fra queste anime, quella storica è incarnata nel NavLab. Il Festival del Mare è divenuto, da un biennio, l’espressione divulgativa di una realtà di ricerca interdipartimentale dell’Università di Genova: il Centro del Mare. Nel Centro, un «centro strategico d’Ateneo», tutte quelle anime dell’Università che si occupano di mare, già coinvolte nel Festival, si trovano a contatto, collaborando allo sviluppo di progetti di ricerca e collaborazioni internazionali e nazionali, scientifiche e produttive. E anche nel Centro del
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Mare la componente deputata alla storia e alla cultura del mare è il NavLab. Peraltro, già in tempi precedenti alla nascita del Centro del Mare, il NavLab ha collaborato, a livello divulgativo, con altre realtà dell’Ateneo genovese che si occupano di mare, per esempio sviluppando, in sinergia con l’Orto Botanico Hanbury (Dipartimento di scienze dell’ambiente, della terra e della vita), un progetto laboratoriale e un ciclo di conferenze per l’edizione 2017 del Festival della Scienza. Citando il Centro del Mare, il discorso si sposta dalla dimensione della divulgazione a quella della ricerca e della formazione, e in particolare dell’attività di ricerca e formazione del nucleo centrale del NavLab, che prende forma attraverso gli insegnamenti tenuti dai docenti del Laboratorio nel corso di Laurea in Scienze storiche dell’Università di Genova e attraverso la presenza di due di essi nel collegio docenti del corso di dottorato in Studio e valorizzazione del patrimonio storico, artistico-architettonico e ambientale. All’interno di questo dottorato è attivo un curriculum in «Storia» diviso in cinque indirizzi, tra questi, quello di Storia moderna, ha nel NavLab un suo punto di riferimento per quanto riguarda il percorso di ricerca e formazione. Dal 2012 sono stati almeno una decina i dottorandi che hanno svolto un percorso di ricerca specifico su tematiche di storia marittima e navale, entrando nel novero dei membri del NavLab come studiosi formati specificatamente nella storia marittima e navale dell’età moderna. Non solo, i membri del NavLab si sono più volte messi a disposizione di dottorandi e ricercatori di altri atenei che, occupandosi di temi marittimi e navali, avevano necessità di quei contatti e di quelle interazioni che stimolano e arricchiscono lo studio e l’attività di ricerca. In aggiunta, il NavLab è presente anche nel panorama editoriale, promuovendo e contribuendo a finanziare la pubblicazione di ricerche attraverso la collana «Biblioteca del Laboratorio di storia marittima e navale» della casa editrice Città del silenzio (Novi Ligure), e attraverso la direzione della collana «Studi storici marittimi» della casa editrice New Digital Frontiers (Palermo). Per quanto concerne la dimensione della ricerca, la particolare attenzione del nucleo genovese del Laboratorio alla collaborazione nazionale e internazionale, si è manifestata negli anni attraverso la partecipazione a progetti di ricerca italiani ed europei. Due PRIN (Progetti di
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ricerca di elevato interesse nazionale) coordinati dall’Università di Milano sul controllo del territorio e le forze di sicurezza e di polizia, in cui i ricercatori del NavLab si sono occupati di controllo del mare e sicurezza marittima, diventando il braccio marittimo del già Centro interuniversitario di studi «Le polizie e il controllo del territorio», oggi Centri di studi, diretto da Livio Antonielli; un FIRB (Fondo per gli investimenti della ricerca di base, progetto italiano finanziato con fondi europei sulle frontiere mediterranee), coordinato da Valentina Favarò, dell’Università di Palermo. In ultimo, un progetto ERC (European Research Council) Starting Grant, Seafaring Lives in Transition, Mediterranean Maritime Labour and Shipping 1850s-1920s coordinato da Apostolo Delis dell’Institute of Mediterranean Studies of FORTH (Heraklion) che ha coinvolto atenei e centri di ricerca di Grecia, Spagna, Francia e Italia (con NavLab referente, come unità di ricerca, per l’Italia). È una dimensione, quella della collaborazione nazionale e internazionale con atenei, strutture di ricerca e istituzioni pubbliche, che il NavLab persegue con la massima apertura (possibile nel limite delle risorse, umane in primo luogo, disponibili), e che ha portato, oltre alla realizzazione dei progetti di ricerca di cui sopra, alla stipula di convenzioni di collaborazione che coinvolgono l’IRCRES-CNR di Torino-Genova, ISSM-CNR di Napoli, l’Archives du Palais Princier de Monaco, l’Università «G. D’Annunzio» Chieti-Pescara, il CHAM di Lisbona e il Laboratoire histoire des économies et des sociétés méditerranéennes de la Faculté des Sciences Humaines et Sociales des Tunis. Non solo, uno stimolante filone di interazione è nato, recentemente, con la Marina Militare, attraverso la collaborazione col Museo tecnico-navale della Spezia, grazie anche e soprattutto all’attività estremante propositiva del suo direttore, capitano di vascello Leonardo Merlini. A fronte di tante e variegate collaborazioni a tutt’oggi manca un’interazione tra il NavLab e il Galata Museo del Mare di Genova, nonostante i tentativi fatti in alcune occasioni da parte della direzione del Laboratorio. Sotto il profilo della collaborazione nazionale, e della presenza del NavLab sul panorama scientifico europeo, una delle iniziative di maggior spessore, e meglio riuscita, è stato il convegno internazionale
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Marina Miliare, nella persona dell’allora capo dell’Ufficio, Leonardo Merlini, nei saluti introduttivi. La novità rappresentata dall’iniziativa e l’apprezzamento ricevuto dal pubblico degli studiosi è stata sottolineata dall’accorrere di un numeroso pubblico di uditori non iscritti a parlare, ma che hanno comunque partecipato ai lavori, arricchendo la discussione con i loro contributi. Il convegno ha consentito di costatare i punti di forza e le debolezze correnti della storia marittima e navale italiana. Il Locandina del Convegno «L'Italia e il mare. Dal Medioevo all'età contemporanea», tenutosi a Siena il 22-23 lavoro degli studiosi presenti, giugno 2018. così come il laboratorio in generale, ha evidenziato la capacità di apertura internazionale e innovazione tematica «L’Italia e il mare dal Medioevo all’Età Contemporadella ricerca italiana. Al tempo stesso è emerso un certo nea. Controllo politico, economia e società», nato da sbilanciamento verso il periodo moderno e aspetto un’idea di Fabio De Ninno, col coinvolgimento di Anancor più rilevante le difficoltà di strutturare la storia tonio Musarra ed Emiliano Beri. Il progetto del conmarittima e navale nell’ambito dell’università. Tale vegno è stato sviluppato in collaborazione con il problematica è in parte conseguenza della scarsa coorCentro interuniversitario di studi e ricerche storicodinazione tra le istituzioni del mare e il mondo univermilitari (CISRSM), diretto da Nicola Labanca e con sitario, come abbiamo sottolineato nel caso del Museo sede all’Università di Siena, ma che raccoglie alcuni di Galata, in opposizione a un modello collaborativo dei principali atenei italiani (Università di Torino, che costituisce un sistema consolidato di relazioni in Pisa, Padova, Pavia, Milano Cattolica, Siena, Milano altri paesi come Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia. Statale, Modena-Reggio Emilia, Bologna-Ravenna, Sarebbe auspicabile che iniziative di questo tipo posRoma La Sapienza, Roma Tre). sano trovare continuità nel tempo. L’idea alla base del convegno era quella di fare il punto In conclusione, sia la recente attività del NavLab, sia sulla storiografia navale e marittima italiana, coinvoll’iniziativa del convegno sull’Italia e il mare evidenziano, gendo soprattutto i giovani studiosi. L’iniziativa si è infatti, che il capitale umano della storia marittima e nasvolta a Siena il 22-23 giugno 2018, con quattro sezioni: vale italiana è vario, ricco e capace di attirare l’interesse una introduttiva, sullo stato dell’arte storiografica e le della ricerca internazionale e potrebbe essere facilmente altre tre dedicate rispettivamente alla storia medievale, potenziato per arricchire le nostre conoscenze su questo moderna e contemporanea. Al convegno hanno parteciaspetto della storia nazionale. A mancare, purtroppo, sono pato studiosi provenienti anche da altri paesi, permetstrutture e fondi. Il tutto è parte del problema più generale tendo di raccogliere per la prima volta, dopo molto del sottofinanziamento dell’università italiana, ma anche tempo, il panorama nazionale dei ricercatori accademici del frazionamento delle iniziative di ricerca, divulgazione di storia marittima e navale in un solo luogo. Il convegno e pubblicazione. ha visto la partecipazione anche dell’Ufficio Storico della 8 40
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e riservatezza”, spiega Paolo Storti, amministratore delegato di Zextras.
Informazioni e dati: la sicurezza innanzitutto M.E. Virga intervista Paolo Storti, amministratore delegato di Zextras
Zextras è nata in Italia nel 2010 e si occupa di produrre, in Italia, e commercializzare, in tutto il mondo, una suite per la posta elettronica e collaborazione, Zextras Suite che estende, nello specifico, Zimbra Open Source. Zextras sviluppa tutte le funzionalità enterprise che si aggiungono alla gestione di posta elettronica (posta, calendario, rubrica, attività) e all’antivirus o antispam con dei componenti collaborativi, come l’editing online o i drive per la gestione dei file “cross device”, chat e videochat. Il tutto è reso disponibile sia attraverso le interfacce web native sia attraverso App mobile native. Si tratta quindi di una suite di collaborazione omnicomprensiva. La società ha diverse sedi nel mondo, tra cui le principali, per dimensione, sono in Italia, in Francia, in Sudamerica, India e Russia. “Il prodotto è particolarmente adatto a gestire il private cloud, dove c’è una maggiore necessità di controllo
Quali sono i vostri clienti principali, in Italia e all’estero? “Uno dei mercati principali in Italia per noi è la Pubblica Amministrazione, sia centrale che locale: la nostra soluzione è qualificata AgID (Agenzia per l'Italia digitale) e ad oggi il prodotto è utilizzato da oltre 500 enti in ambito sanitario o tra Regioni e Comuni capoluogo. Alla Difesa, invece, dal 2016 Zextras è presente in due diverse configurazioni: il comando per le operazioni in rete, reparto C4, utilizza Zextras come compente accessorio del prodotto base open source Zimbra per circa 40mila utenti, attraverso un’infrastruttura privata; invece l’Esercito ha un installato di circa 180mila utenti e utilizza il prodotto sotto il marchio Zimbra (per la quale siamo fornitori della tecnologia a licenza). Zextras è, nel circa 50% dei casi, installato negli enti governativi e tra questi una parte significativa è rappresentata dai corpi legati al mondo della sicurezza. Hanno scelto questo prodotto anche anche ministeri e corpi americani, sudamericani, asiatici”. Parlando di sicurezza, quali sono i vantaggi principali che offrite? “Innanzitutto il nostro prodotto è basato su codici open source, offrendo garanzie di sicurezza e controllo; in secondo luogo, permette una gestione avanzata dello storage, che può essere spostato, modificato o ampliato, sempre mantenendo il servizio attivo. I nostri clienti richiedono una disponibilità elevata di dati da salvare e non possono permettersi nessun tipo di blackout. La nostra soluzione, tra l’altro, ha una caratteristica unica: la “georidondanza” viene effettuata in tempo reale. Ad ogni modifica del dato se ne salvano immediatamente una o più copie in uno o più sistemi di back up. Essendo una realtà italiana, i nostri sistemi sono nativamente compatibili col GDPR, il regolamento generale sulla protezione dei dati dell'Unione Europea. La nostra soluzione non nasce come servizio in public cloud, ma come soluzione da
installare presso il cliente (o di partner locali) all’interno di private cloud, che quindi siano assoggettati a normative e classificazioni nazionali”. A livello di soddisfazione dei clienti, quali ritorni avete ottenuto? “Abbiamo un tasso di rinnovi delle licenze del 96% anno su anno, a livello mondiale. Con l’Esercito e col reparto C4 abbiamo un accordo valevole fino al 2023. Nel mondo l’assistenza viene erogata da partner locali certificati. In Italia abbiamo un network di sei partner qualificati PA. Studio Storti è il principale per la pubblica amministrazione, in quanto è l’unico, tra questi, a disporre della qualifica AgID per il servizio SAAS. Ogni Paese nel mondo ha un suo gruppo di partner per quanto riguarda il servizio di assistenza e altri partner per la parte di cloud. Per citare un esempio europeo, in Francia è usato per tutte le università francesi tramite una sola azienda capofila. In Italia a volte, invece, manca una cultura sull’open source, sulle normative in merito alla protezione dei dati e le certificazioni informatiche. Per questo motivo io e altri colleghi proponiamo periodicamente incontri formativi per promuoverne la conoscenza così come siamo stati promotori, fin dalla nascita, del Cad, il Codice dell'Amministrazione Digitale, del 2005”. Quali sono i vostri progetti per il futuro? “La crescita per noi è fondamentale: recentemente in C4 sono state aggiunte alcune funzionalità per l’integrazione specifica con la loro parte di workflow sulla gestione documentale e sono state iniziate attività di implementazione per poter disporre di chat e videochat di gruppo riservate. Inoltre abbiamo iniziato l’integrazione dello storage nativo con la parte di gestione documentale. Per il futuro prevedo un aumento della quantità di informazioni veicolate attraverso strumento privato, che garantisca la riservatezza del dato e la sua sicurezza fino ad averne una gestione diretta da parte dell’ente”
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PRIMO PIANO
Istruzione e formazione dell’ufficiale della Marina mercantile: evoluzione dell’ordinamento
Giuseppe Piazza (*)
(*) Docente di Scienza della navigazione, struttura e costruzione del mezzo navale presso ITTL «M. Colonna» di Roma. Collabora con la Rivista Marittima dal 2003.
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Istruzione e formazione dal Basso Medioevo alla scoperta dell’America Sin dall’inizio dell’età medievale l’istruzione fu affidata principalmente alla Chiesa, mentre l’arte della navigazione si apprendeva con la «pratica salmastra», ovvero, con l’esperienza personale diretta in mare. Gli allievi erano, in genere, gente nata nei paesi costieri, abituata alla visione del mare e delle navi fin dalla nascita, nutrita nell’ambiente dalle esperienze, dai racconti, dall’esempio dei famigliari e degli amici, che sul mare passavano la loro vita. Quasi sempre si trattava di ragazzi analfabeti, ma animati da un forte spirito d’avventura. Il pivetto (dal genovese pivettu, ragazzo) imbarcato per la prima volta senza «pratica salmastra», era sconvolto nella giungla del cordame e dell’attrezzatura marinaresca. «I giovani, imbarcati alle soglie dell’adolescenza per seguire l’esempio del padre o sopperire ai bisogni di una famiglia numerosa, rischiavano una precoce perversione trovandosi brutalmente iniziati agli aspetti più crudi dell’esistenza. E se sulle piccole imbarcazioni, in un ambiente familiare o quanto meno noto, erano in qualche misura salvaguardati, sulle grandi navi, i rapporti che si instauravano rischiavano di traviarli» (1). Per i ragazzi era normale iniziare la futura carriera di ufficiali all’età di nove o dieci anni, direttamente a bordo di una nave. Molti esperti ritenevano che fosse
Aula del Regio Istituto Nautico «Tomaso di Savoia Duca di Genova», Trieste (fototeca dei Civici musei, Trieste).
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«Il neofito del mare imparava a bordo: dallo scrivano, a saper leggere e scrivere e far di conto; dal nostromo, l’arte marinaresca; dal pilota (che corrispondeva all’ufficiale di rotta dei nostri giorni), l’arte della navigazione; dal comandante, la gestione e l’organizzazione della nave e del suo equipaggio» (Fonte immagine: Capitan Maltempo di Mario Cupisti, 1957).
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ormai troppo tardi se un ragazzo si fosse imbarcato all’età di quattordici anni, perché doveva «farsi il piede marino», vincere il mal di mare, imparare l’arte marinaresca, arrampicarsi sugli alberi, ecc. Per capire un veliero bisognava lavorare con le proprie mani, in altre parole: la pratica in mare era l’unica scuola per apprendere il mestiere. Il neofito del mare imparava a bordo: dallo scrivano, a saper leggere e scrivere e far di conto; dal nostromo, l’arte marinaresca; dal pilota (che corrispondeva all’ufficiale di rotta dei nostri giorni), l’arte della navigazione; dal comandante, la gestione e l’organizzazione della nave e del suo equipaggio. L’uomo di mare si formava in una scuola severa, ma che aveva un fascino irresistibile: la scuola della nave in mare. Gestire un legno era un’impresa complessa e richiedeva la costante attenzione e il lavoro di tutte le mani, ovvero di tutto l’equipaggio. La formazione e le mansioni erano diverse rispetto a quelle dei nostri tempi, dove si richiede una mente scientifica; mentre nelle unità dell’epoca si richiedeva l’abilità di un artigiano. Solo le persone che iniziavano il loro apprendistato in tenera età potevano avere la speranza di padroneggiare il legno. Era l’armatore o il proprietario del legno che, scegliendo fra gli elementi più validi, nominava il capitano, persona di sua assoluta fiducia. Il capitano sommava in sé tutte le conoscenze e le abilità dell’equipaggio. Tra il X e il XIII secolo iniziarono a rinascere le prime corporazioni di arti e mestieri, che favorirono la ripresa economica e con essa la conseguente specializzazione di commercianti e naviganti, rafforzando la prosperità di quattro città portuali: Amalfi, Pisa, Genova e Venezia. Per una crescita del commercio via mare era fondamentale lo sviluppo di scuole che avrebbero favorito un miglioramento delle tecniche di navigazione e di costruzione dei navigli. L’invenzione della bussola (fino ai nostri giorni sempre rimasta fedele e insostituibile presenza a bordo di ogni nave), la redazione dei portolani e soprattutto della neonata cartografia nautica, permisero di tracciare rotte, praticare la navigazione stimata e determinare il punto nave costiero. L’introduzione di nuove tecniche per navigare ebbe conse-
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guenze significative anche sull’evoluzione del sistema scolastico. Sul piano del sistema scolastico, parallelamente al circuito ecclesiastico, incentrato principalmente sulle scuole monastiche prima e poi su quelle affidate agli ordini dei Benedettini e dei Predicatori (Domenicani), iniziarono a sorgere anche le scuole «laiche», gestite sia da entità private che poi da quelle degli stessi Comuni. Si pensi per esempio alla nascita dell’Università a Bologna, nel 1100 circa, con Irnerio. In tali contesti «laici», ovvero centri di istruzione non religiosi, i futuri naviganti potevano apprendere i rudimenti di scrittura e lettura, basandosi esclusivamente sull’apprendimento a memoria. Queste necessità portarono a una vera e propria rivoluzione nell’ambito della scuola, con la nascita della figura dell’insegnante professionista. Durante il XIII secolo iniziano a diffondersi le scuole laiche secondarie, rivolte agli alunni che già sapevano leggere o scrivere. Queste scuole non erano organizzate come quelle odierne. Non si sostenevano esami e il livello dell’insegnamento era tutt’altro che uniforme, in quanto dipendeva sostanzialmente dalla preparazione e bravura del maestro. Fino alla scoperta dell’America, la professione di marittimo era essenzialmente un’occupazione in cui la performance dipendeva fortemente dall’esperienza, ovvero dalla «pratica salmastra». I giovani sopravvissuti al calvario dell’iniziazione marinara progredivano nella gerarchia di bordo. La vetta della gerarchia di bordo bisognava conquistarla affrontando il mare e il vento, dove la resistenza fisica e psicologica erano importanti. «I piloti … molti erano analfabeti e sapevano consultare soltanto carte nautiche estremamente semplificate, su cui erano tracciati porti e linee costiere familiari, mentre per tutto ciò che riguardava venti e correnti si affidavano all’istinto» (2). La stima della posizione della nave era effettuata in base agli elementi empirici (dead reckoning). All’apertura degli oceani, i metodi di navigazione sviluppati prima della scoperta dell’America risultarono inadeguati per navigare. In mancanza di punti di riferimento terrestri, l’attenzione si spostava al sole e alle stelle, unico mezzo per orientarsi nella vastità dell’oceano. «Il marinaio medioevale aveva fatto fino ad allora
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assegnamento sulla bussola e sulla carta nautica, sul punto rilevato e sui sondaggi. Ora il pilota doveva sapere come eseguire un’osservazione astronomica, doveva trovare l’altura, come era chiamata (propriamente la latitudine), e doveva conoscere l’altura di ciascun porto di scalo» (3). L’arte di navigare, che va ormai evolvendosi, esige equipaggi sempre più esperti. Gli armatori dei legni arruolavano solo marittimi addestrati e ufficiali preparati per affrontare le lunghe traversate oceaniche. Fu proprio questa enorme domanda di naviganti qualificati che portò alla nascita di scuole nautiche, inizialmente private, prima dell’evoluzione delle disposizioni statali. Le lezioni di navigazione, tenute da cosmografi, integreranno la formazione empirica di esperti marinai. I piloti verranno addestrati all’uso di strumenti di misurazione angolare d’invenzione araba (astrolabio nautico, ecc.).
Innovazione della navigazione dal XV agli inizi del XIX secolo
Erano stati avanzati e testati numerosi sistemi per il calcolo della longitudine, dall’ingegno di Galileo, Newton, William Gilbert, Christiaan Huygens e Edmund Halley, ma non furono mai considerate pienamente soddisfacenti. Solo con un orologio regolato sul tempo del meridiano di riferimento si poteva determinare: il tempo locale di astro osservato rispetto alla longitudine dell’osservatore. John Harrison, nel 1761, finalmente riuscì nell’impresa, costruendo un orologio marino che permise di determinare con precisione la longitudine in alto mare, dando così un decisivo apporto allo sviluppo della navigazione. Da questo momento, per circa un secolo, con osservazioni separate si determinò la latitudine e la longitudine. La vera e propria navigazione astronomica è quindi cominciata solo verso la fine del ‘700. Ecco, dunque, la necessità di un’istruzione nautica articolata con insegnamenti impartiti da insegnanti di varie discipline, da quelle necessarie a una prima alfabetizzazione a quelle matematiche e nautiche. Gli istruttori di navigazione cominciarono a insegnare a navigare con la carta di Mercatore. La caratteristica principale della carta di Mercatore era che, a differenza della carta piana, forniva giuste direzioni o linee di rombi fra due punti qualsiasi e la rotta della nave poteva essere trovata col porre una riga sulla carta. In un’Italia divisa nell’assetto territoriale e politico,
Nel XV secolo i piloti erano in grado di calcolare con una certa approssimazione la latitudine, soltanto misurando l’altezza della stella polare. Il calcolo della latitudine meridiana, osservando la culminazione del sole, fu introdotto posteriormente, quando furono calcolate e messe in circolazione le effemeridi che ne davano la declinazione, mentre la longitudine veniva semplicemente stimata. Considerato che a quei tempi non si conoscevano nemmeno i mezzi per determinare il cammino di una nave (il solcometro a barchetta risale al XVI secolo), è facile comprendere la difficoltà della navigazione. La diffusione della stampa a caratteri mobili, permetterà di stampare le effemeridi (4), che forniranno le coordinate astronomiche del sole e della stella polare e, con un calcolo semplice, si era in grado di stabilire la latitudine cui ci si trovava, osservando di giorno l’altezza meridiana del sole e, di notte, quella della stella polare. Il pilota poteva determinare in quale punto di un meridiano nord-sud si trovasse la nave, ma non quanto a est o a ovest, ov- Convitto prima camerata - Regio Istituto Nautico “Gioeni Trabia” di Palermo, primi del Novecento (Ing. Andrea Tommaselli). vero, la longitudine.
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in larga misura dipendente dalle grandi potenze europee, la nostra penisola e le isole attraversarono un periodo di grave e progressiva decadenza economica. Mentre veneziani e turchi confliggevano nel Mediterraneo, i confini del mondo si allargavano rapidamente e il suo baricentro si spostava nell’Atlantico. La scoperta dell’America aveva ormai spostato il centro del commercio internazionale dal mar Mediterraneo all’oceano Atlantico. I porti italiani persero la loro importanza a beneficio di quelli collocati sull’Atlantico. In questo periodo i vari stati soffriranno dalla carenza di navi e faranno fatica a organizzare un’efficiente istruzione nautica. Dominano le flotte straniere e il naviglio della nostra penisola e delle isole è in prevalenza obsoleto, di conseguenza le scuole nautiche erano più che arretrate. Nel 1837, dal comandante Thomas Sumner, fu introdotto il concetto della retta d’altezza, la sua teoria fu successivamente messa a punto dal comandante Saint- Hilaire della Marina francese, ideatore del metodo per il tracciamento della retta che porta il suo nome. Sono note a tutti gli studiosi di nautica le circostanze che condussero il capitano T. Sumner alla scoperta del metodo per la determinazione di un luogo geometrico della nave con una altezza di sole. I metodi di risoluzione del triangolo di posizione per determinare il punto nave (fix), richiesero, nelle scuole nautiche, uno specifico insegnamento dell’astronomia nautica impartito da un esperto professore.
pegno di provvedere allo stipendio del Maestro, un insegnamento di nautica. Più tardi (sec. XVII) troviamo tra gli insegnamenti impartiti dalla Accademia del Collegio dei Nobili alla Giudecca (fondato nel 1619) quello di scienza della navigazione» (5). «L’odierno Istituto Nautico di Napoli trae origine dal Collegio di S. Giuseppe a Chiaia, sorto nel 1623 per opera del notaio Giulio Cesare Guadagno» (6). «La fondazione dell’Istituto Nautico di Trieste risale all’anno 1754, nel quale al padre Francesco Saverio Orlando della Compagnia di Gesù, venne affidato l’incarico di stabilire i programmi e di curare l’istituzione di una scuola che servisse all’educazione dei Capitani e Scrivani della Marina mercantile» (7). Livorno, notevolmente sviluppatasi dalla seconda metà del XVI secolo, fu importante porto franco. «Il granduca Pietro Leopoldo di Toscana nel 1766 fondò a Livorno una Scuola nautica, il cui insegnamento si svolgeva in parte a terra (lingua francese, lingua inglese, matematica e idrografia), ed in parte a bordo di una nave dello Stato, ove i giovani apprendevano ed
Istituzioni del mare prima dell’unità d’Italia Dal XIV secolo la situazione era ormai consolidata: le scuole nautiche laiche potevano essere comunali o private. Dal punto di vista didattico il vero pilastro era l’oralità. I testi di navigazione erano pochi e costosissimi e, l’apprendimento, mnemonico. Tale uso divenne sempre più comune quando anche gli strumenti didattici si perfezionarono e l’invenzione della stampa a caratteri mobili portò a una graduale diffusione dei libri di testo. Nel XV secolo, Venezia era il centro del commercio mondiale e la maggiore città portuale del mondo. «Fin dal 1573, con permesso del Consiglio dei Dieci, venne istituito in Venezia, presso la Scuola detta di S. NicoloÌ dè Marinai, la quale si era assunto l’im-
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Copertina del volume L’istruzione nautica in Italia, del ministero dell’Educazione nazionale (1931).
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erano esercitati nella nautica d’altura, nel pilotaggio e nella manovra navale» (8). La penisola sorrentina ha una lunga tradizione, almeno di tre secoli, come dimostrano gli armatori sorrentini (Cafiero, Ciampa, Maresca, Lauro, Aponte, ecc.) e le antichissime scuole nautiche, che continuano a preparare valenti professionisti del mare (comandante Gennaro Arma, ecc.). «Tre Scuole nautiche erano istituite rispettivamente a Meta, Carotto o Piano, e Alberi; le due prime esistevano in epoca assai remota, ma ebbero indirizzo nautico nel 1875; la terza venne fondata nel 1786 dalla famiglia Ruggeri» (9). Dal 1840, con gli armatori Florio, le vie del mare, si aprono ai palermitani. «In Palermo fu aperto, nel 1789, un Collegio-Convitto per la istruzione nautica fondato l’anno prima da monsignor Giuseppe Gioeni dei duchi d’Angiò» (10). Genova è regina dei mari italiani dai tempi della gloriosa Repubblica marinara di Genova ed è rimasta tale. «La Scuola di Genova venne istituita il 13 gennaio 1827 e il suo ordinamento rimonta al 12 dicembre 1840» (11). Camogli vive un’epoca di forte espansione e di decollo della sua marineria durante il periodo napoleonico. La prima scuola di Marina, che preparava i giovani al titolo di «patronus», sorse in Camogli nel 1780. «I camogliesi dettero in ogni tempo armatori ardimentosi, pionieri nel Nuovo Mondo, Capitani e Scrivani abilissimi, intrepidi equipaggi molto ricercati. Non vi fu parte del mondo ove non si recassero velieri camogliesi, comandati ed equipaggiati da Capitani e marinai camogliesi» (12).
Istruzione e formazione nel Regno d’Italia Le politiche scolastiche intraprese dal governo furono indirizzate soprattutto a formare gli italiani. Il problema immediato era la formazione di una coscienza nazionale, affinché l’Italia non fosse più una semplice «espressione geografica», ma una nazione e uno Stato modernamente organizzato. «L’insegnamento nautico in Italia sugli albori del nuovo Regno doveva necessariamente risentire della diversità degli ordinamenti in vigore presso i vari Stati, che man mano entravano a far parte del Regno d’Italia» (13).
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Il paese neo-unificato ereditava, dunque, dai vari Stati italiani, una situazione estremamente differenziata sia dal punto di vista delle strutture scolastiche sia dal punto di vista legislativo. Nel contempo comincia a diffondersi la navigazione delle navi a vapore, utilizzate però molto tardi nella Marina mercantile italiana. Dalla fine del XIX secolo all’inizio del XX, l’elica e il suo motore iniziavano ad avere il monopolio del mare, i velieri andavano in disarmo e con essi tramontavano i loro marinai. L’era della nave a vela si chiuse molto rapidamente, dopo neppure tre secoli, durante i quali la nave aveva cambiato il volto del mondo e i destini dell’umanità. L’Italia è «colta nella sua difficile transizione dalla vela al vapore, (…) segnata da un deficit non di esperienza vissuta di vita sul mare, ma di conoscenze tecniche, professionali, moderne» (14). L’inizio di una politica scolastica nel nuovo Stato unitario italiano è legato alla riforma del ministro Casati, che costituirà il perno del sistema scolastico italiano fino alla riforma Gentile (1923). Fin dal 1866, l’istruzione nautica riguardante la formazione degli ufficiali della Marina mercantile, ebbe una sommaria sistemazione, che subì, nel corso degli anni, notevoli varianti negli ordinamenti, allo scopo di porre la preparazione degli allievi all’altezza richiesta dall’evoluzione e dal progresso dei tempi. Perciò occorrevano macchinisti per le nuove navi a vapore e per i brigantini mercantili che solcavano gli oceani. Nel 1873 (con R.D.) ha luogo un passaggio importante nella legislazione scolastica poiché si stabilisce la chiara distinzione tra le sezioni per capitani, macchinisti e costruttori. Per i capitani di gran cabotaggio sono previste scuole nautiche biennali, per quelli di lungo corso, istituti nautici triennali. Per i macchinisti vengono avviate scuole speciali di macchine a vapore, della durata di due o quattro anni, a seconda del grado da conseguire; analogamente si predispongono scuole speciali di costruzione navale per i corsi biennali o triennali disposti per le due classi dei costruttori navali. La fine del Mediterraneo e poi l’ascesa di una monarchia montanara come i Savoia, sembrano far tramontare la tradizione marinaresca. Il confronto con la situazione di altri Stati europei conferma il quadro di
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Studenti dell’ITTL «Duca degli Abruzzi» di Catania durante un’attività formativa e addestrativa (PCTO) - (prof.ssa C. Rapisarda).
un pesante ritardo dell’Italia. Un Paese arretrato ma non immobile. A riaprire la tradizione marinaresca saranno, nel 1881, i palermitani Florio e il genovese Rubattino, fondendo le loro flotte formeranno l’imponente «Navigazione Generale Italiana», la grande compagnia avrebbe dominato per oltre quarant’anni le rotte commerciali e postali del Mediterraneo con collegamenti verso l’America e oltre Suez. Con la «Navigazione Generale Italiana» si registrò una prima piccola ripresa della flotta mercantile e uno dei problemi centrali del nuovo Stato unitario fu quello di dare vigore alla Marina mercantile, istituendo istituti (scuole) per formare comandanti e direttori di macchina (per il personale non graduato non erano previsti percorsi scolastici). L’incremento della lunga navigazione rispetto a quella costiera, l’aumento di stazza dei mercantili e la nuova propulsione richiedono una diversa formazione dei capitani, dei macchinisti e dei costruttori. Nel 1891 (con R.D.) si stabilì che la formazione scolastica per capitani, macchinisti e costruttori abbia luogo nell’Istituto Nautico, che comprende le tre corrispondenti sezioni. Ognuna di esse aveva due corsi: biennale per capitani di gran cabotaggio, macchinisti e costruttori navali di seconda classe; triennale per capitani di lungo corso, macchinisti e costruttori navali di prima classe.
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L’insegnamento si completava con una crociera nautica d’istruzione. La soluzione quasi integrale del complesso problema si ebbe nel 1917 (con R.D.) col passaggio degli Istituti nautici dalla dipendenza del ministero della Pubblica istruzione al ministero della Marina. Furono anni di grande attività addestrativa, nelle scuole, a bordo е a terra. «Il problema scolastico è visto immediatamente come un problema nazionale, non solo per esigenze militari legate alla congiuntura bellica, ma più in generale in un contesto economico e politico internazionale» (15). Con tale passaggio gli Istituti nautici, acquistarono in pieno la dignità di «valide» scuole medie superiori. Veniva così sconfitto il dannoso archetipo secondo il quale «la migliore scuola del mare è solo il mare». Gli istituti nautici passati alla Marina erano 19: Ancona, Bari, Cagliari, Camogli, Catania, Chioggia, Elena (Borgo di Gaeta), Genova, Livorno, Messina, Napoli, Palermo, Piano di Sorrento, Porto Maurizio, Procida, Riposto, Savona, Trapani e Venezia. Nel 1919 (con R.D.) fu istituito un ventesimo Istituto Nautico a Ortona a Mare. Nel 1923 (con R.D.) furono soppressi ben sei Istituti nautici: Chioggia, Ortona a Mare, Porto Maurizio, Procida, Riposto e Trapani. Nel 1928 (con R.D.) tre Istituti nautici passano alla Marina: Trieste, Fiume e Lussinpiccolo. Nel 1929 (con R.D.) gli Istituti Nautici dalla dipendenza del mi-
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Copertina del volume In vela sull’oceano, di Flavio Serafini (1986).
nistero della Marina tornano sotto la giurisdizione del ministero della Pubblica istruzione, all’epoca divenuto ministero dell’Educazione nazionale. Nel 1931 (con R.D.) i Regi Istituti nautici furono trasformati in Regi Istituti tecnici nautici. Nel 1931 venne acquistata dal Governo italiano una goletta a cinque alberi o schooner Susanne Vinnen (costruita come nave mercantile nel 1922 dai cantieri Friedrich Krupp Germaniawerft a Kiel) che la impiegò come nave scuola per la Marina mercantile ribattezzandola Patria. La nave fu gestita commercialmente e in tal modo si poté compensare, con i noli, una parte delle forti spese che tale tipo di nave richiede. Nel 1936 (con R.D.) il consorzio delle scuole professionali per la maestranza marittima, istituito nel 1920 (con R.D.) cambiò denominazione in Ente nazionale per l’educazione marinara (ENEM). Le scuole impartivano l’insegnamento attraverso un corso triennale di studi comprendendo le sezioni di nautica, motoristi navali e carpentieri per maestri d’Ascia: padroni marittimi per condotta nel Mediterraneo, delle navi fino a 700 tonnellate di stazza lorda; motorista navale di I e II classe, per la condotta di motori a combustione interna fino a 200 HP.
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Il Regio Istituto Tecnico Nautico «M. Colonna» nacque nel 1937 per volere del governo dell’epoca, che volle così affermare la vocazione marinara dell’Italia, creando un Istituto Tecnico Nautico a Roma. La scuola fu dedicata all’ammiraglio della flotta pontificia, Marcantonio Colonna, che fu vittorioso nella battaglia di Lepanto del 1571. La solida preparazione culturale e professionale dei giovani diplomati ebbe la più eloquente prova durante
Scambio di crest tra il Comandante generale del Corpo delle capitanerie di porto-Guardia costiera, ammiraglio (CP) Giovanni Pettorino (ex allievo dell’ITN «M. Colonna») e il Dirigente scolastico dell’ITTL «M.Colonna» di Roma, prof. Stefano Guerra, in occasione dell’ottantesimo anniversario dell’Istituto Nautico «M.Colonna» (prof. Paolo Glave).
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Nautico «Caio Duilio» di Messina); Luigi Durand de la Penne (R. Istituto Nautico «S. Giorgio» di Genova); Agostino Straulino (R. Istituto Nautico «Nazario Sauro» di Lussinpiccolo).
Istruzione e formazione nell’Italia repubblicana
Aula di Arte Navale. Regio Istituto Nautico «S.Giorgio» di Genova (archivio prof. Giuseppe Savà).
i due conflitti mondiali, in cui gli ufficiali di complemento assolsero con competenza e abilità il loro dovere verso la Patria. Richiamiamo alla memoria: Luigi Rizzo (R. Istituto
Nei primi anni del dopoguerra vennero inizialmente recuperate e ripristinate navi affondate nei bacini portuali e sotto costa. Gli armatori italiani acquistarono dagli Stati Uniti navi da trasporto del tipo «Liberty». Successivamente, al risveglio economico, gli armatori italiani diventano i principali protagonisti dello shipping mondiale. Dal dopoguerra ai nostri giorni c’è stato un salto tecnologico di vasta portata. L’avvento del GPS (Global Positioning System) ha comportato una rivoluzione della navigazione, la portata della quale è paragonabile storicamente solo alla comparsa della cugina bussola
Studentessa dell’ITTL «M.Colonna» di Roma al simulatore di manovra (un ambiente di ponte di comando realistico riproducente gli apparati di bordo quali RADAR, ECDIS, AIS, GPS, girobussola, comunicazioni GMDSS ( prof. Giuseppe Fiorini).
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magnetica nel Medioevo. Il perfezionamento delle tecniche di costruzione navale e di navigazione s’intreccia con una ridefinizione a livello internazionale dei rapporti di lavoro e di mercato, con mutamenti che hanno attraversato tutte le mansioni e professioni della gente di mare. I rapporti tra percorsi di studio-lavoro sono vissuti, come una strategia economica; c’è quindi, richiesta di formazione più diffusa a qualsiasi livello e, di conseguenza, il sistema scolastico/formativo italiano ha la nuova rotta tracciata dalla convenzione internazionale STCW (Standards Training Certification Watchkeeping) che garantisce gli standard dell’istruzione dei marittimi in tutto il mondo. In Italia, per accedere alle figure di allievo ufficiale di coperta e allievo ufficiale di macchina occorre essere in possesso dei diplomi di secondo ciclo rilasciati dagli istituti tecnici a indirizzo trasporti e logistica (ITTL, ex Istituto Tecnico Nautico) opzioni, conduzione del mezzo navale e conduzione apparati e impianti marittimi (Decreto 28 giugno 2017); oppure essere in possesso di un titolo di studio conclusivo di un percorso di secondo ciclo diverso da quello rilasciato dall’ITTL, integrato da un percorso formativo, finalizzato a perfezionare le competenze specifiche di settore della durata di 700
Convenzione internazionale sugli standard di addestramento, abilitazione e tenuta della guardia per i marittimi (IMO).
Gara nazionale degli Istituti Tecnici Trasporti e Logistica. Studenti delle classi quarte, sez. coperta, durante la prova di Scienza della navigazione sulla nave scuola SIGNORA DEL VENTO (prof. Guido Andriani).
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ITS - Fondazione «Giovanni Caboto» di Gaeta, cerimonia di consegna dei diplomi per i Corsi Gestione Apparati ed Impianti di Bordo e Conduzione del Mezzo Navale (2019) - (ITS - Fondazione «G. Caboto» di Gaeta).
ore per la figura di allievo ufficiale di coperta e di 800 ore per la figura di allievo ufficiale di macchina (Decreto 19 dicembre 2016); ovvero un diploma di laurea triennale in Scienze e tecnologie della navigazione (Università degli Studi di Napoli «Parthenope»); oppure un diploma di laurea triennale in Maritime Science and Technology (Scuola politecnica, Università di Genova); essere iscritto nelle matricole della gente di mare e avere effettuato con esito positivo l’addestramento di base «basic training» presso centri di formazione autorizzati dal ministero delle Infrastrutture e trasporti. Gli istituti, le università e i centri di formazione marittima, per essere riconosciuti idonei all’erogazione dei percorsi formativi, sono dotati di sistema di gestione per la qualità. Gli allievi di coperta o di macchina, possono scegliere fra due percorsi per con-
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seguire l’abilitazione di ufficiale di navigazione/macchina. Effettuare 12 mesi di navigazione e sostenere un esame presso la Direzione marittima, i cui programmi sono disciplinati dal Decreto 22 novembre 2016, al fine di acquisire l’abilitazione di ufficiale di navigazione o ufficiale di macchina. In alternativa gli allievi possono frequentare un ITS (Istituto Tecnico Superiore). Nel 2010 sono nati gli ITS, un tipo di scuola italiana di alta specializzazione tecnologica, ovvero un ente di formazione di livello post-secondario non universitario, a cui possono accedere, tramite selezione, coloro i quali sono in possesso di un diploma di scuola superiore di II grado. I percorsi di alta formazione nel settore marittimo, di durata biennale, hanno l’obiettivo di condurre gli allievi ufficiali all’acquisizione dell’abilitazione di ufficiale di navigazione/macchina. Il percorso formativo per allievi
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ufficiali si articola, alternando periodi a terra (lezioni) con periodi di imbarco (12 mesi) retribuiti come allievi, fino al raggiungimento degli obiettivi di apprendimento per sostenere l’esame di abilitazione come ufficiale presso la Direzione marittima. Una volta raggiunto il livello di ufficiale di navigazione, lo sviluppo di carriera prosegue in base al tonnellaggio della nave su cui si effettua la navigazione, conseguendo le successive abilitazioni. Pertanto gli ufficiali potranno scegliere di proseguire nei seguenti modi (Decreto 25 luglio 2016): — 12 mesi di navigazione su navi di stazza compresa tra 500 e 3.000 GT, oppure con 18 mesi su navi di stazza pari o superiore a 3.000 GT; — completare la formazione con i corsi previsti dalla STCW e «Livello Direttivo» e accedere all’esame previsto dal Decreto 22 novembre 2016, acquisendo l’abilitazione rispettivamente di: a) Primo ufficiale di coperta su navi di stazza compresa tra 500 e 3.000 GT; B) Primo ufficiale di coperta su navi di stazza pari o superiore a 3.000 GT. Per gli ufficiali di macchina, il percorso di carriera si sviluppa sulla base della potenza propulsiva dell’apparato motore principale della nave su cui si effettua la navigazione richiesta per conseguire le successive abilitazioni.
Pertanto gli ufficiali potranno scegliere di proseguire nei seguenti modi: — 12 mesi di navigazione su navi di potenza fino a 3000 KW, oppure 18 mesi di navigazione su navi con potenza pari o superiore a 3.000 KW; — completare la formazione con i corsi previsti dalla STCW e «Livello Direttivo» e accedere all’esame previsto dal Decreto 22 novembre 2016, acquisendo l’abilitazione rispettivamente di: a) Primo ufficiale di macchina su navi di potenza compresa tra 750 e 3.000 KW; B) Primo ufficiale di macchina su navi con potenza pari o superiore a 3.000 KW.
Conclusioni L’istruzione e la formazione nautica mercantile, pur avendo subito profonde innovazioni e riorganizzazioni ha mantenuto inalterate le finalità di fondo che erano, e sono ancora oggi, la formazione degli ufficiali della Marina mercantile. Sul mare l’attività dei nostri naviganti, troverà sempre, anche se la conquista sarà faticosa, un campo fecondo di lavoro, purché sostenuta da ferma volontà e da coraggioso spirito di sacrificio. Non si può fare un marinaio, di un uomo che non desideri veramente diventarlo, o di un uomo che non sia disposto a fare i sacrifici. 8
NOTE (1) M. Mollat du Jourdin, pp. 241-242. (2) Clifford D. Conner, p. 209. (3) Storia della tecnologia, pp. 555-556. (4) Ephemerides di Regiomontano, stampate a Norimberga nel 1474. (5) L’istruzione nautica in Italia, p. 307. (6) Ibid., p. 12. (7) Ibid., p. 294. (8) Ibid., p. 9. (9) Ibid., p. 10. (10) Ibid., p. 13. (11) Ibid., p. 8. (12) T. Gropallo, p. 41. (13) L’istruzione nautica in Italia, p. 7. (14) P. Frascani, p. 215. (15) P. Frascani, p. 171. BIBLIOGRAFIA AA.VV., ministero dell’Educazione nazionale, L’istruzione nautica in Italia, Roma, 1931. AA.VV., ministero di Agricoltura, industria e commercio, Gli Istituti tecnici in Italia, Tipografia di G. Barbera, Firenze 1869. Bandi, A., Sommario di storia della pedagogia, Milano, A. Mondadori, 1931. Capasso I., Storia della nautica, Istituto Idrografico della Marina, Genova 1994. Clifford D. Conner, Storia popolare della scienza, Marco Tropea Editore, Milano 2008. Frascani P., A vela e a vapore, Donzelli editore, Pomezia 2001. Gropallo T., Il romanzo della vela, U. Mursia, Milano 1973. Mollat du Jourdin M., L’Europa e il mare dall’antichità ad oggi, Editori Laterza, Bari 2011. Serafini, F., In vela sull’oceano. Storia della nave scuola Patria, ultimo veliero oceanico della Marina mercantile italiana, Mursia, 1986. Toma A., D’Antonio B., Armatori meridionali ieri e oggi, Sagep, Genova 1992. Tonelli A., Gli istituti tecnici in Italia, 1868. Singer C., Holmyard E.J., Hall A.R., Williams T.I., Storia della tecnologia, volume III, Bollati Biringhieri, Torino 1993.
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Le navi scuola del l VESPUCCI
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l la Marina Militare PALINURO
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Le navi scuola del l STELLA POLARE
CORSARO II
ORSA MAGGIORE
SAGITTARIO (IGSA)
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l la Marina Militare artica ii
CAPRICIA
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PANORAMICA TECNICO-PROFESSIONALE
Maritime cyber security per la shipping industry Adeguamento all’ISM code. Formazione, incongruenze e criticità Francesco Chiappetta (*) Per il settore marittimo commerciale, come più volte ricordato nelle sedi più appropriate oltre che su questa stessa Rivista, l’IMO (1) nel 2017, nell’ambito dei lavori della 98a sessione del Maritime Safety Committee (MSC) con la risoluzione «MSC.428 (98) - Maritime Cyber Risk Management in Safety Management Systems», adottata il 16 giugno 2017, aveva incoraggiato le amministrazioni (flag State) ad adoperarsi per garantire che i rischi informatici fossero adeguatamente affrontati nei sistemi di gestione della sicurezza (safety) esistenti così come definiti nel codice ISM (International Safety Management) (Fig.1) e, in particolare, entro e non oltre la prima verifica annuale del previsto Documento di conformità (Document of Compliance - DOC) aziendale in scadenza dopo il 1° gennaio 2021. Nell’imminenza di questa data quanto mai prossima, questa breve analisi prova a evidenziare alcuni elementi di incongruenza fino a ora emersi, nello specifico legati non solo ai profili di safety ma anche a quelli di security, nonché criticità nella gestione delle problematiche legate ai temi di maritime cyber security, tra i quali emerge quella relativa alla necessità di percorsi formativi dedicati.
(*) Ufficiale di Stato Maggiore della Marina Militare, in ausiliaria dal 2016. Con prevalente esperienza operativa, segue temi di difesa e security marittima. Consulente di CONFITARMA, dove segue tra l’altro il tema della cyber security, socio dell’Istituto italiano di navigazione, svolge attività di docenza presso atenei e istituti di formazione marittima. In particolare presiede l’Osservatorio sulla sicurezza marittima, istituito nell’ambito del Laboratorio di cyber intelligence dell’Università della Calabria. Collabora con la Rivista Marittima e altre pubblicazioni a carattere marittimo.
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gestione del rischio informatico (cyber risk management) che abbracci più competenze e responsabilità. Un rischio che, come ampiamente analizzato (2), non riguarda solo gli aspetti della safety ma anche, e sotto certi aspetti prevalenti, quelli della security marittima in termini soprattutto di salvaguardia degli interessi vitali nazionali.
L’attuale contesto Nei primi 10 mesi del 2020, aggravati, ma non solo, dalle conseguenze sul piano tecnico-operativo legate all’emergenza da Covid-19 (vedasi per esempio smart working/ lavoro a distanza), a livello globale, nel confronto con i dati del 2018 e 2019, sono particolarmente aumentati, in numero e soprattutto in complessità, gli attacchi o, semplicemente, gli incidenti informatici a importanti società di shipping (3). Del resto, atFig. 1: “The International Safety Management (IS) Code & Cyber Risk Management (dal sito web IMO tacchi cyber, per esempio sistemi lehttps://www.imo.org/en/OurWork/HumanElement/Pages/ISMCode.aspx, con elaborazione grafica e dei contenuti cura autore dell’articolo). gati alla tecnologia operativa (OT) dell’industria marittima, sono aumentati del 900% (4) negli ultimi tre anni, e il numero di incidenti segnalati dovrebbe raginnovazione info-tecnologica sta portando giungere per la fine dell’anno volumi record con fattuenormi vantaggi all’efficientamento dei trarati di miliardi (5). sporti marittimi e, di pari passo, alla logistica Sulla base di analisi specifiche, nel periodo aprileportuale, sia in termini di gestione delle spedizioni, sia settembre 2020, si sono registrati, almeno 10 eventi di sotto l’aspetto prettamente economico legato alla riduattacchi a importanti compagnie e società di navigazione dei costi. Nondimeno, si assiste sempre di più zione di cui alcune con ingenti impegni finanziari a liall’aumento dell’interconnettività tra i sistemi di bordo vello internazionale, cui si sono aggiunti eventi anche e quelli di terra, ovvero a una sempre più marcata internei confronti di soggetti istituzionali. dipendenza tra tecnologie operative e informatica. Tra questi ha sicuramente fatto notizia l’attacco suTuttavia, è ormai acquisito anche per i non addetti bito, nel mese di aprile, dalla MSC (cargo), società leaai lavori che, pur tenuto conto degli enormi vantaggi e der mondiale del trasporto containerizzato — il caso è dei progressi introdotti nell’informatizzazione a tutto stato anche oggetto di una specifica analisi (6). A tale campo e che ci riguarda in modo trasversale, si presenevento, il 29 settembre, è seguito l’attacco cyber alla tano nuovi rischi e nuove sfide. A esse in particolare compagnia francese CMA CGM, anch’essa ai primi l’industria marittima deve prestare la massima attenposti nel trasporto internazionale di container (7). zione attraverso una governance di sistema legata alla
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In entrambi i casi, anche se non vi sono evidenze validate, si presume rilevanti siano stati i danni economici subiti, seppur non direttamente conseguenti a un effettivo pagamento di un riscatto (attacchi perpetrati attraverso c.d. di ransomware). Danni economici dovuti quantomeno al ripristino in efficienza dei sistemi informatici attaccati/danneggiati cui si sono poi aggiunte ripercussioni e ritardi sulle spedizioni, nonché effetti sul piano reputazionale. È quanto mai evidente che un attacco subito da compagnie di navigazione ampiamente esposte sul piano commerciale internazionale può avere enormi conseguenze economiche se paragonato ad altri settori industriali. Un altro attacco, che non è passato certo inosservato, è stato subito il 15 agosto dalla società statunitense Carnival Cruise Line, leader del mercato crocieristico mondiale che, a seguito di hacking di account di posta elettronica di propri dipendenti, ha invece sofferto una potenziale violazione di dati dei propri clienti (8). Il 30 settembre, addirittura il quartier generale dell’IMO a Londra è stato oggetto di un sofisticato attacco informatico (Fig.2); fermo restando i danni economici relativi alla probabile perdita o furto di dati, evidenti sono state le ripercussioni soprattutto a livello di immagine (9). Si ritiene che proprio in conseguenza di tale evento, nella seconda metà del mese di ottobre, è seguita la riconfigurazione del sito web dell’IMO.
Fig. 2: msg IMO su twitter del 30 settembre 2020 (dalla pagina twitter @IMOHQ).
Adeguamenti del codice ISM alla cyber security Il codice ISM, aggiornato nell’ultima edizione 2018 proprio ai sensi della Risoluzione IMO MSC.428 (98), richiede agli armatori e ai gestori delle navi commerciali di valutare il rischio cibernetico e attuare misure pertinenti in tutte le funzioni del loro sistema di ge-
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stione della sicurezza (safety), aggiornando/adeguando i previsti documenti di conformità (DOC). In combinazione con la predetta risoluzione, nel luglio 2017, l’IMO aveva pubblicato anche specifiche «Linee guida sulla gestione dei rischi informatici marittimi» (MSCFAL.1 / Circ.3) (10). A questi adeguamenti normativi, in una analisi a più ampio spettro, ovvero affrontando il tema della maritime cyber security non solo sotto il profilo della safety ma anche della security, la shipping industry ha prontamente risposto con dettagliate linee guida. In particolare, come riportato sullo stesso sito web IMO, sono da evidenziare soprattutto le «Linee guida sulla cyber security a bordo delle navi» (11) pubblicate da BIMCO, ICS, CLIA, IUMI, OCIMF, INTERTANKO, INTERCARGO, Inter-Manager e WSC, ovvero sostenute da tutte le maggiori associazioni di shipping a livello mondiale. Nel recepire le indicazioni dettate dall’IMO nonché in linea con le più recenti diposizioni legislative nazionali sul tema della cyber security, il Comando generale delle Capitanerie di porto (CGCCP), nel mese di dicembre 2019, con la circolare serie generale n. 155/2019 (12), relativa al cyber risk management, aveva fornito una guida per supportare le società marittime di gestione nella redazione del documento di analisi del rischio informatico, al fine di proteggere i sistemi connessi alla rete e le informazioni dalle minacce informatiche, e conseguentemente adeguare il citato Document of Compliance (DOC) previsto dall’ISM code. In particolare, è stato precisato che le società si devono dotare di un c.d. risk management framework il quale «deve tenere in debita considerazione gli elementi di cui all’annesso della presente circolare — parte integrante della stessa — nonché la Risoluzione MSC.428 (98), la MSC-FAL.1/Circ.3 e le disposizioni impartite dall’autorità NIS alle società che sono state classificate Operatori di Servizi Essenziali (OSE)». Va dato anche atto che la circolare del CGCCP non richiamava solo gli adeguamenti della cyber security ai sensi del codice ISM ma anche aspetti di security secondo l’ISPS code (International Ship and Port Facility Security) (13), in particolare relativamente a «radio
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2019 (14), la pubblicazione della 3a edizione delle linee guida sulla cyber security diffuse da BIMCO etc., con la circolare IMO_MSC 101/4/4 del 26 marzo 2019 (15), in occasione della 101ma sessione del MSC, aveva Incongruenze e criticità espresso preoccupazioni riguardanti potenziali inconIl quadro normativo di cui sopra, in vista della scagruenze nell’attuazione dei requisiti oggetto della risodenza prevista, sembrerebbe a questo punto abbastanza luzione MSC.428 (98), chiedendo allo stesso delineato. Tuttavia vi sono aspetti che necessitano di Committee di adottare azioni per evitare che potessero essere sottolineati. (fig. 3) emergere problematiche significative prima della fatiInnanzitutto va detto che la stessa IMO, dopo aver dica data del 1° gennaio 2021. segnalato, con la IMO_MSC_101/4/ dell’11 marzo Nello specifico l’IMO evidenziava criticità, sia a livello nazionale, sia regionale, riguardanti i seguenti aspetti: — mancanza di requisiti che danno la priorità, o sembrano dare la priorità, alle disposizioni del codice ISPS rispetto a quelli del codice ISM, per la gestione dei rischi informatici; — guida incentrata sulla sicurezza informatica per contrastare — ndr efficacemente, — minacce informatiche malevoli esterne, in un approccio più olistico piuttosto che fornire una gestione del rischio informatico seguendo i soli principi stabiliti nel codice ISM. In estrema sintesi, sulla base delle proposte contenute nella circolare IMO_MSC 101/4/4, confermate anche in discussioni ambito ICS (16), sussiste dunque certamente l’obbligo, dal prossimo 1° gennaio 2021, di adeguare il Documento di conformità ai rischi informatici ai sensi dell’ISM code, mentre, per quanto riguarda l’ISPS code, pur tenuto conto delle «incongruenze» segnalate dall’IMO, gli aspetti di cyber security «dovrebbero» essere affrontati anche nei piani di security delle navi (Ship Security Plan - SSP), ovvero non vi è un espresso obbligo. Del resto ciò viene anche confermato nella stessa circolare del CGCCP n. 155 di cui sopra, dove si legge: «non deve essere considerato obbligo per Fig. 3: Prima pagina del documento IMO MSC_101/4/4 del 26 marzo 2019 (dal sito web IMO le società di gestione istituire un sistema https://www.imo.org/en/OurWork/Security/Pages/Cyber-security.aspx). di gestione separato della sicurezza inforand telecommunication systems, including computer systems and networks».
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matica che operi in parallelo con il sistema SMS adottato». Stante la situazione e visto che al momento non vi sono ulteriori indicazioni da parte dell’IMO, resta comunque l’incertezza sul piano normativo internazionale tra il pieno adeguamento alla cyber security, nei documenti previsti dall’ISM code, e un non pieno recepimento su quanto il tema della cyber security impatti sui piani di security della nave, a meno che non si rilevino aspetti che lo richiedano e che tuttavia sussistono, a parere dello scrivente, pressoché sempre. Da quanto al momento noto, a livello informale, è possibile che l’IMO possa emanare ulteriori linee guida o risoluzioni all’argomento; è presumibile che, anche a causa delle difficoltà dei lavori delle commissioni conseguenti all’attuale emergenza sanitaria, tali possibili previsioni potranno essere emanate non prima del primo, se non del secondo, trimestre del prossimo anno. Fermo restando quanto finora detto, sul tema della sicurezza marittima informatica, sussistono tuttavia ulteriori criticità, sia sul piano gestionale sia tecnico (17). In particolare, in questa sede si vuole quantomeno accennare soprattutto a quelle connesse con gli aspetti di formazione del personale marittimo nel settore della sicurezza informatica. E, soprattutto, in considerazione del fatto che, senza entrare nello specifico, com’è noto, le professioni marittime e i compiti/mansioni assegnate al personale di bordo sottendono a ben precisi e dettagliati regolamenti riconosciuti e certificati a livello internazionale (18). Se, quindi, sul piano gestionale l’IMO ha in un modo o nell’altro reagito alle situazioni di contesto con le specifiche norme e direttive sopra riassunte, dal punto di vista della formazione dei marittimi non è stata notata la stessa sensibilità. A ciò si aggiunge il fatto che in questi ultimi anni il sistema di formazione e valutazione nelle professioni a bordo delle navi commerciali, fino ad arrivare al personale che opera sui sistemi gestionali portuali, accelerato giocoforza dall’effetto dirompente dell’innovazione soprattutto digitale, si sta evidentemente spostando su molteplici competenze strettamente tecniche. In questo passaggio, la consapevolezza
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dei rischi e delle minacce informatiche, a tutti i livelli, a partire dalla governance aziendale fino a livello dei dipendenti e di chi opera sui sistemi OT, è divenuto un requisito ormai essenziale (19). Peraltro molti degli attacchi informatici (20) sono conseguenti a una certa impreparazione o almeno a una non adeguata consapevolezza dei dipendenti dai rischi informatici oltre che alla intrinseca vulnerabilità dei sistemi gestionali (IT) e operativi (OT). Non a caso poi, stante la situazione, le compagnie di navigazione più attente stanno passando da un sistema di investimento sulla formazione obbligatoria, che resta lo zoccolo duro, a un sistema di valutazione volontaria che si integra con il primo e che permette nel contempo alla compagnia stessa di monitorare le competenze specifiche degli equipaggi e più in generale del personale dipendente. A livello nazionale vi sono certamente le conoscenze e le professionalità per un salto di qualità e, in particolare, grazie anche ai rilevanti investimenti a livello privato da parte di importanti società di navigazione anche italiane (21), vi sono senza dubbio istituti di formazione e addestramento alle professioni marittime di alto livello sui cui poter fare affidamento. In questo senso, la formazione vale tanto per il top management quanto per i lavoratori impiegati nei vari dipartimenti a terra e a bordo. Si parte dalla mappatura dei sistemi interessati dalla digitalizzazione (che potrebbe essere anche la “banale” e-mail) all’individuazione di specifiche vulnerabilità; da qui si continua con le misure che ogni ruolo deve adottare per irrobustire le eventuali contromisure nel caso in cui si palesi un attacco informatico (o anche il sospetto). Richiamare e implementare disposizioni o procedure per il riconoscimento, gestione o mitigazione del rischio e il successivo (eventuale) recupero, serve a poco se non si ha il metro e la «cultura professionale» per recepirli in modo appropriato. La formazione non è pertanto marginale, ma è fondamento di una politica aziendale lungimirante per aumentare la «consapevolezza» del personale e, considerando nello specifico le necessità a bordo nave, la capacità di evitare esposizioni che potrebbero accrescere le proprie possibili vulnerabilità.
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Considerazioni conclusive Nel raffronto shipping, cyber security e risk management occorre tenere conto innanzitutto delle peculiarità e delle specificità della dimensione marittima attraverso un approccio, si è detto, di sistema, olistico, che tenga conto di molteplici aspetti. Intanto, uno degli aspetti principali risiede nel fatto che i rischi informatici per le navi e, in generale, per l’industria marittima, anche nel segmento portuale, non è solo un problema legato al danno economico — c.d. di «business interruption» — ma anche reputazionale, in un mercato per definizione globale. La minaccia informatica, è chiaro che ormai non proviene solamente da settori criminali peraltro sempre più organizzati, con obiettivi puramente economici, ma si va vieppiù manifestando con modalità complesse e sofisticate anche provenienti o quantomeno riconducibili a entità statuali che combattono una guerra prevalentemente economica. Numerose sono le analisi che riconducono un considerevole numero di attacchi provenienti da paesi
sottoposti, per esempio, alle regolamentazioni sulle sanzioni internazionali, nonché Stati proiettati sul piano geo-politico e geo-economico globale. La salvaguardia del dominio marittimo, il libero commercio marittimo legato sia al libero uso del mare sia alla protezione delle infrastrutture critiche info-tecnologiche (vedasi anche i c.d. operatori di servizi essenziali pubblici e privati, anche nel marittimo) non è solo un problema di safety ma anche di security, per le conseguenze sul piano della sicurezza degli Stati e la tutela degli interessi nazionali. L’Italia in questo senso è quanto mai esposta in relazione alla sua prevalente interdipendenza proprio dai traffici marittimi. A ciò si aggiungono altri aspetti tra cui, come evidenziato nella seconda parte del presente articolo, quello di individuare adeguati processi formativi mirati alla sicurezza informatica da dedicare a chi opera nella dimensione marittima e portuale, oltre che altre questioni, anch’esse complesse, che coinvolgono aspetti da governare con lungimiranza. 8
NOTE (1) IMO, International Maritime Organization, https://www.imo.org/. (2) Cfr. Chiappetta F., Rivista Marittima, ottobre 2016, pp. 53-62, Sicurezza Marittima Informatica, http://www.marina.difesa.it/media-cultura/editoria/ marivista/Pagine/2016_10.aspx; Zampieri F., Rivista Marittima, novembre 2019, pp. 14-23, Maritime cybersecurity e maritime cyberwarfare. (3) Gli attacchi di 5a generazione sono mirati, molto veloci e incredibilmente ben camuffati; (vedi Check Point Software Technologies, 5th Generation Cyber Attacks Are Here and Most Businesses are Behind, https://www.checkpoint.com/downloads/product-related/whitepapers/preveting-the-next-mega-cyber-attack. pdf). Nel numero di luglio 2020 della rivista Be Cyber Aware at Sea Ë stato peraltro notato che esiste un divario tra il numero di incidenti legati al cyber che si verificano nel settore marittimo e il numero inferiore che viene segnalato. (4) https://thedigitalship.com/news/maritime-satellite-communications/item/6706-maritime-cyber-attacks-up -by-900-in-three-years. (5) Secondo il SOCTA (Serius & Organize Crime Threat Assesment, uno dei pi˘ qualificati rapporti periodici di EUROPOL, www.europol.europa.eu/socta-report), il crimine informatico registra oggigiorno un fatturato che si aggira sui 3.000 miliardi di dollari, il 15% in pi˘ rispetto al traffico di stupefacenti (vedi anche articolo su Il Secolo XIX del 22 novembre 19, Gli hacker fatturano 3.000 miliardi – Navi 4.0 nel mirino dei cyber pirati). (6) F. Chiappetta, A. Sberze, maggio 2020, «Maritime Cyber Security - Analisi - L’attacco cyber alla Mediterranean Shipping Company», Osservatorio sulla sicurezza Marittima. Il lavoro è stato pubblicato sul sito della Società di Intelligence: vedi https: //press.socint.org/index.php/home/catalog/book/2020_05_ chiappetta_sberze). (7) Si è trattato di un attacco particolarmente sofisticato; gli hacker hanno utilizzato un ransomware denominato Ragnar Locker che, oltre a essere alquanto recente, tra le proprie caratteristiche presenta quella di non essere direttamente rilevato o rimosso da software antivirus; dopo l’attacco, con tanto di richiesta di riscatto, il cui pagamento peraltro risulta sia stato posto a rischio di sanzioni da parte degli Stati Uniti, il sito web della compagnia di navigazione francese CMA CGM è tornato libero e visibile dopo quasi due settimane, cfr. https://lloydslist.maritimeintelligence.informa.com/LL1134044/CMA-CGM-confirms-ransomware -attack. (8) Cfr. https://www.infosecurity-magazine.com/news/carnival-cruises-danger-ransomware/. (9) Cfr. https://www.wsj.com/articles/mounting-ransomware-attacks-morph-into-a-deadly-concern-1160148 3945. (10) Tutti i documenti citati sono reperibili sul sito web dell’IMO. Cfr. https: //www.imo.org/en/OurWork Security/Pages/Cyber-security.aspx. (11) Le Linee Guida di BIMCO, 3a ed. marzo 2019, sono reperibili su http://www.ics-shipping.org/docs/default-source/resources/safety-security-and-operations/guidelines-on-cyber-security-onboard-ships.pdf?sfvrsn=16. In ambito nazionale Confitarma, nei mesi di maggio e giugno 2018, ha invece prodotto, a favore dei propri associati, un opuscolo illustrativo: Best Practices sulla Cyber Security per le navi mercantili e soprattutto il Vademecum per la sicurezza informatica (cyber security) a bordo delle navi mercantili nazionali (https://www.confitarma.it/riunioni-delle-commissioni-navigazione-oceanica-e-tecnica-navale-sicurezza-e-ambiente-cyber-security-presentato-il-vademecum-per-i-comandanti-delle-navi/). (12) Cfr. https://www.guardiacostiera.gov.it/normativa-e-documentazione /Documents /circolare%20S.G.% 20n.%20155_2019.pdf. (13) Per l’International Ship and Port Facility (ISPS) code vedi https://www.imo.org/en/OurWork/ Security/Pages/SOLAS-XI-2%20ISPS%20Code.asp. (14) Vedi https://www.ics-shipping.org/docs/default-source/Submissions/cyber-risk-management-in-safety-managementsystems.pdf. (15) Cfr. https://www.ics-shipping.org/docs/default-source/Submissions/cyber-risk-management-in-safety-management-systems.pdf. (16) ICS - International Chamber of Shipping; memebership per l’Italia è Confitarma (https://www.ics-shipping.org/. (17) Altre criticità sono certamente rappresentate dalla necessità/opportunità per un comparto come quello marittimo che, a differenza di altri settori, presenta particolari specificità di individuare società di consulenza tecnico-gestionali o assicurative validate/certificate in ambito cyber security per il settore marittimo — di fatto alcune di rilievo ampiamente presenti sul mercato — in grado di sostenere e accompagnare le società/compagnie di navigazione nella valutazione dei rischi informatici (https://www.shippingitaly.it/2020/07/20/cybersecurity-e-navi-dal-2021-servira-la-certificazione-cyber-risk-management-system/). (18) Per le professioni marittime si tratta, in particolare, della Convenzione STWC ’78 «Convenzione internazionale sugli standard di addestramento, abilitazione e tenuta della guardia per i marittimi», https://www.confitarma.it/convenzione-e-codice-stcw-1978-emendamenti-manila-2010/. (19) Vedi https://www.lagazzettamarittima.it/2020/10/17/monticelli-e-la-mission-dellimat/. (20) Cfr. https://www.cybersecurity360.it/soluzioni-aziendali/la-cyber-security-nel-settore-marittimo-lo-scenario-i-rischi-e-le-sfide-future/. (21) Vedi https://www.imat2006.it/wp-content/uploads/2019/09/Fabrizio-Monticelli-CEO-IMAT-centro-di-formazione-per-marittimi-corsi-STCW-per-limbarco-The-meditelegraph-TTM-risorse-umane-2.pdf.
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SAGGISTICA E DOCUMENTAZIONE
Le campagne idrografiche italiane nel Mar Rosso e nell’oceano Indiano La ricerca scientifica in favore della sicurezza della navigazione
Aldo Caterino (*) (*) Laureato in storia moderna, cultore di storia marittima. Ha lavorato presso la Biblioteca universitaria di Genova e oggi lavora presso l’Ufficio relazioni esterne dell’Istituto Idrografico della Marina. Collabora dal 1994 con l’Università degli Studi di Trento e dal 2016 con l’Università Link Campus di Roma e ha al suo attivo numerose pubblicazioni di storia navale.
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La realizzazione del Canale di Suez
Karl von Spruner, Mappa dell’Egitto, dell’Arabia e dell’Etiopia nell’antichità, Justus Perthes, Gotha, 1865 (Collezione privata).
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Negli anni Sessanta dell’Ottocento, le linee di trasporto a vapore — ferrovie e piroscafi — avevano ormai raggiunto un elevato livello di maturità su scala mondiale e stavano progressivamente rimuovendo gli ostacoli naturali sul loro cammino attraverso opere ingegneristiche per l’epoca considerate «titaniche». L’Italia si trovava al centro di questa gigantesca rete di collegamenti: nelle Alpi, infatti, erano in corso i lavori di perforazione delle gallerie ferroviarie del Frejus e del San Gottardo, che sarebbero state inaugurate, rispettivamente, nel 1871 e nel 1882. Il superamento della barriera alpina significava mettere in collegamento diretto le aree industriali e le principali città della Francia, della Svizzera e della Germania con il Mediterraneo. Il 17 novembre 1869 venne ufficialmente inaugurato il Canale di Suez che, congiungendo il Mediterraneo con il Mar Rosso attraverso la penisola del Sinai, permetteva di abbreviare notevolmente la navigazione verso l’Asia orientale, risparmiando circa 4.000 miglia rispetto alla rotta del capo di Buona Speranza. Per l’inaugurazione, il chedivè d’Egitto, Ismāʿīl Pascià, viceré del paese per conto dell’Impero ottomano, chiese a Giuseppe Verdi di comporre un inno, ma il maestro di Busseto, restio a comporre musica d’occasione, rifiutò; in occasione della cerimonia venne pertanto eseguito il Rigoletto. I contatti con Verdi, comunque, proseguirono e culminarono nella composizione dell’Aida, andata in scena per la prima volta al Teatro dell’Opera del Cairo il 24 dicembre 1871. La direzione dei lavori venne affidata all’imprenditore e diplomatico francese Ferdinand de Lesseps, cugino di Eugenia de Montijo, consorte dell’imperatore Napoleone III, promotore dell’iniziativa, su progetto dell’ingegnere trentino Luigi Negrelli (1854). Gli scavi iniziarono nel 1859, impiegando oltre 1,5 milioni di lavoratori, di cui, purtroppo, 125.000 persero la vita a causa di un’epidemia di colera, e videro la collaborazione di molte nazioni, tra cui la Francia, che diede il contributo maggiore, anche in termini finanziari, sottoscrivendo il 56% delle azioni della società concessionaria per la gestione (99 anni), mentre il resto fu appannaggio dell’Egitto. Gli inglesi, inizialmente scet-
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guerra anglo-egiziana, le truppe britanniche vennero dislocate lì vicino per proteggerlo, data la sua notevole importanza strategica. Il 4 aprile 1885, a Parigi, si aprì la Conferenza internazionale per il Canale di Suez. Il regime che si voleva applicare era quello, non della neutralità, ma della libertà. La neutralità, in caso di conflitto, avrebbe chiuso il canale alle flotte belligeranti; la libertà, invece, lo avrebbe lasciato aperto, vietando soltanto le operazioni di guerra in prossimità. Il 29 ottobre 1888, la Théodore Frère, L’imperatrice Eugenia assiste a un’esercitazione della cavalleria araba in occasione Convenzione di Costantinopoli condell’inaugurazione del Canale di Suez (1869) - (Collezione privata). fermò il regime di libertà del canale (sotto protettorato britannico), dichiarato «libero e aperto, in tempo di guerra come in tici circa l’utilità del canale, se non addirittura contrari tempo di pace, a qualsiasi nave civile o militare, senza alla sua realizzazione, avviarono invece la costruzione distinzione di bandiera». La sua importanza a livello di linee ferroviarie tra Alessandria, Il Cairo e Suez, per globale crebbe rapidamente: nel 1870 vi transitarono agevolare il trasbordo dei passeggeri e delle merci da 486 navi, per una stazza lorda di 437.000 tonnellate; un mare all’altro. Solo in seguito si resero conto delnel 1890 i transiti furono 3.389, per 6.580.000 tonnell’errore commesso e decisero di rilevare le quote egilate di stazza lorda; nel 1910 si ebbero 4.553 transiti, ziane, approfittando del forte indebitamento del paese per 16.580.000 tonnellate di stazza lorda. con i banchieri londinesi. Grazie al canale, il Mediterraneo tornò a rivestire un ruolo centrale nei traffici transoceanici, dopo essere stato per secoli ai margini del grande commercio mondiale. Porti come Valencia, Barcellona, Genova, Venezia e Trieste, ma soprattutto Marsiglia, rifiorirono subito grazie alla ripresa dei traffici marittimi intercontinentali, e al loro nuovo ruolo di porte aperte dei rispettivi paesi verso il Medio e l’Estremo Oriente. Il canale risultò un’opera enorme: lungo 163 chilometri, divisi in due tratte, una a sud e l’altra a nord dei laghi Amari, era largo 52 metri e profondo 8 metri e consentiva il passaggio di navi con un pescaggio fino a 6,7 metri, richiedendo circa 15 ore Cesare Vimercati, Panorama del Basso-Egitto_Canale artificiale di Suez, Litografia Toscana (1869) (Collezione privata). per il transito. Nel 1882, durante la
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Le linee di navigazione a vapore in Italia Con lo sviluppo della rete ferroviaria in tutta la penisola italiana, le linee di cabotaggio per il trasporto di passeggeri e merci lungo le coste divennero sostanzialmente inutili e, infatti, nel 1872 il governo decise di non prorogare i servizi postali sovvenzionati lungo tali rotte. La reazione al cambiamento delle compagnie di navigazione attive nel settore fu assai diversa. La Peirano & Danovaro si ostinò a proseguire nel servizio finché, nel 1877, fu messa in liquidazione. Raffaele Rubattino, invece, uno dei protagonisti del Risorgimento (suoi, infatti, erano il piroscafo Cagliari, usato da Carlo Pisacane per la spedizione di Sapri, e i vapori Piemonte e Lombardo, usati da Giuseppe Garibaldi per la spedizione dei Mille) cercò degli sbocchi alternativi e fu uno dei primi armatori italiani a intuire l’importanza di aprire delle rotte commerciali verso il Medio e l’Estremo Oriente. Egli comprese immediatamente che lo scenario politico-economico stava cambiando e che, se voleva sopravvivere come vettore marittimo, doveva adattarsi a un contesto ormai internazionale. Così, nel luglio 1868, inaugurò la linea di navigazione Genova-Livorno-Alessandria-Port Said. Egli diede inizio al servizio prima che il governo decidesse a chi assegnare le sovvenzioni statali su questa tratta. In tal modo, mise il governo di fronte al fatto compiuto e riuscì, anche grazie all’amicizia di personaggi del calibro di Garibaldi, Nino Bixio, Domenico Balduino e Carlo Bombrini, a ottenere la convenzione postale a scapito
degli altri concorrenti. Quest’operazione permise a Rubattino di alleggerire il pesante indebitamento che gravava sulla sua società, causato dal fallimento della Compagnia Transatlantica nel 1858. Nel marzo 1870, con il piroscafo Africa, comandato dall’ammiraglio Alfredo Acton, per l’occasione in abiti borghesi, avviò la nuova linea da Genova a Bombay, ampliando così i propri interessi commerciali fino all’Abissinia. Nel 1877 inaugurò la linea per Singapore e nel 1878 iniziò a operare il cabotaggio fra i porti del Mar Rosso. Per gestire tutte queste linee, Rubattino arrivò a possedere 40 piroscafi, la seconda flotta in Italia dopo quella palermitana dei Florio, che armava 43 piroscafi. Nel 1880 la linea dell’oceano Indiano faceva scalo a Port Said-Aden-Bombay-Calcutta-ColomboPoint-de-Galle-Penang-Singapore-Batavia, collegando l’Italia con i possedimenti coloniali inglesi e olandesi in Asia orientale. Nel 1881 le due compagnie si fusero, auspice Francesco Crispi, dando vita alla Navigazione Generale Italiana (NGI), la più grande società di navigazione nazionale, con un capitale sociale di 50 milioni di lire, in grado di reggere la concorrenza dei colossi stranieri che operavano dai porti italiani.
Ritratto del piroscafo SINGAPORE della Navigazione Generale Italiana (1882). Genova, Cambi Casa d’Aste.
La presenza italiana nel Mar Rosso Augusto Rivalta, Monumento all’armatore Raffaele Rubattino (1889) Genova, Piazza Caricamento (Collezione autore).
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Due giorni prima dell’inaugurazione del Canale di Suez, l’ex missionario lazzarista, esploratore e agente governativo Giuseppe Sapeto acquistò dai sultani fra-
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1885, prendendo a pretesto il massacro avvenuto in telli Ibrahim e Hassan ben Ahmad, per la somma di Dancalia di una spedizione commerciale guidata dal6.000 talleri di Maria Teresa (la moneta austriaca risal’esploratore Gustavo Bianchi, un piccolo corpo di spelente al 1780 che manteneva un corso legale in vari podizione italiano (800 uomini di un battaglione di tentati africani), un territorio lungo circa 6 km tra il bersaglieri), al comando del colonnello Tancredi Samonte Ganga e il capo Lumah, sulle coste dell’Eritrea. letta, occupò il porto di Massaua, allontanandone senza Per ragioni politiche, si scelse prudentemente di far apalcuno scontro la locale guarnigione egiziana, che alparire come acquirente la compagnia Rubattino di Gel’epoca controllava il porto della città. Nei mesi sucnova e non il governo italiano, in modo da evitare cessivi, l’Italia occupò tutta la fascia costiera tra possibili reazioni negative da parte di altre potenze, in Massaua e Assab, conquistò Saati e annesse Massaua particolare della Francia, che vantava già forti interessi al regno. nella zona (Obok). L’idea era di farne una stazione di Le operazioni militari, che prevedevano il trasporto sosta e di rifornimento di carbone (grazie alla «probadi un corpo di spedizione e sbarchi di truppe sulla bile» presenza di giacimenti in loco), acqua e viveri per costa, richiedevano naturalmente la partecipazione la navigazione a vapore lungo la rotta per le Indie della Regia Marina, che istituì una Divisione navale del orientali, poco prima dello sbocco del Mar Rosso nel Mar Rosso, composta, tra l’altro, dalle corazzate CaGolfo Persico attraverso lo stretto di Bab-el-Mandeb. stelfidardo e Principe Amedeo, dalla fregata (poi riclasDal 12 marzo 1870, il tricolore sventolò per la sificato incrociatore veloce) Giuseppe Garibaldi e dal prima volta in terra d’Africa, salutato da una salva di piroscafo Gottardo. Tra febbraio e aprile 1889, poi, i 21 colpi di cannone del piroscafo Africa. Rubattino, con successivi contratti stipulati il 30 dicembre 1875 comandanti degli avvisi Staffetta e Rapido conclusero e il 24 maggio 1880, personalmente finanziati dal re un trattato con i sultani locali, in base al quale l’Italia Vittorio Emanuele II, acquistò prima l’arcipelago di otteneva il protettorato sui territori dell’Obbia e della Darmakieh e poi tutte le altre isole situate nella baia Migiurtinia in Somalia. La Colonia Eritrea nacque ufdi Assab, da capo Lumah, a nord, a capo Synthiar, a ficialmente con il Regio decreto 1º gennaio 1890, n. sud, e l’intero litorale compreso tra i due promontori. 6592, a firma del re Umberto I e del presidente del Egli entrò così in possesso di un tratto di costa lungo Consiglio dei ministri Francesco Crispi. 66 km e largo dai 2 ai 6 km comprendente i villaggi di Alali, Macaca, Assab e Margableh. Solo nel 1882 la baia di Assab passò ufficialmente al Regno d’Italia, come reazione all’acquisizione della Tunisia da parte della Francia nel 1881. L’intenzione di farne un importante centro di scambi, i precedenti insuccessi in Nordafrica e il desiderio di trovare la chiave dell’equilibrio mediterraneo in zone al di fuori di esso, spinsero il governo italiano, incoraggiato anche da pressanti inviti da parte di quello inglese in funzione anti-francese (Gibuti), a estendere la propria penetrazione Deposito di materiali per la realizzazione delle infrastrutture portuali a Massaua (1892) - (Il Telegrafo a Vapore). all’interno dell’Eritrea. Nel febbraio
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porti del Mar Rosso e dell’oceano Indiano. Tra l’altro, ebbe grande rilievo il contributo dato da nave ed equipaggio per la cessione all’Italia dei porti somali di Brava, Merca, Mogadiscio e Uarsciek, in precedenza appartenenti al sultanato di Zanzibar. Il Dogali, dopo un turno di avvicendamento in Italia, fu nuovamente inviato nel Mar Rosso nel 1895 e assegnato alla Divisione navale composta dalle navi Etna, Etruria, Caprera, Curtatone e Scilla. L’incrociatore Etna, al comando del contrammiraglio Carlo Turi, operò con le altre unità sia in appoggio alle operazioni del Regio Esercito in Eritrea, sia per contrastare il contrabbando di armi destinate all’Abissinia, catturando, per esempio, il piroscafo olandese Doelwijk, carico di fucili e munizioni. Negli anni seguenti, giunsero a Massaua altre unità: l’incrociatore Piemonte, che visitò le acque somale e le coste africane, accompagnando a Zanzibar il console generale Antonio Cecchi, incaricato di importanti affari diplomatici. Nel 1902 la stessa unità, con il Caprera e il Galileo, svolse una dura azione repressiva contro la pirateria bombardando, nello Yemen, i porti di Medi e Khor Ualha. Il contrasto alla pirateria, molto attiva nei pressi del Corno d’Africa, fu uno dei compiti più importanti svolti dalle unità operanti nel Mar Rosso. Già nel 1896 l’intera squadra, composta dalle navi Aretusa, Caprera, Curtatone, Scilla, Etna, Etruria, Vesuvio e Veniero, aveva effettuato numerose crociere di vigilanza contro la pirateria e per la repressione del contrabbando, spingendosi a volte fino a Zanzibar. L’anno seguente giunse nel Mar Rosso anche l’incrociatore Elba, che aveva l’incarico di ristabilire l’ordine nel Benadir, dopo l’eccidio di Lafolè (25 novembre 1896), in cui erano caduti i componenti della spedizione Cecchi, compresi alcuni ufficiali delle navi Volturno e Staffetta, inoltratisi all’interno della Somalia con il compito di esplorare la riva sinistra dello Uebi Scebeli, farsi amiche le popolazioni locali e stipulare con L’incrociatore protetto italiano DOGALI alla fonda (1890 ca.) - (Collezione privata). esse trattati e accordi commerciali. La Divisione navale operante nel Mar Rosso aveva caratteristiche diverse rispetto a quelle oceaniche, pur svolgendo compiti analoghi di controllo nell’oceano Indiano e lungo le coste dell’Africa orientale. Essa veniva considerata alla stregua di una Divisione nazionale, come quelle, per intenderci, che operavano nel Mediterraneo, partendo da basi nazionali come La Spezia o Taranto. Nel 1887 la Staffetta effettuò una lunga campagna intorno alle coste africane, passando da Gibilterra: la nave visitò le isole di Capo Verde, la Liberia e la Sierra Leone, la colonia inglese del Capo e il Mozambico, adoperandosi a Zanzibar per la difesa degli interessi italiani, minacciati dalla crescente rivalità coloniale tra Gran Bretagna e Germania. Infine si fermò diversi mesi ad Assab e a Massaua, per svolgere attività idrografica, per poi rientrare in Italia. Nello stesso anno, giunse a Massaua l’incrociatore Giovanni Bausan, che divenne la sede del Comando delle Forze navali nel Mar Rosso, seguito dall’incrociatore Dogali. Quest’ultimo fu utilizzato lungo le coste orientali africane, spingendosi fino a Zanzibar, per contrastare il traffico di armi e di schiavi, in cooperazione con altre navi inglesi e tedesche. Tra il 1891 e il 1899, la Staffetta stazionò nelle acque del Corno d’Africa per «mostrare la bandiera» a protezione degli interessi dell’Italia, che aveva colà fondato le colonie di Eritrea e Somalia, afflitte da continue ribellioni: l’uso cui fu destinata in questo periodo fu in sostanza quello di nave coloniale, specie in acque somale, toccando comunque molti altri
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Le campagne idrografiche italiane nel Mar Rosso e nell’oceano Indiano
Fin dall’inizio della presenza italiana nelle acque eritree e somale, fu avvertita l’insufficienza della cartografia nautica esistente ai fini della sicurezza della navigazione nel Mar Rosso e nell’oceano Indiano, perché garantiva una copertura soltanto parziale delle coste e comunque era ormai superata, risalendo a prototipi inglesi e francesi del primo Ottocento. Fra l’altro, se la rotta di Suez era favorevole alla navigazione a vapore, non altrettanto poteva dirsi per quella a vela, a causa del particolare regime dei venti nel Mar Rosso, come per esempio il temibile khamsin, caldo, secco e polveroso, che in primavera spira da sud e sud-est e trasporta sul mare la sabbia del deserto, impedendo di
fatto alle navi a vela di procedere. Occorreva, pertanto, risolvere il problema alla radice e l’Istituto Idrografico della Regia Marina fu chiamato a intraprendere una lunga serie di campagne idrografiche, geodetiche e topografiche che, per la loro estensione e il loro contenuto tecnico-scientifico, dovevano rappresentare un patrimonio di indiscusso valore storico, geografico e culturale. Rilievi, tra l’altro, eseguiti sempre in un contesto di grave disagio per le condizioni ambientali estreme e di pericolo a causa dell’ostilità delle popolazioni locali. Si cominciò con la costruzione del piano della baia di Assab, per il quale si dovette procedere a una preventiva triangolazione, sviluppandola da una base di 437,05 metri misurata con una fettuccia metallica poco a sud di Ras Buia ed estendendola poi verso est su alcune isole dell’arcipelago antistante, con l’idea di eseguire dapprima il rilievo delle aree maggiormente frequentate dalle navi. Ultimato il lavoro topografico e di scandaglio, si procedette alla determinazione delle coordinate geografiche dell’asta di bandiera collocata davanti al palazzo del commissario regio, calcolando una serie di altezze meridiane del sole per stabilire la latitudine ed effettuando ripetute corse con quattro cronometri, fra Assab e Aden, per fare lo stesso con la longitudine. Infine, venne determinata la declinazione magnetica, che risultò di 5°45’ ovest. Grazie a tale attività, l’Istituto, nel 1881, poté pubblicare il primo piano della baia di Assab, alla scala di 1:35.000. Nello stesso anno, il tenente di vascello Carlo Mirabello,
La Regia nave STAFFETTA, che svolse numerose campagne idrografiche nel Mar Rosso e nell’oceano Indiano, Ufficio Storico della Marina Militare, 1899.
Stazione topografica nel Mar Rosso, Ufficio Storico della Marina Militare, 1910.
Ascaro di Marina con la divisa bianca e il tarbush in feltro (1926 ca.) - (Collezione privata).
L’aggiornamento della cartografia
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prima, e il sottotenente di vascello Giovanni Boer, poi, ripresero i lavori e portarono a termine il rilievo del canale Rubattino. A partire dal 1886, quando la città di Massaua passò in mani italiane, venne eseguito il rilievo idrografico del porto e delle sue adiacenze, caratterizzate da banchi di sabbia e scogli sommersi, alquanto pericolosi per la navigazione. La topografia fu eseguita lungo il tratto litoraneo e insulare compreso fra Rasel-Garara e Archico dai tenenti di vascello Giuseppe Boccardi e Cesare Marcacci, sotto la direzione del capitano di corvetta Mirabello, comandante della Regia nave Scilla, un’ex cannoniera trasformata in unità idrografica. Per tutto il periodo dei lavori, fu-
rono compiute frequenti osservazioni mareometriche, dalle quali si ricavarono i seguenti dati di ampiezza della marea: alle comuni sizigie, 1,30 metri; alle quadrature, 0,80 metri. Con osservazioni di stelle al primo verticale, usando uno strumento dei passaggi di grandi dimensioni marca Throughton & Simms, si determinò la latitudine del pilastrino vertice trigonometrico situato sul Palazzo del Governo e, con il trasporto di sei cronometri, si misurò la differenza di longitudine fra questo punto e il monumento BiglieriGiulietti ad Assab. Dall’insieme di questi dati, l’Istituto poté ricavare, nel 1887, un piano generale costiero e un altro particolareggiato del porto di Massaua, alla scala di 1:5000.
Carta del porto e della rada di Massaua, Genova, Istituto Idrografico della Marina, 1887.
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che consentirono di ricavare dei piani opportunamente aggiornati, in sostituzione di quelli vecchi francesi e inglesi, risalenti alla prima metà dell’Ottocento. Precisamente, furono rilevati gli ancoraggi di Alula, Merca, Brava, Itala e Obbia, operando con la massima celerità perché le popolazioni indigene spesso abbattevano i segnali, come segno di ostilità verso gli «invasori» europei, per quanto fossero nel numero più limitato possibile e consistenti, spesso, in semplici pali di legno imbiancati. Itala era l’ex villaggio costiero somalo di Ataleh, ribattezzato così da Vincenzo Filonardi dopo la sua occupazione nel marzo 1891. Altrettanto avvenne un decennio dopo, sempre con la Regia nave Staffetta, che rilevò 390 km di costa e 30 km di corso del fiume Giuba ed eseguì quattro stazioni astronomiche complete (latitudine, longitudine e azimut) a Chisimaio, Brava, Mogadiscio e Itala, otto determinazioni di azimut a Merca, Brava, Zanzibar, Uarsciek, Chisimaio, Mogadiscio, Itala e Aden, 241 stazioni geodetiche, 406 stazioni topografiche, tre stazioni mareometriche e sette stazioni magnetiche, consentendo alLa squadra dei sambuchi (GAZZELLA, CAMOSCIO, ANTILOPE e DAINO), Ufficio Storico della Marina l’Istituto di pubblicare le prime due Militare, 1910. carte della costa alla scala di 1:250.000, nonché i piani dei vari ancoraggi. Ai rilievi topografici si procedette con apposite spedizioni nell’interno, scortate da «ascari» per premunirsi contro eventuali atti ostili da parte delle popolazioni locali. Intanto, con lance e piroghe vicino alla costa e con la nave al largo, si eseguivano le linee di scandaglio e, nel contempo, si effettuavano le necessarie osservazioni mareometriche a Mogadiscio, Brava e Giumbo, per ricavarne gli elementi necessari per lo studio della marea e la riduzione Uso dello scandaglio meccanico per misure di profondità nel Mar Rosso, Genova, Istituto Idrografico degli scandagli. Infine, mediante della Marina, 1910. corse cronometriche, furono colleDal 1898, quando il tratto di costa somala compreso tra il golfo di Aden, a nord, e la foce del fiume Giuba, a sud, fu dichiarato d’influenza italiana, tutte le unità militari inviate in quei paraggi come stazionarie contribuirono, in un modo o nell’altro, a studiare idrograficamente la costa nei punti di maggiore interesse. In circostanze particolarmente favorevoli per compiere tali ricerche si trovò la Regia nave Staffetta nella campagna del 18981899, stante la generale tranquillità del territorio in quel periodo, che non richiese l’impiego dell’unità in missioni diplomatiche e militari. Vennero, infatti, compiuti rilievi di ancoraggi ed eseguite determinazioni astronomiche,
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gate a Chisimaio e ad Aden le località di Brava, Mogadiscio e Itala. Le operazioni si ripeterono nel 1910-11 sia a Massaua sia a Mogadiscio, permettendo di correggere i piani costieri e di tracciare un profilo completo dei fondali fino a 20 miglia dalla costa. Le misurazioni furono sensibilmente ostacolate da condizioni di tempo sovente sfavorevoli, oltre al fatto che i lati della rete topografica avevano, in generale, lunghezze rilevanti. La triangolazione fu eseguita con sei reiterazioni del cerchio azimutale e, inoltre, in varie stazioni, furono compiute delle osservazioni di zenitali, per dedurre la quota dei punti che presentavano caratteri cospicui e che, quindi, potevano facilitare il riconoscimento della costa dal largo. Il rilievo topografico veniva eseguito con il tacheometro, appoggiando le singole stazioni anche ai numerosi segnali di dettaglio determinati lungo la costa stessa. Gli scandagli in costa erano generalmente eseguiti con la barca a vapore, mentre la nave scandagliava minutamente tutte le aree di grande navigazione. Per l’esecuzione degli scandagli dalla nave, in alcune zone dove i punti sulla terraferma non sarebbero stati sufficienti per una buona determinazione della posizione, si
ricorreva all’aiuto di sambuchi opportunamente ancorati in posizioni diverse e determinati per intersezione con visuali simultanee al teodolite. I bassifondi isolati, sui quali in generale era possibile ancorarsi, venivano individuati misurando gli angoli formati con determinati punti di riferimento per mezzo di strumenti a riflessione (sestante o circolo Amici-Magnaghi) e riportandoli sulla carta con l’ausilio dello staziografo, e la loro esplorazione minuta, per la ricerca del minimo fondale, veniva effettuata con l’impiego di imbarcazioni che muovevano a raggiera ed erano rilevate dalla nave stessa in istanti convenuti e segnalati. Il lavoro di scandaglio lungo il tratto di costa somala compreso fra Mogadiscio e Uarsciek fu eseguito minuziosamente fino a circa otto miglia da terra, allo scopo di avere la certezza dell’inesistenza di pericoli; più al largo, fino a 16 miglia dalla costa, gli scandagli, generalmente superiori a 500 metri, vennero fatti a intervalli più lunghi, mirando soprattutto a riconoscere l’andamento del fondo. Altre impegnative campagne ebbero luogo nel Mar Rosso negli anni 1912, 1913 e 1914, a dimostrazione dell’importanza attribuita alla mappatura dei fondali e delle coste in quell’area strategica per gli interessi coloniali italiani. Dopo la parentesi della Grande guerra, che vide il progressivo abbandono di tali attività in funzione delle esigenze belliche, la direzione dell’Istituto, nella primavera del 1923, propose al ministero della Marina di riprendere le ricerche idro-oceanografiche in Eritrea. Accolta favorevolmente la proposta, l’Istituto invitò il Regio comitato
Stazione geodetica allestita dal personale della Regia nave idrografica STAFFETTA lungo le coste eritreenel 1910, Genova, Istituto Idrografico della Marina.
Operazioni dalla barca idrografica con lo scandaglio meccanico «Magnaghi», Genova, Istituto Idrografico della Marina, 1924.
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talassografico italiano a partecipare alla campagna, per eseguire quelle ricerche di biologia marina che potessero coesistere con il lavoro idrografico della Regia nave Ammiraglio Magnaghi. La campagna durò meno di un anno: dal 3 ottobre 1923 al 7 giugno 1924. Le ricerche biologiche incominciarono sin dall’arrivo a Port Said, con particolare attenzione alle forme suscettibili di fornire indicazioni circa la migrazione di specie marine dal Mediterraneo al Mar Rosso e viceversa. I lavori, con pescate di profondità, continuarono durante il viaggio verso Massaua e, in seguito, nel corso delle varie traversate e durante le soste nelle zone di scandaglio. Le ricerche furono sviluppate maggiormente nel golfo di Suez, dove furono eseguite anche misurazioni di corrente e di temperatura, raccogliendo altresì dati chimici da mettere a confronto con quelli raccolti durante precedenti campagne talassografiche.
17 dicembre 1914. La Regia nave idrografica AMMIRAGLIO MAGNAGHI alla fonda alla Spezia, subito dopo l’entrata in servizio, Ufficio Storico della Marina Militare.
Il prof. Luigi Sanzo, capo del suddetto Comitato, oltre alle interessanti osservazioni sugli scambi faunistici tra i due mari, sperimentò una rete planctonica di sua concezione, ad apertura e chiusura in momenti voluti, adottata successivamente in Italia e all’estero, che si rivelò utilissima nell’esame sulla distribuzione verticale degli organismi marini. Durante le soste della nave nei porti o distaccando speciali missioni a terra, furono eseguite numerose stazioni gravimetriche e magnetiche, mentre misurazioni mareometriche furono effettuate lungo tutto il percorso, impiantando dei mareografi temporanei.
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Scandagliamenti e rilievi effettuati dalla plancia della Regia nave idrografica AMMIRAGLIO MAGNAGHI nel 1924, Ufficio Storico della Marina Militare.
Nell’anno 1928, sempre con la Regia nave Ammiraglio Magnaghi, fu ripreso il lavoro idrografico nell’arcipelago delle Dahlak, separato dalla terraferma dal canale di Massaua, formato da 126 tra isole e scogli. In Eritrea, come in Somalia, erano stati eseguiti numerosi rilievi idrografici; tuttavia, per necessità di cose, si era sempre trattato di rilievi parziali, anche se questi si riferivano ad aree di una certa ampiezza. Tali aree, comunque, dovevano essere collegate fra loro e questo sia per ottenere il rilievo completo delle coste sotto giurisdizione italiana, sia, soprattutto, per ottenere la necessaria unificazione geodetica delle posizioni dei punti determinate in precedenza nelle singole aree. Veniva profilandosi, pertanto, sempre più concretamente l’idea di procedere alla realizzazione di un’estesa campagna di rilievi nel Mar Rosso e nell’oceano Indiano, incomin-
Scandagliamenti effettuati con l’apparecchio «Lucas» effettuati dalla Regia nave idrografica AMMIRAGLIO MAGNAGHI nel 1924, Ufficio Storico della Marina Militare.
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ciando, per l’appunto, a inviare la principale unità idrografica nel Mar Rosso al fine di scegliere le località migliori. Durante il rilievo topografico della costa eritrea, ci si servì in parte del tacheometro e in parte di foto aeree scattate dai velivoli della locale stazione idrovolanti, primo esempio di collaborazione fra rilievi terrestri e aerei che sarebbe proseguita, negli anni successivi, con lo sviluppo dell’aerofotogrammetria. Nel corso di tale campagna, vennero anche eretti i fari di Guardafui e Ras Hafun, salutati da tutti i marinai come un grande contributo alla sicurezza della navigazione. Fu, però, negli anni fra il 1933 e il 1939, in concomitanza con la Guerra d’Etiopia del 1935-36 e con il successivo consolidamento del dominio coloniale nell’Africa orientale italiana, che l’Istituto ottenne dallo Stato Maggiore della Regia Marina il permesso di realizzare una serie di campagne che dovevano rappresentare un modello di capacità organizzative e soluzioni innovative per l’esecuzione di rilievi idrografici, geodetici e topografici, e ciò sia per l’entità dei rilievi stessi, sia per la mole dei dati raccolti, con i quali si poté, per la prima volta, pubblicare l’idrografia completa delle coste e degli ancoraggi che interessavano l’Eritrea e la Somalia, in un’area fortemente strategica per la navigazione mondiale. Dato, però, che le aree da rilevare erano lontane dalle basi di rifornimento, sprovviste di vie di comunicazione, aspre per la natura del suolo e le condizioni climatiche, fu necessario inviare in avanscoperta ufficiali e personale vario per eseguire ricognizioni del terreno, scegliere i punti destinati a di-
ventare i vertici della triangolazione e porre i segnali di scandaglio. Inoltre, grazie all’aiuto del governo della Colonia Eritrea, fu possibile reperire mezzi automobilistici, carovane di cammelli e tradotte di muli per raggiungere le zone più impervie e isolate. Nella fase preparatoria, fu anche ravvisata l’opportunità di rilevare la costa con esattezza tale da consentire alle navi di limitata potenza la navigazione a distanza ravvicinata, in modo da diminuire la sensibile perdita di cammino dovuta alle correnti, che aumentavano progressivamente d’intensità dalla costa verso il largo, fino a raggiungere le sei miglia orarie. Ma ciò avrebbe comportato un grande dispendio di tempo, per cui, per superare tale difficoltà, ci si rivolse alla Regia Aeronautica per chiedere l’esecuzione di fotografie aeree della fascia costiera, per una larghezza compresa tra 10 e 30 km, per ricavarne poi quei particolari del terreno che potessero risultare utili ai fini della navigazione. Vennero anche presi accordi con l’Istituto Geografico Militare di Firenze, in particolare con il capitano Ermenegildo Santoni, ideatore di un nuovo apparecchio per rilievi aerofotogrammetrici (una macchina fotografica a lastra a doppia camera che permetteva di allargare il campo trasversale della ripresa pur conservando un buon campo longitudinale), per poter usare in maniera estensiva tale sistema. L’Istituto, da parte sua, provvide a dotarsi di uno speciale «stereofotogrametro», costruito da una primaria ditta nazionale, con il quale, a rilievi ultimati, fu possibile realizzare dei disegni topografici di altissima preci-
Determinazione della posizione per mezzo di strumenti a riflessione per misurare gli angoli (sestanti), Genova, Istituto Idrografico della Marina, 1924.
1924. Disegnatori-topografi riportano sulla carta i risultati delle osservazioni e delle misurazioni, Genova, Istituto Idrografico della Marina.
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Carta della baia di Assab, Istituto Idrografico della Marina, 1936.
sione. Il collegamento geodetico fra i punti di coordinate geografiche note fu attuato per mezzo di una poligonale costiera, accuratamente misurata, con lati di circa 4 km. Il metodo, la sua teoria e l’applicazione pratica erano state studiate in precedenza presso l’Istituto, dove era stato costruito appositamente un nuovo strumento, il «filostadiometro», per la misura dei lati della poligonale. Grazie al lavoro preliminare, i risultati dei rilievi furono eccezionalmente cospicui e con essi l’Istituto poté pub-
blicare tre carte generali alla scala 1:1.000.000, sette carte alla scala 1:300.000, una carta alla scala 1:150.000, due carte alla scala 1:60.000 e 16 piani di ancoraggi. Nell’archivio storico dell’Istituto sono conservati i grafici di scandagliamento e i giornali di campagna, oltre a una buona parte della strumentazione impiegata nei rilievi, cimeli preziosi che costituiscono una documentazione precisa, dettagliata e completa di un lavoro di altissimo livello scientifico. 8
BIBLIOGRAFIA Z.O. Algardi, Luigi Negrelli, l’Europa, il Canale di Suez, Firenze 1988. S.C. Burchell, Il Canale di Suez, Milano 1967. A. Cantile (a cura di), La cartografia in Italia: nuovi metodi e nuovi strumenti dal Settecento ad oggi, Istituto Geografico Militare, Firenze 2007. A. Del Boca, Gli italiani in Africa orientale, 4 voll., Bari 1976-84. L. Di Paola, L’Istituto Idrografico della Marina: 1872-1972, Roma 1972. G. Doria, Debiti e navi. La compagnia Rubattino: 1839-1881, Genova 1990. F. Leva, Storia delle campagne oceaniche della Regia Marina, 4 voll., Roma 1992. P. Maltese, Storia del Canale di Suez. L’Egitto e il canale 1833-1956, Milano 1978. A. Monti, La storia del canale di Suez con cartografia finale, 1937. P. Piccione (a cura di), Raffaele Rubattino. Un armatore genovese e l’Unità d’Italia, Cinisello Balsamo (MI) 2010. P. Presciuttini, 125 anni al servizio del paese, Genova 2000.
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STORIA E CULTURA MILITARE
Buona Guardia! Una storia di Etica a difesa dello Stato
La Regia Torpediniera ALISEO. Quest’unità reagì all’aggressione tedesca distruggendo, il 9 settembre 1943, davanti a Bastia, un’intera flottiglia tedesca (USMM).
Enrico Cernuschi (*)
Premessa Scopo dell’Accademia navale è formare, dal punto di vista etico e professionale, gli ufficiali di Marina. Nel corso dei secoli gli ordinamenti, i tempi e le modalità di questo processo educativo e addestrativo, di per sé indispensabile per la vita e il progresso della Forza Armata, sono cambiati più volte. Quella che segue è una storia modesta, sia pur calata in maniera decisiva in occasione di uno dei momenti più drammatici dell’intera vicenda unitaria italiana: l’armistizio dell’8 settembre 1943. La si potrebbe definire, in apparenza, financo piccola cronaca, ma non di meno presenta (beninteso a parere di chi scrive) una duplice valenza. Da un lato evidenzia, infatti, come meglio non si po-
trebbe il ruolo, decisivo e sempre affidabile, della Marina nelle vicende italiane di ogni tempo. Dall’altro, l’inedita vicenda narrata in queste pagine pone al centro una questione fondamentale: quella, cioè, della precedenza della formazione etica e caratteriale rispetto a tutto quello che, di necessità, deve seguire, tra apprendimento ed esercizio fisico, nel corso degli anni fino alla nomina a guardiamarina. Ma a questo punto è bene procedere con ordine dopo un’ultima, indispensabile premessa: chi vive questi avvenimenti, siano essi in plancia o a terra, non ha altra scelta che agire — sempre e soltanto sotto la sua esclusiva responsabilità — affidandosi al proprio apprezzamento della situazione e alle norme, appunto etiche, apprese o che, più semplicemente, l’hanno spinto, un bel giorno, a tentare la via del mare, in generale, e quella della Marina italiana in particolare. E talvolta può capitare che, mentre il processo formativo di cui sopra è ancora in corso (o, addirittura, è appena all’ini-
(*) Laureato in giurisprudenza, vive e lavora a Pavia. Studioso di storia navale ha dato alle stampe, nel corso di venticinque anni, altrettanti volumi e oltre 500 articoli pubblicati in Italia, Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia dalle più importanti riviste del settore. Tra i libri più recenti «Gran pavese» (Premio Marincovich 2012), «ULTRA - La fine di un mito», «Black Phoenix» (con Vincent P. O’Hara), «Navi e Quattrini» (2013), «Battaglie sconosciute» (2014), «Malta 1940-1943» (2015), «Quando tuonano i grossi calibri» e «Gli italiani dell’Invincibile Armata» (2016), «L’ultimo sbarco in Inghilterra» (2018) e «Venezia contro l’Inghilterra, 1628-1649» (2020).
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zio), di dover agire lo stesso, d’istinto e di carattere. E almeno in un caso, documentato nelle pagine successive, la posta in giuoco non fu quella del pur legittimo amor proprio personale o della stessa incolumità fisica dell’interessato di turno, ma quella del futuro dell’intera nazione. La storia dell’armistizio italiano dell’8 settembre 1943 è stata narrata, vista da una parte o dall’altra, un’innumerevole quantità di volte. In questa sede basterà pertanto riassumere, brevemente, i fatti. Nell’impossibilità di arrivare, assieme alla Germania hitleriana, a una pace separata con l’Unione Sovietica a causa del comprensibile rifiuto, da parte del Führer, di sottoscrivere il proprio suicidio politico, e nell’incapacità di opporsi militarmente allo strapotere militare statunitense e, secondariamente, britannico, nel Mediterraneo, i governi italiani succedutisi nel corso del 1943 (1) arrivarono alla conclusione che fosse necessario stipulare un armistizio con Washington e Londra. La buona volontà americana volta a concludere, nonostante la dichiarazione di Casablanca del 22 gennaio 1943, un armistizio militare e non la resa incondizionata (che invece si abbatté, infine, sulla Germania e sul Giappone, nel 1945, con conseguenze pesantissime per le popolazioni di quelle due nazioni protrattesi fino al 1950) era stata infatti assodata sia dal sovrano, sia dallo stesso Mussolini già qualche giorno prima della dichiarazione di cui sopra (2). Londra, per contro, perseguiva dichiaratamente l’obiettivo bellico di una politica peggio che punitiva in quanto intendeva includere, dopo la guerra, l’Italia, data la costante crescita economica del Bel Paese da un secolo a quella parte, nell’area della sterlina imponendo, naturalmente, un cambio fisso e punitivo ai danni della lira, come sempre avviene, in pace e in guerra, con le monete d’occupazione, caratterizzate come sono dalla perdita della sovranità monetaria da parte del soccombente. Tra il 24 luglio e il 14 agosto 1943 gli statunitensi imposero, infine, ai riluttanti alleati britannici, la propria politica (ben altrimenti benevola in quanto fondata sui comuni interessi geopolitici e geo economici in atto tra Washington e Roma sin dalla fine dell’Ottocento) nei confronti dell’Italia (3). Ciò non impedì, natural-
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mente, ai sempre pragmatici inglesi di proseguire, sottobanco, i propri tentativi ai danni dell’Italia, cercando di far passare dalla finestra ciò che non avevano potuto contrabbandare dalla porta principale. L’andamento, dominato da superficialità ed equivoci, delle trattative tra i generali italiani del Comando Supremo e gli angloamericani culminò, infine, nella firma del documento armistiziale sottoscritto a Cassibile il pomeriggio del 3 settembre 1943 sulla base di un comune ed errato apprezzamento della situazione. Tutti i protagonisti di quelle vicende ritennero, infatti, che dopo l’annuncio della cessazione delle ostilità, da rendere noto al mondo poche ore prima di un nuovo sbarco statunitense e britannico «a portata di Roma», i tedeschi avrebbero dato senz’altro corso a una rapida e «inevitabile» ritirata in direzione della congiungente Pisa-Rimini. Né era esclusa la possibilità della stessa fine del conflitto replicando, con Hitler nel ruolo già ricoperto dal Kaiser nel novembre 1918, una caduta verticale della Germania e una sua sostanziale riduzione sotto la tutela britannica, lasciando agli Stati Uniti l’offa rappresentata dall’Italia e dalla Francia. La ritirata della Wehrmacht dall’Italia meridionale e centrale era data, anzi, tanto sicura da indurre i pur prudenti americani a promettere l’invio a Roma della loro unica divisione di paracadutisti, l’82a Airborne, assieme a una colonna corazzata destinata a risalire, a bordo di una LST (Landing Ship Tank) e di 3 LSI (Landing Ship Infantry) da 380 t, il Tevere, per poi mettere a terra una dozzina di semoventi cacciacarri M 10 e alcune batterie antiaeree e anticarro. Proprio le modalità di quest’ultima operazione aeronavale, successiva allo sbarco (atteso incontrastato, o quasi) a Salerno e fissato per il 9 settembre 1943, tradiscono i presupposti, assolutamente erratati, angloamericani. L’82ª, su due soli reggimenti a forza ridotta dopo le perdite subite in Sicilia, avrebbe dovuto prendere, infatti, terra su alcuni aeroporti laziali nel corso di due ondate, la prima delle quali fissata nel corso della notte tra l’8 e il 9 settembre e la successiva da rinnovare durante le ore di oscurità del 9 e 10 di quello stesso mese. Quanto alle navi da sbarco, esse sarebbero arrivate a Fiumicino, se tutto fosse andato bene, il 10, e l’intero complesso sarebbe stato a piè d’opera l’11. Soltanto allora, e in piena au-
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tonomia rispetto agli italiani, gli statunitensi avrebbero potuto agire, se del caso, contro i tedeschi. Si trattava di condizioni messe nero su bianco sin dall’inizio del mese con i rappresentati del Comando Supremo e che confermavano il fatto, puro e semplice, che quell’aiuto non era, in realtà, che una forza di occupazione, sia pure cordiale. Non c’è da stupirsi, a questo punto, in merito al sempre scarso entusiasmo che il comandante dell’82ª, generale Maxwell Taylor (recatosi clandestinamente a Roma il 7 settembre per capire che aria tirasse laggiù) manifestò sempre davanti a tutti, superiori inclusi, in vista di quell’operazione di natura più politica che militare. L’aviosbarco fu annullato, come è noto, il pomeriggio del’8 settembre e la piccola Forza anfibia, partita il 5 da Biserta, fu dirottata, la sera dell’armistizio, in direzione di Salerno. In quello stesso momento, un quarto d’ora dopo la conferma italiana dell’armistizio, i tedeschi attaccarono in omaggio ai piani che Berlino aveva prestabilito da tempo, e il pomeriggio del 10 Roma cadde in loro potere sulla base di una serie di patti via via violati dalla controparte germanica, fino alla fine del regime stesso della città aperta e neutrale istituita il 10 al comando del generale, conte Calvi di Bergolo, genero del Re succeduto al governo, e consumata il 23 di quello stesso mese col disarmo delle ultime truppe italiane rimaste in città. Il 9 settembre, di prima mattina, data l’impossibilità, assodata sin dal 31 luglio 1943, di poter difendere la capitale nel caso di un colpo di mano tedesco, il Re, per quanto fosse evidentemente vecchio e malato, lasciò, in quanto capo dello Stato, la capitale, essendo la garanzia vivente dell’armistizio con gli angloamericani che lui solo aveva deciso (contro il parere del cosiddetto e improvvisato consiglio della corona, nel pomeriggio dell’8 settembre 1943) di confermare. Con lui viaggiavano la Regina, il principe ereditario Umberto (personalmente contrario a lasciare la città, ma costretto a partire nel caso, non improbabile, di morte del sovrano in quell’occasione o in seguito), assieme al generale Vittorio Ambrosio, Capo di Stato Maggiore generale, al presidente del consiglio, maresciallo Pietro Badoglio — caduto sin dal giorno precedente in una profondissima depressione che l’avrebbe accompagnato per una settimana — e, come da ordini del Re, i
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ministri militari, meno quello della Guerra, generale Antonio Sorice, il quale si rifiutò di partire non avendo approvato sin dal pomeriggio del giorno prima quell’armistizio — definito in quelle stesse ore alla stregua di un gioco di bussolotti — e messo in piedi a sua insaputa e senza che il governo ne fosse messo a parte, eccezion fatta, forse, per il ministro della Real Casa. Scartato il piano A (discesa del Tevere a bordo di alcuni motoscafi di rappresentanza e imbarco a Civitavecchia sui cacciatorpediniere Vivaldi e Da Noli alla volta della Maddalena), rimase quello B: viaggio via terra fino a Pescara e da lì trasferimento per via aerea in una località, come aveva deciso sin da agosto il Re, che fosse libera da minacce terrestri tedesche o angloamericane. Badoglio e alcuni generali, per contro, sostennero allora e fino al 12 settembre, sempre senza successo data l’opposizione del Monarca, fisicamente debole, ma risoluto a non farsi più prevaricare, che fosse meglio trasferirsi in Sicilia. All’aeroporto di Pescara, però, il pomeriggio del 9 settembre, l’atmosfera si rivelò subito poco cordiale. Fortunatamente per tutti, l’ammiraglio De Courten, ministro e Capo di Stato Maggiore della Marina, aveva pensato, da buon militare, di concepire, la mattina di quello stesso giorno prima di lasciare la capitale, un piano alternativo basato sull’invio a Ortona di due corvette scortate dall’incrociatore Scipione. Imbarcati (in parte) i vari personaggi, cui si era aggiunto, nel frattempo e senza autorizzazioni, uno stuolo di generali ed elementi vari del Comando Supremo e dello Stato Maggiore dell’Esercito, la corvetta Baionetta arrivò, nel primo pomeriggio del 10 settembre, a Brindisi. Il semaforo, interpellato, aveva segnalato che i pochi tedeschi presenti in città al momento dell’armistizio si erano allontanati già il 9 senza incidenti. La diffidenza, però, regnava tra i passeggeri e il Re, con la Regina e il principe Umberto, scese per primo a terra, con un’imbarcazione, accolto dagli applausi di un gruppo di marinai e di civili. Rassicurati, anche gli altri passeggeri seguirono alla spicciolata. Il comandante della piazza, ammiraglio Luigi Rubartelli, una volta ripresosi dalla sorpresa, riuscì a sistemare tutti, piuttosto spartanamente, nel Castello Svevo, sede del suo comando, mentre il Re e i suoi si trasferivano nella poco distante
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palazzina del piccolo Circolo ufficiali della Marina circondato dai viali e dal giardino che lo separavano dal perimetro esterno della base navale. Il servizio di guardia al Sovrano fu assunto da un gruppo di marinai e di Reali carabinieri, questi ultimi, peraltro, «in numero insignificante», come ricordò in seguito il maggiore Luigi Marchesi (4). Ed è a questo punto, avendo tratteggiato la tragica vicenda di sfondo dell’armistizio nei suoi contorni generali, che la piccola storia oggetto di queste pagine entra nel vivo.
La sberla del secolo La sera del 3 settembre 1943, dopo l’avvenuta firma dell’armistizio, i vertici angloamericani nel Mediterraneo, agli ordini del generale statunitense Dwight Eisenhower, incominciarono a concepire un’operazione totalmente nuova e di cui non dissero nulla agli italiani prima della mattina del 9. Denominato, non a caso, Slapstick, il piano in questione prevedeva uno sbarco improvvisato a Taranto. Eisenhower pensava, infatti, sin dal maggio 1943 che le ottimistiche previsioni inglesi in vista di una rivolta tedesca di palazzo che eliminasse Hitler e ponesse, contemporaneamente, fine al conflitto europeo non appena fosse stata diramata la notizia dell’armistizio italiano, erano non solo infondate, ma perfino contrarie agli stessi interessi statunitensi, visto che quello che premeva davvero a Washington era la rimozione definitiva della minaccia militare — e perfino culturale — del modello tedesco.
Il generale statunitense Eisenhower, Comandante in capo angloamericano nel Mediterraneo fino alla fine del 1943, e il diplomatico statunitense Robert Murphy. Entrambi erano uomini del clan del presidente Roosevelt (Robert Murphy, Diplomatico in prima linea, ed. Mondadori).
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Eisenhower e il generale Marshall, Capo di Stato Maggiore generale statunitense, davano pertanto più che probabile la prosecuzione del conflitto in Italia, sia pure lungo quella che sarebbe stata chiamata, un giorno, Linea Gotica. Data quest’ipotesi di lavoro, la collaborazione logistica del governo italiano era indispensabile sin dal principio del nuovo corso, al pari dell’utilizzo del porto di Napoli per le esigenze della 5ª Armata statunitense, mentre l’8ª Armata britannica avrebbe dovuto avvalersi degli scali di Bari e di Taranto. Le Puglie, pertanto, rivestivano un compito decisivo nel quadro delle complesse operazioni angloamericane del settembre 1943. In realtà Slapstick altro non era che la pacifica messa a terra, in banchina, a Taranto, di una Divisione di paracadutisti britannici, sempre che gli italiani fossero stati d’accordo. Le truppe britanniche (appiedate e dotate delle sole armi di squadra) sarebbero state portate laggiù dagli incrociatori inglesi Aurora, Penelope, Dido e Sirius, mentre il piccolo, ma più spazioso posamine veloce Abdiel doveva imbarcare una dozzina di cannoni anticarro da 57 mm e altrettanti trattori. La Divisione (1st Airborne Division), partita da Biserta la mattina dell’8 settembre, annoverava, a sua volta, dopo le perdite subite in Sicilia, meno di 3.500 uomini, su 3 battaglioni e un gruppo su due batterie, oltre a una compagnia del genio. All’ultimo minuto (7 settembre) gli statunitensi resero disponibile anche un loro grosso incrociatore, il Boise, il quale imbarcò, a poppa e dentro la capace aviorimessa, un reparto esplorante dotato di una sessantina di camionette jeep armate di mitragliatrici. Si trattava del Popsky’s Private Army (PPA), alias No 1 Demolition Squadron, un’unità della Forza di una scarna compagnia formata, nel 1942, da irregolari, in prevalenza marocchini, algerini, neozelandesi (maori) e polacchi, al comando di un ingegnere russo, Vladimir Dimitrovich Peniakoff, naturalizzato belga. Il tono del reparto era scarsamente marziale, tanto che l’ammiraglio Morrison scrisse, al loro proposito, di una «Curious Arab unit» (5). Giunti a Taranto, senza incidenti, la sera del 9, gli uomini di Peniakoff iniziarono, la mattina del 10, una serie di rapine a mano armata, impadronendosi, soprattutto, di automezzi, benzina e viveri. Ci volle tutta la
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padronanza di sé dell’ammiraglio Giuseppe Fioravanzo, comandante militare marittimo della piazza, per evitare che la situazione precipitasse e che l’ordine tornasse, nel giro di un paio di giorni, in città, con le scuse del caso. La sera del 10, a ogni L’ammiraglio Giuseppe Fioravanzo buon conto, dopo (USMM). un’ennesima rissa tra gli irregolari di Peniakoff e i paracadutisti, costata a questi ultimi alcuni dei loro berretti rossi nuovi fiammanti, il comandante della 1st Airborne, generale Gerald Hopkinson, pensò bene di togliersi dai piedi quella gente così turbolenta, spedendola, il giorno dopo, in ricognizione in direzione di Brindisi, Monopoli e Bari (tutte località rimaste notoriamente in mano italiana) con l’ordine di non farsi vedere da eventuali reparti tedeschi in ritirata, mentre lui, con i soli due battaglioni di paracadutisti disponibili, avrebbe iniziato, l’11, un’avanzata su Massafra in direzione dell’altopiano delle Murge. Giunto a Brindisi il 10 settembre, il generale Ambrosio e, con lui, il maresciallo Badoglio, aveva subito contattato (cosa che non era loro più riuscita dal giorno precedente) Eisenhower, chiedendo l’invio di una missione di collegamento angloamericana. La notte tra l’11 e il 12 la motonave passeggeri Saturnia, partita da Venezia il 10 con a bordo quasi mille persone tra allievi del Corso Raffiche, concorrenti di quello che diventerà il Corso Vedette del 1943-46, ufficiali, sottufficiali, professori e famigli, si incagliò all’altezza di Lecce. Il personale fu fatto imbarcare su cinque rimorchiatori e gli allievi, coi loro pesanti fardelli pieni di vestiario e libri, arrivarono, il pomeriggio del 12, alla loro nuova sede provvisoria, il Collegio navale della GI (Gioventù Italiana, già GIL, Gioventù Italiana del Littorio) di Brindisi. Per quanto fossero esausti e scossi dopo tanti giorni di ignote sorprese, il loro inquadramento impressionò molto favorevolmente il Re il quale, osservandoli dalla finestra, ordinò che provvedessero loro, per i
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La nave scuola CRISTOFORO COLOMBO. L’unità raggiunse Brindisi, assieme al VESPUCCI, il 13 settembre 1943 con a bordo gli allievi del Corso Argonauti (1942-45), a quell’epoca nel periodo di transizione tra il 1° e il 2° anno (USMM).
12 settembre 1943. Lo sbarco a Brindisi degli allievi del Corso Raffiche, i concorrenti del corso 1943 (Rivista Marittima).
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commissione rimase in attesa, per tre ore, su quel giorni successivi, alla guardia della modesta residenza campo d’aviazione devastato dai bombardamenti, oltre reale. Era stata, infatti, appena confermata una notizia che circondata da marinai e avieri italiani i quali chiein base alla quale una missione militare e politica andevano tutti: «I tedeschi riconosceranno l’armistizio?», gloamericana si sarebbe recata a Brindisi; la sostanza a conferma della confusione e delle perduranti speranze e le forme andavano, pertanto, rispettate. Il servizio inin una pace generale (o in una fuoriuscita abbastanza cominciò quella sera stessa con un piccolo nucleo di indolore dell’Italia dalla guerra) che molti continuaallievi della terza classe in regolare uniforme ordinaria vano a coltivare apertamente. Alla fine arrivò, a cura estiva (quella storica tuttora in vigore, con pantaloni di Fioravanzo, una piccola automobile (8), la quale trabianchi e corpetto blu) in servizio armato, completa di ghettò, mediante due viaggi, l’irritatissimo MacFarlane cordino bianco e guanti. Come scrisse, molti anni dopo, e i suoi — mezza dozzina di persone in tutto — a Tauno di quegli allievi, l’ammiraglio Antonio Cocco: «A ranto. Qui il generale britannico decise di recarsi, il turno montammo di servizio armati di mitra, con comgiorno dopo, a Brindisi, senza preavvisare i suoi ospiti piti di sicurezza e anche di rappresentanza. Più volte (tattica del tutto inutile, in quanto Fioravanzo informò al giorno i Reali e Badoglio scendevano in giardino subito l’ammiraglio De Courten, il quale aveva ricostiper passeggiare nei viali, continuando a parlare dei tuito il proprio comando, consistente in poco più di una gravi compiti ed enormi problemi del momento. Questo scrivania, nel Castello Svevo, sede del Comando milici costringeva a restare immobili sull’attenti per lunghi tare marittimo) e, cosa curiosa, rifiutando altresì la preperiodi. Personalmente mi sono sempre ritenuto orgovista, già pronta scorta di paracadutisti britannici, glioso di aver prestato questo servizio e la devozione debitamente tirati a lucido, preferendo affidarsi al PPA, verso il Re, verso la meravigliosa e buona Regina Elena, sempre prodiga di affettuosi sorrisi al suo passaggio, verso il Principe Umberto, in me aumentavano di giorno in giorno: Essi erano non solo i Sovrani d’Italia, ma soprattutto i miei Sovrani!» (6). Il pomeriggio del 13 atterrò a Grottaglie un bimotore C 47 statunitense con a bordo la delegazione anglosassone proveniente dal Quartier generale di Algeri. Data la natura militare dell’armistizio, la presiedeva il generale inglese sir Frank Noel Mason MacFarlane, governatore di Gibilterra. Era un uomo dal carattere pessimo, oltretutto «prevenuto nei confronti degli italiani sotto più di un aspetto», (7) come avrebbe scritto in seguito il diplomatico statunitense Robert Murphy, rappresentante politico americano a quel medesimo incontro brindisino assieme al collega britannico Harold Macmillan, futuro Primo ministro tra il 1957 e il 1963 e «grande vecchio» della politica europea fino alla fine degli anni Settanta. I collegamenti con i comandi inglesi a Ta- I rappresentanti inglesi in Italia nel 1943: il diplomatico Macmillan, primo a sinistra, e il generale MacFarlane (Robert Murphy, Diplomatico in prima linea, ed. Mondadori). ranto lasciavano parecchio a desiderare e la
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in quel momento in corso di spostamento, sempre con discrezione, in prossimità di Gioia del Colle, allo scopo di eseguire una ricognizione di quella località, presa dai tedeschi due giorni prima. Informato del prossimo arrivo, in un’ora non precisabile, della missione anglosassone, De Courten decise di rafforzare, per ogni evenienza, la vigilanza alla sede del sovrano. Sempre su suggerimento del Capo di Stato Maggiore della Marina, il solo interprete italiano ammesso ai colloqui sarebbe stato il capitano di corvetta Gustavo Lovatelli, mentre l’ammiraglio Guido Bacci di Capaci, comandante dell’Accademia, pensò bene, a sua volta, di integrare il nucleo di guardia di servizio, il 14, con un paio di concorrenti dimostratisi padroni di un buon inglese e di bella presenza, naturalmente in tenuta da marinai con la «paperina», ossia l’uniforme col solino e il berretto tondo (la cosiddetta «pizza»), e senza armi. In effetti, l’atmosfera non era delle più liete e la sicurezza del Re era tutt’altro che da dare per scontata.
Re Vittorio Emanuele III nel 1943.
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Il pomeriggio del 13, infatti, Vittorio Emanuele III era stato fischiato, all’aeroporto di Brindisi, dai piloti di una squadriglia da caccia, fatto commentato quel giorno nel proprio diario dall’imbarazzatissimo ministro e Capo di Stato Maggiore della Regia Aeronautica, il generale Paolo Sandalli, con un asciutto: «Il Ministro prende atto e annota che il morale dei piloti è basso» (9). Partiti alle prime ore del 14 settembre con una scorta formata da due sezioni di jeep, con a bordo una quindicina di uomini armati, i rappresentanti della missione angloamericana giunsero a destinazione, senza preavviso, poco dopo le 10.00. Il primo contatto, avvenuto con il taciturno Ambrosio e con Badoglio non fu felice, in quanto il capo delegazione inglese, con notevole imbarazzo di Murphy, MacMillan e dei loro due assistenti, si comportò in maniera a dir poco villana. Come se non bastasse MacFarlane era volutamente trasandato e in pantaloni corti, esibendo, in seguito, le proprie ginocchia e i polpacci, anche al Re, in occasione del colloquio fissato, a questo punto e senza cerimonie di sorta, alle ore 11.30 (10). Il generale Mario Roatta, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, assistette, da spettatore, all’arrivo della delegazione osservando, a sua volta, che gli inglesi «… sono così sommariamente e diversamente vestiti e così trasandati che non c’è da fare complimenti!» (11). Subito dopo essere stato ammesso nel piccolo salotto della palazzina col proprio seguito alla presenza del Re, a sua volta affiancato, oltre che dal comandante Lovatelli, dal conte di Campello, MacFarlane cercò di replicare lo show di pochi minuti prima senza però riuscire a impressionare Vittorio Emanuele. In quegli stessi momenti ebbero luogo, pressoché contemporaneamente, due distinti incidenti, uno in corridoio e l’altro nel giardino della modesta residenza reale. Nel corso del primo, un soldato, diciamo così, britannico, qualunque fosse la sua vera origine, cercò di impadronirsi della
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pistola di un sottufficiale biascicando: «Souvenir, souvenir» e brandendo (a titolo di scambio?) un pacchetto di sigarette Camel. Allontanato con un braccio, quel cercatore di ricordi tornò alla carica alzando le braccia mentre altri due suoi commilitoni si facevano sotto. Il sottufficiale sfoderò, a questo punto, «la sberla del secolo», stampando le proprie dita sulla guancia del malcapitato. L’esibizione, subito dopo, dei fucili spianati da parte di due allievi, convinse gli altri inglesi, o presunti tali, ad allontanarsi mormorando parole non comprensibili, ma certo non elogiative. In giardino le cose minacciarono di andare peggio, in quanto un altro commando puntò il proprio mitra contro un concorrente in servizio di interprete facendogli volare il berretto con la canna. Seguì, d’istinto, un violento cazzottone sferrato dal ragazzo, ormai a capo scoperto, seguito da un altro, diretto questa volta sotto il mento, che spedì l’inglese, con il suo elmetto a padella coperto da una zanzariera, al tappeto. Due altri elementi della scorta britannica puntarono, a questo punto, i loro mitra, ma il sottufficiale di guardia nel giardino e accorso nel frattempo, si rese subito conto che i Tommy Gun (ovvero mitragliatori Thompson) dei due, erano privi del caricatore. I britannici, se davvero si era trattato di un piano coordinato, non volevano, evidentemente, passare dalla parte del torto, ma atteggiarsi, casomai, a vittime dei sempre infidi italiani. Una volta estratta la pistola, quella sì carica, del Capo, anche quella coppia di assalitori si allontanò subito portandosi dietro il proprio dolorante compagno. Avendo avvertito il trambusto in atto, il conte di Campello si era a sua volta allontanato, con discrezione, un attimo. Subito informato in merito ai due episodi, l’ufficiale rientrò immediatamente dopo aver impartito l’ordine di mantenere il segreto più assoluto su entrambe le faccende (12). Nel frattempo, l’atmosfera del colloquio, congelata dalla fredda imperturbabilità del Re e dal silenzio, imbarazzato e interrotto solo da qualche monosillabo formulato dal team anglosassone, in risposta alle domande formulate sempre e soltanto dal generale inglese, era giunta a un punto morto. Non essendoci, evidentemente, altro da dire, né essendosi prodotto alcun fatto nuovo (magari dall’esterno), MacFarlane
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pensò bene, a questo punto, di congedarsi. Il Re glielo concesse e il capo delegazione britannico, forse ormai convito di aver esagerato, tese, per la prima volta quel giorno, la mano ai presenti, cominciando da di Campello il quale, però, gliela lasciò penzolare per aria (13). Più cordiale fu, per contro, il saluto fatto a Murphy e a Macmillan. Seguì, nel pomeriggio, un nuovo colloquio, questa volta senza MacFarlane (convenientemente messo fuori gioco dai suoi due rappresentanti politici, visto che il tentativo di intimidire il Re era fallito), tra il sovrano, il ministro della Real Casa Acquarone, Murphy e Macmillan, con l’assistenza di due interpreti, uno americano, il capitano di corvetta, della riserva, John M. Shaheen, e il solito comandante Lovatelli, nel corso del quale furono finalmente definite, da una parte e dall’altra, nel giro di appena mezz’ora, le cose serie. Sovranità italiana, senza governo militare alleato (AMGOT, Allied Military Government of Occupied Territories), della King’s Italy, formata dalle provincie non occupate dagli anglosassoni all’8 settembre 1943 e dalla Sardegna (14). In tal modo veniva riconosciuta, da parte delle Nazioni Unite, l’esistenza di un regolare Stato e governo italiano (sia pure da implementare, data l’assenza di quasi tutti i ministri); conferma dell’impegno angloamericano a permettere al Regno di provvedere, mediante anche le proprie navi mercantili, alle necessità dei territori italiani assicurando i traffici necessari col Nordafrica e prosecuzione — sotto comando italiano — dell’attività delle Forze armate italiane nel Basso Adriatico, nel Mar Jonio e nell’Italia meridionale, in risposta all’aggressione tedesca in collaborazione con gli angloamericani. MacFarlane cercò di vendicarsi dello scacco subito quel giorno scrivendo, in seguito, di aver incontrato un Re di 73 anni con l’aria assente di uno stupido. Murphy, vero padrone del vapore, scrisse, per contro, che «… a noi sembrava che il Re avesse dato prova di un considerevole spirito di iniziativa costringendo Mussolini ad andarsene; in seguito, allontanandosi da Roma dopo il mancato arrivo della protezione alleata, Vittorio Emanuele aveva dimostrato di essere molto più intraprendente e molto più antinazista della maggior parte dei ministri del suo
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governo formato dopo la caduta di Mussolini» (15). Questo giudizio fu fatto proprio, il giorno dopo, oltre che da Eisenhower, dal presidente statunitense Roosevelt e imposto, obtorto collo, dal Primo ministro Churchill al proprio gabinetto di guerra (nonostante l’ostinata resistenza avanzata dalla maggioranza dei suoi ministri) data la totale dipendenza del Regno Unito rispetto alle importazioni dagli Stati Uniti, riconosciuta formalmente da Londra il 29 marzo 1943. Poco dopo, alle ore 17.00 di quello stesso 14 settembre, il Re, «chiuso e arcigno», si recò in visita a bordo delle navi scuola Colombo e Vespucci (giunte da Trieste il giorno precedente) e dell’incrociatore Scipione. In seguito, il commento di Francesco di Campello fu: «Tutto perfetto, come sempre in Marina». Il 15, l’Accademia navale riprese regolarmente il proprio funzionamento. Gli allievi della terza classe furono nominati aspiranti guardiamarina, come riconoscimento del loro comportamento in quei giorni.
Solo un pugno di allievi e perfino un paio di concorrenti si interposero, quello stesso giorno 14, tra quanto avvenne poi in realtà e quelle che avrebbero potuto essere le conseguenze, fatali e definitive, di una grave provocazione, meramente individuale o freddamente orchestrata che fosse. I precedenti, d’altra parte, non mancavano, il 16 aprile 1814, per esempio, il Regno d’Italia napoleonico aveva ottenuto, sul campo, un armistizio militare con gli austriaci che rispettava sia il territorio non occupato dagli Asburgo, sia quello stesso Stato italiano, destinato a rimanere tale e indipendente come specificato nel documento sottoscritto, quel giorno, a Villa Schiarino Rizzino, presso Mantova, anche dopo la futura pace generale. In seguito ad alcuni incidenti organizzati e scatenati dagli austriaci
Verso una conclusione Nel pieno del caos armistiziale dell’alba del 9 settembre, soltanto l’ammiraglio De Courten conservò la lucidità necessaria sia per impartire gli ordini necessari a Supermarina, sia per organizzare un eventuale viaggio via mare, debitamente scortato, del sovrano e del suo (in quel momento) ridottissimo seguito. Soltanto le comunicazioni della Marina permisero al Re di mantenersi in contatto con Roma, il 9 e il 10 settembre, conferendo al maresciallo Enrico Caviglia i poteri, nel vuoto venutosi a creare nel frattempo. Solo la Marina poté assicurare la residuale, minima base logistica del Regno e la sicurezza di Vittorio Emanuele, fino a quando non furono gettate le basi, il 14 settembre, del futuro corso degli avvenimenti succedutisi da allora fino a oggi, novembre 2020.
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Il progetto di partizione dell’Italia presentato senza successo dai sempre tenaci inglesi alla conferenza interalleata di Tehran del novembre 1943, nonostante gli impegni presi in seguito all’incontro del 14 settembre 1943 a Brindisi (mappa di Vincent P. O’Hara).
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a Milano il successivo 20 aprile, però, il Regno fu invaso a tradimento, mediante un colpo di mano, dalle truppe asburgiche, autonominatesi per l’occasione alla stregua degli unici possibili tutori dell’ordine pubblico e della proprietà privata. Quello Stato italiano scomparve, così, dalla carta geografica fino al compimento del successivo Risorgimento. Con ogni probabilità solo Vittorio Emanuele III conosceva, quel 14 settembre 1943, tra i quattro muri della villetta alloggio ammiraglio di Brindisi, quella vicenda più nota sotto l’etichetta de «L’eccidio del Prina». È, però un fatto che ancora nel novembre 1943, a Tehran, gli inglesi chiesero, come già avevano in animo di ottenere nel settembre di quello stesso anno, l’allontanamento di Re Vittorio Emanuele III, abolendo, con lui, il governo italiano, così da poter assegnare a un’AMGOT auspicabilmente diretta, per meriti di guerra, alla sola Gran Bretagna, l’intero controllo dell’Italia occupata. Quello stesso piano prevedeva, inoltre, la suddivisione dell’ex Regno sabaudo, dopo la guerra, in 5 zone di occupazione: una ellenica estesa subito alle Puglie e, in seguito, al meridione, sulle linee dell’antica Magna Grecia; una jugoslava dall’Istria fino a Milano esclusa; una francese comprendente la Valle d’Aosta, il Piemonte, la Liguria, l’isola d’Elba e la Lombardia fino a Milano inclusa (città definita, non a caso, «il cestino del pane»); una inglese formata dalle isole maggiori più la Calabria e una statunitense col Lazio (più Napoli) da governare assieme al Papa. L’Alto Adige, per contro, doveva essere subito restituito all’Austria, in fin dei conti alleata secolare di Londra sin dalla fine del Seicento, a parte pochi, momentanei screzi nel
1734, all’epoca della Guerra dei sette anni e durante il Primo conflitto mondiale (16). L’immediata risposta negativa di statunitensi e russi mise fine a quell’estremo tentativo di cambiare le carte in tavola, ma già il 25 ottobre 1943 il Capo di Stato Maggiore imperiale, generale Alan Brooke, aveva confidato con malinconia al proprio diario che: «Quando guardo al Mediterraneo mi rendo conto anche troppo bene di quanto grandemente ho fallito». Che questo fallimento fosse stato causato, sul piano strategico, dalla Regia Marina nel corso di tre anni di lotta passando dalla «guerra inglese» a quella «americana», è un fatto ormai noto. Che non solo gli ufficiali, i sottufficiali, i graduati e i comuni della Forza Armata abbiano fatto la loro parte è parimenti naturale. Scoprire che anche gli allievi hanno avuto, nel momento più buio, un loro ruolo è, per contro, una piacevole novità. Apprendere, infine, che anche la reazione (dettata dalla dignità del mondo cui aspiravano di essere ammessi) dei concorrenti al corso 1943, le future «Vedette», ha giocato anch’essa, in tutta semplicità, un ruolo, è a sua volta una conferma del fatto che l’Accademia navale forma il carattere, ma che per decidere di tentare di entrarvi sono necessarie doti, a priori, di orgoglio e di rispetto di se stessi non comuni. Perché tutto parte da lì in quanto, come scrisse — per esempio — Massimo d’Azeglio nelle proprie Memorie, ricordando le parole che il marchese padre gli disse quando, adolescente, quel futuro Primo ministro e padre della patria era stato nominato alfiere di cavalleria: «Ricordati che l’onore del soldato sta sullo stesso piano dell’onore del Primo generale e anche del Re». 8
NOTE (1) Carlo Scorza, ultimo segretario del partito fascista, scrisse chiaramente che Mussolini, dopo l’esito imprevisto dell’ultimo Gran Consiglio del fascismo, aveva accettato l’idea di un armistizio con gli angloamericani, sia pure riservandosi di organizzarlo in maniera appropriata al termine di un ultimo tentativo volto a far ragionare Hitler d’intesa coi giapponesi spedendo da Roma, entro il 25, un telegramma redatto in termini non ulteriormente differibili il cui testo doveva essere sottoposto, naturalmente, al Re. Carlo Scorza, La notte del Gran consiglio, ed. Palazzi, Milano 1968, p. 168. Per il telegramma in parola, ancora più duro di quello, pesantissimo, spedito a Hitler il 18 luglio 1943, si vedano Frederick W. Deakin, Storia della repubblica di Salò, volume I, ed. Einaudi, Torino 1963, p. 513 e Roberto Festorazzi, Führer, liquidiamo il capitolo Russia, Il Giornale, 30 luglio 2001. (2) Frederick W. Deakin, Storia della repubblica di Salò, ed. Einaudi, Torino 1970, pp. 192-199. Giacomo Acerbo, Tra due plotoni di esecuzione, ed. Cappelli, Bologna 1968, p. 483. Enrico Cernuschi, Il fantasma delle riparazioni, Rivista Marittima, ottobre 2007. Guido Carli, Cinquant’anni di vita italiana, ed. Laterza, Bari 1996, pp. 12-27. (3) Kevin Smith, Conflict Over Convoys, ed. Cambridge University Press, Cambridge 1996, pp. 156-179. Kenneth Strong, Guerra segreta per l’Europa, ed. Garzanti, Milano 1968, pp. 134 - 147. TNA (ex PRO), War Office (W.O.) 10006/39126, J.P. (43) 264 (Final) 24 July 1943, C.O.S. (43) 172 Meeting. (4) (4) Luigi Marchesi, Come siamo arrivati a Brindisi, p. 119. (5) Samuel Eliot Morison, Sicily-Salerno-Anzio, ed. Little Brown, Boston 1954, p. 235. (6) Antonio Cocco, Per la Patria e per il Re, Bastogi, Foggia 2006. (7) Robert Murphy, Un diplomatico in prima linea, ed. Mondadori, Milano 1967, p. 288. (8) Non è escluso che l’ammiraglio italiano, cui i commando avevano rapinato tre giorni prima, a mano armata, l’auto di servizio, sottraendola al proprio autista mentre lui stava discutendo con il generale inglese Hopkinson (sia pure ricevendo subito le scuse scritte di quell’ufficiale per il comportamento indisciplinato dei propri uomini e, qualche giorno dopo, il veicolo in parola, peraltro tornato indietro piuttosto scassato), abbia voluto prendersi una piccola rivincita inviando a bella posta a Grottaglie, in mancanza di meglio, una FIAT Topolino. Ufficio Storico della Marina Militare, La Marina dell’8 settembre 1943 alla fine del conflitto, Roma 1962, p. 210.
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Buona Guardia! (9) Paolo Sandalli, 8 settembre 1943, Forze Armate e disfattismo, ed. Gesualdi, Roma 1993, p. 102. (10) Sir Frank Noel Mason-MacFarlane, silurato da Churchill nel giugno 1944 a causa della sua condotta in Italia, giudicata pessima e controproducente, basò la propria futura carriera politica, venendo eletto deputato laburista l’anno successivo, proprio sul fatto di essersi presentato a «King Victor» in calzoncini corti. Morì nel 1953 in seguito alla frattura di una gamba. (11) Mario Roatta, Diario 6 settembre-31 dicembre 1943, ed. Mursia, Milano 2017, p. 81. (12) Lettera all’autore dell’ammiraglio Giuseppe Marsalona del 7 luglio 1995. (13) Francesco di Campello, Un principe nella bufera, ed. Le Lettere, Firenze 2012, p. 57. (14) A rigor di termini, poiché gli inglesi erano avanzati, tra il 3 e l’8 settembre 1943, di soli 50 chilometri in Calabria dopo lo sbarco a Reggio, anche le provincie di Catanzaro e Cosenza, sostanzialmente attraversate dai tedeschi e non riconquistate come la Lucania, avrebbero dovuto essere sottratte all’AMGOT. In seguito alle proteste inglesi si arrivò, il 15 settembre, a un compromesso: formale governo angloamericano, ma conservazione dei prefetti italiani, delle leggi e delle Forze dell’ordine, oltre a nessun disarmo della Divisione Mantova, come pure si era tentato di imporre, anche se senza successo, e delle altre unità del Regio Esercito, oltre che dei comandi della Regia Marina e della Regia Aeronautica. L’11 febbraio 1944 anche questi territori, come il resto dell’Italia meridionale a sud della linea di combattimento, eccezion fatta per Napoli, tornarono sotto la sovranità del Regno. (15) Idem nota (5), pagina 289. (16) TNA (ex PRO) FO 371/37271 citato da Vanna Vailati, 1943-1945, La storia nascosta, ed. G.C.C., Torino 1986, p. 290. BIBLIOGRAFIA Enrico Cernuschi Enrico e O’Hara Vincent, Dark Navy, the Regia Marina and the Armistice of 8 September 1943, Nimble Books, Ann Arbor, MI, Stati Uniti 2009. Maugeri Franco, Mussolini mi ha detto, Quaderni di «Politica Estera», Roma 1944. Garofalo Franco, Pennello nero, ed. Della Bussola, Roma 1946. Incisa della Rocchetta Agostino, L’ultima missione della corazzata Roma, ed. Mursia, Milano 1978. AA.VV., Una giornata da non dimenticare, le rievocazioni dell’8 settembre 1943, supplemento della Rivista Marittima, gennaio 2004. Cernuschi Enrico, La vittoria in prestito, supplemento Rivista Marittima, maggio 2003, nuova edizione Iuculano, Pavia 2006 (si vedano inoltre Rivista Marittima, Lettere al Direttore, gennaio 2004 e febbraio 2004). Bagnasco Erminio, Corsari in Adriatico, ed. Mursia, Milano 2006. Rapalino Patrizio, Schivardi Giuseppe, Tutti a bordo!, ed. 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RUBRICHE
F OCUS
DIPLOMATICO
Le elezioni americane
Trump, che invece può contare sul sentimento prevalente in vari Stati dell’Unione, che hanno visto in lui Queste elezioni del 2020 sono state analizzate un po’ l’uomo capace di lottare contro la globalizzazione che da tutti e sotto tutti gli aspetti. Molti hanno espresso uno ovviamente il suo protezionismo contrasta. sconcerto nel constatare lo stallo e quindi la lunghezza Ma c’è di più. La sua gestione della politica estera, del tempo necessario alla conclusione della verifica del peraltro lontana da guerre, ha regalato agli ebrei amerivoto popolare negli Stati Uniti. Senza dubbio si tratta di cani la speranza di un migliore inserimento di Israele un prolungamento della fase elettorale piuttosto inunel Medio Oriente con relazioni miracolosamente allacsuale, anche se al momento dell’elezione di Bush, anche ciate, con Emirati Arabi sotto il paterno consenso delil rivale Al Gore aveva richiesto un nuovo conteggio dei l’Arabia Saudita, nonché il dono di Gerusalemme, come voti, prima di rinunciare a ulteriori rivendicazioni. capitale a Netanyahu, che non sono doni di poco conto. Ma qui oltre all’effettivo combattimento all’ultimo Con queste premesse la riconoscenza di larghi strati di voto, c’è stata la sorpresa di una parte consistente del ebrei americani avrebbe potuto trascinare con sé una popolo americano che non solo non si è allontanata da parziale adesione — malgrado tutto — di afroamericani una gestione del potere da parte di Trump assai ondiche normalmente riconoscono negli ebrei i loro più anvaga, ma è rimasta anche poco scossa dal suo approctichi compagni di strada. Questo però non sembra che cio alla pandemia, che ha generato migliaia di morti e sia avvenuto. Dovremo attendere ulteriori analisi sulla milioni di contagiati. Avrebbe dovuto essercene abbacomposizione dei votanti per conoscerne la provenienza stanza per far cadere il suo supporto al livello vicino etnica. Per adesso hanno evidentemente votato per lui i allo zero. Invece no. Egli, pure assistendo a un’erosione latino-americani della Florida, dove però la politica antidel suo consenso nei confronti del rivale, non ne vedrà Cuba, sostenuta dalle famiglie fuoriuscite dall’isola il fondo e continuerà a lottare attraverso tutti i mezzi sotto Castro, sostiene da sempre la scelta di isolare legali su cui può contare per differire la designazione l’Avana, nonché — come appare anche dalla cartina del vincitore fino ad arrivare, se possibile, a un pronungeografica tutta rossa — gli Stati del centro del paese ciamento della Corte suprema che per la sua composidove «la supremazia bianca» e xenofoba è un dogma zione conservatrice e repubblicana potrebbe trovarsi in per difendersi dalla competizione della globalizzazione. imbarazzo a decidere contro di lui. E il partito repubblicano? In qualche modo essendo lui il suo alfiere, e come tale, promotore di alcuni obiettivi ideologici dei conservatori, come la riduzione delle tasse ai più ricchi «per rianimare il mercato e creare più posti di lavoro», la difesa della vendita libera di armi, il sostegno prioritario a «Law and order» a tutti i costi — che qui ha scavalcato i diritti civili degli afroamericani — la distruzione di un’assicurazione sanitaria persino nei limiti blandi ottenuta da Obama ecc., non può fare a meno di sostenerlo. Con più o meno entusiasmo. «In queste elezioni, a contrapporsi in uno scontro molto acceso sono state due figure ormai Ma questo sostegno appare più note all’opinione pubblica: da una parte Trump per i repubblicani e dall’altra Biden per i democratici» (rai.it). d’obbligo che rassicurante per
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Focus diplomatico
un uomo equilibrato, immediatamente impegnato a combattere l’epidemia di coronavirus, a ripristinare un minimo di protezione sanitaria all’indifesa popolazione americana — spesso occupata ma in lavori precari e mal pagati — a ristabilire con l’Unione europea un clima di maggiore solidarietà, e un rientro, forse sottotono negli accordi di Parigi sul clima. Del resto l’uomo ha già dimostrato di non avere un ego esuberante Il democratico Joe Biden durante la campagna elettorale per le elezioni presidenziali americane, te- come Trump, ma grande resilienza, e nutesi il 3 novembre 2020 (bbc.com). quindi si accinge a sostenere la battaglia legale che il Presidente uscente sembra intenzionato a scatenargli contro, con «pazienza» Intanto, probabilmente per meriti propri, e non come e sangue freddo. corollario al voto per Trump, il Senato americano ha Sicuramente il sistema di voto americano, oltre a esmantenuto il suo colore, cosa che comporta un grande sere piuttosto involuto, si presta a possibili «brogli» nella potere di controllo sull’esecutivo del prossimo presiparte inviata per posta — come ha denunciato solo redente statunitense. Dunque, anche se questa istituzione centemente Trump — ma si tratta di un sistema oramai non si riconosce del tutto nell’amministrazione Trump, consolidato che è troppo comodo criticare solo quando rimane un foro conservatore, che deve mantenere un si perde. Ciò nonostante così com’è offre possibilità di atteggiamento consono al suo obiettivo primario. contestare questa elezione se i legali del Presidente E pensare che il medesimo partito fu in qualche uscente, troveranno appigli giuridici di qualche peso. modo trascinato a sceglierlo come candidato alla Casa Rimane comunque il fatto che i due grandi partiti Bianca un po’ per forza di cose, in assenza di candidati sembrano entrambi indeboliti. Il repubblicano perché più convincenti, ma forse anche perché spendibile di non ha saputo conquistare le masse esterne alle grandi fronte alla temuta supremazia del candidato democracittà senza il trumpismo, ovvero senza gli eccessi anti tico di allora: Hillary Clinton, cui andavano tutte le predemocratici del tycoon, che è riuscito a riportare al voto visioni di sicura vittoria. Dunque meglio sacrificare lui molti americani bianchi, frustrati dalla competizione che un personaggio più ortodosso e prevedibile, conesuberante e più povera degli immigrati, e dal prevalere servando quest’ultimo per elezioni future. delle nuove tecnologie. Questo, al momento ha sancito L’ironia attuale è quindi che in queste elezioni, a uno scivolamento del partito repubblicano dalla sua ricontrapporsi sono state due figure minori ovvero meno gorosa linea conservatrice di McCain, onesta e senza rappresentative dei due partiti dominanti: da una parte esclusioni etniche, a un populismo sciatto, fatto di preTrump inizialmente non voluto dai repubblicani di cui giudizi e personalismi. ha stravolto l’immagine e Biden, approvato a malinIl partito democratico ha anche accusato segni di micuore dai democratici, per mancanza di candidati più nore vitalità, perché i voti per Biden hanno rappresenaccettabili all’insieme del partito. Biden, infatti, septato l’ultima spiaggia di un elettorato stanco del pure considerato una brava persona, non ha mai riscalprevalere delle grandi famiglie, purtroppo rappresendato il cuore del partito democratico, né galvanizzato tato da figure che avevano rivolto poca attenzione alle gli elettori che accettavano il duo, per votare Obama. campagne del Midwest, e ai loro risentimenti, e al cui Malgrado ciò, la sua vittoria porterà alla Casa Bianca,
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partito quindi avevano già voltato le spalle, negando all’arcigna Hillary Clinton il loro voto. In fondo quello che colpisce di più di queste elezioni è il fatto che i due schieramenti pro e contro Trump non si sono mossi dall’irrigidimento originario, rimasti quasi immutati di fronte agli effetti devastanti della pandemia. Mentre sulle coste ha continuato a prevalere un orientamento di tipo «europeo», quindi flessibile e «multilaterale», ma anche preoccupato dal Covid-19, al centro dell’America, coloro che conLa Casa Bianca (Washington - DC), residenza ufficiale del presidente degli Stati Uniti d’America siderano e condannano come «socia- (bbc.com). lismo» le scelte progressiste del timento verso lo straniero del trumpismo. La pandemia partito democratico, hanno trovato in Trump un sosteha avuto un ruolo importante nei confronti di entrambi: nitore che non hanno abbandonato nemmeno di fronte per Trump ha fatto emergere tutte le contraddizioni di alla politica dissennata praticata dal governo nei conuna gestione troppo dominata da personalismi, pregiufronti del virus. dizi e superficialità. Per Johnson ha ridotto la sua speDunque, in qualche modo si apre ora una nuova fase ranza di una cavalcata gloriosa verso la Brexit, interna per il paese, più diviso che mai, che Biden facendogli incontrare un cammino pieno di spine e oradovrà cercare di riconciliare e, da vero leader, guidare mai senza l’assicurazione dell’usbergo statunitense. verso una più unitaria consapevolezza morale e un più Dall’altra parte si apre per Biden una stagione intensa coerente ruolo internazionale. e breve, perché difficilmente potrà prolungarsi oltre i Verso Unione europea e NATO prevarrà un attegquattro anni, a motivo della sua età. Per sua fortuna però giamento meno ruvidamente competitivo, ne fa testiha il vantaggio di avere alle spalle un’esperienza di gomonianza il sorriso luminoso con cui sembra aver verno negli otto anni di Obama, come vice presidente. ricevuto la notizia della vittoria di Biden, Angela MerCiò gli permetterà di evitare le trappole più insidiose kel, sempre così invisa a Trump, come la povera leader dell’opposizione e consentirà a lui, bianco, di battersi britannica Teresa May, bersagliata o nevroticamente per una maggiore giustizia verso «the Blake lives count» elogiata a turno da Trump, che le preferiva dichiaratapiù del «colorato» Barack Obama, obbligato ad apparire mente Boris Johnson. «imparziale» nei confronti dei fratelli neri. Certo, in questa predilezione giocava una somiglianza caratteriale, ma anche un orientamento politico converJolanda Brunetti, gente, se le motivazioni della Brexit echeggiano il risenCircolo di Studi Diplomatici L’ambasciatrice Jolanda Brunetti è entrata nel servizio diplomatico nel 1967, una delle due prime donne che hanno superato il difficile concorso di accesso. Tra alterni periodi al Ministero, è stata inviata nelle sedi estere di Kuala Lumpur, New York e Parigi. Fortemente interessata alle culture e società asiatiche ha ricoperto ruoli di capo Missione in Myanmar (allora Birmania) Uzbekistan, Tajikistan, Ucraina. Infine è stata nominata Coordinatore speciale per la riforma della giustizia in Afghanistan, dove ha soggiornato per due anni. Il Circolo di Studi Diplomatici è un’associazione fondata nel 1968 su iniziativa di un ristretto gruppo di ambasciatori con l’obiettivo di non disperdere le esperienze e le competenze dopo la cessazione dal servizio attivo. Il Circolo si è poi nel tempo rinnovato e ampliato attraverso la cooptazione di funzionari diplomatici giunti all’apice della carriera nello svolgimento di incarichi di alta responsabilità, a Roma e all’estero.
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L ETTERE
AL
RINA, Registro italiano navale Caro Direttore, in merito al mio articolo, Le società di classifica delle navi. Caratteristiche, storia ed evoluzione: una particolarità del mondo marittimo pubblicato dalla Rivista Marittima nel numero di settembre 2020, per un diavoletto che sempre è in agguato, è saltata la sigla del RINA (Registro Italiano Navale) in un paragrafo ove è indicata una lista delle importanti società che decisero di collaborare per la nascita dello IACS (International Association of Classification Societies) (pag. 73) e quindi, pur non volendo, ho omesso una delle tre più antiche e importanti società di classifica delle navi e socio fondatore dello IACS, oltre che importante risorsa dell’eccellenza italiana. Il RINA, peraltro, in tutti gli altri paragrafi è trattato come tale e l’articolo è proprio indirizzato a valorizzare ancor più le risorse italiane in questo importante settore e a renderle ancor più conosciute. Confido che gli amici e colleghi del RINA non me ne vogliano. Cordiali saluti, Ingegner Antonello Gamaleri
Letteratura e lavoro di mare e di porto. Marinai e portuali scrittori, il loro ruolo, la loro lingua Caro Direttore, non ci sono solo scrittori che rappresentano la cultura pubblica, se così vogliamo chiamarla; ci sono categorie di persone che descrivono il loro lavoro, il loro ambiente, forti della loro tradizione storica, usando il linguaggio e lo stile dei loro mestieri che diventano narrativa, romanzi, saggi. Sono gli uomini di mare e di porto, lavoro e letteratura che si fondono nella nostra storia marinara. C’era un armatore genovese che guardava tutti i giorni dalla finestra di casa la sua nave in disarmo dal 1964 sotto la Lanterna; quella nave aveva fatto la fortuna della famiglia, era un bastimento di sessant’anni pronto a partire…
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D IRETTORE Nel 1971, prendendo spunto da questa storia, scrissi un articolo per Il Secolo XIX intitolato Da sette anni nel nostro porto una nave che non vuole morire. Lei si chiamava Cor Jesu. Qualche settimana dopo l’uscita del giornale, forse per la scoperta di questo sentimento segreto dell’armatore, la nave fu mandata alla demolizione e io mi sento ancora oggi responsabile di questa drastica conclusione. Navi che parlano, urlano, s’indignano prima di venire fatte a pezzi in luride spiagge asiatiche non sono leggende perché questi corpi apparentemente vuoti hanno un’anima; quella che progettisti, costruttori, capitani e armatori trasmettono alle loro barche, alle loro navi, attraverso i loro sensi, la loro intelligenza, vivendo insieme e dentro il loro corpo. Forse non c’è bisogno di studiare come dare il soffio della vita ai robot quando gli uomini hanno sempre costruito macchine con l’anima. Rudyard Kipling collocava il cuore, un vero cuore come il nostro, nelle macchine della nave. Vivere il mare significa navigazione, scienza, tecnologia, attraverso il progresso culturale, civile e sociale dell’umanità, significa soprattutto lavoro. Molti dei bravissimi comandanti di velieri non sapevano nuotare e il loro pensiero, lo sguardo, l’obiettivo, era, oltre che portare a destino nave e carico, la loro terra e la loro famiglia. La realtà a terra ha superato la fantasia; in mare nonostante le profanazioni (nello sfruttamento dei fondali e la rapina sui relitti) c’è ancora molto da scoprire. Quando si parla di mare si caricano spesso le parole di ambiguità e di retorica che non contribuiscono alla sua conoscenza culturale, scientifica e del lavoro nell’industria marittima come insostituibile via di comunicazione. Grazie, per diffondere la cultura e il sentimento del mare nel nostro amato paese. Un cordialissimo saluto, Decio Lucano
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RUBRICHE
O SSERVATORIO
INTERNAZIONALE
Una nuova sede per AFRICOM? A luglio, l’amministrazione Trump ha annunciato la riduzione del numero di truppe in Germania. La decisione dell’amministrazione è stata decisa in risposta a quella che è vista come una spesa insufficiente da parte della Germania per la difesa. Il trasferimento di 12.000 militari dalla Germania ridurrà la dipendenza degli Stati Uniti da quel paese, in particolare per le attività non NATO. Molte delle forze saranno trasferite in Polonia, Belgio e Italia. È stato anche deciso che il quartier generale del Comando Africa degli Stati Uniti (AFRICOM) si sarebbe trasferito da Stoccarda. A seguito della decisione, AFRICOM ha dichiarato di aver avviato la ricerca di una nuova «casa», scatenando illazioni e interessi. Tra questi, due senatori repubblicani della Carolina del Sud, Lindsey Graham e Tim Scott, raccomandano che il quartier generale dell’AFRICOM venga spostato da Stoccarda, sempre considerata una collocazione provvisoria in attesa di spostarsi nel continente, ma mai concretizzatasi per diverse ragioni, a Charleston (South Carolina). I due hanno inviato una lettera al segretario alla Difesa, Mark Esper, affermando che la Joint Base Charleston (JBC) sarebbe un luogo ideale per il quartier generale dell’AFRICOM. La loro proposta sarà probabilmente la prima tra le tante. Joint Base Charleston, «già fornisce l’infrastruttura esistente per soddisfare […] le esigenze operative con opportunità di risparmio sui costi. Un vantaggio specifico è che JBC offre trasporto aereo e marittimo diretto a Camp Lemonnier a Gibuti, nonché risorse stradali e ferroviarie per fornire una risposta rapida qualora fossero necessarie azioni immediate», hanno ribadito i senatori nella lettera a Esper. L’area di Charleston, secondo i due, offrirebbe al personale assegnato alla sede dell’AFRICOM e ai loro familiari un costo della vita inferiore, non risiedendo all’estero e con una vasta gamma di opzioni per l’alloggio, opportunità di istruzione e occupazione coniugale (Graham aveva già presentato una proposta per trasferire AFRICOM a Charleston all’inizio del 2011). Un quartier generale AFRICOM permanente in Africa è stato rifiutato da molti paesi (con due notabili eccezioni, Liberia e Marocco che si erano offerti di ospitarlo, ma poi la proposta è stata rifiutata per
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La Joint Base Charleston è una base militare congiunta US Air Force e US Navy, gestita dall’Air Mobility Command e situata tra le città di North Charleston e Goose Creek, nella Carolina del Sud (wikipedia.it).
ragioni politiche e logistiche) in quanto percepito come una mossa di sfruttamento e un’interferenza nei loro affari interni. Pertanto, AFRICOM si sta concentrando su possibili posizioni in Europa o negli Stati Uniti. Il collocamento di comandi importanti negli Stati Uniti non è nuovo, basti ricordare che l’importantissimo CENTCOM (che ha un’area di responsabilità che include Egitto, Medio Oriente, Iran, Afghanistan, ex Asia centrale sovietica e Pakistan) opera dalla Mc Dill Air Force Base presso Tampa, in Florida (anche se ha un comando avanzato a Manama) e quindi Charleston non sarebbe una novità. L’Africa soffre di molteplici guerre e insurrezioni, in particolare nel Sahel, dove l’AFRICOM è responsabile della lotta alla crescente presenza di terroristi di al-Qaeda e dell’IS. Mentre le Forze armate stanno concentrando i loro sforzi per confrontarsi con Cina e Russia, l’Africa sembra un’arena che vede le tre superpotenze in lizza per l’influenza. La Russia è pronta ad aprire sei basi nel continente, mentre la Cina sta inon-
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dando il continente di risorse finanziarie e sta espandendo la sua influenza attraverso prestiti predatori. Al momento, le opportunità per AFRICOM di rimanere in Europa sembrano limitate. Spostare il quartier generale con quello dell’EUCOM della NATO in Belgio non sarebbe l’ideale. Tuttavia, l’Italia potrebbe essere una potenziale idonea località a seguito della sua posizione strategica e perché ospita già due comandi subordinati di AFRICOM (a Vicenza e a Napoli) mentre la Spagna potrebbe essere un altro competitor in quanto anche nella penisola iberica vi sono importanti installazioni, come Rota e Moron. Se il Pentagono decidesse di trasferire le risorse dell’AFRICOM in Italia, godrebbe di maggiori capacità nel sud-est dell’Europa, nel Mediterraneo, nel Nord Africa e nel Medio Oriente. Tuttavia, il mantenimento della sede centrale di AFRICOM in Europa troverà poca accoglienza nel Congresso poiché i benefici finanziari che la sede di Charleston fornirebbe sarebbero enormi. Nel 2013, il General Accountability Office (GAO) ha affermato che un trasferimento negli Stati Uniti potrebbe far risparmiare tra 60 e 70 milioni di dollari l’anno. Il potenziale impatto economico locale di AFRICOM può variare da 350 a 450 milioni di dollari, secondo il rapporto del GAO.
Pakistan: una Marina in crescita La Marina pakistana sta lavorando intensamente per colmare le lacune operative e tecnologiche che la affliggono come parte di uno sforzo di modernizzazione senza precedenti nei confronti della capacità della Marina indiana. La dichiarazione dell’ammiraglio Zafar Mahmood Abbasi, in occasione della cerimonia di saluto dal servizio, ha lasciato divisi analisti ed esperti sul fatto che la mossa scoraggerà i potenziali avversari e che, soprattutto sia realisticamente L’ammiraglio (r) Zafar Mahmood Abbasi, ex ammiraglio a quattro stelle realizzabile. Innanzitutto della Marina pakistana (ispr.gov.pk). una precisazione, in
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quello che si può definire uno Stato militare (nel senso che le Forze armate, anche dopo aver abbandonato un ruolo istituzionale, mantengono un peso esorbitante nella vita politica, economica e sociale della nazione); nel Pakistan esiste una precisa gerarchia tra i vari servizi e la Marina, che sino a oggi è stata la cenerentola perché schiacciata tra l’enorme Esercito e la potente Aeronautica (questo pure a fronte di uno sviluppo costiero non piccolissimo, oltre 1.100 chilometri), la prossimità a un’area di grande importanza, quale il Mare Arabo-Persico e la crescente importanza dell’oceano Indiano. Senza contare la sottile, ma non tanto, concorrenza tra la Guardia costiera (quasi 10.000 elementi) e la Maritime Safety Agency (specialità della Marina, ma molto più ridotta, con solo 2.000 unità). Infine, parlando della gerarchia delle forze di sicurezza esterna e interna del paese, non si possono non citare le numerose Forze di polizia federali, locali, speciali e di intelligence di vario tipo, che rappresentano un peso numerico e di influenza enorme. Questa situazione è cambiata a seguito della presa di coscienza, da parte dei vertici politico-militari del Pakistan, che la vicina India, sebbene partendo da una situazione peggiore, quale una Forza navale relativamente ridotta e poco influente rispetto a Esercito e Aeronautica, uno sviluppo costiero mastodontico, interessi economici in proporzione, si lanciasse in un impressionante programma di rafforzamento della sua Marina, progettando di dotarsi di grandi portaerei (fino a 70.000 tonnellate) e persino di sottomarini nucleari lanciamissili. Anche se la ragione principale di questa corsa agli armamenti di New Delhi è indirizzata al contrasto dell’espansione della Cina, la questione con il Pakistan non è di minore importanza, in considerazione di una rivalità che nasce dal raggiungimento dell’indipendenza (del 1947, da parte di entrambe le nazioni) e marcata da diversi conflitti (1947-8, 1965, 1971, 1999) e ostilità profondissima. L’ammiraglio Abbasi, nel suo saluto finale, ha dettagliato le misure cha ha emanato, dando priorità alla prontezza al combattimento e alla capacità offensiva per una Forza armata storicamente sottodimensionata nel quadro della contrapposizione con l’India. Oltre a riorganizzare la struttura della Marina, ha delineato i programmi di acquisizione e sviluppo, alcuni dei quali sono stati menzionati per la
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prima volta o confermati di nuovi dettagli. Questi includevano l’espansione della Marina a più di 50 navi da guerra (più che raddoppiando le principali unità combattenti di superficie, con piani per altre sei grandi navi da pattugliamento offshore); l’apparente trasferimento gratuito di un sottomarino cinese di classe «Yuan» per addestrare gli equipaggi pakistani per gli otto sottomarini «Hangor» (costruiti sempre dalla Cina e attualmente in ordine per sostituire quelli francesi classe «Agosta», in servizio in numero di cinque); sviluppo del missile balistico ipersonico P282 antinave/attacco terrestre lanciato da unità di superficie; istituzione del Naval Research and Development Institute, per formare una classe di tecnici e disegnatori specializzati (che sarebbero attualmente impegnati in programmi come lo sviluppo e l’adozione delle fregate della classe «Jinnah», sottomarini di classe «Hangor», UAV - Unmanned aerial vehicle da sorveglianza e attacco, armi a energia diretta, sistemi di difesa costiera e di sorveglianza, veicoli subacquei senza pilota); sostituzione dell’aereo da pattugliamento P-3C Orion, con gli ATR «Sea Eagle»; una nuova classe di pattugliatori costieri da produrre localmente. Nonostante questa importante «lista della spesa» e di buoni propositi, alcuni analisti sono scettici sul fatto che questi programmi si dimostreranno un deterrente sufficiente contro l’India, acerrima nemica del Pakistan. Per alcuni è addirittura del tutto impossibile per il Pakistan realizzare una struttura navale che si avvicini a quella della Marina indiana, pur considerando che le portaerei indiane, decisamente inferiori in termini di efficacia a livello internazionale e non rappresentando una minaccia per la Cina, lo sono invece per la Marina pakistana quando fuori dalla portata della copertura degli aerei da combattimento basati a terra. In caso di conflitto con l’India, il Pakistan, nella dimensione marittima, dispiegherebbe tutte le sue risorse per distruggere la Marina indiana, che sebbene con gravi perdite, avrebbe un fattore di attrito superiore e decisivo per annientare le capacità operative della Marina rivale. Secondo altri analisti (pachistani, ovviamente) al contrario, l’espansione della Marina pakistana neutralizzerebbe efficacemente la crescente capacità navale dell’India, che ha tuttavia goduto a lungo del vantaggio numerico. Se-
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condo questa scuola di pensiero, ciò è potenzialmente destabilizzante, in quanto potrebbe incoraggiare la belligeranza e l’aggressività indiana e alimenterebbe l’imprevedibilità delle crisi. Tuttavia, gli sforzi di modernizzazione del Pakistan aiuterebbero a mantenere alta la soglia nucleare e migliorerebbero la sua capacità di secondo colpo aumentando la sopravvivenza della flotta, fornendo una capacità di attrito notevolmente maggiore. Esperti navali dell’IISS (International Institute for Strategic Studies) di Londra ritengono che i piani di costruzione di navi e sottomarini, una volta e se realizzati, rappresenteranno un significativo impulso alla capacità marittima convenzionale del Pakistan. Entro la fine di questo decennio, la flotta di fregate dovrebbe aumentare della metà e quella dei sottomarini probabilmente raddoppierà di capacità. Il pianificato rafforzamento delle forze costiere migliorerà le capacità di quelle d’altura, meno impegnate in ruoli impropri. Il programma Hangor è probabilmente il più degno di nota a causa del massiccio coinvolgimento della Cina (nella dimensione industriale la Turchia è un altro importante partner), e che potrebbe incidere sul «balance of power» almeno per il Western Command dell’Indian Navy. Sebbene la costruzione locale dei sottomarini Hangor (fortemente voluta per migliorare le capacità locali da ogni punto di vista) sia prevista per essere completata entro la fine del decennio, rigenerare quella capacità industriale sarà un grande sforzo; l’assistenza cinese in tal senso sarà cruciale. In questo contesto, un fattore critico dipende dal fatto che la Germania autorizzi o meno l’esportazione di motori diesel per i sottomarini.
Quad: embrione di una NATO per l’Oriente? I ministri degli Esteri di quattro nazioni indo-pacifiche, conosciute come il gruppo Quad, si sono riuniti a Tokyo agli inizi di ottobre per dei colloqui con i quali il Giappone spera di aumentare il loro coinvolgimento in un’iniziativa regionale chiamata «Indo-Pacifico libero e aperto», volta a contrastare la crescente assertività alla Cina. L’incontro — i primi colloqui di persona tra i ministri degli Esteri da quando è scoppiata la pandemia di coronavirus — ha riunito il segretario di Stato americano Mike Pompeo, il ministro degli Esteri au-
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Giappone considera anche la crescente attività militare della Cina, una minaccia alla sua sicurezza. Il documento annuale sulla politica di difesa giapponese, pubblicato nel luglio scorso, ha accusato apertamente la Cina di cambiare unilateralmente lo status quo nel Mar Cinese Meridionale, dove ha costruito e militarizzato isole artificiali e sta insistentemente rivendicando praticamente tutte le principali attività di pesca e passaggi marini. Il nuovo Primo ministro giapponese, Yoshihide Suga, farà il suo debutto diplomatico di persona quando parteciperà a una sessione della riunione del Quad; terrà anche colloqui separati con Pompeo, I ministri degli Esteri delle quattro nazioni indo-pacifiche, conosciute come il gruppo Quad (Australia, India, Giappone e Stati Uniti) durante l’incontro avvenuto a Tokyo il 6 sull’approfondimento dell’alleanza Giapottobre scorso (newsweek.com). pone-Stati Uniti e del FOIP. «Il mondo sta forse diventando ancora più imprevedibile e incontrollabile a causa dell’aumento del nazionalistraliano Marise Payne, il ministro indiano degli Affari smo egoista e della crescente tensione tra gli Stati esteri Subrahmanyam Jaishankar e il ministro degli Uniti e la Cina», ha dichiarato Suga in un’intervista ai Esteri giapponese Toshimitsu Motegi. L’impatto della media giapponesi, il quale, ancora, «perseguirà una pandemia e l’iniziativa Free and Open Indo-Pacific diplomazia basata sul Giappone e l’alleanza con gli (FOIP) per una maggiore sicurezza e cooperazione ecoStati Uniti come pietra angolare promuovendo stratenomica, ha spinto a riunire paesi «affini» che condivigicamente il FOIP e stabilendo relazioni stabili con i dono le preoccupazioni per la crescente assertività e vicini, tra cui Cina e Russia». Suga ha sostituito influenza della Cina. Pompeo, prima degli incontri ha Shinzo Abe, che si è dimesso a causa di cattive condiaffermato che i quattro paesi sperano di ottenere alcuni zioni di salute, il 16 settembre, impegnandosi a portare «risultati significativi», senza però approfondire. I colavanti la diplomazia da falco e le politiche di sicurezza loqui arrivano settimane prima delle elezioni presidendi Abe, il quale è stato una forza trainante del FOIP. Il ziali statunitensi e in mezzo alle crescenti tensioni tra Giappone considera cruciale avere accesso alle rotte Stati Uniti e Cina su virus, commercio, tecnologia, marittime fino al Medio Oriente, fonte fondamentale Hong Kong, Taiwan, acque del Mar Cinese Meridiodi petrolio per la nazione insulare povera di risorse. nale, Tibet, Singkian, influenze indebite in patria e Suga, ex segretario capo del governo, ha poca espepresso gli alleati europei della NATO e diritti umani. rienza in diplomazia; un bilanciamento tra gli Stati Pompeo ha cancellato le successive visite programmate Uniti, principale alleato per la sicurezza del Giappone, in Corea del Sud e Mongolia dopo che il presidente Doe la Cina, suo principale partner commerciale, sarà nald Trump è stato ricoverato in ospedale per il coroduro, secondo gli analisti. È indispensabile per il Giapnavirus. I colloqui seguono una recente esplosione pone rafforzare la cooperazione con l’UE, la Gran Bredelle tensioni tra Cina e India sul loro contestato contagna, l’Australia e l’ASEAN (Association of fine himalayano. Anche le relazioni tra Australia e Cina South-East Asian Nations). Il Giappone spera di regosi sono deteriorate negli ultimi mesi. Il Giappone, nel larizzare i colloqui dei ministri degli Esteri del Quad frattempo, è preoccupato per la rivendicazione della e di ampliare la loro cooperazione con altri paesi. SaCina sulle isole Senkaku controllate dai giapponesi, rebbe una grande sfida per il Quad, in quanto una perchiamate Diaoyu in Cina, nel Mar Cinese Orientale. Il
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cezione condivisa della minaccia della Cina non significa opinioni condivise su cosa fare, mentre è altamente prematuro trasformare il Quad in un qualcosa inteso sulla falsariga della NATO (a cui dovrebbero e potrebbero partecipare anche Nuova Zelanda, Francia e Corea del Sud, e le nazioni dell’ASEAN, almeno nelle aspirazioni di Pompeo). Infatti, a fronte delle minacce cinesi, gli Stati Uniti e l’Australia sarebbero favorevoli all’idea, mentre Giappone e India lo sono meno, per differenti ragioni. La trasformazione del Quad in un’architettura di sicurezza collettiva permanente, che prende di mira la Cina, costringerebbe molti governi a scegliere da che parte stare rischiando di perdere le possibilità di affari e opportunità di commercio che Pechino lascia sempre (sottilmente) aperte. Pechino ha generato un arco di ansia in Asia, ma c’è ancora una preferenza per il dialogo e i negoziati.
Tibet: una forza segreta ma non troppo Durante un funerale di Stato sulle montagne dell’India settentrionale, uno dei massimi assistenti del Primo ministro Narendra Modi avrebbe reso omaggio a un soldato tibetano ucciso in prima linea negli scontri mortali con la Cina. Circondato da truppe che sventolavano le bandiere dell’India e del Tibet, Ram Madhav avrebbe deposto una ghirlanda di fiori davanti alla bara durante una cerimonia che conferiva al defunto tutti gli onori militari. La bara di Nyima Tenzin, il soldato tibetano morto, era drappeggiata con le bandiere dell’India e del Tibet (Ram Madhav ha scritto un libro pubblicato nel 2014 sul conflitto intitolato Uneasy Neighbors: India and China After 50 years of the War). In un tweet poi, Madhav, che è anche segretario generale nazionale del partito Bharatiya Janata Party (il partito di Modi) ha dichiarato che sperava che la morte del soldato avrebbe portato alla pace lungo il confine indo-tibetano. Il raro riconoscimento di un’unità militare indiana formata da soldati tibetani, da solo minaccia di peggiorare una disputa sul confine che ha ucciso dozzine di persone, da maggio, e ha interrotto i legami economici tra le nazioni più popolose del mondo. Ancora più significativo è stato che l’India abbia messo in dubbio la sovranità della Cina sul Tibet — una linea rossa per Pechino, che vede il separatismo come una causa
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per cui vale la pena combattere anche in luoghi dallo Xinjiang a Hong Kong, a Taiwan. Mentre i ministri degli Esteri di India e Cina hanno concordato, durante un incontro a Mosca, sulla necessità di moderazione, le tensioni lungo il confine rimangono più alte che in qualsiasi altro momento. Entrambe le parti continuano a rafforzare gli schieramenti nell’area contesa, che è la chiave per controllare i passi montuosi dell’Himalaya, con colpi di avvertimento sparati con crescente frequenza e spostando aerei da combattimento e bombardieri pesanti alla frontiera. Pechino ha messo in moto il Central Theatre Command, sua riserva strategica, azione che non fu compiuta nemmeno quando le due parti entrarono in guerra nel 1962. Sebbene nessuno dei due paesi abbia un incentivo ad andare in guerra, la crescente intensità e persistenza dell’attrito potrebbe far scatenare un conflitto anche per sbaglio. Il Tibet, un’area più o meno delle dimensioni del Sudafrica, che si estende attraverso l’Himalaya, è stata un punto di contesa nelle relazioni dell’India con la Cina, da quando il Dalai Lama è fuggito nella nazione dell’Asia meridionale, dopo una rivolta fallita nel 1959. Ha istituito un governo in esilio nella città dell’India settentrionale di Dharamshala, con grande dispiacere di Pechino. L’India ha riconosciuto il Tibet come parte della Cina solo nel 2003 e ha sempre tenuto un atteggiamento di stretto controllo delle attività dei tibetani, per non irritare troppo Pechino. Poi l’enorme crescita economica (e militare) dell’India e soprattutto con l’arrivo al potere del partito BJP (The Bharatiya Janata Party) e di Narendra Modi, la situazione è migliorata per i tibetani. L’India ha costituito per la prima volta l’unità militare dei rifugiati tibetani, nota come Special Frontier Force, subito dopo la guerra India-Cina del 1962, per svolgere operazioni segrete dietro le linee cinesi. Simile alle Forze speciali degli Stati Uniti, ogni membro è addestrato come para-commando e opera sotto copertura in collaborazione con l’Esercito indiano. Il riconoscimento è un chiaro messaggio alla Cina, ovvero che indiani e tibetani operano fianco a fianco. Negli anni in cui l’India non aveva interesse a situazioni critiche con la Cina, la Special Frontier Force è stata un’unità di cui si parlava il meno possibile, che non usciva dalle sue basi e comunque mai in
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La Special Frontier Force (SFF) è una forza speciale indiana, creata il 14 novembre 1962 e costituitasi subito dopo la guerra sino-indiana (wikipedia.it).
uniforme. Invece ora la Special Frontier Force, che conterebbe 5.000 soldati, avrebbe partecipato a uno spettacolare raid notturno per impossessarsi di un’altura strategica e rimanere in prima linea, di fronte ai militari cinesi. Tuttavia, sia l’India, sia la Cina, stanno cercando di minimizzare il «significato» dei soldati tibetani. Le Forze armate indiane hanno poi calmato la situazione, affermando che sono impegnate a mantenere la pace e la tranquillità proteggendo allo stesso tempo l’integrità e la sovranità nazionale, a tutti i costi. Anche la Cina ha minimizzato i rapporti sui tibetani, pur sottolineando la ferma opposizione a qualsiasi paese che faciliti, con qualsiasi mezzo, le attività separatiste delle forze indipendentiste tibetane. Mentre il governo ha evitato di infiammare la situazione, i media statali cinesi hanno pubblicato filmati di esercitazioni militari a fuoco reale in Tibet che coinvolgono carri armati, aerei da combattimento e droni.
pubblicato le foto della cerimonia di laurea di circa 500 membri che sono stati addestrati per mesi in luoghi segreti, sollevando dubbi sull’efficacia delle agenzie di sicurezza nella regione. La regione è prevalentemente incuneata tra il lago Volta e il confine tra Ghana e Togo. Attualmente, un certo numero di gruppi scissionisti chiede che l’area sia riconosciuta come uno Stato sovrano. In un comunicato stampa, il presidente del WTRF, Togbe Yesu Kwabla Edudzi I, ha dichiarato che gli sforzi per consolidare lo statehood, iniziati il 1° settembre 2020, sono stati messi in pratica. Il movimento afferma di voler costringere il governo ghanese ad aderire a negoziati agevolati dall’ONU per dichiarare il Togoland occidentale Stato indipendente. Il territorio fu colonizzato per la prima volta dalla Germania nel 1884 e incorporato nella colonia del Togo. Dopo la sconfitta della Germania, durante la Prima guerra mondiale, la colonia fu divisa tra Francia e Gran Bretagna come protettorato. L’area occidentale del Togo divenne parte della colonia britannica della Gold Coast e indipendente nel 1957, per formare il Ghana moderno. Il
Un altro lascito del colonialismo in Africa Un’area del Ghana orientale si è dichiarata Stato sovrano. La regione nota come Togoland occidentale ha avuto già in passato tentativi secessionisti e uomini armati che chiedevano la secessione del Togoland occidentale dal Ghana hanno bloccato i principali punti di ingresso della regione, prendendo in ostaggio alcuni agenti di polizia dopo aver assaltato alcune armerie. Poche settimane prima, in preparazione di quanto avvenuto, altri elementi hanno posizionato dei cartelli lungo le strade principali. Prima delle operazioni militari, il Western Togoland Restoration Front (WTRF) ha
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Il Togoland (oggi Togo) fu una colonia tedesca dal 1884 al 1919. Mai colonizzato prima (tranne un breve passaggio dei danesi limitato alla zona costiera) venne dichiarato, dopo i Trattati di Togoville, il 5 luglio 1884, protettorato della Germania. Il trattato fu stipulato grazie al viaggio dell’esploratore tedesco Gustav Nachtigal, inviato per conto dell'imperatore Guglielmo I. Nell’immagine: in verde, territorio che comprende la colonia tedesca di Togoland; grigio scuro, altri possedimenti tedeschi; grigio più scuro, impero tedesco. Nota: la mappa usa i confini del presente, ma è raffigurata l’estensione storica dei territori tedeschi (wikipedia.it).
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Togo ha ottenuto l’indipendenza dalla Francia nel 1960. Il Togoland occidentale è membro dell’Organizzazione delle nazioni e dei popoli non rappresentati (UNPO), quattro milioni di persone vivono nella regione. In termini di lingua e cultura, in particolare la regione del Volta, ha più in comune con il Togo che con il Ghana. La gente del posto afferma di sentirsi sotto rappresentata dalle autorità ghanesi. Un precedente tentativo fallito di dichiarare il Togoland occidentale indipendente dal Ghana è avvenuto nel 2017. Nel marzo 2020, circa 80 membri del gruppo separatista sono stati arrestati per aver protestato.
La nuova presenza militare straniera in Africa Recenti resoconti dei media hanno affermato che una squadra paramilitare keniota sotto copertura è responsabile dell’uccisione extragiudiziale di sospetti terroristi. I rapporti si basano su interviste con funzionari diplomatici e dei servizi segreti statunitensi e kenioti. La squadra era addestrata, armata e supportata da ufficiali dell’intelligence britannica e statunitense. È stato riferito che dal 2004 un programma della Central Intelligence Agency (CIA) è operativo in Kenya senza controllo pubblico. Da parte sua, il British Secret Intelligence Service (MI6) ha svolto un ruolo chiave nell’identificazione, nel tracciamento e nello stabilirne gli obiettivi. Ciò ha richiamato una rinnovata attenzione sulla realtà delle diffuse operazioni di sicurezza in Africa. Diversi governi africani ospitano basi militari straniere nonostante le continue preoccupazioni del Consiglio per la pace e la sicurezza dell’Unione africana (UA) circa la proliferazione di basi militari straniere nel continente. L’UA è anche preoccupata per la sua incapacità di monitorare il movimento di armi da e verso queste basi militari. Indipendentemente da ciò, una serie di accordi bilaterali tra Stati membri dell’UA e potenze straniere sono alla base della diffusione di forze militari straniere in tutto il continente e, almeno tredici ne hanno una consistente presenza. Gli Stati Uniti e la Francia sono in prima linea nella conduzione delle operazioni sul suolo africano. Inoltre, gruppi militari privati sono attivi in diverse zone di conflitto sul suolo africano. Il Mozambico settentrionale è il caso più recente. Queste dinamiche coincidono con le affermazioni secondo cui
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gli aerei da guerra russi MiG-29 e Su-24 avrebbero condotto missioni in Libia a sostegno delle forze militari private sostenute dal Cremlino, per estendere l’influenza di Mosca in Africa. Attualmente, gli Stati Uniti hanno 7.000 militari in dispiegamento a rotazione in Africa. Queste truppe svolgono operazioni congiunte con le forze africane contro estremisti o jihadisti. Sono ospitati in installazioni in tutto il continente, tra cui Uganda, Sud Sudan, Senegal, Niger, Gabon, Camerun, Burkina Faso e Repubblica Democratica del Congo. Inoltre, 2.000 soldati americani sono coinvolti in missioni di addestramento in 40 paesi africani. Le forze speciali americane operano in tutta l’Africa orientale, nelle cosiddette posizioni di operazioni avanzate in Kenya e Somalia. Come gli Stati Uniti, la Francia ha dispiegato forze militari o stabilito basi in un certo numero di paesi africani (più di 7.500 militari attualmente in servizio nel continente). La sua presenza maggiore è nel Sahel, soprattutto nella zona di confine che collega Mali, Burkina Faso e Niger. La presenza di forze militari straniere in Africa non è limitata alle potenze occidentali. La Cina è stata particolarmente attiva con la sua presenza militare nel Corno d’Africa. È diventata più presente dal 2008, da quando ha partecipato alla missione multinazionale antipirateria nel Golfo di Aden. Tra il 2008 e il 2018, la Marina cinese ha dispiegato 26.000 militari in una serie di operazioni di sicurezza marittima. Nel 2017, ha inaugurato la sua prima base militare d’oltremare a Gibuti; ciò è avvenuto dopo che gli Stati Uniti hanno fondato Camp Lemonnier, sempre a Gibuti, nel 2003, insieme a basi francesi, italiane, spa-
La bandiera dell’Unione africana (UA), organizzazione internazionale comprendente tutti gli Stati africani, con sede ad Addis Abeba, in Etiopia.
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gnole, tedesche e giapponesi. La Cina ha sviluppato una struttura militare di 36 ettari per ospitare diverse migliaia di suoi militari e fornire strutture per navi, elicotteri e velivoli ad ala fissa. La base militare cinese a Gibuti è stata allestita per supportare cinque aree di missione, si tratta della lotta alla pirateria nel Golfo di Aden, raccolta di informazioni su altri paesi, evacuazione senza combattimento di cittadini cinesi dall’Africa orientale, operazioni internazionali di mantenimento della pace in cui sono dispiegati soldati cinesi e operazioni antiterrorismo. L’India è un’altra nazione asiatica che ha aumentato la sua presenza navale in Africa. Il paese ha istituito una rete di strutture militari in tutto l’oceano Indiano per contrastare la crescente impronta militare della Cina nella regione. Vuole anche proteggere le sue rotte marittime commerciali dalla pirateria e ha schieramenti in corso che monitorano gli sviluppi nel Corno d’Africa e in Madagascar. Il paese prevede inoltre di stabilire 32 stazioni di sorveglianza radar costiera con siti alle Seychelles, Mauritius e in altre località al di fuori dell’Africa. Quando si parla di Medio Oriente, la Turchia e gli Emirati Arabi Uniti (EAU) sono i due paesi con una notevole presenza militare in Africa. La Turchia è entrata a far parte della task force internazionale contro la pirateria al largo della costa somala nel 2009. Nel 2017 ha aperto una base militare a Mogadiscio, in Somalia. Lo scopo è addestrare reclute per l’Esercito nazionale somalo. La Turchia sosterrà anche la Marina e la Guardia costiera somale. Gli Emirati Arabi Uniti hanno una base militare in Eritrea dal 2015 che comprende un aeroporto militare con rifugi per aerei e un porto navale in acque profonde. La base è stata utilizzata in operazioni contro le forze di opposizione nello Yemen. È chiaro che il Corno d’Africa è l’epicentro dell’attività militare straniera nel continente. Truppe straniere sono state dispiegate lì per contrastare le minacce alla pace internazionale, sottomettere gruppi terroristici e pirati e sostenere iniziative di sicurezza. Ma, ci sono altre motivazioni per stabilire basi militari in Africa. Queste includono la protezione degli interessi commerciali, l’allineamento con i regimi amici e l’espressione del dominio su un continente che è al centro della crescente concorrenza globale. Naturalmente, l’Africa non è l’eccezione. Gli Stati Uniti, per esempio,
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mantengono anche una consistente presenza militare e di sicurezza nella regione del Golfo e ha basi in paesi come Bahrain, Kuwait, Qatar e Emirati Arabi Uniti. Per alcuni osservatori potrebbe sembrare che i governi stranieri stiano imponendo i loro eserciti all’Africa ma, in realtà, molti governi africani (al di là delle dichiarazioni di facciata) sono desiderosi di ospitarli in quanto gli accordi bilaterali con le maggiori potenze generano entrate. L’apertura della base militare cinese a Gibuti è un esempio calzante. La maggior parte dell’economia di Gibuti si basa sul credito cinese. Anche la presenza di forze militari straniere ha svolto un ruolo significativo nella lotta ai gruppi terroristici. Questi includono gruppi come al-Shabaab in Africa orientale e jihadisti in Mali. Questo spiega perché diversi paesi africani sono disposti a rivolgersi a governi stranieri per consigli, informazioni e supporto. Ma, c’è un aspetto negativo nella presenza di forze straniere nel continente, per esempio, il panorama della sicurezza africano è diventato sovraffollato da una molteplicità di attività militari e di sicurezza straniere. Queste attività spesso funzionano a scopi incrociati. La competizione tra alcune delle potenze mondiali è stata acuita dalla crescente presenza delle potenze asiatiche. La crescente presenza della Cina a Gibuti desta preoccupazione, la sua influenza in Africa e nell’oceano Indiano sta preoccupando moltissimo India e Giappone. Infine, i paesi africani non sono d’accordo su come regolare la sicurezza straniera e le attività militari. L’approccio finora è stato disomogeneo; sebbene la capacità di mantenimento della pace in Africa sia aumentata in modo significativo, l’UA è ancora fortemente dipendente dai finanziamenti esterni e dalle risorse per le sue operazioni di mantenimento della pace. Non ha la libertà di prendere decisioni, strategiche, operative e persino tattiche, indipendenti nelle sue operazioni. Finché sussisteranno queste carenze nella risposta dell’Africa al conflitto armato, le Forze armate straniere e i servizi di intelligence continueranno a operare nel continente. Si tratta di questioni che devono essere affrontate prima che gli Stati africani possano dare ascolto alle preoccupazioni del Consiglio di sicurezza e pace dell’Unione Africana circa un ampio coinvolgimento militare straniero nel continente. Enrico Magnani
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RUBRICHE
M ARINE ARABIA SAUDITA Varo della prima unità «HSI 32» costruita in loco Secondo quanto annunciato dall’autorità generale per l’industria militare (GAMI, General Authority for Military Industries) saudita, lo scorso 14 ottobre presso i cantieri Zamil Ship Manufacturing Company (ZSMC) è stata varata la prima unità velocità tipo «HSI 32». Costruita in loco nell’ambito del contratto siglato con la società francese CMN che prevede la fornitura complessiva di 39 unità tipo «HSI 32» per la Marina Reale saudita, di cui 21 realizzate in Francia dagli stessi cantieri CMN di Cherbourg, mentre le restanti vengono assemblate e messe in servizio dai cantieri Zamil Ship Offshore Services in Arabia Saudita con un pacchetto di trasferimento di tecnologie da parte francese. Facente parte della famiglia di unità veloci tipo «DV15», la versione per la Marina Reale saudita si caratterizza per una seconda plancia e armamento rappresentato da un sistema a controllo remoto Nexter «Narwhal» con cannone da 20 mm. Con una lunghezza di 32,2 metri, l’«HSI 32» dispone di un sistema propulsivo in grado di raggiungere i 43 nodi con un equipaggio di 12 elementi e la capacità di lanciare e recuperare un battello per operazioni di controllo traffico mercantile e sicurezza marittima nella sezione poppiera.
AUSTRALIA Ammodernamento del sistema di combattimento dei caccia classe «Hobart» Il dipartimento della Difesa australiano ha lanciato il programma per l’ammodernamento del sistema di
MILITARI combattimento dei caccia lanciamissili classe «Hobart». Nell’ambito del programma «SEA 4000 Phase 6», il DoD australiano intende ammodernare il sistema di combattimento delle tre unità della classe entrate in servizio fra il 2017 e il 2020, con una nuova versione del sistema AEGIS e rimpiazzare l’attuale sistema d’interfaccia tattico di fornitura australiana. Secondo quanto riportato dal DoD, il programma è destinato anche a migliorare la connettività e interoperabilità del sistema nell’ambito delle Forze armate australiane e alleate, in ambito marittimo.
BRASILE Il reattore nucleare per il programma PROSUB prende forma Con una cerimonia tenutasi presso il centro sperimentale LABGENE della Marina brasiliana di Ipero, vicino San Paolo, alla presenza del presidente brasiliano Jair Bolsonaro e del Capo di Stato Maggiore della Marina, ammiraglio Ilques Barbosa, è stata avviata la costruzione del prototipo del reattore nucleare destinato a equipaggiare il futuro sottomarino di sviluppo e produzione nazionale nell’ambito del programma PRN. Il prototipo, unitamente ai sottosistemi della propulsione nucleare, è destinato a essere testato presso il LABGENE, per validare la configurazione finale destinata a essere prodotta e installata a bordo della futura unità Alvaro Alberto nell’ambito del più ampio programma PROSUB. Quest’ultimo comprende lo sviluppo di una capacità di progettazione, produttiva e di supporto nazionale nel campo delle costruzioni subacquee per mezzo del consorzio Itaguaí Construções Navais (ICN) fra il gruppo brasiliano Odebrecht e la francese Naval Group.
BULGARIA Immessi in servizio i cacciamine Mesta (31) e Struma (33)
Il dipartimento della Difesa australiano ha lanciato il programma per l’ammodernamento del sistema di combattimento dei caccia lanciamissili classe «Hobart», di cui è qui ripreso il capoclasse (Ministero della Difesa australiano).
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Alla presenza del ministro della Difesa bulgaro Krasimir Karakachanov e del Capo di Stato Maggiore della Marina bulgara, contrammiraglio Kirill Mikhailov, si è svolta lo scorso 14 ottobre, la cerimonia di immissione in servizio dei due cacciamine Mesta (31) e
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Con una cerimonia celebrata lo scorso 14 ottobre, la Marina bulgara ha immesso in servizio i cacciamine MESTA (31) e STRUMA (33) - (Ministero della Difesa bulgaro).
Struma (33). Si tratta delle unità appartenenti al tipo «Tripartite» classe «Alkmaar» in servizio con la Marina olandese (rispettivamente ex Maassluis ed ex Hellevoetsluis) e trasferiti alla Marina bulgara in base all’accordo siglato alla fine del 2019.
CANADA Il programma CSC prende forma Con la pubblicazione da parte del dipartimento della Difesa (DoD) canadese di una scheda sulle future fregate multiruolo destinate a essere sviluppate nell’ambito del programma SCS (Canadian Surface Combatant), assegnato al team industriale capitanato dalla Lockheed Martin Canada, la Royal Canadian Navy ha divulgato le prime informazioni sulle caratteristiche, capacità e fornitori delle future 15 unità destinate al rimpiazzo delle fregate classe «Halifax» e dei caccia classe «Iroquois». Basate sul progetto BAE Systems delle fregate «Type 26» in fase di progettazione e produzione in differenti versioni per la Royal Navy, la Royal Australian Navy e la stessa Royal Canadian Navy, le nuove unità per quest’ultima Marina si caratterizzano per un dislocamento di 7.800 t, una lunghezza e larghezza rispettivamente di 151,4 e 20,75 metri e un apparato propulsivo in configurazione CODLOG (Combined Diesel-Electric or Gas) con una turbina a gas Rolls-Royce «MT-30», quattro diesel generatori Rolls-Royce MTU e due motori elettrici General Electric, in grado di assicurare una velocità massima di 27
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nodi e un’autonomia di 7.000 mn a velocità di crociera, in aggiunta a un ponte di volo e hangar in grado di accogliere un elicottero Sikorsky «CH-148 Cyclone» e spazi predisposti per velivoli a pilotaggio remoto. Con sistemazioni abitative per accogliere fino a circa 204 persone, le nuove unità disporranno di aree riconfigurabili per moduli di missione e fino a 2 battelli veloci da 9-12 metri, oltre a un tender da 9 metri. In aggiunta al sistema di controllo della piattaforma fornito da L3 Harris, il sistema di combattimento sarà incentrato sul sistema di comando e controllo Lockheed Martin Canada «CMS 330» nella versione integrata con il sistema AEGIS, un sistema integrato di gestione della plancia e navigazione con radar di navigazione in banda «X» ed «S» e un sistema per le comunicazioni forniti rispettivamente da OSI ed L3 Harris, unitamente a un sistema integrato di difesa cyber e un sistema di gestione e scambio delle informazioni sui bersagli CEC (Cooperative Engagement Capability). La suite sensoristica e di gestione dell’armamento comprende un radar 3D AESA a quattro facce fisse Lockheed Martin Canada «SPY-7», un sistema di illuminazione bersagli con facce fisse (AESA) fornito dalla canadese MDA oltre a un sistema di sorveglianza e tracciamento bersagli EO/IR non meglio specificato. La suite EW comprende sistemi RESM/CESM/RECM, sistema di scoperta e contromisure laser nonché inganni in radiofrequenza. La suite ASW comprende un sonar a scafo e una cortina trainata attiva/passiva a bassa frequenza della Ultra Electronics, un sistema di gestione delle boe acustiche (General Dynamics) e un sistema di scoperta e inganno anti-siluro Ultra Electronics «Sea Sentor S21700» e decoy acustici. L’armamento è incentrato su un complesso di lancio verticale Lockheed Martin «Mk 41» a 32 celle per missili Raytheon «SM-2» ed «Evolved SeaSparrow» (ESSM). Il DoD americano ha recentemente autorizzato l’acquisizione da parte canadese della nuova versione «Block IIIC» con guida radar attiva, mentre nell’ambito del programma PDMSU (Point Defence Missile System Upgrade) per le fregate in servizio classe «Halifax», il DoD canadese ha acquistato la versione «Block 2» dell’ESSM. La scheda rilasciata dal DoD canadese evidenzia anche la futura dotazione di missili da crociera Raytheon «Toma-
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voli destinati all’imbarco sulle due portaerei attualmente in servizio.
Varo di unità da pattugliamento da 10.700 t
Il dipartimento della Difesa (DoD) canadese ha reso pubblica una scheda dettagliata sulle future fregate multiruolo destinate a essere sviluppate nell’ambito del programma CSC (Canadian Surface Combatant). Qui ripreso il gemello «digitale» del progetto per le 15 unità destinate alla Royal Canadian Navy (BAE Systems).
hawk», senza fornire ulteriori informazioni sul relativo programma d’acquisizione e la tipologia di munizione (land-strike o ASuW). La dotazione missilistica delle nuove fregate comprende anche il sistema per la difesa ravvicinata MBDA «Sea Ceptor» (senza specificare il numero di lanciatori anche se diverse fonti parlano di 24 celle) e missili antinave Kongsberg/Raytheon NSM (Naval Strike Missile) (due lanciatori quadrupli), cui s’aggiungono un cannone da 127 mm non meglio specificato (BAE Systems o Leonardo) e due affusti a controllo remoto da 30 mm forniti da BAE Systems, nonché due lanciatori binati per siluri leggeri «Mk 54».
CINA Nuovi caccia imbarcati «J-15» L’aviazione di Marina cinese avrebbe ricevuto un nuovo lotto di velivoli imbarcati «J-15», secondo il China Aerospace Studies Institute. Sulla base dei video pubblicati dal sito cinese Military Express, i velivoli recentemente ripresi presso il centro per l’addestramento e i test legati all’impiego imbarcato della PLAN, riporterebbero numeri diversi e in sequenza rispetto a quelli finora identificati. Si tratterebbe pertanto di nuove macchine che si aggiungerebbero ai due lotti per un totale di circa 24 «J-15» monoposto e biposto in servizio, e confermerebbero le notizie di una ripresa della produzione di velivoli imbarcati presso la Shenyang Aircraft Company. Le nuove macchine consentirebbero di colmare almeno in parte il gap che non consentiva fino a oggi di soddisfare le esigenze in termini di veli-
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La Maritime Security Administration (MSA) cinese ha varato presso i cantieri Guangzhou Wenchong Shipyard del gruppo CSSC (Cina State Shipbuilding Corporation) lo scorso fine settembre l’unità da pattugliamento Haixun (09). Quest’ultima si caratterizza per una lunghezza di 165 metri e un dislocamento di ben 10.700 t, un apparato propulsivo in grado di assicurare una velocità massima di 25 nodi e un’autonomia di oltre 10.000 mn a 16 nodi e oltre 90 giorni d’operatività. Dotata di un ponte di volo per elicottero, l’unità presenta un centro di comando, controllo e comunicazioni per operazioni di polizia marittima, coordinamento di situazioni emergenziali ed equipaggiamenti per missioni antinquinamento. Destinata a entrare in servizio nel 2021, la Haixun s’aggiungerà a tre unità da oltre 3.000 t già in linea.
COREA DEL SUD Consegnata la nave scuola Hansando (ATH 81) La Marina sudcoreana ha preso in carico lo scorso 22 ottobre dai cantieri HHI (Hyundai Heavy Industries) di Ulsan, la nave scuola Hansando (ATH-81). Con un dislocamento a p.c. di 4.500 e una lunghezza di 142 metri, la nuova unità può accogliere un equipaggio di 120 elementi oltre a 300 marinai in addestramento, grazie a diverse aree ed equipaggiamenti che comprendono tre grandi aule e compartimenti con sistemi dedicati. L’unità è equipaggiata anche con due stazioni di lancio e recupero battelli veloci poppieri e un ponte di volo e hangar, quest’ultimo in grado di accogliere fino a due elicotteri di medie dimensioni. L’armamento comprende un cannone Hyundai WIA da 76 mm e un affusto binato da 40 mm nonché lanciatori per siluri leggeri a fini addestrativi, e la predisposizione per l’imbarco di lanciatori verticali per sistemi missilistici (K-VLS). L’unità dispone anche di aree mediche e spazi per essere convertita in nave con capacità ospedaliere per missioni umanitarie. Si tratta della prima unità dedicata a entrare in servizio con la Marina dell’Estremo Oriente, in quanto finora venivano utilizzati i caccia per i medesimi fini.
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Lancio del missile da crociera «Haeseong III» Secondo il video istituzionale pubblicato dal sito non ufficiale delle Forze armate della Corea del Sud, un sottomarino identificato come appartenente alla classe «Son Won II» (Tipo 214) ha effettuato un test di lancio del missile da crociera lanciato da unità subacquea e denominato «Haeseong III» dalla Marina della Corea del Sud. Il sistema d’arma fa parte della famiglia di sistemi missilistici superficie-superficie «Haeseong», sviluppata dalla Agency for Defense Development (ASDD) del ministero della Difesa della Corea del Sud, insieme al gruppo LIG Nex1 e alla stessa Marina sudcoreana. Il missile avrebbe ricevuto la designazione «SSM-750K Sea Dragon» e sarebbe equipaggiato con un sistema propulsivo incentrato sul turbogetto «SSE-750K» di produzione locale che assicurerebbe una portata di 1.000 km (contro i 1.500 km finora stimati), secondo informazioni rilasciate tramite il video stesso.
DANIMARCA Le unità della classe «Absalon» diventano fregate Con una cerimonia tenutasi lo scorso 19 ottobre presso la base navale di Frederikshavn della Marina danese, le due unità da supporto multiruolo della classe «Absalon» sono diventate fregate. Si tratta delle unità Absalon e Esbern Snare che, precedentemente identificate con il distintivo ottico L 16 ed L 17, hanno rispettivamente ricevuto il nuovo identificativo F 341 ed F 342. Nonostante le due unità siano equipaggiate con un sistema di combattimento che nulla ha da invidiare a una fregata, le capacità di trasporto ro-ro di veicoli e materiali su un ponte dedicato attraverso un portellone poppiero usati anche per operazioni a mare, avevano portato la Marina danese a classificarle come unità da supporto. Per evitare fraintendimenti e rinforzare le capacità antisom della Marina danese e della stessa NATO, contro minacce sempre più numerose ed evolute, la prima ha lanciato un programma e indetto una gara per l’acquisizione di un sistema sonar a elemento rimorchiato da aggiungere al sonar a scafo Atlas «ASO 94» che già equipaggia le due unità. Tale sistema dovrà essere integrato con il sistema di combattimento e operare in simbiosi con i nuovi elicotteri antisom «MH-60R
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Seahawk» equipaggiati con sonar filabile, boe acustiche e siluri leggeri. Secondo quanto dichiarato, la gara vedrà la selezione di un vincitore entro la metà del 2022.
FRANCIA La Marina riceve l’SSN Suffren (S 635) Con una cerimonia tenutasi presso la base navale di Tolone alla presenza del ministro delle Forze armate francesi, Florence Parly, il sottomarino d’attacco a propulsione nucleare Suffren (S 635) è stato ufficialmente consegnato dalla società Naval Group alla DGA (Direction Générale de l’Armement) il 6 novembre e immediatamente trasferito alla Marine nationale. Alla cerimonia hanno partecipato il Comandante in capo delle Forze armate francesi, generale François Lecointre, il responsabile della DGA, ingegner Joël Barre, il Capo di Stato Maggiore della Marina francese, ammiraglio Admiral Pierre Vandier, il direttore per le applicazioni militari presso il Commissariato dell’Energia atomica e delle energie alternative (CEA) Victor Salvetti, l’amministratore delegato di Naval Group, Pierre Eric Pommellet, e quello di TechnicAtome, Loïc Rocard. L’evento segue un serrato periodo di test e qualifiche comprendente otto mesi d’attività in banchina e sei di prove in mare, portato a termine, come ha rimarcato il ministro della Difesa, con un notevole sforzo non soltanto tecnico ma anche in condizioni lavorative particolarmente difficili, caratterizzate da restrizioni organizzative, causa la pandemia. Questo traguardo, ha continuato il ministro francese, è il risultato di anni di sforzi collettivi guidati dagli attori coinvolti nel programma e in particolare DGA, Marina francese, Commissariat à l’énergie atomique et aux energies alternatives (CEA), Naval Group, TechnicAtome e i rispettivi partner e subappaltatori industriali, unitamente agli investimenti effettuati nelle precedenti e nella presente Legge di Programmazione Militare (LPM) 201925. La consegna del nuovo battello, primo di una classe di sei unità destinate a rimpiazzare le attuali della classe «Rubis», è stata preceduta di poche settimane dal lancio coronato da successo di un missile da crociera MBDA MdCN (Missile de Croisière Naval). Si tratta di un significativo evento per le Forze armate francesi e la stessa Marine nationale, in quanto il sistema d’arma for-
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Il sottomarino d’attacco a propulsione nucleare SUFFREN (S 635) è stato ufficialmente consegnato dalla società Naval Group alla DGA (Direction Générale de l’Armement) il 6 novembre, e immediatamente trasferito alla Marine nationale (Ministero delle Forze armate francesi).
nisce per la prima volta una capacità di «deep strike» alla componente di battelli d’attacco nucleare in servizio, che si aggiunge alla panoplia d’armamento del battello comprendente siluri pesanti di nuova generazione Naval Group «F 21 Artemis» e missili antinave a cambiamento d’ambiente MBDA «Exocet SM-39 Block 2 Mod 2», anch’essi lanciati con successo e qualificati nel corso dei sei mesi di prove in mare. L’entrata in servizio del Suffren è prevista per il 2021, dopo test operativi volti a verificarne le capacità militari in condizioni di impiego simili a quelle dei teatri operativi. Le consegne degli altri cinque sottomarini del programma «Barracuda», attualmente in diverse fasi di costruzione, avverranno entro il 2030. Il secondo battello Duguay-Trouin, è attualmente in fase d’assemblaggio dello scafo e la sua consegna è prevista per il 2022. Il terzo, Tourville, è in fase di costruzione finale a lato del Duguay-Trouin. Presso il sito di Nantes-Indret di Naval Group è in corso anche l’assemblaggio del sistema propulsivo e del modulo reattore nucleare del quarto, il De Grasse. Infine, Naval Group ha iniziato a mettere insieme i primi elementi degli scafi del quinto e sesto sottomarino, il Rubis e il Casabianca, nonché gli elementi dei moduli dei relativi reattori nucleari.
Il sottomarino Perle (S 606) verrà riparato Nei giorni concomitanti il salone «digitale» di Euronaval 2020, il ministro della Difesa francese Florence
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Parly ha annunciato che il sottomarino a propulsione nucleare d’attacco Perle (S 606) classe «Rubis» verrà riparato e rimesso in servizio. Il battello è rimasto danneggiato da un grave incendio scoppiato il 12 giugno scorso nella sezione prodiera del medesimo, mentre era in bacino e stava effettuando i grandi lavori manutentivi programmati. Quasi 300 fra pompieri e marinai sono stati impiegati per sconfiggere l’incendio con un intervento che è durato oltre 14 ore. Come anticipato dallo stesso Ministro, successivamente all’incidente, personale del cantiere costruttore Naval Group, del Servizio di Supporto della Marina francese e della DGA, sono stati impegnati in un’estesa valutazione dei danni e della possibilità di rimettere in linea il battello. Le conseguenti attività e studi hanno portato alla conclusione che il battello è riparabile e tali lavori verranno effettuati dai soggetti appena menzionati presso il sito di Naval Group di Cherbourg, dove lo scafo danneggiato del Perle verrà trasferito per iniziare i lavori che impegneranno 300 persone, per almeno sei mesi. A causa dell’incendio, la parte prodiera dello scafo è stata sottoposta ad alte temperature che hanno alterato le qualità dell’acciaio della struttura resistente del battello, oltre a distruggere completamente i sistemi imbarcati nella medesima sezione interessata dall’incendio, che secondo quanto riportato, sarebbe scoppiato a causa di un fulmine. Per questi motivi, secondo quanto riportato dal Ministro, tale sezione verrà tagliata e rimpiazzata con quella dello scafo del sottomarino Rubis, dismesso dal servizio nel luglio 2019. Al momento dell’incendio, fortunatamente, il combustibile nucleare, l’armamento e buona parte della sistemistica elettronica e di piattaforma erano stati sbarcati. La sezione del battello ritirato dal servizio verrà revisionata e riallestita in vista della saldatura al resto dello scafo del Perle, che continuerà l’attività manutentiva programmata dove era stata interrotta lo scorso giugno. Il cantiere costruttore Naval Group ha il know-how e padroneggia le tecnologie necessarie a realizzare tale attività, ma nel corso dei lavori e successivamente al completamento dei medesimi, verrà svolta un’intensa attività di verifica continua e introdotto un programma ad hoc per la rimessa in servizio del battello, in piena sicurezza per il personale imbarcato. Secondo quanto
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dichiarato da Naval Group, i lavori effettuati dal personale di Cherbourg a Tolone, inizieranno nel gennaio del prossimo anno, per completarsi all’inizio del 2023. Grazie a tale intervento, la Marina francese disporrà di un sufficiente numero di battelli nucleari d’attacco in attesa dell’entrata in servizio delle nuove unità classe «Suffren», ma un gap temporale e operativo potrà riscontrarsi per il ritardo nelle attività manutentive programmate del sottomarino Perle.
Lavori di rinnovamento e ammodernamento per la fregata Courbet (F 710) Come programmato, la prima delle tre fregate leggere dal design stealth (FLF, Frégate Légère Furtive) classe «La Fayette» è entrata nel bacino Castigneau 3 presso la base navale di Tolone. Si tratta dell’unità Coubert (F 710), i cui lavori segnano l’avvio del programma di rinnovamento e aggiornamento di tre delle cinque unità tipo FLF della Marina francese: La Fayette (F 712), Aconit (F 713) e Courbet (F 710). Tali attività sono destinate all’ammodernamento del sistema di combattimento e all’estensione della vita operativa delle tre unità in occasione dei lavori di bacino. In particolare, l’ammodernamento riguarda l’introduzione di un sistema di comando e controllo allo stesso standard di quello della portaerei Charles de Gaulle, un nuovo sistema optronico e nuovi data link per il potenziamento delle capacità net-centriche. Due sistemi di difesa antiaerea SADRAL sbarcati dalle fregate dismesse tipo «F70» e rinnovati, armati con missili terra-aria MBDA «Mistral» a brevissimo raggio, nella più recente versione «M 3» con capacità d’ingaggio di bersagli aerei e di superficie, sostituiranno l’attuale sistema «Crotale». La FLF Courbet sarà anche dotata di una nuova capacità antisom, grazie all’introduzione di sonar a scafo attivo/passivo Thales «KingKlip Mk 2». In parallelo ai lavori legati al sistema di combattimento, verranno effettuate le necessarie revisioni e manutenzioni legate alla piattaforma e ai relativi sistemi, fra cui l’introduzione di un nuovo sistema di controllo automatizzato della propulsione. Grazie a questi interventi, destinati a concludersi nel caso della FLF Courbet entro l’estate 2021, le tre unità potranno svolgere una più ampia gamma di missioni e
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L’entrata in bacino della fregata leggera (FLF, Frégate Légère Furtive) COUBERT (F 710) presso la base navale di Tolone, segna l’avvio del programma di rinnovamento e aggiornamento di tre delle cinque unità tipo FLF della Marina francese (Naval Group).
la loro vita operativa verrà estesa di ulteriori cinque anni in attesa che entrino in servizio le nuove fregate tipo FDI (Frégates de Défense et d’Intervention). I lavori di ammodernamento del sistema di combattimento sono affidati a Naval Group (quale capocommessa) mentre quelli relativi alla piattaforma e relativi sistemi sono eseguiti dai cantieri Chantiers de l’Atlantique, sotto la direzione della DGA francese.
Taglio della prima lamiera per il programma POM Il programma per la costruzione e messa in servizio delle nuove sei unità tipo POM (Patrouilleur d’Outre Mer) è stato lanciato lo scorso 8 ottobre, con la cerimonia del taglio della prima lamiera per l’unità capoclasse, alla presenza del ministro delle Forze armate francesi Florence Parly presso i cantieri di Saint Malo, del gruppo Socarenam. Assegnato a un team industriale composto dalle società Socarenam/Mauric e CNN
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MCO (parte del gruppo Engie), rispettivamente responsabili della progettazione, costruzione e supporto in servizio per i primi sei anni, il programma POM comprende la costruzione di sei unità che sostituiranno la vecchia generazione di pattugliatori offshore più piccoli tipo «P-400» e altre navi di stanza nei territori francesi d’oltremare. Destinate a svolgere una vasta gamma di Il programma per la costruzione e messa in servizio delle sei nuove unità tipo POM (Patrouilleur d’Outre Mer), qui rappresentate in un disegno al computer, è stato lanciato lo missioni, dalla protezione degli interessi scorso 8 ottobre, con il taglio della prima lamiera per l’unità capoclasse, presso i cantieri nazionali e delle zone marittime in Nuova di Saint Malo del gruppo Socarenam (Ministero della Forze armate francesi). Caledonia, Polinesia francese e acque della perficie e di navigazione, la suite EO/IR, comunicaReunion, al controllo della pesca, dalla lotta al traffico zioni SATCOM e veicoli aerei senza pilota. Il sistema illegale di esseri umani e droga, alla ricerca e soccorso «Lyncea» comprende un data link che incrementa le e alla protezione ambientale, le nuove unità tipo POM capacità di comunicazione con i battelli veloci e offre saranno consegnate tra il 2022 e il 2025, con la prima capacità aggiuntive per archiviare e analizzare i dati che arriverà in Nuova Caledonia entro la fine del 2022. raccolti dal velivolo senza pilota imbarcato. Il POM Ciascuno dei territori d’oltremare riceverà due POM, sarà equipaggiato con un sistema d’arma a controllo reche saranno rispettivamente di stanza a Nouméa moto Nexter «Narwhal 20B» con cannone da 20 mm, (Nuovo Caledonia), Port des Galets (Reunion) e Padue mitragliatrici da 12,7 mm e due da 7,62 mm. Sebpeete (Polinesia francese). Progettate dal bureau di arbene non siano state fornite indicazioni sul velivolo chitettura navale Mauric (ECA Group), con un senza pilota imbarcato, il ministero della Difesa frandislocamento di circa 1.300 tonnellate, una lunghezza cese è previsto acquisti, nel 2020, una serie di sistemi e larghezza rispettivamente di 79,9 e 12 metri e un peSMDM (Système de mini-drones Marine) ciascuno scaggio inferiore a 3,5 metri, le unità tipo POM saranno comprendente due UAV «DVF 2000 Aliaca», forniti in grado d’imbarcare e operare due RHIB da 8 metri dalla società Survey Copter controllata da Airbus. (oltre a un tender) e accogliere nella zona poppiera un container standard oltre alla gru di supporto, in aggiunta a una piattaforma di volo ed equipaggiamenti GIAPPONE per velivoli senza pilota fino a 200 kg. Con un sistema Varato il sottomarino Taigei (513) propulsivo ibrido diesel/elettrico che offre una velocità Con una cerimonia tenutasi presso i cantieri Mitsumassima di 24 nodi, un’autonomia di 5.500 mn a 12 bishi Heavy Industries (MHI) di Kobe, alla presenza nodi e di missione di 30 giorni, le unità tipo POM del ministro della Difesa e del Capo di Stato Maggiore avranno un equipaggio di 30 unità e saranno in grado della Marina giapponese, è stato varato il sottomarino di ospitare ulteriori 23 persone fra forze di polizia e di Taigei (513). Si tratto del primo di una nuova classe di comando. Specificamente progettate per operare nei battelli a propulsione diesel-elettrica basato unicamente teatri operativi dell’oceano Indiano e del Pacifico, oltre su batterie a ioni di litio e una segnatura complessiva alle sistemazioni per l’impiego di velivoli senza pilota, ulteriormente ridotta rispetto all’attuale classe «Soryu» queste unità saranno dotate anche di capacità idrograequipaggiata con un sistema propulsivo indipendente fiche grazie a una suite ad hoc, antincendio e di traino. dall’aria (AIP), unitamente a un sistema di combattiLe nuove navi saranno equipaggiate con una suite di mento e armamento più avanzati per contrastare i più navigazione, sorveglianza e combattimento incentrata silenziosi e capaci battelli avversari. Con una lunsul sistema «Lyncea» fornito dalla società Nexeya ghezza e larghezza rispettivamente di 84 e 9,1 metri e France del gruppo Hensoldt, che gestirà i radar aria/suun dislocamento standard di circa 3.000 t, il nuovo bat-
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Royal Air Force e dell’US Marine Corps, dopo aver completato con successo la prima esercitazione operativa del nuovo Carrier Strike Group (CSG) britannico. Quest’ultimo è destinato ad assicurare la proiezione di potenza della Gran Bretagna sul mare per i prossimi 50 anni. L’unità ha lasciato la medesima base d’appartenenza il 5 ottobre per congiungersi con le unità navali facenti parte dell’UK CSG e prendere parte all’attività addestrativa «Group Exercise 2020» nel Mare del Nord, in preCon una cerimonia tenutasi presso i cantieri Mitsubishi Heavy Industries (MHI) di Kobe, parazione del primo dispiegamento operaalla presenza del ministro della Difesa e del Capo di Stato Maggiore della Marina giapponese, è stato varato il primo sottomarino con propulsione a batterie agli ioni di litio TAIGEI tivo d’oltremare in Estremo Oriente nel (513) - (Ministero della Difesa giapponese/Marina giapponese). 2021 come CSG 21. Successivamente a tale attività, l’UK CSG ha preso parte all’esercitazione NATO «Joint Warrior 2020» esercitandosi tello presenta un sistema di immagazzinamento e procon le altre unità dell’Alleanza in scenari d’impiego duzione di energia elettrica basato su batterie a ioni di mare-cielo-terra. «Nel corso delle ultime settimane, la litio che estende l’autonomia operativa subacquea Royal Navy ha realizzato quello che molte persone senza incrementarne le dimensioni, nonché un sistema hanno detto che sarebbe stato impossibile», ha dichiasnorkel migliorato, accorgimenti e materiali di rivestirato il comandante in capo dell’UK CSG, il commomento atti a ridurre in maniera significativa la segnadoro Steve Moorhouse. «Abbiamo creato un UK CSG tura del sottomarino. A questi s’aggiunge un nuovo nazionale con le navi e i velivoli necessari alla protesistema di comando, controllo e combattimento che zione e al supporto delle operazioni su portaerei a licombina avanzati sensori fra cui una suite acustica bavello globale. La Royal Navy ha raggiunto tale sata sull’impiego della fibra ottica per incrementarne obiettivo nonostante la pandemia e gli impegni naziole capacità di scoperta e tracciamento e sistemi d’arma nali e internazionali», ha poi sottolineato, aggiungendo e di protezione di nuova adozione. In particolare i che è stato effettuato un ulteriore passo avanti nell’innuovi battelli saranno equipaggiati con il nuovo siluro tegrazione di un gruppo di velivoli d’attacco congiunto pesante «Tipo 18». Destinato a entrare in servizio nel UK/US e di unità navali alleate. «Ancora molte cose marzo del 2022, il Taigei è finora affiancato da altri tre devono essere fatte nell’ambito della preparazione per battelli già finanziati e in fase costruttiva cui s’agil primo dispiegamento operativo nel 2021. Ma non ci giunge l’acquisizione di un quinto che aspetta di essere sono dubbi», ha concluso il commodoro Moorhouse, approvato con il bilancio della Difesa 2021. Secondo «dopo venti anni (…) l’UK Carrier Strike Group è oggi quanto dichiarato dal ministero della Difesa giappouna realtà». L’UK Carrier Strike Group comprendeva, nese, la nuova classe di battelli potrebbe raggiungere in aggiunta alla portaerei Queen Elizabeth con a bordo le otto unità. 5 «F-35B» del No 617 Squadron «Dambusters» della Royal Air Force e 10 «F-35B» del Marine Fighter AtGRAN BRETAGNA L’UK Carrier Strike Group completa la prima tack Squadron (VFMA) 211 «Wake Islands Avengers» dell’USMC, nonché elicotteri «Merlin HMA.2» del esercitazione operativa 820 Naval Air Squadron (NAS), i due caccia lanciaLo scorso 15 ottobre, la portaerei Queen Elizabeth missili per la difesa antiaerea della Royal Navy, Defen(R 08) ha fatto ritorno alla base navale di Portsmouth der (D 36) e Diamond (D 34) della classe «Daring» con a bordo i velivoli Lockheed Martin «F-35B» della
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oltre al caccia lanciamissili Sullivans (DDG 68) classe «Arleigh Burke» dell’US Navy e le fregate antisom Kent (F 78) e Northumberland (F 238) della RN e Evertsen (F 805) classe «De Zeven Provincien» della Royal Netherlands Navy. Mentre queste unità e velivoli assicuravano la protezione del gruppo unitamente a velivoli da pattugliamento basati a terra, le unità Tideforce (A 139) e Fort Victoria (A 387) della Royal Fleet Auxiliary ne assicuravano il riforni- Il nuovo CSG (Carrier Strike Group) britannico incentrato sulla portaerei QUEEN ELIZABETH (R 08), equipaggiata con velivoli «F-35B» della Royal Air Force e dell’US Marine mento e il supporto. A ulteriore protezione Corps e scortata da unità navali americane, olandesi e britanniche, ha completato con successo la prima esercitazione operativa in vista del primo dispiegamento operativo del gruppo anche almeno un’unità subac- nell’Estremo Oriente programmato per il 2021 (Ministero della Difesa britannico). quea non identificata ma evidenziata in un navale e il primo trasferimento di munizioni da parte tweet introduttivo alle attività della stessa Royal Navy, dell’unità da supporto ammodernata, Fort Victoria. presumibilmente un SSN classe «Astute». Un gruppo Unico elemento ancora mancante, la componente di con nove unità (dieci conteggiando il sottomarino), 15 elicotteri «Merlin Crowsnet» AEW&C (Airborne Early caccia, 11 elicotteri e oltre 3.000 marinai e aviatori di Warning and Control), i cui primi esemplari saranno tre nazioni, che hanno preso parte all’attività preparasoltanto disponibili in una configurazione pre-IOC (Initoria nell’ambito della «Group Exercise 2020», nel tial Operational Capability) per il primo dispiegacorso della quale i velivoli della RN e dell’USMC mento operativo dell’UK CSG nel maggio 2021, causa hanno operato insieme e portato a termine anche misritardi nell’integrazione del sistema AEW&C con il sisioni aria-superficie su un poligono in Scozia, con il stema di missione del «Merlin HM2». La IOC è previsupporto e la designazione bersagli fornita da elicotteri sta per il settembre dello stesso anno mentre una piena Leonardo «Wildcat» del 847 NAS. Un’attività che è capacità operativa (FOC, Full Operational Capability) proseguita con la partecipazione dell’UK CSG all’eserè prevista per maggio 2023. citazione multinazionale «NATO Joint Warrior», la più grande preparatoria attività dell’Alleanza sul mare, con la partecipazione di 28 unità, 2 sommergibili, 81 veliINDIA voli e oltre 6.000 militari di 11 nazioni fra cui Australia, Nuovo lancio da nave del missile supersonico Belgio, Canada, Danimarca, Francia, Lituania, Paesi «BrahMos» Bassi, Norvegia, Portogallo, Regno Unito e Stati Uniti. Il DRDO (Defence Research and Development OrNel corso di quest’ultima, l’UK CSG è stato sottoposto ganisation) e la Marina indiana hanno completato con ad attacchi simulati da parte di velivoli d’addestrasuccesso, lo scorso 18 ottobre, il lancio di un missile mento avanzato «Hawk T1» del 736 Naval Air Squada crociera supersonico «BrahMos» in versione antidron della Royal Navy e Dassault «Falcon» gestiti dalla nave, dal caccia lanciamissili Chennai (D 65) classe società Cobham, che hanno svolto il ruolo «aggressor» «Kolkata» nel Mar Arabico. Secondo quanto dichiarato di velivoli e sistemi d’arma lanciati, contro il gruppo, dal ministero della Difesa, il missile ha colpito il berda un ipotetico avversario. In occasione di tale attività, saglio con precisione chirurgica dopo aver completato in aggiunta alla celebrazione del ritorno in servizio opeuna serie di complesse manovre nel corso del volo. La rativo delle portaerei con la Royal Navy, l’UK CSG ha società BrahMos Aerospace, una joint-venture russoconseguito e registrato una serie d’importanti eventi, indiana, produce il missile supersonico in diverse vercome l’impiego congiunto multinazionale di velivoli sioni per l’impiego da terra, mare, cielo. Nel corso STOVL della quinta generazione da parte di un Gruppo dell’anno, lo scorso maggio, la nuova versione avio-
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lanciabile del missile è stata testata con successo da un velivolo «Su-30 MKI» dell’Aeronautica indiana, mentre lo scorso settembre ha fatto seguito il lancio di una nuova versione superficie-superficie del missile, con una portata maggiorata da circa 290 a 400 km.
In servizio la quarta corvetta classe «Kamorta» Con una cerimonia tenutasi presso la base navale di Visakhapatnam lo scorso 22 ottobre, la Marina indiana ha ufficialmente immesso in servizio l’ultima delle quattro corvette antisom classe «Kamorta». Si tratta dell’unità Kavaratti (P 31), consegnata dai cantieri GRSE (Garden Reach Shipbuilders & Engineers) di Kolkata, che presenta un elevato livello di componentistica nazionale, comprendente sistemi sviluppati dall’industria nazionale o prodotti su licenza, oltre alla progettazione e costruzione locale.
Testato con successo il sistema SMART Il DRDO ha testato con successo, per la prima volta, il sistema SMART (Supersonic Missile-Assisted Release of Torpedo) lo scorso 5 ottobre, con un lancio effettuato dall’isola di Wheeler davanti Odisha, sulla
costa indiana orientale. Il sistema si caratterizza per un vettore missilistico supersonico a lancio verticale, capace di portare un siluro leggero per l’impiego antisom. Lo SMART applica un concetto operativo già noto con la munizione VL-ASROC (Vertical-Launched AntiSubmarine Rocket) entrata in servizio nel 1993, ma più evoluto e capace rispetto a quest’ultimo. Secondo quanto dichiarato dal ministero della Difesa indiano nel documento sulle attività del dicastero 2018-19, il requisito per la portata del sistema SMART è compreso fra 50 e 650 km, con un carico utile rappresentato da un siluro leggero. Il comunicato emesso in occasione del lancio evidenzia che tutti i sottosistemi di SMART hanno funzionato a dovere, compreso il meccanismo per la separazione e la riduzione della velocità di entrata in acqua del siluro trasportato. Nessuna informazione viene invece fornita sui sistemi di scoperta e tracciamento eventualmente necessari all’individuazione di bersagli subacquei così lontani dalla piattaforma lanciatrice, che potrebbero indicare un impiego integrato e connesso fra diverse piattaforme e sistemi di scoperta.
ITALIA Nuovi e futuri programmi costruttivi
Il DRDO (Defence Research and Development Organisation) ha testato con successo per la prima volta il sistema antisom SMART (Supersonic Missile-Assisted Release of Torpedo), caratterizzato da un vettore missilistico supersonico a lancio verticale con carico pagante rappresentato da un siluro leggero (Ministero della Difesa indiano).
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In occasione dell’audizione tenutasi il 28 ottobre davanti alla IV Commissione difesa della Camera dei deputati, il Capo di Stato Maggiore della Marina Militare, ammiraglio di squadra Giuseppe Cavo Dragone, tratteggiando l’impegno della Forza armata in questo periodo di pandemia a supporto alla popolazione e alla difesa degli interessi nazionali nello scacchiere del Mediterraneo cosiddetto «allargato», ha delineato anche lo stato dei presenti e futuri programmi per l’ammodernamento della flotta. Guardando al futuro più lontano, al netto, quindi dei programmi già in esecuzione o in fase di avviamento, di cui parleremo oltre, al fine del soddisfacimento del MOIR (Modello Operativo Integrato di Riferimento della Difesa), in cui è confluito, nel 2018, il piano di rinnovamento concepito dalla Marina, il CSM ha evidenziato come occorre ancora provvedere alla sostituzione di numerose e importanti unità con nuove costruzioni. Fra queste, due nuovi caccia lanciamissili per compiti di difesa aerea, che avvicen-
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dino quanto prima le navi della classe «Ammiragli», tre nuove navi anfibie per rimpiazzare le unità da sbarco della classe «Santi», due unità logistiche per la sostituzione delle altrettante classe «Stromboli», che hanno ormai superato i 40 anni di servizio, otto nuove unità da pattugliamento per il rinnovamento della i programmi costruttivi di prossima attuazione di cui ha parlato il Capo di Stato Maggiore della Marina cosiddetta «seconda linea», due Fra Militare, ammiraglio di squadra Cavo Dragone, nel corso dell’audizione davanti la Commissione difesa Camera, è compreso quello per due caccia lanciamissili (DDX) in possesso di elevate capacità di nuovi sommergibili da acquistarsi della contrasto alla minaccia di superficie e subacquea e dotati di spiccate caratteristiche per la protezione nell’ambito del programma NFS d’area di Gruppi navali in contrasto alla minaccia aerea e missilistica convenzionale/balistica. (New Future Submarine) per il completamento della prevista linea di otto unità subacha personalmente disposto «un’aggressiva campagna quee. Ai programmi costruttivi s’affiancano le esigenze di sfruttamento di tutte le opportunità perseguibili, delle componenti specialistiche, tra cui l’ammodernacome per esempio quelle offerte della Banca europea mento dei mezzi ruotati, cingolati e navali della Brigata per gli investimenti — attivata per la prima volta in Marina San Marco (incluse le capacità di comando e Europa proprio per sovvenzionare la costruzione delle controllo) e le analoghe esigenze del COMSUBIN per nuove unità idro-oceanografiche della Marina e che gli aspetti relativi a palombari e incursori. In merito al potrebbe, per esempio, continuare a supportare la coprocesso di rinnovamento, ha fatto cenno alla determistruzione di nuove unità a duplice uso sistemistico». A nazione con la quale la Marina ha agito per contrastare tal riguardo, il CSM ha evidenziato come nel contrasto gli effetti disabilitanti della diffusione del Covid-19, alla pandemia, la Marina ha anche raccolto molti inseparlando dell’aggiornamento di nave Cavour (550) agli gnamenti «che ci hanno permesso di sviluppare nuove standard tecnici stabiliti per il velivolo «F-35» nella esigenze operative, come quella per realizzare una versione STOVL (Short Take-Off Vertical Landing). In nuova nave con capacità ospedaliere e definire il reordine all’approntamento di nave Cavour, il CSM ha quisito per ospedali modulari dislocabili a mezzo nave, evidenziato che, come noto, la portaerei rappresenta il attraverso moduli containerizzati con capacità di fulcro della capacità di proiezione della Squadra natriage, terapia intensiva e sub-intensiva». vale. «Il mio obiettivo, molto ambizioso dato il contesto e i numerosi fattori di “attrito” che combattiamo quoIl DPP 2020-22 e i programmi navali tidianamente, è quello di conseguire la transizione La pubblicazione del Documento programmatico della linea “AV-8B Plus” a quella “F-35B”, almeno pluriennale (DDP) 2020-22 e le successive audizioni in termini di capacità iniziale, al più presto, in accordo dei rappresentanti del ministero della Difesa e delle a quanto stabilito dalle linee programmatiche del sig. Forze armate, ha messo in evidenza una serie di imporMinistro della Difesa», ha affermato evidenziando tanti programmi d’acquisizione e ammodernamento come, «quando verrà raggiunta la capacità operativa per la Marina Militare. In particolare, nell’ambito dei iniziale (indicata successivamente per il 2024), tenuto programmi di nuova introduzione che potranno essere conto della Brexit, il nostro Gruppo portaerei sarà uno lanciati o trovare attuazione nel triennio 2020-22, vendei soli due disponibili in tutta l’Unione europea e gono evidenziati il programma relativo allo studio per a l’unico equipaggiato con velivoli di 5 generazione». lo sviluppo e l’acquisizione di due nuovi caccia (nell’ambito del programma «DDX») — inclusi del relaPer alleviare la pressione finanziaria sul processo di tivo armamento — in possesso di elevate capacità di rinnovamento delle linee, il CSM ha sottolineato che
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contrasto alla minaccia di superficie e subacquea e dotati di spiccate caratteristiche per la protezione d’area di Gruppi navali in contrasto alla minaccia aerea e missilistica convenzionale/balistica, quello relativo all’acquisizione di una nuova unità di supporto logistico (LSS) della classe «Vulcano» e di un nuovo veicolo blindato anfibio (VBA). A questi s’aggiungono quelli già evidenziati dai precedenti Documenti programmatici pluriennali nonché minori di nuovo sviluppo. Fra questi progetti riguardanti lo sviluppo e acquisizione dei nuovi sottomarini nell’ambito del programma «U212 NFS» («Near Future Submarine») di cui attualmente risultano finanziate le prime due unità oltre a un pacchetto iniziale di supporto e addestramento; lo sviluppo, qualifica, industrializzazione e acquisizione del nuovo missile MBDA «Teseo Mk2/E» (Evolved) nonché di risoluzione delle obsolescenze del missile in servizio «Teseo Mk2/A» con la finalità di salvaguardare la capacità missilistica superficie-superficie della componente marittima della Difesa; il programma di studio per lo sviluppo di 12 nuove unità navali polivalenti di contromisure mine (CMM) con spiccate connotazioni modulari e multifunzionali; l’acquisizione di una nuova unità ausiliaria con spiccate capacità di soccorso a sommergibili sinistrati e di supporto a operazioni speciali e subacquee (SDO-SuRS), unitamente a un completo sistema dispiegabile per il soccorso dei sommergibili sinistrati di concezione e produzione nazionale. Tale programma prevede anche la realizzazione di un centro iperbarico polifunzionale per attività duali. A questi s’aggiunge il programma pluriennale di acquisizione della nuova unità idro-oceanografica maggiore (NIOM) e delle nuove unità idro-oceanografiche costiere (NIOC) di cui abbia parlato ed evidenzieremo oltre. Inoltre, si aggiunge il lancio del programma volto ad adeguare e rinnovare la capacità di assistenza alle unità navali dei mezzi logistici dei porti della componente marittima, quali rimorchiatori, bettoline e mezzi minori di supporto in mare e in banchina, nonché il programma pluriennale relativo all’approvvigionamento scorte del munizionamento guidato a lunga portata «Vulcano» da 127 mm, oltre a quello riguardante l’aggiornamento delle munizioni «Aster 15» e «30» della componente marittima che si aggiunge a quello inter-
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forze Esercito/Marina per lo sviluppo della munizione «Aster 30 Block 1NT». Il DPP 2020-22 introduce anche il programma interforze Esercito/Marina volto allo sviluppo e all’acquisizione di radar per la sorveglianza e l’ingaggio (e relative attività di integrazione e qualifica) quali sensori organi delle unità navali della Marina Militare dotate dei sistemi di difesa aerea FSAF/PAAMS con capacità incrementate grazie all’introduzione dei missili «Aster 30 Block 1NT» attualmente in fase di sviluppo.
La BEI finanzia le future navi idro-oceanografiche Con un’operazione innovativa a livello europeo, è stato perfezionato un prestito di 220 milioni di euro tra la Banca europea per gli investimenti (BEI), il ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) e quello della Difesa, finalizzato alla costruzione di tre navi idro-oceanografiche che saranno utilizzate dall’Istituto idrografico della Marina Militare di Genova (IIM). Il progetto prevede la progettazione e la costruzione di due diverse tipologie di unità navale dedicate: la NIOM (Nave Idro-Oceanografica Maggiore) destinata a rimpiazzare nave Magnaghi (A 5303) che ha ormai raggiunto la fine della vita operativa, e le due nuove unità tipo NIOC (Nave Idro-Oceanografica Costiera) per il futuro rimpiazzo delle due navi idrografiche classe «Ninfe», Aretusa (A 5304) e Galatea (A 5308). Le tre nuove navi svolgeranno attività prevalentemente a favore della collettività: ricerca sul clima in ambiente marino e sicurezza della navigazione grazie all’opera di mappatura dei fondali necessaria per la produzione delle carte nautiche ufficiali delle acque italiane. La NIOM verrà impiegata soprattutto per la ricerca idrografica e oceanografica nel Mediterraneo e negli oceani ma anche nelle regioni artiche e antartiche. Le due tipo NIOC opereranno essenzialmente nel mar Mediterraneo. Destinato a svilupparsi nel periodo 2021-27, il progetto sostiene in modo significativo gli obiettivi primari di innovazione e l’azione per il clima, della BEI, e contribuisce al raggiungimento di numerosi obiettivi europei. I dati oceanografici che saranno raccolti dalle navi sono una componente chiave dei modelli climatici che contribuiscono alla comprensione del cambiamento del clima e sono alla base delle decisioni in merito alle
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nazionale nello studio dell’oceano Artico, in relazione ai cambiamenti globali. Il contrammiraglio Massimiliano Nannini, direttore dell’Istituto idrografico, ha enfatizzato l’importante concetto di unicità che quest’anno rende la campagna di ricerca «High North20» condotta con l’unità Alliance (A 5345) un contributo ancora più prezioso per tutta la comunità e i principali enti di ricerca coinvolti quali il CMRE della NATO, JRC, CNR, ENEA, INGV e OGS e industria con e-Geos. I dati della missione «High North20» sono infatti l’unica realtà di acquisizione sul campo che fornisce continuità alla serie storica di osservazioni amCon un’operazione innovativa a livello europeo ̀e stato perfezionato un prestito tra la Banca europea per gli investimenti (BEI), il ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) e quello bientali, che altrimenti avrebbe una della Difesa, finalizzato alla costruzione di tre navi idro-oceanografiche, di cui è qui ripreso il rendering del progetto NIOM, che saranno utilizzate dall’Istituto idrografico della Marina mancanza a causa delle restrizioni per la Militare di Genova. pandemia in corso. La professoressa Roberta Ivaldi, quale direttore scientifico di «High North20», ha presentato i primi risultati della azioni da adottare per mitigarne gli effetti. Dal punto campagna, nel corso della quale sono stati mappati di vista finanziario, l’operazione prevede un contratto 4.211,8 km2 di fondale inesplorato dell’oceano Artico di prestito tra la BEI e il MEF e un «contratto di progetto» tra la BEI e la Difesa. La durata del finanziacon sistemi acustici multifascio ad alta risoluzione inmento è di 25 anni, in linea con la vita economica delle tegrati da altri non acustici. La mappatura ha riguardato navi. Per lo Stato italiano utilizzare i prestiti della BEI aree inesplorate con acquisizione di dati al ciglio dei hanno il duplice vantaggio di durate più lunghe e tassi ghiacci della banchisa artica raggiungendo, il 21 luglio molto bassi. L’accordo rappresenta inoltre il primo 2020, la massima latitudine di 81° 16.93 N. Nel Molloy passo per future collaborazioni finalizzate al sostegno Hole «uno Ziggurat rovesciato» situato nello stretto di dei programmi di innovazione della Difesa. Le nuove Fram tra le Isole Svalbard e la Groenlandia, è stato unità verranno affidate al Comando della Squadriglia identificato il punto più profondo dell’oceano Artico, Navi Idrografiche e Esperienze (COMSQUAIDRO) e pari a 5.567 m. Alle ricerche condotte e coordinate contribuiranno a effettuare i rilievi che permettono dall’Istituto idrografico della Marina hanno partecipato l’aggiornamento della cartografia ufficiale dello Stato 46 membri dell’equipaggio, 13 esperti dell’Istituto, di a garanzia della sicurezza della navigazione e a increcui 5 giovani ufficiali a testimonianza dell’alta formamentare la conoscenza dell’ambiente marino. zione quale contributo a realizzare una young ocean researcher in linea con quanto promosso dalle Nazioni unite per l’Ocean Science Decade for Sustainable dePresentati i risultati di «High North20» velopment 2021-30. In occasione della sessantesima edizione del Salone nautico internazionale, la Marina Militare ha presentato i risultati scientifici della Campagna di ricerca «High Un operatore del GOI primo classificato al SOCM North 20». Da 2017, la Marina Militare è presente e È un operatore di 24 anni del Gruppo Operativo Inopera in Artico con un proprio programma pluriennale cursori della Marina Militare italiana, il 1° classificato di ricerca denominato «High North», quale strumento su 72 partecipanti al corso SOCM (Special Operations di supporto alla comunità scientifica nazionale e interCombat Medic) che si è svolto, dall’8 novembre 2019
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al 4 settembre 2020, in favore di operatori delle Forze speciali internazionali, presso la base di Fort Bragg, Fayetteville in North Carolina (Stati Uniti), sede delle Forze speciali dell’US Army. Nel corso delle 36 settimane di dura formazione, gli Special Operation Combat Medic acquisiscono competenze specialistiche in diverse macro-aree come il Combat Trauma Management (CTM) e il Tactical Combat Casualty Care (TCCC), nonché nell’utilizzo di tecniche, strategie di diagnosi e procedure di soccorso alle vittime, in contesti ostili. Il giovane incursore del GOI, brevettatosi appena tre anni fa grazie al concorso per Volontari in Ferma Prefissata di un anno (VFP1), aveva già dimostrato le sue pregevoli qualità di soccorritore militare a maggio del 2019 quando era risultato 1° su 257 partecipanti al corso Combat Medic Specialist dell’US Army, svolto presso lo United States Army Medical Department Center&School, conquistando così l’Honor Graduate, uno dei riconoscimenti più importanti che viene assegnato dalle scuole militari d’oltreoceano. Questo successo è una dimostrazione tangibile dell’impegno che COMSUBIN applica da anni nel campo della medicina di combattimento e nella formazione dei suoi soccorritori militari.
15a riunione annuale VRMTC 5+5 La Marina ha riunito i membri della comunità VRMTC «5+5» NET nella 15a riunione annuale, organizzata e condotta dal 3° Reparto pianificazione e politica marittima dello Stato Maggiore, tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre. L’attività è stata sviluppata per la prima volta in modalità «virtuale», con i partecipanti collegati in videoconferenza. Nonostante l’impossibilità di incontrarsi in presenza, i rappresentanti delle Marine di Algeria, Francia, Italia, Libia, Malta, Marocco, Mauritania, Portogallo, Spagna e Tunisia hanno avuto l’occasione di condividere le proprie considerazioni e commentare i risultati ottenuti nell’ambito della comunità in termini di conoscenza dell’ambiente operativo e supporto all’azione sul mare. Nell’ambito del virtual meeting si è anche tenuto un webinar a cura di specialisti del 7o Reparto navi sul progetto «Flotta Verde», iniziativa concreta della Marina per la tutela dell’ambiente marino e, in particolare,
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per la riduzione delle emissioni inquinanti delle unità. In particolare, la Marina è stata la prima in Europa (e l’unica al momento) a qualificare operativamente un combustibile green, perfettamente compatibile con gli impianti di propulsione e generazione di bordo, che contiene fino al 50% di quota sintetica di origine rinnovabile. L’impiego di tale combustibile consente di ridurre significativamente le emissioni inquinanti in atmosfera e, al contempo, di incrementare la cosiddetta sicurezza energetica nazionale, limitando la dipendenza dal petrolio e dagli altri combustibili fossili.
Inaugurazione dell’anno accademico dell’ISMM di Venezia Alla presenza del Capo di Stato Maggiore della Marina Militare, lo scorso 2 ottobre si è svolta la cerimonia di apertura dell’Anno Accademico dell’Istituto di Studi Militari Marittimi (ISMM) presso l’Antico Arsenale di Venezia. Rivolgendosi «agli ammiragli del domani», l’ammiraglio Cavo Dragone ha ricordato «che la prima parola d’ordine è imparare. Siamo in un periodo in cui veniamo bombardati da informazioni, ma va fatta un’analisi delle fonti, che devono essere approfondite per validarne le caratteristiche». Non solo. Ha chiesto agli ufficiali di «sviluppare un pensiero proprio, autonomo, illuminato di intelligenza, indipendenza e onestà intellettuale». Valori che permeano la formazione degli ufficiali di Marina.
Concluso il sesto modulo addestrativo «Opposed», culmine VBSS Il 25 settembre si è concluso il sesto modulo «Opposed» condotto a favore dei fucilieri del 2° Reggimento San Marco e del personale del Gruppo mezzi da sbarco. Si tratta di un addestramento della durata di tre settimane, che rappresenta il culmine del percorso addestrativo dei fucilieri di Marina nel settore Vessel Boarding Seize & Secure (VBSS). Solo chi supera con esito positivo questo modulo, viene, infatti, inserito nei dispositivi della Brigata Marina San Marco che opera sulle navi, nei contesti operativi caratterizzati da maggiore rischio per la sicurezza marittima. Sesto della serie iniziata il 2015, questo modulo è stato condotto per la prima volta, sempre con il sup-
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porto del Gruppo Operativo Incursori (GOI), interamente nelle sedi di Brindisi e Taranto e ha decretato la maturità operativa raggiunta nello specifico settore dalla Brigata Marina San Marco.
Nave Durand de la Penne (D 560) partecipa alla Dynamic Mariner 2020 Il caccia Luigi Durand de la Penne (D 560) ha preso parte all’esercitazione multinazionale NATO «Dynamic Mariner 2020» per la certificazione del NRFC 2021. Appuntamento annuale cui la Marina Militare non manca di partecipare; tale esercitazione ha lo scopo di testare la prontezza operativa della NATO Response Force (NRF) e di certificare l’idoneità del futuro NRF Commander, che nel 2021 sarà assicurato dalla Francia. Essa rappresenta una preziosa occasione per accrescere il livello di addestramento degli equipaggi coinvolti, consolidare la naval diplomacy e accrescere l’interoperabilità con le unità delle altre Marine della NATO.
Convocazione della prima classe per l’Accademia navale I 114 giovani, di cui 81 uomini e 25 donne, risultati idonei vincitori, al termine di un impegnativo processo di selezione, del concorso per allievi ufficiali dei corsi normali dell’Anno Accademico 2020-21, sono entrati in Accademia navale lo scorso 5 ottobre. Dopo essere stati sottoposti a uno screening sanitario, in ragione delle misure cautelative nazionali dovute all’emergenza in atto e aver ricevuto il benvenuto da parte del personale dell’istituto, quali nuovi componenti del grande equipaggio della Marina Militare, i neo frequentatori hanno indossato l’uniforme e sottoscritto l’atto di arruolamento assumendo così lo status di «Allievo 1a classe».
Sahel, la fregata Federico Martinengo (F 596) classe «Bergamini» è intervenuta tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre in due attività di supporto e protezione al traffico mercantile contro attacchi da pirati. Nel primo episodio, il 23 ottobre, mentre la fregata stava effettuando attività di pattugliamento al largo delle coste della Nigeria ha fornito supporto al mercantile Errina, battente bandiera panamense che è stato oggetto di un attacco e abbordaggio da parte di una piccola imbarcazione veloce con uomini armati a bordo, che avevano saccheggiato la nave e danneggiato gli apparati radio, prima di abbandonare il mercantile. Rispondendo all’allarme lanciato dal comandante del mercantile, a elevata distanza dalla posizione iniziale della fregata, il personale di quest’ultima si sincerava attraverso comunicazioni radio, che l’equipaggio della nave civile fosse in buone condizioni e potesse riprendere il viaggio, mettendosi altresì in contatto con l’armatore, che non riceveva notizie da molte ore. Il successivo episodio si è concluso nella serata del 7 novembre, con l’intervento del Martinengo in soccorso del mercantile Torm Alexandra, battente bandiera della Repubblica di Singapore, attaccato dai pirati in acque internazionali al largo delle coste del Benin, nel Golfo di Guinea. L’operazione ha visto inizialmente impegnato l’elicottero «SH-90» della fregata, che con il proprio intervento
Interventi antipirateria di nave Martinengo (F 596) Nell’ambito della nuova missione di presenza e sorveglianza marittima nel Golfo di Guinea, avviata più recentemente per tutelare gli interessi nazionali in un’area contigua e complementare al
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Nell’ambito della nuova missione di presenza e sorveglianza marittima nel Golfo di Guinea, la fregata FEDERICO MARTINENGO (F 596) classe «Bergamini» è intervenuta tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre in due attività di supporto e protezione al traffico mercantile contro attacchi da pirati.
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… e consegna di quattro unità veloci
ha messo in fuga l’imbarcazione dei pirati in stretto coordinamento con le Marine dei paesi rivieraschi. Nave Martinengo ha quindi ridotto le distanze con il mercantile per prestare assistenza all’equipaggio ancora rinchiuso nell’area protetta designata e in condizioni quindi di massima sicurezza, lanciando nuovamente l’elicottero con un team specializzato di fucilieri della Brigata Marina San Marco (BMSM), che si è calato a bordo per ispezionare e rendere sicura la nave mercantile affinché l’equipaggio potesse proseguire la navigazione in sicurezza, dopo eventuale assistenza.
Il gruppo cantieristico OCEA ha anche comunicato che nel mese di ottobre sono iniziate le consegne di 4 unità veloci tipo «C-Falcon» per la medesima Marina nigeriana. Con una lunghezza di 17,3 metri e un sistema propulsivo in grado di assicurare una velocità massima di 40 nodi con un’autonomia di 320 mn a 40 nodi, le nuove unità veloci presentano un equipaggio di 4 elementi e la capacità di trasporto di 16 soldati in un compartimento prodiero equipaggiato con un portellone sempre prodiero a comparsa da cui far scendere a terra la truppa trasportata.
NIGERIA Varo della nuova unità idrografica Lana (A 499) …
NORVEGIA Incremento del budget della Difesa
Secondo quanto comunicato dal gruppo cantieristico francese OCEA, lo scorso 24 settembre, presso i cantieri di Les Sables d’Olonne, è stata varata la nave oceanografica tipo «OSV 190 SC-WB» per la Marina nigeriana. Si tratta dell’unità battezzata Lana (A 499) che si caratterizza per una lunghezza di 60,1 m e un sistema propulsivo in grado di raggiungere i 24 nodi, con un’autonomia di 4.400 mn a 12 nodi e un’autonomia operativa di 20 giorni. In grado di accogliere fino a 50 persone compreso l’equipaggio, l’unità presenta laboratori ed equipaggiamenti per attività oceanografiche e idrografiche, compresa una suite sonar ed ecoscandagli di vario tipo e una lancia da 8 metri per le attività di ricerca e raccolta informazioni in acque costiere.
Il governo norvegese ha presentato un nuovo piano a lungo termine per le Forze armate nazionali che prevede un continuo incremento nei prossimi otto anni. Con la presentazione da parte del governo di un primo piano a lungo termine nell’aprile 2020, si è aperto un dibattito in Parlamento che ha portato la Commissione per gli Affari esteri e la Difesa di rivedere quest’ultimo alla luce di otto specifici argomenti. È stato pertanto presentato un nuovo piano che si basa sugli stessi e ambiziosi progetti del piano precedente ma con un budget più consistente destinato a incrementare nei prossimi otto anni. Nel 2024, l’aumento sarà di 8,3 miliardi di corone norvegesi rispetto a quello del 2020, mentre il prossimo anno, sarà superiore a tre miliardi. Per quanto riguarda la Marina, la Difesa prevede di incrementarne l’organico oltre il necessario ammodernamento delle fregate e sottomarini in servizio. A questi s’aggiunge l’immissione in servizio di tre nuovi pattugliatori per la Guardia costiera fra il 2021 e il 2025, mentre per quanto riguarda la componente di superficie della Marina, è previsto un piano per il rimpiazzo delle attuali unità al fine di mantenere una capacità operativa oltre il 2030. A tal riguardo, la Difesa informerà il Parlamento sui futuri sviluppi, nel 2022.
Secondo quanto comunicato dal gruppo cantieristico francese OCEA, lo scorso 24 settembre presso i cantieri di Les Sables d’Olonne, è stata varata la nave oceanografica tipo «OSV 190 SC-WB» per la Marina nigeriana battezzata LANA (A 499) - (OCEA).
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PAKISTAN Impostazione della terza corvetta tipo «MilGem» Lo scorso 25 ottobre presso i cantieri KS&EW (Karachi Shipyard and Engineering Works) di Karachi è
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stata impostata la chiglia della terza corvetta tipo «MilGem» destinata alla Marina pakistana. La cerimonia si è tenuta alla presenza del ministro della Difesa turco Hulusi Akar, del ministro pakistano della produzione militare Zubaila Jala e del Capo di Stato Maggiore della Marina pakistana, ammiraglio Muhammad Amjad Khan Niazi. La capoclasse è in fase di costruzione presso i cantieri Istanbul Naval Shipyard in Turchia mentre la seconda viene costruita in Pakistan attraverso un pacchetto di trasferimento di tecnologie e sistemi dall’industria turca sotto la direzione del gruppo statale ASFAT.
POLONIA Tre nuovi OPV per la Guardia di frontiera La società francese Socarenam ha annunciato lo scorso 5 ottobre di aver siglato un contratto per la progettazione e la costruzione di tre pattugliatori d’altura per la Guardia di frontiera polacca. Progettati e sviluppati in collaborazione con lo studio d’architettura navale Mauric di Marsiglia, i tre nuovi OPV avranno una lunghezza di 70 metri e saranno derivati dal progetto delle unità similari realizzate per la dogana e la Marina francese e in fase di realizzazione per quest’ultima Forza armata nell’ambito del programma POM. Con uno scafo e sovrastrutture rispettivamente realizzati in acciaio rinforzato e alluminio, i nuovi OPV saranno in grado di accogliere fino a 35 persone e di operare per un mese con un equipaggiamento di missione comprendente due battelli veloci di diversa lunghezza, un velivolo senza pilota e una sezione poppiera in grado di accogliere due container standard ISO 20 e gruetta di supporto.
presso i cantieri Anadolu nel febbraio 2019. L’unità che è stata varata lo scorso ottobre entrerà in servizio con la Marina del Qatar nel 2021 mentre la gemella Al Shamal (QTS 92) seguirà nel 2022. Il più grande progetto di unità navali (in termini dimensionali) finora realizzato dalla cantieristica turca privata per l’export, la nave scuola progettata e realizzata dai cantieri Anadolu, si caratterizza per capacità multiruolo e un sistema di combattimento. In aggiunta alla missione di nave, l’unità può svolgere anche compiti secondari di sorveglianza marittima e supporto. Con un dislocamento di 1.250 t a p.c., una lunghezza e larghezza rispettivamente di 90 e 14,2 metri, le unità classe «Al Doha» si caratterizzano per sovrastrutture in leghe leggere e scafo in acciaio, con due ponti plancia completamente operativi per compiti addestrativi nonché un ponte di volo poppiero per un elicottero tipo «NH90». L’impianto propulsivo incentrato su due motori diesel e altrettanti assi/gruppi eliche è in grado di assicurare una velocità massima e di crociera economica rispettivamente di 22 e 15 nodi, nonché un’autonomia operativa di 15 giorni senza rifornimento. Costruite sotto la supervisione e classifica del Lloyd turco, le nuove unità dispongono di sistemazioni, equipaggiamenti e armamento per l’addestramento di un totale di 76 cadetti e
QATAR Varo della nave scuola Al Doha (QTS 91) Con una cerimonia tenutasi presso i cantieri turchi Anadolu (Adik) di Tuzla, alla presenza del vice Primo ministro e ministro della Difesa del Qatar, Khalid bin Mohammed Al Attiyah e del ministro della Difesa turco Hulusi Akar, nonché dei Capi di Stato Maggiore delle Marine dei due paesi, è stata varata lo scorso 8 ottobre la nave scuola Al Doha (QTS 91) per la Marina del Qatar (QENF, Qatari Emiri Naval Forces). Il contratto per due navi scuola è stato annunciato nel corso del salone di DIMDEX 2018 a Doha e l’attività è iniziata
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Con una cerimonia tenutasi presso i cantieri turchi Anadolu (Adik) di Tuzla, è stata varata lo scorso 8 ottobre la nave scuola AL DOHA (QTS 91) per la Marina del Qatar (QENF, Qatari Emiri Naval Forces) - (Gruppo Adik).
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8 istruttori, in aggiunta all’equipaggio di 66 persone. Come anticipato, queste unità potranno svolgere anche compiti di sorveglianza armata grazie a un affusto remoto da 30 mm e mitragliatrici da 12,7 mm.
ROMANIA Batterie costiere con missili NSM Il dipartimento di Stato americano ha approvato la possibile vendita al governo romeno di un numero non specificato di batterie missilistiche costiere basate sul sistema missilistico NSM (Naval Strike Missile) unitamente al sistema data «Link 16». Secondo quanto comunicato, si parla di due centri di comando e controllo del sistema CDS (Coastal Defense Systems) con quattro veicoli lanciatori nonché una serie di veicoli di supporto e vari sistemi. Il fornitore del sistema missilistico sarà il gruppo Raytheon. Il costo complessivo è pari a 300 milioni di euro.
RUSSIA Consegnato il battello Vokhov (B 603) Con una cerimonia tenutasi presso i cantieri Admiralteyskie Verfi di San Pietroburgo, alla presenza del vice Comandante in capo della Marina per gli armamenti, Igor Mukhametshin e del Direttore generale della United Shipbuilding Corporation JSC, Alexey Rakhmanov, è stato consegnato il secondo dei sei sommergibili progetto «636.6» classe «Varshavyanka» alla Marina della Federazione Russa. Si tratta del battello
Con una cerimonia tenutasi presso i cantieri Admiralteyskie Verfi di San Pietroburgo, è stato consegnato il battello VOKHOV (B 603), secondo dei sei sommergibili progetto «636.6» classe «Varshavyanka» alla Marina della Federazione Russa (United Shipbuilding Corporation).
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Vokhov (B 603) destinato insieme al capoclasse Petropavlovsk-Kamchatsky (B 274) alla flotta del Pacifico. Il terzo sottomarino battezzato Magadan, è in fase di preparazione al varo, previsto per il primo trimestre del 2021, mentre le diverse sezioni dello scafo della quarta unità battezzata Ufa sono in fase di congiungimento. L’impostazione del quinto battello della serie è prevista entro la fine di quest’anno.
Varata la nave contromisure mine Georgy Kurbatov (631) Lo scorso 30 settembre presso i cantieri SredneNevsky di San Pietroburgo è stato varato il cacciamine Georgy Kurbatov (631) della classe «Alexandrite» «Progetto 12700». Si tratta della seconda unità della classe, ma prima di produzione di serie, che è stata impostata nell’aprile 2015 e nel giugno 2016 è stata protagonista di un incendio che ne ha posticipato le lavorazioni. A seguito del varo e delle successive prove e accettazioni, l’unità è previsto venga consegnata nel prossimo anno. A oggi, della classe «Alexandrite», risultano in servizio l’unità capoclasse Aleksandr Obukhov, in linea con la flotta del Baltico, l’Ivan Antonov e Vadlimir Yemelyanov con la flotta del Mar Nero.
SENEGAL Taglio lamiera per la nuova unità ammiraglia Con una cerimonia tenutasi presso i cantieri francesi Piriou, alla presenza del generale Birame Diop, Capo di Stato Maggiore delle Forze armate del Senegal, e dell’ammiraglio Oumar Wade, Capo di Stato Maggiore della Marina Senegalese, è stata tagliata la prima lamiera del primo dei tre pattugliatori d’altura da 62 m tipo «OPV 58S» ordinati nel novembre 2019. Il programma vede la partecipazione e il supporto della controllata Kership, la joint-venture fra gli stessi cantieri Piriou e la società Naval Group, e avrà una durata 44 mesi, fino all’estate 2024. Il progetto dei pattugliatori «OPV 58S», derivato da quello sviluppato dalla joint-venture Kership come «OPV 58» da 58 metri, si caratterizza per un design versatile, uno scafo («C-Sharp») specificatamente studiato e ottimizzato per la tenuta al mare e assicurare un’estesa
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con due missili «Mistral» in grado di ingaggiare e neutralizzare non soltanto minacce aeree particolarmente sfidanti come UAV e missili-antinave in aggiunta a velivoli ad ala fissa e rotante, ma anche minacce asimmetriche di superficie come battelli veloci armati.
autonomia operativa, un ponte di comando panoramico con visibilità a 360 gradi, e una zona poppiera multi-impiego per il trasporto sia di due container standard e gruetta di supporto nonché una doppia postazione poppiera per il lancio e recupero di RIHB per il controllo del traffico marittimo e la lotta contro i traffici illegali, nonché il contrasto di superficie. Con una lunghezza e larghezza rispettivamente di 62,2 e 9,5 metri, e un pescaggio di 3 metri, le nuove unità sono in grado di raggiungere una velocità massima di 21 nodi e un’autonomia di 4.500 miglia nautiche a 12 nodi e 21 giorni di missione. Con un equipaggio di 24 elementi e capacità di trasporto di ulteriori 24 fra personale delle forze di sicurezza e speciali, i nuovi pattugliatori disporranno di un sistema di combattimento, con una suite di sensori radar di scoperta e navigazione, sorveglianza elettronica, una direzione del tiro elettro-ottica in supporto alla suite di sistemi d’arma particolarmente spinta, di fornitura franco-italiana. In particolare, l’armamento comprende un cannone Leonardo «Super Rapido» da 76/62 mm e quattro missili antinave MBDA «Marte Mk2/N» con una portata di oltre 30 km e capacità d’ingaggio «lancia-e-dimentica» che assicurerà alla Marina senegalese potenziate capacità di controllo e difesa delle proprie acque e confini. A questi s’aggiungono due affusti a controllo remoto Nexter «Narwhal» da 20 mm per la difesa ravvicinata e un sistema missilistico multiruolo MBDA «SIMBAD-RC», caratterizzato da un affusto binato
Lo scorso 13 ottobre, il caccia lanciamissili Zumwalt (DDG 1000) ha lanciato con successo un missile superficie-aria «Standard SM-2» sul poligono della Naval Air Weapons Center Weapons Division di Point Mugu (California). Quale unità capoclasse, il lancio effettuato mediante una cella del complesso di lancio verticale «Mk 57» contro un bersaglio simulante un missile da crociera antinave, ha dimostrato non soltanto la capacità di scoperta, identificazione, tracciamento e ingaggio del sistema di combattimento, ma anche di tenuta e shock delle sovrastrutture della nave. Il lancio, secondo quanto dichiarato, rappresenta un elemento significativo del grado di maturità raggiunto dal sistema di combattimento a vantaggio della messa in linea delle rimanenti unità e del proseguo delle attività sull’unità capoclasse. Quest’ultima deve completare una serie di test e verifiche operative prima di raggiungere la capacità operativa iniziale nel 2021.
Con una cerimonia tenutasi presso i cantieri francesi Piriou, è stata tagliata la prima lamiera del primo dei tre pattugliatori d’altura da 62 m tipo «OPV 58S» ordinati nel novembre 2019. L’armamento è incentrato su un cannone Leonardo Super Rapido da 76/62 mm e missili antinave MBDA «Marte Mk2/N» (Cantieri Piriou).
Lo scorso 13 ottobre, il caccia lanciamissili ZUMWALT (DDG 1000) ha lanciato con successo un missile superficie-aria «Standard SM-2» sul poligono della Naval Air Weapons Center Weapons Division di Point Mugu (California) - (NAVSEA).
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STATI UNITI Primo lancio di missile dal caccia Zumwalt (DDG 1000)
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Istituito il reparto addestrativo per il «CMV-22B» L’US Navy ha reso operativo lo scorso inizio ottobre il Fleet Logistics Multi-Mission Squadron 50 (VRM50) «SunHawks» presso la Naval Air Station di North Island, in California. Si tratta del Fleet Replacement Squadron (FRS) ovverosia il reparto destinato all’addestramento del personale di terra e di volo per il nuovo convertiplano Bell/Boeing «CMV-22B Osprey». Quest’ultimo è stato prescelto dall’US Navy per il rimpiazzo del velivolo ad ala fissa «C-2A Greyhound» per il collegamento e trasporto materiali terra-portaerei e viceversa (COD, Carrier Onboard Delivery). Il nuovo reparto assumerà stabilmente il compito addestrativo finora eseguito dal Fleet Logistics Medium Multi-Mission Wing Training Detachment 204, inserito nell’ambito del Marine Medium Tiltrotor Training Sqadron 204, di stanza presso la Marine Corps Air Station New River, in Carolina del Nord. Il primo dei due reparti operativi a operare con il «CMV-22B» è stato il Fleet Logistics Multi-Mission Squadron 30 (VRM-30) istituito nel 2018, che fornirà le prime macchine e personale, per il primo dispiegamento a bordo di una portaerei dell’US Navy, rappresentata dalla Carl Vinson (CVN 70), nell’estate del 2021 unitamente al velivolo Lockheed Martin «F-35» nella versione «C» per l’impiego da portaerei. Un secondo reparto che riceverà la designazione VRM-40 sarà istituito in futuro sulla costa orientale degli Stati Uniti.
taerei. Si tratta della piattaforma Boeing «MQ-25A Stingray», destinata a portare a termine missioni di rifornimento in volo, con capacità secondarie di sorveglianza e intelligence. L’Unmanned Carrier-Launched Multi-Role Squadron 10 (VUQ-10) verrà istituito il primo ottobre 2021 sulla Naval Air Station Point Mugu, in California. L’unità opererà alle dipendenze dell’Airborne Command & Control Logistics Wing, anch’esso di stanza presso la medesima Naval Air Station. L’«MQ-25A Stingray» raggiungerà la capacità operativa iniziale nel 2024.
Nuovi nomi per navi e sottomarini L’US Navy ha annunciato che un nuovo caccia classe «Arleigh Burke Flight III» riceverà il nome John F. Lehman (DDG 137) in memoria del 65° segretario della Marina che ha servito durante la presidenza Reagan dal 1981 al 1987, mentre un futuro sottomarino d’attacco a propulsione nucleare classe «Virginia» riceverà il nome Barb (SSN 804) assegnato in precedenza a due sommergibili, di cui il Barb della classe «Gato» (SS 220) si è distinto nel corso del Secondo conflitto mondiale, mentre il secondo, appartenente alla classe «Permit» (SSN 596) ha preso parte a operazioni speciali durante la guerra del Vietnam e quale piattaforma per i test del sistema missilistico da crociera «Tomahawk».
Nuove unità LCS Prossima creazione del primo reparto su «MQ25A Stingray» L’US Navy ha annunciato i piani per l’attivazione del primo reparto destinato a operare con il primo velivolo senza pilota ad ala fissa per l’impiego da por-
Con una cerimonia tenutasi lo scorso 30 ottobre presso i cantieri Austal USA di Mobile (Alabama), è stata impostata la sedicesima unità classe «Independence». Si tratta della futura LCS (Littoral Combat Ship) Santa Barbara (LCS 32), mentre il successivo 2 novembre è stata varata la LCS Marinette (LCS 25) presso gli L’US Navy ha annunciato i piani per l’attivazione del primo reparto cui è destinato a operare il primo velivolo senza pilota ad ala fissa per l’impiego da portaerei Boeing «MQ-25A Stingray», qui ripreso, e utilizzato per portare a termine missioni di rifornimento in volo, con capacità secondarie di sorveglianza e intelligence (US Navy).
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Chung-Shan (NCSIST, National ChungShan Institute of Science & Technology) insieme alla società olandese RH Marine, saranno responsabili dell’ammodernamento della piattaforma e del sistema di combattimento dei due sommergibili, che necessitano di estesi lavori per poter operare in sicurezza e contrastare le presenti e future minacce. Tale attività consentirà di estenderne la vita operativa, potenziandone le capacità di comando e controllo, scoperta e attacco, grazie anche all’acquisizione di nuovi siluri pesanti tipo «Mk 48 Mod 6AT». La Marina di Taiwan dispone Con una cerimonia tenutasi il 2 novembre presso i cantieri Marinette Marine di Fincantieri Marine Group in Winsconsin, è stata varata la LCS MARINETTE (LCS 25) quale tredicesima di due vecchi sommergibili classe «Hai unità della classe «Freedom» (Lockheed Martin). Shih» che sono stati trasferiti nel 1973 e la cui operatività non è nota. Il ministero della Difesa ha anche annunciato che il programma omonimi cantieri Marinette Marine di Fincantieri per la progettazione e la costruzione in loco del Marine Group in Winsconsin, quale tredicesima unità primo sottomarino indigeno inizierà il prossimo mese della classe «Freedom». di novembre.
Consegnato il primo rimorchiatore classe «808» Il primo rimorchiatore della classe «Yard Tug (YT) 808» è stato consegnato nel mese di ottobre all’US Navy e precisamente alla base navale di Kitsap, Bremerton (Washington). Costruito dai cantieri Dakota Creek Industries, appartiene alla nuova classe di 6 unità «green» in grado di soddisfare gli standard per le emissioni «EPA Tier 4».
TAIWAN Ammodernamento della Componente subacquea Alla fine di settembre il ministero della Difesa di Taiwan ha annunciato che il programma di ammodernamento della Componente subacquea oggi rappresentata dai due battelli classe «Chien Lung» sarà lanciato il prossimo anno e si svilupperà fino al 2024. Battezzati Hai Lung (793) e Hai Hu (794) ed entrati in servizio rispettivamente nel 1987 e 1988, i due sommergibili sono stati acquisiti e costruiti nei Paesi Bassi sulla base del progetto dei battelli classe «Zwaardvis», in servizio con la Marina olandese fino al 1994-95. Lo stesso ministero della Difesa ha aggiunto che l’Istituto nazionale di scienze e tecnologie
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Approvata l’acquisizione di sistemi missilistici antinave costieri Il dipartimento di Stato americano ha approvato la possibile vendita al governo di Taiwan di ben 400 missili antinave Boeing «RGM-84L-4 Harpoon Block II» in aggiunta a munizioni per l’addestramento e per l’impiego da batterie costiere mobili che comprendono fino a 100 sistemi di lancio per utilizzo da veicoli ruotati, 25 unità radar mobili, pezzi di rispetto e addestramento per il personale.
TONGA Seconda unità classe «Guardian» Nell’ambito del Pacific Maritime Security Program, la seconda delle unità classe «Guardian» è stata consegnata dalla Difesa australiana al Regno di Tonga. Si tratta dell’unità Ngahau Koula (P 301) costruita dai cantieri australiani Austal, responsabile del programma destinato alla realizzazione di 19 unità della medesima classe per 12 nazioni del Pacifico centrale. Luca Peruzzi
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RUBRICHE
S CIENZA
E TECNICA
Nuove unità navali mercantili con sistemi di propulsione a basso impatto ambientale
MPP (MultiPurPose) con propulsione dual fuel a gasolio e metanolo. Le navi avranno una stazza di 5.300 DWT, una lunghezza di 84,70 metri e una velocità massima di Mentre l’industria marittima affronta le conseguenze 12 nodi. Il metanolo alla pressione atmosferica è liquido dell’entrata in vigore, avvenuta il primo gennaio 2020, in un ampio campo di temperature, tra -98°C e +65°C. È dei nuovi limiti all’emissione di ossidi di zolfo da parte fortemente tossico per l’uomo, è difficile da individuare delle navi mercantili emanato dall’organizzazione intersenza particolari apparati, e brucia con fiamma invisibile; nazionale marittima delle Nazioni Unite, l’IMO (sulphur rispetto ai combustibili di origine fossile, ha una densità cap), ferve l’attività di sviluppo e realizzazione di nuovi inferiore e un minor potere calorifico, ma è molto infiamconcetti di propulsione basati su combustibili diversi dai mabile, con una temperatura d’infiammabilità abbastanza tradizionali combustibili fossili. Il gruppo multinazionale bassa (11°C-12°C). È solubile in acqua, per cui è imposWärtsilä ha annunciato nel gennaio 2020 di avere acquisibile rimuovere l’acqua che eventualmente entra nei sersito dal gruppo armatoriale norvegese Aasen Shipping batoi, con conseguenti problemi di densità energetica e un ordine per la progettazione e fornitura del sistema di di qualità della combustione. Per contro, se accidentalpropulsione ibrido per due unità del tipo self-discharging mente disperso in acqua si bulk carriers da 9.300 DWT. decompone rapidamente Le navi, che saranno cosenza provocare gravi inquistruite presso il cantiere namenti. In conclusione i riolandese Royal Bodewes, schi principali di questo saranno le prima del loro combustibile sono l’incentipo dotate di questo sistema dio, l’esplosione e il contatto di propulsione. Secondo gli con gli esseri umani. Grazie studi condotti congiuntaall’ottimizzazione idrodinamente da Wärtsilä e dalla mica effettuata presso la compagnia, i maggiori costi vasca navale di Amburgo e di acquisizione dovuti all’installazione delle batterie sa- Immagine pittorica tridimensionale delle nuove navi da carico multipurpose all’efficienza del sistema di di sistema di propulsione dual fuel (gasolio ed etanolo) in costru- propulsione il consumo di ranno più che compensati dotate zione per la società di navigazione Liberty One (liberty-one.biz). combustibile è di sole 4,5 dai risparmi di combustibile, tonnellate di carburante al giorno. L’autonomia è di 5.000 anche grazie al contributo fornito dall’agenzia governamiglia se si impiega gasolio, 4.000 se si impiega metativa norvegese Enova SF, dedicata alla promozione della nolo, che ha una densità energetica per unità di volume produzione e del consumo responsabili dell’energia. inferiore (ma superiore a quella del GNL). Il metanolo è L’impianto di propulsione, che sarà consegnato al canuna materia prima per l’industria chimica, e quindi è ditiere a partire dalla metà del 2021, comprende, per ogni sponibile in grandi quantità (in un anno se ne trasportano nave, un motore Wärtsilä 26 con riduttore ed elica a via mare 100 milioni di tonnellate in più di 120 porti). Il passo variabile, un quadro elettrico in corrente continua, metanolo produce meno inquinamento da ossidi di zolfo le batterie e il sistema di gestione dell’energia (power e anidride carbonica rispetto ai combustibili liquidi tramanagement system). In particolare le batterie alimentedizionali, ma oggi è prodotto principalmente impiegando ranno le sistemazioni per l’imbarco e lo sbarco del carico, energia prodotta da fonti fossili, quindi per essere consiche normalmente sono dotate di motori Diesel. Sempre derato un combustibile «verde» deve essere prodotto imnel mese di gennaio 2020, due società tedesche, lo studio piegando energia prodotta da fonti rinnovabili come di progettazione SDC Ship Design & Consult GmbH di l’eolico e il solare. Amburgo e la società armatrice Liberty Group di Brema, hanno annunciato l’intenzione di realizzare le prime navi Claudio Boccalatte 124
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RUBRICHE
C HE
COSA SCRIVONO GLI ALTRI
«Libye, le terrain de jeu russo-turc» LE MONDE DIPLOMATIQUE, SEPTEMBRE 2020
fornire armi all’Esercito di Haftar), l’Autore non tralascia di lanciare i propri strali anche nei confronti della Turchia, di cui denuncia la volontà di espansione nell’area già di influenza ottomana, nel senso che «moltiplica le occasioni per dimostrare le capacità di proiezione del suo esercito oltre le frontiere: invasione nel nord della Siria, intervento nel Kurdistan iracheno e in Iraq, progetto di una base nello Yemen, insediamento di una base militare in Qatar e, da ultimo, con la minaccia di occupare militarmente le coste dell’Azerbaigian nel conflitto del Nagorno-Karabakh». Inoltre, approfittando della situazione libica, il 22 novembre 2019, Ankara ha negoziato un accordo con il LNA «ridisegnando le Zone economiche esclusive dei due paesi in modo da poter fruire di blocchi di sfruttamento e di prospezione del gas naturale nel Mediterraneo orientale in aree rivendicate da Cipro e dalla Grecia», creando motivi di grave tensione in seno all’Unione europea e alla stessa NATO. La Turchia deve fare, però, i conti con la Russia, l’altra protagonista determinante del conflitto, laddove, pur militando in campi avversi (in Libia come in Siria e oggi nella regione del Caucaso che vede Mosca schierata con l’Armenia e Ankara con l’Azerbaijan), nella loro «alleanza contraddittoria», come la definisce l’Autore, alla fine riescono a trovare sempre una «quadra» geopoli-
Dalla rivolta popolare del febbraio 2011, seguita dall’intervento aereo delle forze dell’Alleanza atlantica, la Libia è in preda al caos, alle divisioni interne e alle ingerenze esterne, scrive sulle colonne del prestigioso mensile francese Jean Michel Morel. Di qui l’analisi della complessa situazione libica divisa in tre parti. «A Est la Cirenaica, in cui a Tobruk ha sede la Camera dei Rappresentanti e con Bengasi, divenuta feudo dell’autoproclamato maresciallo Khalifa Haftar, a capo del sedicente Esercito nazionale libico (LNA); a Ovest, in Tripolitania, regna quello che prende l’infelice nome di Governo di accordo nazionale (GNA), riconosciuto dall’ONU e presieduto da al-Sarraj, con un orientamento politico vicino ai Fratelli musulmani; a Sud, nella regione multietnica del Fezzan, regnano indisturbati i miliziani Tebu che oscillano tra i due campi». Senza ovviamente dimenticare gli appoggi esterni, costituiti per il GNA da Turchia e Qatar (e in maniera più «discreta» da Italia e Germania), mentre per il LNA da Egitto, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita — un fronte quindi anti Fratelli musulmani — e, soprattutto dalla Russia, «ansiosa di rafforzare — dopo la Siria — i legami mediterranei […] che le permettano di estendere la propria influenza al Maghreb e all’Africa subsahariana». A questi attori si aggiunge poi la Francia che, senza tagliare i ponti con Tripoli, preferirebbe una vittoria sul campo di Haftar (la cui millantata blizkrieg contro il LNA, iniziata il 4 aprile 2019, si è però arenata miseramente nelle sabbie del deserto!). Molto critico nei confronti di Parigi (che come membro del Consiglio di sicurezza, dovrebbe attenersi alla legalità interCartina geopolitica del caos libico (ottobre 2020). nazionale, riconoscendo il LNA ed evitando di
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Che cosa scrivono gli altri
tica senza che il loro antagonismo regionale degeneri in conflitto aperto. Sebbene i loro interessi non sempre coincidano, Mosca e Ankara danno l’impressione di sapere fino a dove l’uno e l’altro possono spingersi senza superare un livello accettabile di conflittualità. «Il futuro della Libia — conclude l’Autore — si giocherà al di fuori degli attori nazionali del conflitto, ridotti al ruolo di figuranti. Alla Conferenza di Berlino [con cui l’Unione europea, con funzioni notarili, ha sanzionato la pace tra LNA e GNA dettata da Mosca e Ankara] non erano stati invitati né Sarraj né Haftar. Ma, soprattutto, non è mai stato chiesto il parere del popolo libico».
«Relevancia Estratégica del Mar Negro» REVISTA GENERAL DE MARINA, JUNIO 2020
Sul mensile della Marina spagnola, fondato nel 1877 (quindi nove anni dopo la Rivista Marittima), l’ammiraglio (ris.) Marcelino González Fernández, in un ampio articolo, traccia un quadro analitico del Mar Nero, dal punto di vista storico, fisico, geografico, geostrategico e geoeconomico, dall’età moderna ai nostri giorni. Un mare il cui destino geopolitico è dettato dall’antagonismo russo-turco che si è sempre declinato in una panoplia di alleanze contrapposte. In estrema sintesi, indiscusso «lago ottomano» dal XV secolo, dopo la conquista di Costantinopoli, delle colonie genovesi in Crimea e dell’impero Comneno di Trebisonda, lungo la costiera nordorientale dell’Anatolia al XVII, quando le sorti ormai periclitanti della Sublime Porta cominciarono a cedere di fronte all’espansionismo marittimo russo che, dopo le guerre degli anni 1768-74 e la grande vittoria navale russa di Cesmé (5 luglio 1770) con l’annientamento della flotta ottomana, si conclusero con il trattato di Küçük Kaynarca nell’odierna Bulgaria, col quale la Russia si assicurò la sovranità sul mare d’Azov, nonché il transito delle proprie navi attraverso gli stretti. Quanto sono complesse e intricate le vicende della storia, che ci sembra di conoscere
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ma nelle quali ci si può facilmente perdere non appena «scarrocciamo» dagli eventi più noti! Quello che è importante rilevare è che il Mar Nero e il suo dominio diventano il perno geopolitico di una lotta, durata un secolo e mezzo, tra i due imperi che si fronteggiano e si combattono nella penisola balcanica e nella regione del Caucaso in una panoplia estremamente variabile di alleanze internazionali. Se, infatti, la Guerra di Crimea (1853-56) che, con l’intervento anglo-franco-sabaudo in difesa dei turchi, porta la Russia alla sconfitta, è con la Grande guerra che Mosca, la «Terza Roma» (cioè dopo la Roma imperiale e Costantinopoli), la protettrice del mondo ortodosso dalle vessazioni ottomane, rilancia il «grande sogno» del dominio degli stretti (e ci sarebbe riuscita se la campagna di Gallipoli del 1915 non si fosse rivelata un disastro per i franco-inglesi). Ma dopo la rivoluzione e la pace separata, se Mosca non si può godere i dividendi della vittoria dell’Intesa, lo sconfitto Impero ottomano che si avvia a diventare Repubblica di Turchia, con il trattato di Sèvres prima e di Losanna dopo, nelle travagliate vicende geopolitiche del tempo, riesce nonostante tutto a mantenere il controllo degli stretti acclarato poi la Convenzione di Montreux (1936). Ma è con la Guerra fredda e la presenza della Romania e della Bulgaria nel Patto di Varsavia che il Mar Nero diventa un «lago sovietico», mentre la Turchia, con l’adesione alla NATO, si colloca sul fronte geopolitico opposto, diventando così il bastione sudorientale dell’Alleanza atlantica. La disgregazione dell’Unione Sovietica nel 1991 («la più grande tragedia geopolitica del XX secolo» affermerà Putin), ha sottratto alla Russia oltre cinque milioni di km2 di territori, trasformati in Stati indipendenti, oltre alla perdita d’influenza nell’Estero Vicino (la Bulgaria e la Romania, come altri paesi dell’Europa orientale, sono entrati nella NATO), in un primo tempo con l’Ucraina si arriva a una definizione dei rapporti bilaterali in ordine alla spartizione della flotta militare del Mar Nero (81% a Mosca e 19 a Kiev) nonché all’impiego russo della base navale di Sebastopoli, accordi presto caducati dall’uso strumentale dell’arma delle forniture di gas come arma geoeconomica. Quindi, con la guerra in Georgia (con l’invasione delle repubbliche separatiste di Abkhazia e Ossezia del Sud) e in Ucraina stessa (con l’annessione della Crimea e l’intervento nel Donbass a sostegno delle forze separatiste sino ai recenti
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gravissimi incidenti con le unità militari nello stretto di Kerch del dicembre 2018), la Russia di Putin mostra quali siano le linee maestre della propria politica estera nell’asserire la propria primazia nello spazio ex sovietico, in maniera da distanziarlo sempre più dall’Unione europea e dall’Alleanza atlantica. Il tutto con particolare riguardo alle risorse energetiche (proprio lo scorso 21 agosto è stata annunciata la scoperta, nell’area marittima sotto giurisdizione turca, di un grande giacimento di gas naturale stimato in 320 miliardi di m3) e ai contrastati progetti di trasporto di energia tramite pipeline sottomarine (dal South Stream, progetto affossato nel 2014 al TurkStream per intenderci, https://it.Insideover.com/ economia/southstream-loccasione-persa-dellitalia.html). Un contesto nel quale la comunità internazionale ha reagito con l’applicazione delle sanzioni contro la Russia a seguito dell’occupazione della Crimea definita «illegittima e illegale»,
mentre l’Unione europea continua a finanziare vari progetti a sostegno degli Stati rivieraschi (l’Autore ne illustra ben sei di grande rilievo) e gli «Estados Unidos y la OTAN — «mostrando la bandiera» con le proprie missioni navali di presenza e sorveglianza, manifestano la precisa volontà di — «utilizar sus aguas internacionales como las de cualquier otro rincón del planeta», per impedire che il Mar Nero si trasformi in «mare clausum» sotto l’egemonia moscovita. Corsi e ricorsi della storia si riflettono così nel Mar Nero, crogiolo di civiltà, religioni e interessi più diversi, mare sempre «diviso» nonostante i vari tentativi di elaborare una cornice comune (ricordiamo al riguardo, da ultimo, il Foro del Mar Nero per il dialogo e la cooperazione del 2005). Un quadro dunque complesso in cui la storia sembra ripetersi in «un mar interior otomano hasta finales del siglo XVIII, su situación en el XIX estuvo marcada por la hegemonía rusa, por el duro control de la URSS durante la Guerra fría, por la pérdida de influencia rusa a partir de 1991 en favor de Occidente y de nuevo en manos de Rusia en el presente». Un presente, aggiungiamo, caratterizzato da un inedito e pericoloso avvicinamento geopolitico tra Mosca e Ankara, membro storico della NATO, maturato nel caos siriano e libico e rafforzato dai contrasti tra Ankara e paesi dell’Unione europea (Grecia e Repubblica greca di Cipro) in ordine alla definizione dei «confini del mare» nel Mediterraneo orientale.
«Tre bandiere per due sommergibili» La vittoria navale russa di Cesmé, nel quadro di Jacob Phillip Hachett (it.topwar.ru).
I confini del mare negli accordi Ucraina-Russia (2003), Ucraina-Romania (2009) e Turchia-ex Unione Sovietica (1978), da rivedere alla luce dell’occupazione russa della Crimea (2014) - (limesonline.com).
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LIBERO, 22 AGOSTO 20
«Per la maggior parte dei 3.430 militari italiani, la guerra finì l’8 settembre; per 850.000 combattenti di Salò, terminò con la resa della Germania l’8 maggio 1945, ma uno sparuto gruppo di nostri marinai depose le armi solo il 2 settembre 1945 con la formalizzazione della resa del Giappone — scrive nella sua rapida sintesi Andrea Cionci, sulle colonne del quotidiano in esame — È la storia degli equipaggi dei sommergibili Comandante Cappellini e Luigi Torelli sulla cui tolda sventolarono ben tre bandiere: il tricolore con lo scudo sabaudo, la svastica e infine il Sol Levante rosso in campo bianco». Nota la vicenda avventurosa del periplo in Estremo Oriente dei sommergibili italiani, che avevano già marcato la precedente storia della guerra
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terzo a Sebang (in Indonesia). Dapprima gli equipaggi furono arrestati dai giapponesi, poi dopo la costituzione della Repubblica Sociale italiana, il personale che vi aderì insieme ai tedeschi, riarmò i sommergibili che, alle dipendenze del comando tedesco di Penang, innalzarono la bandiera del Reich, assumendo la nuova denominazione di U. IT. 23, 24 e 25 (Italienische Unterseeboot) e continuando a combattere contro gli anglo-americani. L’ U. IT. 23 (ex Giuliani) venne affondato nello stretto di Malacca nel ’44, mentre gli altri due proseguirono le loro missioni sino alla resa della Germania. Anche questa volta gli equipaggi vennero internati, ma un paio di mesi dopo, con l’integrazione delle due unità nella Marina giapponese, alcuni marinai tedeschi e una ventina di italiani decisero di continuare la guerra issando la Kyokujitsu-ki, cioè la bandiera del Sol Levante, assumendo la nuova identificazione di I - 503 e I - 504 e continuando, dalla base di Kobe, la lotta usque ad finem! Tant’è che «durante il bombardamento americano del 22 agosto 1945 su Kobe, l’equipaggio italiano del Cappellini (o del Torelli, secondo altre fonti) con la mitragliera Breda da 13,2 mm, tirò giù un bombardiere Usa B - 25 Mitchell. Fu con ogni probabilità l’ultimo successo militare nello spirito del Patto Tripartito», ormai in stato terminale alla vigilia della resa del Giappone. Veramente incredibili dunque le vicende dei sommergibili italiani fuori dagli stretti, troppo presto invero dimenticate, ma per fortuna «L’Historia — come leggiamo nel manoscritto seicentesco che, nella finzione letteraria, il Manzoni poneva alla base della sua più celebre opera — si può veramente deffinire [sic] una guerra illustre contro il Tempo, perché togliendoli di mano gl’anni [sic] suoi prigionieri, anzi già fatti cadaveri, li passa in rassegna e li schiera di nuovo Immagini dei sommergibili oceanici Cappellini e Luigi Torelli, rispettivamente classe «Marcello» e «Marconi», che prestarono servizio in tutte e tre le Marine dell’Asse (liberoquotidiano.it e conlapelle- in battaglia».
sottomarina (al riguardo, in particolare, a titolo esemplificativo, https://www.marina.difesa.it/media-cultura/Notiziarionline/Pagine/202021016_130_ anni_di_sommergibili.aspx), la cui genesi si ritrova negli accordi nippo-tedeschi sullo scambio di materiali strategici (prodotti chimici vs. gomma grezza, stagno e metalli rari) e in quelli italo-tedeschi sull’utilizzo di alcuni sommergibili oceanici debitamente modificati, di stanza a Bordeaux in cambio di U-Boot tedeschi per la Regia Marina. Dei cinque nostri sommergibili che presero la denominazione di «Flotta del Monsone», due di essi scomparvero in Atlantico (Tazzoli e Barbarigo) e solo tre (Giuliani, Torelli e Cappellini) riuscirono a proseguire nel lungo e difficile periplo durante il quale, il fatidico 8 settembre 1943, i primi due furono colti a Singapore e il
appesaaunchiodo.blogspot.com).
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Ezio Ferrante
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RUBRICHE Recensioni e
RECENSIONI E SEGNALAZIONI Enrico Cernuschi
L’ultimo sbarco in Inghilterra Le galee dei Medici e degli Strozzi contro Enrico VIII (1543-1551) Mursia Editore Milano 2018 pp. 178 Euro 17
L’A., Enrico Cernuschi, è ben noto ai lettori della Rivista Marittima. In particolare, di lui è molto apprezzata la serietà di ricercatore; grazie a essa, negli ultimi anni, egli è stato capace di raccontare la storia navale in maniera difforme da quella che, soprattutto da fonti britanniche, era percolata sino nei libri di storia, anche nostrani, avallando la figura di un combattente italiano sul mare pasticcione, non particolarmente coraggioso e sicuramente inferiore all’avversario. Ecco, quella che invece, grazie a lui, emerge dalle fonti primarie è il caso di ribadirlo «… è tutt’un’altra storia! ...». In essa, il marinaio italiano, il combattente italiano, è determinato, competente, spesso superiore al proprio rivale e in possesso di iniziativa e creatività da vendere. Ciò è particolarmente vero nel caso dell’ultimo conflitto mondiale, ma scopriamo dalle ricerche dell’A. che era così anche molti secoli or sono, come nel caso dell’opera che ci troviamo a trattare. Siamo di fronte a quello che sembrerebbe un ritaglio di storia molto di nicchia e in parte è così. Anche se in una prospettiva storica difforme, trattandosi di un’epoca e di situazioni diverse, il motivo conducente è quello che già conosciamo da opere precedenti: la riscoperta di azioni meritorie — spesso gloriose — da parte di condottieri italiani, specialmente sul mare, che sono quasi sempre ignorate dal grande pubblico; viene inoltre posta in evidenza l’alta valenza del potere marittimo, in quasi tutte le situazioni in cui siano in ballo le economie delle nazioni, ora come allora. La chiarezza della visione marittima di un banchiere fiorentino come Filippo Strozzi, le imprese marinare e militari di Pietro e Leone Strozzi, anche in mari lontani dal Mediterraneo, fanno da sfondo alle lotte per il potere economico fra le nazioni di quel turbolento ’500. Rivista Marittima Novembre 2020
Ma, quelle che il lettore attento farà subito proprie, sono le molte analogie fra avvenimenti e situazioni che si svolgono a distanza di secoli. L’A. ci porta per mano a capire, attraverso le guerre del passato più remoto, anche le ragioni profonde di quelle a noi temporalmente più vicine e ci rende edotti, qualora non l’avessimo capito, che una guerra economica è anche oggi in corso, secondo le stesse logiche del passato. Quali possano essere gli esiti di questo conflitto, chi i vincitori e come l’Italia possa «piazzarsi»…, sono tutte ipotesi che vengono avanzate in maniera sobria e razionale da chi la materia la conosce bene. Non voglio togliere la suspense del racconto a chi, incuriosito, leggerà il libro. Dico solo che, come spesso nelle opere del Nostro, la sua posizione è abbastanza ottimista circa i destini del nostro paese (che, per inciso, ha le terze riserve d’oro al mondo) e di ciò gli siamo grati perché di questo ottimismo, oggi come oggi, c’è proprio molto bisogno. Paolo Bembo Marco Valle
Suez. Il Canale, l’Egitto e l’Italia Da Venezia a Cavour, da Mussolini a Mattei historica edizioni Cesena 2018 pp. 336 Euro 22
Sin dall’antichità il Mediterraneo era stato non solo il centro motore degli scambi economici internazionali e culturali, ma anche un luogo di crescita sociale e tecnologica. L’unico mare al mondo, dal valore geopolitico nettamente superiore a quello geografico, capace d’essere trait d’union fra tre continenti. Il suo controllo garantiva la possibilità di facili arricchimenti soprattutto sfruttando la redditizia via commerciale delle Indie, con la compravendita di sete, ambra e spezie che, è bene ricordarlo, oltre a garantire cospicui guadagni, quest’ultime erano indispensabili per i processi di conservazione delle carni e dei cibi in genere. Proprio per evitare i pesanti dazi doganali veneziani e turco-ottomani e poi129
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Recensioni e segnalazioni
ché la tradizionale via orientale costituiva un grande rischio, il Portogallo, per primo, con Dias (1487) iniziò a ricercare una via marittima per l’India circumnavigando l’Africa, seguendo l’esempio dei fratelli genovesi Vivaldi. Poi, fu il tempo degli spagnoli con un altro genovese: il famoso Cristoforo Colombo (1492). Con la scoperta delle nuove rotte e con quella del nuovo mondo il Mediterraneo perse il suo antico splendore e la sua importanza, fino a quel fatidico 17 novembre 1869, quando venne inaugurato ufficialmente il canale di Suez. Da quel momento il Mediterraneo tornò molto rapidamente a giocare un ruolo fondamentale nei destini economici del mondo. Gli scambi commerciali aumentarono notevolmente aprendo opportunità politiche, economiche e commerciali mai viste prima. In fondo, come ben sottolineato dall’autore, con il canale di Suez il globo divenne più piccolo e quel corso d’acqua fu, ieri come oggi, il terreno di scontro delle grandi potenze. Proprio nel delineare i tanti interessi politici ed economici nella progettazione, realizzazione e gestione del canale, l’autore ci guida per mano, con uno stile giornalistico molto gradevole, che nulla cede al rigore scientifico, nella comprensione del ruolo italiano in quell’opera che cambiò indubbiamente il modus operandi dell’economia e della politica delle grandi potenze. Infatti, l’antico Mare nostrum, oltre a tornare a essere in pratica la Wall Street dell’epoca, era anche la via più breve per quel ricco oriente che da lì a breve sarebbe divenuto uno dei più importanti mercati del mondo. Non sorprende quindi come proprio il canale e con esso il Mediterraneo divenne il pivot della strategia imperiale inglese, come si comprende dalla politica di lord Salsbury e da Churchill. In questo complicato ma affascinante contesto, s’innesta il ruolo italiano e le vicende del progettista del canale, il trentino Negrelli, che si è trovato a operare in un ambito internazionale caratterizzato da un continuo capovolgimento di fronti, condotto dalle più importanti potenze dell’epoca: Inghilterra, Francia e Austria-Ungheria. L’Italia postunitaria avrebbe potuto giocare un ruolo nel controllo del canale? Probabilmente sì, ma il giovane regno doveva fare i conti con i debiti contratti durante le guerre d’indipendenza e con il grande sforzo di sviluppare le infrastrutture indispensabili per modernizzare il paese così fortemente carenti nel Mezzogiorno. Per cui, la coperta economica era talmente corta che sarebbe stato impossibile acquisire importanti quantità azionarie. Una verità ben presente al valtellinese Torelli 130
in quegli anni, impegnato nella costruzione della ferrovia adriatica e nell’apertura del Moncenisio del Fréjus. Impressiona davvero come i temi e le necessità affrontate dalla nostra classe politica dell’epoca siano praticamente gli stessi che si sono riproposti dopo l’ampliamento del canale di Suez. Infatti, per Torelli «il dibattito su Suez non stava producendo risultati concreti, anzi proprio la mancanza di iniziative … da parte della finanza, e l’inattività della classe politica, costituivano i principali ostacoli allo sviluppo commerciale del paese». In più «l’Italia doveva prepararsi a quella “rivoluzione cosmica” che avrebbe riportato il Mediterraneo “al centro della terra abitabile”». Un tema attualissimo soprattutto dopo i recenti lavori e la creazione della Belt and Road Initiative che tanto ha stravolto il mondo mercantile attuale. Oggi come ieri si parla dell’Italia e del suo Mezzogiorno come piattaforma logistica naturale dell’Europa, ma oggi come ieri, soprattutto, il nostro Meridione ha bisogno di cospicui investimenti per portare il suo complesso infrastrutturale in linea, non solo con i canoni europei, ma anche e soprattutto in conformità con le nuove esigenze mercantili e commerciali mondiali. In pratica, proprio il lavoro di Valle certifica la circolarità storica vichiana sottolineando, però, come tali cicli siano asimmetrici a causa di quelle accelerazioni storiche tipiche della storia contemporanea, scoperte dall’eccezionale intuito e sensibilità di Jules Michelet. Insomma il lavoro di Valle non solo ci consente di rileggere la storia del canale scoprendo che, se pur in maniera residuale, l’Italia ne ha avuto un ruolo, ma con forza ci da l’opportunità di leggere il presente con un consapevole sguardo al passato. Infatti, è inevitabile, leggendo questo lavoro, non ricordarsi della massima di Tucidide secondo la quale «bisogna conoscere il passato per capire il presente e orientare il futuro». Altro pregio, in questo volume, come ben rilevato dalla bella prefazione di Eugenio Di Rienzo, è quello di colmare una lacuna storiografica, in riferimento al ruolo che il fascismo ebbe nel tentativo di «spezzare la sbarre del Mediterraneo che imprigionavano l’Italia nel suo stesso mare» cercando di far rientrare il paese nella compartecipazione di Suez. Un tentativo fallito, poi ripreso da quella classe dirigente nazionale, costituita da De Gasperi, Mattei, Fanfani, e poi con Andreotti, Moro, Craxi, Berlusconi, che comunque tentò di giocare un ruolo in quell’area del mondo così importante per gli interessi nazionali. Alessandro Mazzetti Rivista Marittima Novembre 2020
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Recensioni e segnalazioni
(a cura di) Chiara Mercuri (adattamento inglese di) Luca Fratangelo
Il mestiere delle armi Guida ai musei e ai sacrari militari Edizioni All Around Roma 2020 pp. 208 Euro 12 - ebook 4,99
Parlare di memoria è un dovere e una grande responsabilità, perché è attraverso la forza aggregante della memoria che una collettività si plasma e diventa popolo. Memoria di fatti, luoghi e persone che hanno scritto, insieme, la storia di un paese. Coltivare la memoria significa anche riconoscere l’impegno affidato a chi è chiamato a custodirla, diffonderla e tramandarla. I Sacrari e i Musei militari sono per questo luoghi significativi: i primi sono nati per onorare il sacrificio e dare degna sepoltura a coloro che hanno combattuto per la conquista dell’indipendenza e della libertà del popolo italiano; i secondi raccontano di un mondo, quello militare, che da sempre cammina di pari passo con la vita del paese. L’esempio dei nostri Caduti insegna il valore del sacrificio, lo stesso che tanti uomini e donne delle nostre Forze armate compiono ogni giorno, ora come allora, in Patria e all’estero, per garantire la difesa del paese e la sicurezza internazionale. Desidero per questi motivi esprimere il mio particolare apprezzamento per la pregevole iniziativa editoriale Il Mestiere delle Armi. Guida ai Sacrari e ai Musei militari che non è, a dispetto del titolo, una «semplice» guida turistica, un manuale divulgativo a uso di quanti vogliano conoscere il pur interessante patrimonio architettonico dei Sacrari e dei Musei militari presenti nel nostro paese. Essa rappresenta un vero e proprio omaggio alla memoria del nostro popolo, alla nostra storia nazionale, uno strumento per pensare e non restare indifferenti. Allo stesso modo rivolgo il mio più sentito ringraziamento al Commissariato Generale per le Onoranze ai Caduti per la preziosa collaborazione alla realizzazione dell’opera e a tutte le donne e agli uomini della Difesa che operano al fine di curare e valorizzare il patrimonio culturale e architettonico rappresentato dai Sacrari e dai Musei militari. Credo che uno dei compiti fondamentali delle Istituzioni sia proprio quello di educare le nuove generazioni in questa direzione: far capire chi siamo, partendo dalla conoscenza del nostro passato. Rivista Marittima Novembre 2020
A ricordarcelo, in un silenzio carico di insegnamenti e pensieri su cui soffermarci, sono anche i tanti Caduti che riposano nei Sacrari e le tante storie ed eventi «raccontate» nei nostri Musei. Ministro della Difesa Lorenzo Guerini I Sacrari e i Sepolcreti che accolgono le spoglie di migliaia di giovani soldati e civili che hanno perso il bene più prezioso, la vita, per la Patria sono, per il Commissariato Generale per le Onoranze ai Caduti, Luoghi della memoria carichi di significati che, oltre a evocare i singoli eventi e fatti storici, racchiudono in sé le storie e il sacrificio di migliaia di famiglie. Il Commissariato Generale, in oltre un secolo di attività, non ha mai smesso di ricercare i Caduti tuttora dispersi e di curare e valorizzare i Sacrari per mantenere sempre viva la memoria, tramandandola alle nuove generazioni. I Sacrari sono, infatti, considerati veri «Luoghi di Vita», attraverso i quali, in maniera trasversale e aggregante, senza distinzione di religione, credo politico e nazionalità, vengono resi ai Caduti i giusti onori e assicurata loro la gratitudine eterna della nazione. Per questi motivi i Sacrari sono meta di visita e di pellegrinaggio da parte di migliaia di persone, scolaresche e turisti e, rappresentando un vero simbolo dell’unità nazionale, sono i luoghi dove le più alte cariche dello Stato commemorano gli eventi più significativi per la nazione. Il libro, al quale il Commissariato Generale ha attivamente contribuito, costituisce un importante strumento di valorizzazione favorendo, attraverso una lettura agile e dinamica, un più ampio avvicinamento di questi luoghi simbolo a un pubblico sempre più vasto ed eterogeneo. Questo volume si inserisce a pieno titolo nel più ampio progetto di valorizzazione di quei «Momenti» e dei «Luoghi» che hanno fatto da scenario alla storia d’Italia e, come pochi altri credo, ha la qualità di riuscire a mantenere vive e attente le coscienze. Coscienze a cui si indirizza la missione del Commissariato Generale per le Onoranze ai Caduti che, attraverso la perenne valorizzazione del culto della memoria, riunisce e interpreta i più alti aspetti valoriali che sono a fondamento di una nazione e, ponendosi come elemento di collegamento tra generazioni, di fatto fornisce i capisaldi grazie ai quali uno Stato viene vissuto dai propri cittadini come «Patria». Commissario Generale per le Onoranze ai Caduti Gen. C.A. Alessandro Veltri 131
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L’ULTIMA PAGINA
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MARITTIMA MENSILE DELLA MARINA MILITARE DAL 1868
NEL PROSSIMO NUMERO ECONOMIA E POTERE MARITTIMO ERRATA CORRIGE Fascicolo di Settembre 2020 La fonte delle immagini a p.25 è l'Istituto Idrografico della Marina Militare. LA COLLABORAZIONE ALLA RIVISTA È APERTA A TUTTI. IL PENSIERO E LE IDEE RIPORTATE NEGLI ARTICOLI SONO DI DIRETTA RESPONSABILITÀ DEGLI AUTORI E NON RIFLETTONO IL PENSIERO UFFICIALE DELLA FORZA ARMATA. RIMANIAMO A DISPOSIZIONE DEI TITOLARI DEI COPYRIGHT CHE NON SIAMO RIUSCITI A RAGGIUNGERE. GLI ELABORATI NON DOVRANNO SUPERARE LA LUNGHEZZA DI 12 CARTELLE E DOVRANNO PERVENIRE IN DUPLICE COPIA DATTILOSCRITTA E SU SUPPORTO INFORMATICO (QUALSIASI SISTEMA DI VIDEOSCRITTURA). GLI INTERESSATI POSSONO CHIEDERE ALLA DIREZIONE LE RELATIVE NORME DI DETTAGLIO OPPURE ACQUISIRLE DIRETTAMENTE DAL SITO MARINA ALL’INDIRIZZO HTTP://WWW.MARINA.DIFESA.IT/CONOSCIAMOCI/EDITORIA/MARIVISTA/PAGINE/NORMEPERLACOLLABORAZIONE.ASPX. È VIETATA LA RIPRODUZIONE ANCHE PARZIALE, SENZA AUTORIZZAZIONE, DEL CONTENUTO DELLA RIVISTA.
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NOVEMBRE 2020 - Anno CLIII
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La formazione marittima e navale in Italia Flavio Biaggi, Massimiliano Siragusa, Antonio Donato, Emiliano Beri, Fabio De Ninno, Giuseppe Piazza
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GLOSSARIO DI DIRITTO DEL MARE
Fabio CAFFIO
Supplemento alla Rivista Marittima Novembre 2020
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GLOSSARIO DI DIRITTO DEL MARE Diritto e Geopolitica del Mediterraneo allargato
V Edizione RIVISTA MARITTIMA 2020
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Fabio CAFFIO
GLOSSARIO DI DIRITTO DEL MARE Diritto e Geopolitica del Mediterraneo allargato
V Edizione RIVISTA MARITTIMA 2020
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Ufficio Pubblica Informazione e Comunicazione Capo dell’Ufficio, Contrammiraglio ANGELO VIRDIS Rivista Marittima Direttore Responsabile, Capitano di vascello DANIELE SAPIENZA Capo Redattore, Capitano di fregata DIEGO SERRANI Redazione - Art Director, Guardiamarina GIORGIO CAROSELLA Redazione, Secondo capo scelto QS GIANLORENZO PESOLA
Copyright © 2020
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Glossario di Diritto del Mare
INDICE
PRESENTAZIONE ............................................................................................................................
Pag.
5
PREFAZIONE ....................................................................................................................................
Pag.
6
PREMESSA .........................................................................................................................................
Pag.
8
ABBREVIAZIONI E AVVERTENZE ...............................................................................................
Pag.
10
GLOSSARIO .......................................................................................................................................
Pag.
12
NOTA CONCLUSIVA .......................................................................................................................
Pag. 219
POSTFAZIONE .................................................................................................................................
Pag. 221
Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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Glossario di Diritto del Mare
PRESENTAZIONE
Con la pubblicazione del Glossario di Diritto Del Mare - Diritto e Geopolitica del Mediterraneo allargato, V edizione rivista e aggiornata, a cura dell’ammiraglio Fabio Caffio, la Biblioteca marittima nazionale si arricchisce di un ulteriore prezioso Supplemento — disponibile anche online al sito www.marina.difesa.it/media-cultura/editoria/marivista/Pagine/Supplementi.aspx —, preceduto dalla Prefazione (con la P maiuscola), lucida e godibile, di Lucio Caracciolo, fondatore e Direttore di Limes (1), a testimonianza di un crescente interesse nazionale per il Diritto del mare sotto una molteplice ottica: giuridica, geopolitica ed inevitabilmente strategica. Nella mia qualità di Direttore della Rivista Marittima non credo, pertanto, di aver nulla da aggiungere se non, in quanto ufficiale della Marina Militare, permettermi un semplice suggerimento: i lettori non lo mettano in biblioteca (accanto o sostituendo la precedente versione di questo vademecum) riservandosi di riprenderlo quando — inevitabilmente, prima o poi — ne avranno bisogno. Lo sfoglino invece subito, almeno un poco. Qui l’occhio esercitato troverà immediatamente le novità, mentre uno meno avvezzo ma dotato di curiosità proverà divertimento; chi, invece, non lo conosceva, vedrà aprirsi un mondo insospettato e, lo garantisco, affascinante. Un universo culturale dai profondi risvolti pratici, funzionale alla conoscenza di una realtà che, sempre di più e sempre più spesso, ci coinvolge e chiede incessantemente di essere compresa. Così l’auspicio della Rivista Marittima è che queste pagine continueranno ad accrescere e ad alimentare la consapevolezza di tutti in merito alle leggi, non eludibili, del mare, al rispetto che esso richiede e alle infinite opportunità, magari ancora da cogliere e realizzare, che la sempre felice unione della conoscenza con la consapevolezza e la fantasia generano in ogni tempo. Il Direttore della Rivista Marittima
(1) LIMES: Rivista Italiana di Geopolitica. GEDI Gruppo Editoriale SpA; limesonline.com.
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PREFAZIONE
Alla passione e alla competenza dell’ammiraglio Fabio Caffio si deve questa quinta edizione del Glossario di Diritto del Mare. Diritto e Geopolitica del Mediterraneo allargato, meritoriamente pubblicata dalla Rivista Marittima. Manuale indispensabile non solo a chi nel mare naviga, ma all’intera nostra comunità nazionale, circondata dalle acque eppure lontana dall’aver riconquistato la coscienza marittima che, non solo per il glorioso passato, dovrebbe costituire parte determinante della pedagogia pubblica e della strategia geopolitica. Il lettore troverà in quest’opera una rassegna completa e approfondita delle norme e delle consuetudini che invitano a una gestione regolata e cooperativa degli spazi marittimi, di crescente rilievo geopolitico. Nell’immenso spazio dell’oceano mondo, per sua natura intrinsecamente anarchico, la competizione non sempre pacifica fra potenze ha trovato negli ultimi anni nuovi motivi di contrasto. Che si tratti di diritti di pesca, di accesso a risorse minerarie, di libera circolazione delle merci o di puro prestigio, la tendenza ad affermare specifici diritti su tratti di mare sempre più ampi è stigma del tempo nostro. Sullo sfondo, echeggiano gli antichi dibattiti su Mare Liberum (Grozio) o Mare Clausum (Selden), per tacere del Trattato di Tordesillas, mediato nel 1494 da papa Alessandro VI (Borgia), che bipartiva l’orbe terracqueo fra Spagna e Portogallo con taglio meridiano. O ancora, le inevitabili, permanenti contrapposizioni fra paesi costieri e paesi senza accesso al mare. Storia e geopolitica confermano insomma che una visione davvero universalistica, come quella idealmente postulata dal diritto, è inapplicabile. Comunque inapplicata. Allo stesso tempo, è costantemente invocata a difesa dei propri interessi particolari da questo o quell’attore geopolitico, nella logica del cosiddetto lawfare. Il diritto del mare è disciplina dunque decisiva per qualsiasi Stato si occupi della distribuzione del potere nella dimensione oceanica, non fosse che per opporre, quando necessario alla protezione degli interessi nazionali, la propria interpretazione a quella altrui. L’utilità del Glossario dell’ammiraglio Caffio è direttamente proporzionale alla scarsa coscienza pubblica della decisiva importanza del mare per la nostra esistenza collettiva e individuale. È sulle e sotto le onde che si giocano partite decisive per l’ambiente, per l’economia e per la geopolitica italiana. Pur se il profilo della nostra quasi isola è disegnato da circa 8.000 chilometri di coste, sembrerebbe che il titolo del celebre romanzo di Anna Maria Ortese — Il mare non bagna Napoli — debba essere esteso all’Italia tutta. Molte e diverse ragioni contribuiscono a spiegare questo paradosso. La postura urbanistica stessa di molte città e località costiere italiane, guardate da torre di avvistamento e con le spalle al mare, considerato fomite di minacce più che di opportunità, ce ne ricorda le origini antiche, quando le scorrerie di saraceni (arabi) e turchi, percepiti mortali nemici della cristianità, producevano uno specifico genere di quei «treni di paura» su cui Jean Delumeau ha scritto pagine decisive. Più di recente, la catastrofica sconfitta nella Seconda guerra mondiale, che spazzò via la potenza navale italiana, finallora una delle massime al mondo, e il trattamento seccamente punitivo inflitto dai vincitori alla nostra flotta con il Trattato di pace del 1947, ha lasciato traccia profonda nella coscienza nazionale. Infine, ma non ultimo, il ricorrere della costante campanilistica tipica della storia italiana, a suo tempo espressa a supremi livelli nella rivalità fra le repubbliche marinare, si riflette nella competizione fra gli scali italiani e fra le autorità deputate a gestirli, in carenza di una strategia o anche solo di una regìa nazionale. Il concetto di Mediterraneo allargato cui l’ammiraglio Caffio fa riferimento è acquisizione recente della nostra dottrina navale. Con esso si esprime l’intenzione di non limitare il nostro approccio al mare domestico, all’ex Mare nostrum, ma di considerarne la scala oceanica. Non solo. Come ha recentemente affermato il Capo di Stato Maggiore della Marina Militare, ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, «stiamo allargando il Mediterraneo allargato». Fino a considerare l’impiego della nostra flotta nell’altro Mediterraneo, quello asiatico (Mar Cinese Meridionale) dove si concentra oggi lo scontro fra Cina e Stati Uniti. 6
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Ovvero fra il «numero due» al mondo, che potenza marittima mai fu e ora capisce di doverlo diventare per soddisfare le proprie ambizioni, e il «numero uno», che da quando ha assunto una dimensione informalmente ma effettivamente imperiale, al di là della massa continentale nordamericana, è ben conscio di come il suo rango derivi anzitutto dal controllo delle rotte marittime, attraverso cui passa il 90% delle merci distribuite nel pianeta. Tale competizione si riflette anche nelle acque mediterranee, di fatto medioceaniche: la rilevanza strategica del mare di casa sta anzitutto nella sua funzione di stretto fra gli oceani Atlantico e Indo-Pacifico, ovvero di connessione fra Oriente e Occidente. Questo spiega anche l’inasprirsi della territorializzazione del Mediterraneo, che noi abbiamo a lungo trascurato, fin quasi a trovarci circondati da zone marittime altrui. Le definizioni e le analisi che Caffio dedica in questo Glossario alle Zone Economiche Esclusive (ZEE) merita quindi un’attenzione tutta speciale, soprattutto da parte dei decisori politici. Tanto più dopo che la Camera dei deputati ha licenziato una legge che ci consente finalmente di istituire una nostra ZEE. In attesa che questa passi al Senato e torni (probabilmente) alla Camera, e considerando i tempi tecnici necessari alla definizione e all’applicazione della ZEE italiana, rischiamo di trovarci di fronte a fatti compiuti difficilmente alterabili. In ogni caso, è prevedibile che la ZEE italiana implicherà una serrata negoziazione con paesi vicini. Siamo certi che i nostri rappresentanti chiamati a dirimere tali dispute geopolitico-legali terranno bene in vista, sul loro tavolo di lavoro, questo manuale. Ci auguriamo ne facciano buon uso. Lucio Caracciolo
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PREMESSA
Molto è cambiato negli ultimi decenni nella disciplina del diritto del mare per via dello sviluppo di nuovi strumenti internazionali e di nuove prassi volte a garantire un uso sostenibile degli oceani quali global commons. L’esigenza di una governance condivisa è emersa soprattutto per l’Artico, nuova frontiera delle sfide climatiche. Per non dire della lotta alla pirateria e ai traffici illeciti via mare che vede le Marine di tutto il mondo collaborare tra loro nello svolgimento dello storico ruolo di garanti della libertà di navigazione. Non ultimo è inoltre, sul piano della cooperazione internazionale, il salvataggio in mare dei migranti: quello che è un imperativo morale e giuridico in teoria condiviso da tutti gli Stati, di fatto è stato un obbligo che l’Italia ha assolto spesso in solitudine, senza risparmio di energie, grazie all’impegno congiunto delle Forze marittime di Marina, Capitanerie di porto-Guardia costiera e Guardia di Finanza, del naviglio mercantile di bandiera e delle ONG (Organizzazioni non governative). L’eterno conflitto tra le pretese degli Stati costieri (legate al principio secondo cui la terra domina il mare) e quelle dei paesi maggiormente interessati al libero uso del mare è purtroppo diventato ancor più evidente. Si pensi alla contesa del Mar della Cina o all’inarrestabile processo di dichiarazioni, anche unilaterali, di ZEE (Zone economiche esclusive) nel Mediterraneo. Naturale quindi continuare a guardare al mare, oltre che come bene comune, anche dal punto di vista della tutela degli interessi nazionali. L’esigenza riguarda in primis il nostro paese, soprattutto perché l’Italia evidenzia una sua specifica tendenza ad agire in termini per così dire universalistici che la penalizza. L’iniziale impostazione pragmatica del presente Glossario di Diritto del Mare — che ne fa una sorta di compendio di diritto delle operazioni navali a beneficio del personale della Marina — è stata mantenuta in questa nuova edizione. Per questo, si è anche continuato a prevedere voci, non strettamente inerenti al diritto del mare, relative a discipline contigue come il diritto dei conflitti armati sul mare o il diritto della navigazione. Dare al lettore una visione complessiva dei mari, in particolare di quelli del Mediterraneo e dei bacini adiacenti e strategicamente connessi (inquadrabili nel Mediterraneo allargato), in una prospettiva geopolitica oltre che giuridica, è in definitiva il taglio che contraddistingue il Glossario. Il lavoro è dedicato, come per il passato, all’Italia, grande paese marittimo le cui bandiere navali (militari, di Stato e mercantili) portano ovunque, sul mare, l’immagine della nazione. L’autore
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BANDIERE NAVALI ITALIA
Bandiera Navale Militare
Bandiera Navale Mercantile
Bandiera navi servizio governativo non commerciale
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ABBREVIAZIONI
Sono qui riportate le abbreviazioni con cui si sono indicati nel presente lavoro i seguenti testi normativi (i numeri riportati a fianco delle stesse, nelle varie voci, si riferiscono agli articoli citati): CN COM Ginevra
Codice della navigazione, approvato con R.D. 30 marzo 1942. Codice dell’Ordinamento Militare (D.LGS. 66-2010); Con il pertinente numero cardinale di riferimento sono state citate le seguenti Convenzioni adottate a Ginevra il 29 aprile 1958: I Convenzione sul mare territoriale e sulla zona contigua; II Convenzione sull’alto mare; III Convenzione sulla pesca e sulla conservazione delle risorse biologiche dell’alto mare; IV Convenzione sulla piattaforma continentale. UNCLOS Convenzione delle Nazioni unite (NU) sul Diritto del mare adottata a Montego Bay il 10 dicembre 1982 (*). (United Nations Conventions on the Law of the Sea)
AVVERTENZE
Le valutazioni e le opinioni espresse nel testo sono esclusivamente attribuibili all’autore e non coinvolgono quindi, in nessun modo, il ministero della Difesa, la Marina Militare e la Rivista Marittima, né alcuna altra istituzione governativa. Le cartine riportanti l’indicazione IIM sono state realizzate dall’Istituto Idrografico della Marina. Le stesse, come anche quelle di altra fonte, hanno finalità meramente illustrative del testo e non implicano alcuna rappresentazione ufficiale o riconoscimento dei confini marittimi ivi riportati. Non è consentita la riproduzione anche parziale e in qualsiasi forma o supporto dell’opera senza autorizzazione scritta della Rivista Marittima. Nel caso di riferimenti ai suoi contenuti ne va fatta la citazione nelle note e nella bibliografia.
TABELLA RIASSUNTIVA DEGLI SPAZI MARITTIMI DI MAR MEDITERRANEO E MAR NERO Una dettagliata tabella di questi spazi marittimi è a pag. 83 della Premessa agli Avvisi ai Naviganti, Istituto Idrografico della Marina, 2020. Ulteriori informazioni possono acquisirsi — accedendo al portale di UN DOALOS — consultando la Table of claims to maritime jurisdiction.
(*) Il testo ufficiale della convenzione è in United Nations Treaty Collection, Ch. 21, 6. Il testo in lingua francese, con la traduzione non ufficiale in lingua italiana, è allegato alla legge di ratifica 2 dicembre 1994, n. 689 pubblicata nel Supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale n. 295 del 19 dicembre 1994.
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Spazi marittimi italiani. Il limite esterno della zona contigua è ipotetico (Fonte: IIM).
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GLOSSARIO ABBORDI IN MARE Vedi: Polizia alto mare; Prevenzione attività pericolose in mare; Sicurezza marittima. ACQUE ARCIPELAGICHE Sono definite acque arcipelagiche le zone di mare che in un arcipelago (insieme di isole collegate tra loro in modo così stretto da formare un’intrinseca entità geografica, politica ed economica) sono racchiuse all’interno di un sistema di linee di base arcipelagiche (v.). Su di esse lo Stato arcipelagico, e cioè uno Stato costituito interamente da uno o più formazioni insulari (UNCLOS 46), esercita la sua sovranità, come anche sul sovrastante spazio aereo, sul fondo e sul sottofondo marino (UNCLOS 49). Le acque arcipelagiche, dal punto di vista giuridico, costituiscono una categoria del tutto particolare. La sovranità dello Stato, a differenza di quanto avviene per le acque interne (v.), non è, infatti, completa, in quanto esso, nell’esercitare i suoi diritti, deve: — rispettare i diritti di altri Stati derivanti da accordi preesistenti o concernenti consolidati interessi di pesca (UNCLOS 51); — permettere il transito inoffensivo (v.) delle navi straniere, al pari di quanto previsto in materia di passaggio attraverso le acque territoriali (v.), nonché quel particolare tipo di transito non sospendibile denominato «passaggio arcipelagico» che può essere esercitato in determinati corridoi di traffico relativi a rotte usate per la navigazione internazionale tra una parte di alto mare (v.) o di zona economica esclusiva (v.) e un’altra parte di alto mare o di ZEE. Il caso più importante di Stato arcipelagico è rappresentato dall’Indonesia. Hanno titolo a uno status arcipelagico: Antigua-Barbuda, Bahamas, Capo Verde, Isole Fiji, Jamaica, Maldive, Papua-Nuova Guinea, Saint Vincent e Grenadine, Isole Salomon, Trinidad e Tobago. Non costituisce viceversa uno Stato arcipelagico Malta.
Gli spazi marittimi secondo l’UNCLOS; sulla sinistra, un esempio di acque arcipelagiche (Fonte: Francalanci). 12
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ACQUE INTERNAZIONALI Vedi: Alto mare.
ACQUE INTERNE Le acque comprese tra la costa e le linee di base (v.) del mare territoriale (v.) costituiscono le acque interne (Ginevra 5,1; UNCLOS 8,1). Condizione perché esse esistano è dunque la circostanza che le linee di base non coincidano con la linea di bassa marea della costa, fermo restando, comunque, che sono giuridicamente tali anche gli specchi e le vie d’acqua esistenti sulla terraferma, quali laghi, fiumi e canali. Lo status legale delle acque interne è caratterizzato dal completo e incondizionato esercizio della sovranità dello Stato costiero, al pari di quanto avviene nell’ambito dei suoi confini terrestri. Non esiste dunque, per le navi straniere, diritto di esercitarvi il transito inoffensivo (v.); esse devono essere preventivamente autorizzate per poterle attraversare o sostarvi, a meno che non siano costrette a far ciò in una situazione di pericolo o di forza maggiore. Unica deroga a questo regime è il caso in cui continui a essere in vigore il preesistente diritto di transito inoffensivo in aree che, per effetto del tracciamento di linee di base rette, sono passate dallo status di acque territoriali a quello di acque interne (Ginevra I,5,1; UNCLOS 8,2). Vedi anche: Baia di Pirano, Baie storiche (Mediterraneo); Bosnia-Erzegovina.
ACQUE TERRITORIALI 1. Configurazione sovranità La sovranità dello Stato costiero si estende, al di là della terraferma e delle acque interne (v.) — e, nel caso di uno Stato arcipelagico, delle sue acque arcipelagiche (v.) — su una zona di mare adiacente denominata acque territoriali (Ginevra I,1,1, UNCLOS 2,1). La formula usata da entrambe le Convenzioni secondo cui «la sovranità si estende» sta a indicare l’automatica appartenenza delle acque territoriali allo Stato costiero, come inseparabile estensione della superficie terrestre, senza che ci sia bisogno di alcuna proclamazione: il regime della loro appartenenza ab initio e ipso jure è in sostanza simile a quello vigente per la piattaforma continentale (v.). Questa sovranità si estende anche allo spazio aereo sovrastante le stesse e al loro fondo e sottofondo marino della piattaforma continentale (v.), ma non è assoluta, nel senso che si esercita alle condizioni stabilite dall’UNCLOS e delle altre norme del diritto internazionale. Limitazioni alla sovranità dello Stato costiero derivano dall’applicazione del regime del passaggio inoffensivo (v.). In termini generali, essa può comunque dirsi completa ed esclusiva, nel senso che può esplicarsi in tutte le materie stabilite dall’UNCLOS (art. 21.1) ai fini della regolamentazione del transito inoffensivo e cioè: 1) sicurezza della navigazione e regolamentazione del traffico marittimo; 2) protezione delle attrezzature e dei sistemi di ausilio alla navigazione e di altre attrezzature e installazioni; 3) protezione di cavi e condotte; 4) conservazione delle risorse biologiche del mare; 5) prevenzione delle violazioni delle leggi e dei regolamenti dello Stato costiero relativi alla pesca; 6) preservazione dell’ambiente dello Stato costiero e prevenzione, riduzione e controllo del suo inquinamento; 7) ricerca scientifica marina e rilievi idrografici; 8) prevenzione di violazioni delle leggi e regolamenti doganali, fiscali, sanitari o di immigrazione dello Stato costiero. Tutto questo configura una giurisdizione legislativa (prescriptive jurisdiction) cui va associata la potestà di sanzionarne la violazione (enforcement jurisdiction). Un particolare caso di enforcement jurisdiction di natura discrezionale legata alla sovranità territoriale è quella penale esercitabile ai sensi dell’art. 27, 1 dell’UNCLOS nei confronti di mercantili in transito per reati commessi a bordo durante il passaggio (normalmente rientranti nella giurisdizione dello Stato di bandiera). Tuttavia tale discrezionalità viene meno se: 1) se le conseguenze del reato si estendono allo Stato costiero; 2) il reato è di natura tale da disturbare «la pace del paese o il buon ordine nel mare territoriale»; 3) l’intervento delle autorità
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locali è stato richiesto dal comandante della nave o da un agente diplomatico o funzionario consolare dello Stato di bandiera della nave; 4) tali misure sono necessarie per la repressione del traffico illecito di stupefacenti (v.). 2. Ampiezza L’ampiezza massima delle acque territoriali è attualmente stabilita in 12 miglia misurate a partire dalle linee di base (v.) (UNCLOS 3). In precedenza (Ginevra 1, 24), pur non essendo prefissata una loro ampiezza, era previsto che quella delle 12 miglia fosse la misura massima dell’ampiezza complessiva di acque territoriali e zona contigua (v.). La prassi internazionale è oramai consolidata sulla fissazione del limite delle 12 mn, anche se ogni Stato ha in teoria la facoltà di stabilire limiti inferiori e fermo restando la necessità di tener conto dei diritti dello Stato frontista in caso di distanza inferiore alle 24 mn tra le rispettive linee di base (v. Delimitazione). Un caso a sé è la questione del limite delle acque territoriali di Grecia e Turchia come indicato più avanti. Eccezioni erano anche, fino a qualche anno fa, le pretese di Somalia, Ecuador e Brasile attestate sulle 200 mn, attualmente ridotte alle canoniche 12 mn. Anche Stati Uniti e Gran Bretagna, fino alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso hanno derogato ai principi dell’UNCLOS: entrambi i paesi avevano, infatti, mantenuto il limite delle 3 mn in nome dei principi di libertà dei mari (v.). Un quadro di situazione complessivo delle pretese di tutti gli Stati è riportato nella Table of claims to maritime jurisdiction elaborata dalle Nazioni unite. 3. Sviluppo storico Il processo storico che ha portato all’instaurarsi del regime delle 12 mn ora vigente passa attraverso le seguenti fasi di sviluppo: — proclama delle King’s Chamber del re inglese Giacomo I (emanato nel 1604 al termine della guerra con la Spagna) con cui si afferma che «entro i nostri porti, approdi, ancoraggi, baie o altri luoghi di nostro dominio […] non sarà tollerata forza, violenza, sorpresa o offesa». Tale atto, con cui il Sovrano rivendicava la sovranità e proprietà su tali zone, si proponeva principalmente di delimitare, tramite una carta annessa, le acque contigue alla costa (narrow seas) sottoposte alla giurisdizione dell’ammiragliato per la tutela della neutralità britannica. Non secondario era peraltro il fine di contrastare le pretese olandesi alla libertà dei mari; — nel XVIII sec. sulla base della teoria che rapportava l’estensione delle acque territoriali a quella che al tempo era la portata delle artiglierie terrestri («cannon shot rule»), venne consolidandosi, come norma di Diritto internazionale, il principio del limite delle 3 miglia. L’elaborazione teorica di tale principio si deve al giurista olandese Bynkershoek che nella De Dominio Maris Dissertatio del 1703 enunciò la formula secondo cui potestas terrae finitur ubi finitur armorum vis (il dominio terrestre ha termine ove finisce la forza delle armi); — nel corso della Conferenza dell’Aja del 1930 per la codificazione del Diritto internazionale, pur non essendo stato raggiunto il risultato di far approvare un documento relativo all’estensione delle acque territoriali, si manifestò una comunanza di vedute tra vari Stati, nel cui ambito erano comprese Gran Bretagna e Stati Uniti, circa il fatto che il limite delle 3 miglia era quello da ritenersi conforme alle norme consuetudinarie vigenti. L’Italia si dichiarò invece a favore di un limite di 6 miglia; — con il Territorial Water Jurisdiction Act del 1878 la Gran Bretagna adottò per la prima volta, in forma ufficiale, il limite delle 3 miglia, stabilendo che fosse sotto la giurisdizione dell’ammiragliato «ogni parte del mare aperto entro una lega marina [corrispondente appunto a 3 miglia] dalla costa, misurata dal livello di bassa marea».
ACQUE TERRITORIALI (MEDITERRANEO) 1. Quadro generale Tutti i paesi rivieraschi del Mediterraneo hanno adottato il limite delle 12 miglia delle acque territoriali. Nel periodo tra il 1976 e il 1990 l’Albania (che attualmente adotta il limite delle 12 miglia) ne 14
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aveva fissato il limite a 15 miglia. Anche la Siria, nel 2003, ha ridotto a 12 miglia la propria precedente pretesa di 35 miglia di acque territoriali. La Grecia mantiene tuttora il limite di 6 mn dalla costa stabilito con la legge 17 settembre 1936, n. 230. Il Governo greco, nel ratificare la convenzione del Diritto del mare del 1982 con la legge n. 2321 del 23 giugno 1995, ha tuttavia stabilito che «la Grecia ha il diritto inalienabile, in applicazione dell’art. 3 della ratificata convenzione, di estendere in qualsiasi momento le acque territoriali fino a una distanza di 12 miglia». Come noto, il ricorso a questa opzione avrebbe nel mar Egeo (v.) conseguenze sulle relazioni greco-turche. Egualmente di 6 miglia è l’estensione delle acque territoriali della Turchia secondo l’art. 1 della legge n. 2674 del 26 maggio 1982, tranne che sia stabilito un limite inferiore nel mar Egeo nei casi in cui vi siano isole greche frontiste a meno di 12 mn dal continente. La Turchia (che non ha ancora ratificato la convenzione del Diritto del mare del 1982), con tale legge si è peraltro riservato il diritto di stabilire una maggiore estensione delle proprie acque territoriali in specifiche situazioni, in conformità a principi di equità: il limite delle 12 miglia è stato, infatti, previsto nelle zone rivierasche del Mar Nero (V.) e, nel Mediterraneo sudorientale, a est del meridiano 029°05’E.
Acque territoriali greche di 6 mg (Fonte: Hellenic MFA).
2. Situazione relativa all’Italia Quanto all’Italia, il limite delle 12 miglia è stato adottato con la legge 14 agosto 1974, n. 359. In precedenza, il Codice della navigazione (del 1942) prevedeva una fascia di acque territoriali di 6 miglia. La delimitazione (v.) delle acque territoriali tra l’Italia e i paesi confinanti, in zone in cui la distanza tra le rispettive linee di base (v.) è inferiore alle 24 miglia, è stata attuata con: — Convenzione di Parigi del 28 novembre 1986 tra Italia e Francia relativa alla delimitazione delle frontiere marittime nell’area delle Bocche di Bonifacio. L’accordo definisce i limiti delle acque territoSupplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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riali poste tra la Sardegna e la Corsica mediante una linea composta di 6 segmenti. Il tratto iniziale della linea, passante a ovest per i punti 1 e 2 è improntato al principio di equidistanza. Il criterio di delimitazione muta nella parte centrale delle Bocche: il punto 3, per il quale passano le congiungenti dei punti 2 e 4, è, infatti, spostato in prossimità delle linee di base italiane in modo da riconoscere allo scoglio francese di Lavezzi un effetto sulla delimitazione e salvaguardare le esigenze francesi di navigazione. Il principio della soluzione equa è invece stato seguito nella zona a est delle Bocche, laddove l’allineamento dei punti 4 e 5 e quello dei punti 5 e 6 tiene parzialmente conto delle «circostanze speciali» rappresentate dagli scogli e isolotti francesi situati al di fuori delle linee di base, prendendo in considerazione nello stesso tempo l’esigenza di salvaguardare l’operatività militare della base navale italiana di La Maddalena. La convenzione ha anche a oggetto la tutela delle consuetudini di pesca dei battelli dei due paesi in una zona comune a ovest dello stretto (v. Pesca (Mediterraneo). La validità di questo accordo è stata confermata da Italia e Francia nell’ambito dell’Accordo di Caen del 21 marzo 2015 sulla definizione dell’intera frontiera marittima (non ancora ratificato dall’Italia al 2020 e quindi non ancora in vigore); — il su citato accordo di Caen, ove entrasse in vigore, disciplinerebbe anche il limite delle acque territoriali italo-francesi nella baia di Mentone; attualmente, in mancanza di accordo, lo stesso confine rientra nella disciplina generale dell’art. 15 dell’UNCLOS. In teoria potrebbe ancora ritenersi applicabile, a questo fine, l’intesa provvisoria e informale tra Italia e Francia del 1892 (oggetto di una Circolare del ministero Marina pubblicata nella G.U. del 30 settembre 1892, n. 229 riportata a p.108) che, per la pesca da parte dei battelli di rispettiva bandiera, stabiliva un allineamento a partire da appropriati riferimenti a terra probabilmente valevole sino al limite delle 3 mn vigente al tempo;
Frontiere marittime Italia-Francia secondo accordo 2015 non ancora ratificato dall'Italia (Fonte: Sovereign Limits).
Demarcazione acque tra la Sardegna e la Corsica; cartina annessa Convenzione di Parigi, 1986. A ovest delle Bocche di Bonifacio, quadrilatero indicante la zona di pesca comune ai battelli dei due paesi (Fonte: Francalanci).
— il Trattato di Osimo del 10 novembre 1975 tra la Iugoslavia e l’Italia, concernente la sistemazione delle questioni pendenti tra i due paesi la cui validità è stata confermata dalla Slovenia come Stato successore (v. Successione tra Stati) della ex Iugoslavia. Il trattato fissa all’allegato III i limiti delle acque territoriali dei due paesi nel golfo di Trieste. A questo fine è stata tracciata una linea di equidistanza corretta da «circostanze speciali», quali la necessità di consentire, nelle acque territoriali italiane, la navigazione a navi di grosso tonnellaggio in fondali adeguati. Di fatto, in relazione alla situazione dei fondali, permangono limitazioni per l’accesso al porto di Trieste alle navi di grosso 16
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tonnellaggio (150.000 t e 17 m di pescaggio) le quali sono costrette a passare in transito inoffensivo (v.) attraverso le acque territoriali slovene. In questo contesto si colloca il presunto sconfinamento di nave Cavour in acque slovene, che sarebbe avvenuto nel 2014 in occasione della navigazione verso Trieste, lamentato dalla Slovenia. L’episodio va messo in relazione con la pretesa slovena a che il transito inoffensivo delle navi da guerra straniere sia preventivamente notificato.
Confine acque territoriali italo-slovene-croate nel golfo di Trieste secondo il Trattato di Osimo; al centro la zona di pesca comune che era prevista dall’Accordo di Roma del 1983, non più̀ in vigore (Fonte: ASIL).
3. Casi particolari altri Stati Un accordo provvisorio relativo alla delimitazione laterale delle rispettive frontiere marittime, ivi comprese quelle delle acque territoriali, è stato concluso da Algeria e Tunisia l’11 febbraio 2002. Da segnalare inoltre l’Accordo del 1984 tra la Francia e il Principato di Monaco che fissa l’ampiezza delle acque territoriali del Principato prevedendo un corridoio di larghezza pari alla lunghezza della costa monegasca (1,6 miglia). Dispute per la delimitazione di acque territoriali sono insorte tra Slovenia e Croazia nella zona della baia di Pirano (v.), nonché tra Croazia e Montenegro nell’area compresa tra la penisola croata di Prevlaka e le Bocche di Cattaro (canale di accesso alla baia montenegrina di Cattaro). Un accordo provvisorio di delimitazione è stato stipulato nel 2002 con il Protocol on the Interim Regime along the Southern Border between Croatia and FRY, 10 december 2002, di cui il Montenegro è Stato successore. Il confine delle acque territoriali tra Montenegro e Albania non è stato definito. In passato, quando le acque territoriali erano di 3 mn, era in vigore il Protocollo tra l’Albania e la Serbia del 26 luglio 1926 che prevedeva come confine a mare una «linea dritta perpendicolare alla direzione generale della costa [che] termina alla foce del principale braccio del (fiume) Boyana». Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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Frontiera marittima Tunisia-Algeria (Fonte: UN Doalos).
Limite acque territoriali Croazia-Montenegro (Fonte: M. Grbec).
Spazi marittimi del Montenegro (Fonte: Montenegro, MTE).
Frontiera marittima Albania-Grecia secondo l’Accordo del 2009 tra i due paesi, non ancora in vigore al 2020 (Fonte: ASIL).
Irrisolta è la questione della delimitazione dei confini delle acque territoriali (ma anche dei rispettivi spazi extraterritoriali) tra Albania e Grecia decisi con un accordo del 2009 non ancora ratificato dall’Albania perché ritenuto nullo dalla Corte costituzionale di Tirana. Nel 2020 i due paesi hanno deferito il caso alla Corte internazionale di giustizia. Spagna e Gran Bretagna non hanno ancora concordato una soluzione al problema delle acque territoriali del possedimento britannico di Gibilterra posto all’imboccatura orientale dell’omonimo stretto (v. Stretti e canali internazionali), appartenente all’Inghilterra dopo essere stato ceduto dal regno di Spagna con il trattato di pace di Utrecht del 13 luglio 1713. La disputa, aggravata dalla Brexit, riguarda la pretesa inglese a uno spazio di acque territoriali di 3 miglia verso l’alto mare, separato verso terra, nella baia di Algeciras, dalla mediana con la costa spagnola. La tesi spagnola è che la Gran Bretagna non abbia titolo alla sovranità sulle acque territoriali in quanto l’articolo X del trattato di Utrecht stabilisce che la Spagna cede alla Corona della Gran Bretagna «la città e la rocca di Gibilterra, unitamente al suo porto, postazioni difensive e fortezze […] senza alcuna giurisdizione territoriale […]». La Gran Bretagna sostiene invece — e questa è una posizione consolidata sin dal 1723 — che il divieto di giurisdizione territoriale debba intendersi al di là della portata dei cannoni delle 18
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fortificazioni, la quale al tempo era convenzionalmente stabilita in 3 miglia in relazione al principio del «cannon shot rule». Spagna e Gran Bretagna hanno riaffermato i propri differenti punti di vista con dichiarazioni depositate al momento della ratifica della convenzione del Diritto del mare del 1982. Vedi anche: Bosnia-Erzegovina; Palestina.
AEROMOBILE MILITARE Il termine indica un aeromobile utilizzato da unità delle Forze armate di uno Acque territoriali di Gibilterra e zone adiacenti (Fonte: Gibnet). Stato che reca i segni distintivi di quel paese, comandato da un appartenente alle Forze armate e con un equipaggio soggetto alla disciplina militare. Gli aeromobili militari, al pari delle navi da guerra (v.), possono esercitare in alto mare (v.) il diritto di visita (v.) e il diritto di inseguimento (v.). Essi godono dell’immunità di giurisdizione (v.) e sono soggetti al regime del passaggio in transito per ciò che concerne il sorvolo degli stretti internazionali (v.). Non possono tuttavia esercitare il diritto di sorvolo sullo spazio aereo nazionale (v.), sovrastante le acque territoriali (v.) di un altro Stato senza espressa autorizzazione. L’ordinamento italiano (art. 745 CN) prevede che «Sono militari gli aeromobili considerati tali dalle leggi speciali e comunque quelli, progettati dai costruttori secondo caratteristiche costruttive di tipo militare, destinati a essere utilizzati dalle Forze armate. Gli aeromobili militari sono ammessi alla navigazione, certificati e immatricolati nei registri degli aeromobili militari dalla competente Direzione generale del ministero della Difesa». Vedi anche: Regione per le informazioni di volo (FIR); Spazio aereo internazionale.
ALBANIA Vedi:
ALGERIA Vedi:
Acque territoriali (Mediterraneo); Blocco navale; Cerimoniale navale; Mare Adriatico; Piattaforma continentale (Mediterraneo); Traffico e trasporto illegale di migranti in mare; Transito inoffensivo delle navi da guerra.
Acque territoriali (Mediterraneo); Cavi e condotte sottomarine (Mediterraneo); Pesca (Mediterraneo); Ricerca e soccorso in mare; Transito inoffensivo delle navi da guerra; Zona archeologica; Zona contigua; ZEE (Mediterraneo).
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ALTO MARE 1. Principi generali Alto mare è, dal punto di vista giuridico, sinonimo di mare libero: luogo in cui tutti gli Stati possono avvalersi della libertà di navigazione e degli altri usi leciti del mare (v. Libertà dei mari). Nei secoli passati se ne aveva una concezione generica e metagiuridica. Con il Memorandum on the Regime of High Seas del 1950 si afferma che l’essenza dell’alto mare sta nel «divieto d’interferenza di tutte le bandiere nei confronti della navigazione in tempo di pace di tutte le altre bandiere». E con la II convenzione di Ginevra del 1958 se ne definisce una nozione spaziale residuale stabilendo che «per alto mare s’intendono tutte le porzioni di mare che non siano territoriali o non appartengano alle acque interne di uno Stato». L’art. 87 dell’UNCLOS, è chiaro nel prescrivere che l’alto mare è aperto a tutti gli Stati, sia costieri sia interni, che possono esercitarvi — con l’unico limite di non intaccare le libertà degli altri Stati e di tenere nel dovuto conto i diritti connessi allo sfruttamento della sottostante area internazionale dei fondi marini (v.) — le attività di navigazione, sorvolo, posa di cavi (v.), costruzione di isole e installazioni artificiali, pesca (v.), ricerca scientifica (v.) (UNCLOS 87). In alto mare si realizza perciò compiutamente il principio di eguaglianza tra gli Stati sulla base del quale ogni Stato, sia costiero sia privo di affaccio al mare (si pensi alla Confederazione Elvetica che ha una sua flotta mercantile), ha diritto di navigare con navi battenti la propria bandiera (UNCLOS 90), le quali sono soggette alla sua giurisdizione esclusiva (UNCLOS 92, 1). Fatta eccezione per il caso in cui sia diversamente stabilito da specifici accordi, ovvero si verta in ipotesi in cui le navi da guerra (v.) e le navi in servizio governativo (v.) degli altri Stati si avvalgano dei poteri di intervento esercitabili a titolo di diritto di visita (v.) e di diritto di inseguimento (v.). In aggiunta è anche previsto che ogni Stato, il quale sia direttamente e gravemente minacciato da inquinamento derivante da sinistro marittimo avvenuto in alto mare, abbia il diritto di adottare le misure necessarie a fronteggiare l’evenienza (UNCLOS 221). L’alto mare deve essere riservato a scopi pacifici e nessuno Stato può pretendere di assoggettarne alcuna parte alla sua sovranità (UNCLOS 88 e 89). Le navi da guerra possono tuttavia eseguire in alto mare attività operative, quali esercitazioni combinate, operazioni di volo con aeromobili imbarcati, sorveglianza, raccolta di informazioni, prove di armi, lancio di ordigni esplosivi da aeromobili in situazioni di necessità, tenendo nel dovuto riguardo i diritti degli altri Stati. A tal fine è però necessario che la zona in cui si svolge l’esercitazione o in cui è stato sganciato un ordigno rimasto inesploso sia dichiarata zona pericolosa per la navigazione e il sorvolo (v.) con appropriati mezzi di diffusione internazionali. 2. Alto mare e acque internazionali L’importanza dell’alto mare è diminuita con l’avvento del nuovo diritto del mare codificato nell’UNCLOS, benché la stessa convenzione faccia della cooperazione tra gli Stati il principio basilare della governance degli oceani in vari settori come la lotta alla pirateria (v.) e la protezione dell’ambiente marino (v.), per non dire della ricerca e soccorso (v.). Negli ultimi decenni gli spazi di alto mare sono stati, infatti, erosi dal formarsi di nuove aree di giurisdizione funzionale come le ZEE (v.) al cui interno, per quanto viga la libertà di navigazione, non si applicano tutte le altre libertà (UNCLOS 86). Di qui la distinzione tra alto mare e acque internazionali in termini di rapporto tra genere e specie. In sostanza il regime della ZEE non è pleno jure quello dell’alto mare in quanto mancante di alcune delle libertà relative a cominciare da quella di pesca. Analoga la situazione giuridica della zona contigua (v.). Per questo motivo si fa ricorso alla categoria delle acque internazionali per indicare gli spazi che comprendono sia la zona contigua sia la ZEE, mentre si usa il termine alto mare per l’area che si estende al di là di entrambe. Tuttavia, è da ritenersi corretto parlare genericamente di alto mare con riguardo all’esercizio della libertà di navigazione in queste due zone di giurisdizione funzionale. Vedi anche: Demilitarizzazione; Libertà dei mari; Nazionalità della nave; Prevenzione attività pericolose in mare; Protezione della biodiversità marina; Spazio aereo internazionale; Zona pericolosa per la navigazione e il sorvolo.
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ANTIMMIGRAZIONE Vedi: Traffico e trasporto illegale di migranti. ARABIA SAUDITA Vedi: Blocco navale; Golfo Persico; Isole; Mar Rosso; Zona contigua. AREA INTERNAZIONALE DEI FONDI MARINI È definita area internazionale dei fondi marini (denominata in forma sintetica come l’«Area») la superficie sommersa situata al di là delle zone di giurisdizione nazionale delle acque territoriali (v.) e della piattaforma continentale (v.). (UNCLOS 1,1.(1). La colonna d’acqua sovrastante l’Area ha natura di alto mare (v., sicché al suo interno vige la libertà di navigazione (v.). Le risorse naturali (v.) localizzate nell’Area (intendendo, per esse, le risorse minerali solide, liquide e gassose, compresi i noduli polimetallici) sono considerate «patrimonio comune dell’umanità» (UNCLOS 136), in linea con la risoluzione 2749 XXV approvata dall’Assemblea generale delle NU il 17 dicembre 1970, su proposta dell’ambasciatore maltese, Pardo, nella quale è stato affermato per la prima volta il principio. Nessuno Stato può, perciò, reclamare o esercitare forme di sovranità sull’Area o sulle sue risorse (UNCLOS 137), né può pretendere di sfruttare senza alcun vincolo la zona facendo ricorso ai principi che regolano l’alto mare. L’Area è, infatti, aperta all’uso di tutti gli Stati (UNCLOS 141) in accordo con la regolamentazione stabilita nella parte XI dell’UNCLOS. Il compito di gestire lo sfruttamento delle risorse nell’Area è riservato esclusivamente all’Autorità internazionale dei fondi marini (denominata in forma abbreviata come l’«Autorità», avente sede a Kingston e strutturata in forma collegiale negli organismi dell’Assemblea e del Consiglio) che si avvale, come strumento operativo, dell’Impresa internazionale dei fondi marini (UNCLOS 153) (denominata in forma abbreviata come l’«Impresa»), seguendo il sistema di sfruttamento parallelo (cosiddetto «banking system» regolamentato dall’annesso III dell’UNCLOS) che prevede: 1) l’assegnazione a uno Stato richiedente dell’attività di prospezione, esplorazione e produzione su un sito
Aree internazionali dei fondi marini di Clarion-Clipperton aperte a ricerca noduli polimetallici (Fonte: ISA).
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determinato; 2) l’accantonamento in favore dell’Autorità di un secondo sito, equivalente al primo dal punto di vista commerciale, individuato dallo stesso Stato richiedente al momento di sottoporre all’Autorità i suoi progetti di lavoro; 3) lo sfruttamento successivo da parte dell’Autorità di tale sito riservato alla propria attività mediante l’opera dell’Impresa o mediante joint venture con paesi terzi o cessione dei diritti di sfruttamento; 4) l’acquisizione da parte dell’Autorità, in vista del trasferimento all’Impresa, della tecnologia estrattiva utilizzata dai paesi che operano nell’Area. La posizione degli Stati Uniti nei confronti della normativa sullo sfruttamento dei fondi marini (UNCLOS, parte XI) era di non accettazione, ritenendosi che le soluzioni previste dalla convenzione «fossero contrarie agli interessi e ai principi delle nazioni industrializzate». Tale situazione è cambiata nel momento in cui Washington ha deciso di aderire all’Accordo del 1994 relativo all’applicazione della Parte XI della Convenzione del Diritto del Mare, con annessi che, sulla base di un approccio evolutivo di deregulation e di privatizzazione, riconfigura il regime di sfruttamento dei fondi marini secondo principi di economia di mercato. AREA MARINA PARTICOLARMENTE SENSIBILE (PSSA) Vedi: Protezione dell’ambiente marino. AREA MARINA SPECIALMENTE PROTETTA (SPAMI) Vedi: Protezione dell’ambiente marino (Mediterraneo). ARMED ROBBERY Vedi: Pirateria. ASILO MARITTIMO Vedi: Rifugio temporaneo. AUSTRALIA Vedi: Baie Storiche; Ricerca e soccorso in mare; Traffico e trasporto illegale di migranti in mare; Zona di identificazione marittima. AUTORITÀ INTERNAZIONALE DEI FONDI MARINI Vedi: Area internazionale dei fondi marini. AUTORITÀ MARITTIMA Secondo l’ordinamento italiano (D.LGS. 19 agosto 2005 n. 196, concernente l’attuazione della direttiva 2002/59/Ce relativa all’istituzione di un sistema comunitario di monitoraggio e di informazione sul traffico navale) per «autorità marittima» sono da intendere «gli uffici marittimi di cui all’articolo 16 del codice della navigazione ovvero i Centri secondari di soccorso marittimo (MRSC) individuati nel D.P.R. 28 settembre 1994, n. 662, quali autorità preposte al coordinamento delle operazioni di ricerca e di salvataggio ovvero i Centri VTS come definiti con decreto del ministro delle Infrastrutture e dei trasporti 28 gennaio 2004». Le relative funzioni sono espletate dal personale del Corpo delle capitanerie di porto-Guardia costiera, facente parte della Marina Militare secondo l’art. 118 del Codice dell’ordinamento militare (D.LGS. 66/2010) ma dipendente funzionalmente dal ministero delle Infrastrutture e dei trasporti. Questo dicastero ha, infatti, ereditato nel 1994, dal ministero della Marina mercantile, la maggior parte delle funzioni collegate all’uso del mare per attività connesse con la navigazione commerciale e da diporto; sul suo bilancio gravano le spese di funzionamento del Corpo. Vedi anche: Relitto; Ricerca e soccorso in mare; Transito e soggiorno nelle acque territoriali italiane. 22
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AZERBAJAN Vedi: Cavi e condotte sottomarine (Mediterraneo); Mar Caspio. BAHRAIN Vedi:
Delimitazione; Golfo Persico.
BAIA DI PIRANO La disputa tra la Croazia e la Slovenia per la giurisdizione sulla baia di Pirano (4 miglia di apertura) e sulle adiacenti aree marittime, inizia dopo la dissoluzione della ex Iugoslavia. La Slovenia avanza la rivendicazione sulla sovranità delle acque di gran parte della baia con una linea posta a ridosso della penisola di Punta Salvore, mentre la Croazia ne propone la suddivisione con una linea di equidistanza (v.). Il problema, alimentato da frequenti incidenti di frontiera, è di grande rilievo per la Slovenia che ha interesse ad allargare la sua limitatissima zona di giurisdizione marittima nel golfo di Trieste (v. Acque territoriali - Mediterraneo) antistante le sue coste di 48 km. La stessa Slovenia, essendo circondata interamente dalle acque territoriali di Italia e Croazia — definite, nel golfo di Trieste, dal trattato di Osimo del 1975 (v. Acque territoriali - Mediterraneo) — nutre preoccupazioni per essere priva di un accesso diretto alle zone di alto mare (v.) del mare Adriatico (v.) e per le conseguenti limitazioni derivanti dalla necessità di accedere alle proprie coste in regime di transito inoffensivo (v.). Nel 2011 Slovenia e Croazia hanno incaricato un apposito tribunale arbitrale, costituito nei modi previsti dalla Corte permanente di arbitrato dell’Aja, di stabilire il tracciato della linea di delimitazione della baia e risolvere il problema dell’accesso della Slovenia all’alto mare. Il tribunale, con sentenza in data 29 giugno 2017 ha deciso che: 1) la linea di chiusura delle acque interne (v.) della baia è sulla congiungente Cape Madona e Capo Savudrija; 2) il confine laterale tra Slovenia è Croazia è dato dal collegamento del tratto del confine terrestre passante per la mediana del canale di St. Odororic con un punto posto sulla linea di chiusura della baia, a una distanza da Cape Madona (Slovenia) pari a tre volte la distanza da Capo Savudrija (Croazia); 3) la stessa linea di confine laterale delle acque interne prosegue come frontiera delle acque territoriali, con orientamento 299o04’45’’, a intersecare il confine con l’Italia stabilito dal trattato di Osimo; 4) l’accesso della Slovenia all’alto mare avviene tramite un corridoio ampio 2.5 miglia che inizia dalle acque territoriali slovene e, passando attraverso le acque territoriali croate, raggiunge la Zona di protezione ittica ed ecologica (ZERP) proclamata dalla Croazia nel 2003; 5) lo stato giuridico di tale corridoio, denominato junction area, è assimilabile a una porzione di alto mare per quanto riguarda l’esercizio della libertà di navigazione, della posa di cavi e condotte e degli altri usi correlati, come quelli associati alle operazioni delle navi. La Croazia non ha tuttavia accettato tale decisione e non le ha dato esecuzione ritenendola inficiata da «gravi irregolarità». La Slovenia ha denunciato il comportamento omissivo della Delimitazione baia di Pirano secondo decisione arbitrale del 2017; Croazia alla Corte di giustizia dell’Unione euin verde la junction area (Fonte: PCA). ropea; con decisione del 31 gennaio 2020, que-
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sta si è dichiarata incompetente a pronunciarsi per carenza di giurisdizione, affermando che solo le parti hanno il potere di risolvere questioni riguardanti la demarcazione geografica dei loro confini. BAIA DI MENTONE Vedi: Acque territoriali (Mediterraneo); Pesca (Mediterraneo). BAIA STORICA 1. Regime generale Il concetto di baia storica non è codificato in Diritto internazionale. La normativa vigente (UNCLOS 10,6 che ripete la disciplina di Ginevra I,7,6.) prevede, infatti, che le baie storiche costituiscano una eccezione al principio per cui lo Stato costiero ha il diritto di sottoporre al regime delle acque interne (v.) una insenatura nel caso in cui: — rappresenta una baia in senso giuridico, vale a dire una «insenatura ben marcata» avente una superficie almeno eguale a quella del semicerchio il cui diametro sia costituito dalla linea di base dritta (v.), non eccedente le 24 miglia, tracciata tra i punti di entrata; — la costa presenti «profonde frastagliature» e lo Stato costiero si avvalga della facoltà di includerle (anche mediante il tracciamento di linee di chiusura superiori alle 24 miglia) all’interno di un sistema complessivo di linee di base. In assenza di una specifica norma positiva, per delineare il concetto di baia storica è dunque necessario rifarsi, oltre che alla prassi internazionale, che annovera svariati esempi di baie considerate o proclamate come storiche, alla giurisprudenza internazionale. Il termine baia storica fu adoperato per la prima volta nel corso di una riunione dell’Institut de Droit International, nel marzo del 1894, in cui fu riconosciuta come legittima la pretesa di sovranità su una baia purché fondata su un uso continuo e secolare della zona interessata. In seguito, la Corte di giustizia dell’America centrale nel caso del golfo di Fonseca, (19 miglia di apertura), nella sentenza del 9 marzo 1917, affermò il carattere di baia storica dell’insenatura, sostenendo che, nel caso, si riscontravano tutte le condizioni necessarie, e cioè il possesso secolare o immemorabile accompagnato dall’animus domini, il dominio pacifico e continuo accettato dalle altre nazioni, la configurazione geografica particolare, la necessità assoluta per gli Stati costieri di possedere le acque del golfo per le proprie esigenze vitali e di sicurezza. Rilevante è anche quanto stabilito in merito dalla Corte internazionale di giustizia nella sentenza del 18 dicembre 1951 concernente il caso delle pescherie dell’Atlantico del nord tra Gran Bretagna e Norvegia. In questa occasione la Corte sostenne che per acque storiche si intendono normalmente acque che sono trattate come interne ma che non avrebbero quel carattere se non fosse per l’esistenza di un titolo storico, consolidatosi attraverso l’esercizio da parte dello Stato costiero della necessaria giurisdizione per un lungo periodo, senza opposizione da parte di altri Stati. Baia in senso giuridico (Fonte: Francalanci). Un importante testo di riferimento per approfondire la teoria e la prassi della materia è Memorandum by the Secretariat of the United Nations on the historic bays. 2. Posizione statunitense Molte delle baie storiche sono contestate dagli Stati Uniti. Tra queste, oltre ai casi del golfo di Taranto e del golfo della Sirte indicati nella successiva voce relativa al Mediterraneo, si possono ricordare quelli della baia russa di Pietro il Grande (1957), e delle australiane di Anxious, Rivoli, Encounter, Lacepede 24
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(1987). Gli Stati Uniti non riconoscono nemmeno la pretesa del Canada, risalente al 1906, alla storicità della baia di Hudson. La posizione statunitense sulla materia è stata espressa in varie occasioni. In particolare, nell’ambito della sentenza del 1975 concernente la pretesa dell’Alaska sulla baia di Kook (case US v. Alaska 422 U.S. 184-1975), la Suprema corte degli Stati Uniti ha affermato il principio che, ai fini dell’esistenza di una baia storica, sono necessari i seguenti requisiti: 1) aperto, notorio ed effettivo esercizio di autorità sull’area da parte dello Stato che proclama il diritto; 2) esercizio continuo di tale autorità; 3) acquiescenza degli Stati terzi nei confronti dell’esercizio di autorità in quanto l’acquiescenza è intesa non tanto come semplice assenza di proteste, quanto piuttosto come prova che i paesi stranieri sono a conoscenza della pretesa («The mere failure of any foreign nation to protest the authority asserted by the United States during the territorial period is inadequate proof of the acquiescence essential to historic title»). BAIE STORICHE (MEDITERRANEO) 1. Prassi mediterranea Come esempio paradigmatico di baia storica mediterranea potrebbe essere citato il caso del golfo di Venezia, termine con cui la Repubblica di Venezia, nei secoli XIV- XVII, indicava l’intero Adriatico su cui pretendeva di esercitare giurisdizione marittima esclusiva, vietando l’accesso, in nome dei propri interessi vitali, di navi, da guerra e mercantili, straniere non autorizzate. La prassi veneziana fu teorizzata da Paolo Sarpi nel suo Dominio del mare Adriatico della Serenissima Repubblica di Venezia del 1616 sostenendo che: «Venezia si è fatta padrona di tutto il Golfo [che] era serrato e limitato, posseduto e custodito con fatica e spese da tempo immemorabile»: A parte gli aspetti geografici della conformazione dell’Adriatico che non può evidentemente essere considerato un golfo in senso proprio, la pretesa veneziana appare significativa perché basata su elementi giuridicamente rilevanti secondo l’attuale teoria delle baie storiche. Peraltro il de Cussy, nel suo Phases et Causes Célèbres du Droit Maritime des Nations (Lipsia, 1856), cita sì il golfo di Venezia tra le baie storiche, ma correttamente lo limita geograficamente alla parte nord dell’Adriatico in prossimità di Venezia tra la foce del Po e l’Istria. Le prime iniziative moderne assunte da paesi mediterranei in materia di chiusura di baie risalgono all’Egitto che, con decreto reale del 15 gennaio 1951, provvide a inserire all’interno di un sistema di linee di base i golfi di Solum, Abu Hashaifa, El Arab, Pelusium ed El Arish aventi, rispettivamente, una apertura di 45, 31, 94, 49 e 65 miglia. Nessuna di queste insenature è stata però rivendicata dall’Egitto come una zona di «acque storiche», anche se il golfo di El Arab è citato nell’apposito Memorandum sulle «Historic Bays» elaborato dal Segretariato delle Nazioni unite per la I Conferenza del Diritto del mare del 1958. Successivamente è stata la Tunisia, con la legge 4573 del 2 agosto 1973, a chiudere i golfi di Tunisi e di Gabes la cui apertura è, rispettivamente, di 38 e 46 miglia. Entrambi i golfi erano peraltro già stati compresi nella casistica trattata nel suindicato Memorandum delle NU, in quanto la Tunisia aveva esercitato, sin dal XIX secolo, forme di giurisdizione esclusiva su di essi in materia di sfruttamento delle specie marine sedentarie (v. pescherie sedentarie) e sul controllo della relativa attività di pesca. In aggiunta a tali casi ci sono poi le note e controverse chiusure del golfo della Sirte e del golfo di Taranto la cui situazione può riassumersi come segue. 2. Golfo della Sirte La chiusura dell’intero golfo della Sirte è stata attuata dalla Libia con decreto del Consiglio della guida della rivoluzione del 9 ottobre 1973, prevedendo il tracciamento di una linea di base di 306 mn di lunghezza tra le città di Bengasi e Misurata, alla latitudine 32° 30’. Nel comunicato del Governo libico emesso in concomitanza con l’emanazione del suindicato decreto, si giustifica l’iniziativa con il fatto che «I diritti di sovranità sul golfo della Sirte sono stati esercitati senza alcun contrasto, durante i lunghi periodi della storia». In relazione a ciò, il golfo è stato inserito nell’ambito della categoria delle baie storiche. La dichiarazione libica richiama peraltro l’esistenza di interessi vitali come fondamento della sovranità. Non sono note, ciononostante, prese di posizione, ufficiali o ufficiose, della Libia volte a documentare fatti e circostanze su cui si basa il titolo storico acquisitivo della sovranità. Per questo motivo gli Stati Uniti hanno eccepito sin dal primo momento — per poi passare, nel 1986, alla nota fase di confronto armato — che l’iniziativa libica doveva considerarsi una «inaccettabile violazione del Diritto internazionale», Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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non riscontrandosi nella fattispecie quel requisito dell’esercizio di autorità sulla zona «remoto, effettivo, notorio, continuo e con l’acquiescenza dei paesi stranieri» posto a base della teoria delle baie storiche. Tra l’altro, il dissenso degli Stati Uniti nei confronti delle pretese marittime eccessive della Libia è di antica data ed è documentato. Sin dal 1801 gli Stati Uniti rifiutarono di concludere un accordo con il Pashà di Tripoli per ottenere la libertà di transito nelle acque costiere della Libia dei mercantili statunitensi oggetto di attacchi di pirateria (v.) in cambio del pagamento di un tributo; successivamente ne nacque un conflitto che portò, nel periodo dal 1803 al 1805, al blocco statunitense di Tripoli, alla cattura da parte libica della fregata americana Philadelphia e a un’azione di forza dei Marines in territorio libico. In assenza di concreti riferimenti documentali è stata avanzata la tesi che l’esercizio della giurisdizione sull’area possa farsi risalire al periodo della dominazione italiana quando, con il R.D. 27 marzo 1913 n. 312, sulla pesca marittima nella Tripolitania e nella Cirenaica, furono emanate disposizioni intese a regolamentare la pesca delle spugne al di là del limite delle 3 miglia delle acque territoriali. Tale possibilità è stata tuttavia esclusa in considerazione del fatto che non è ben chiaro se i banchi spongiferi su cui venivano esercitati diritti esclusivi di sfruttamento si trovavano proprio all’interno della Sirte. È egualmente considerata senza fondamento l’opinione di chi ritiene che l’appropriazione Baie storiche a confronto: Pietro il Grande, golfo di Taranto e golfo della Sirte (Fonte: Francalanci). dell’area (avente una superficie di circa 22.000 miglia quadrate) possa giustificarsi facendo ricorso alla teoria, di stampo geopolitico più che giuridico, delle cosiddette «baie vitali» che ammette la territorializzazione di una baia sulla base delle fondamentali esigenze economiche e di difesa di una nazione. E circa le caratteristiche geografiche va notato che, a fronte di un’apertura di 306 miglia, la Sirte ha una profondità massima, nel punto di maggiore concavità della costa, di sole 125 miglia. Questa circostanza, cui è correlato il fatto che la superficie dell’area è nettamente inferiore a quella del semicerchio avente come diametro la linea di chiusura, fa sì che l’insenatura, essendo priva della caratteristica di marcata indentazione nella terraferma, non possa definirsi una «baia» né dal punto di vista geografico né da quello giuridico. In relazione a queste premesse è convincimento quasi unanime, in campo internazionale, che la chiusura del golfo della Sirte, non sia legittima (l’iniziativa libica risulta essere stata riconosciuta esclusivamente da Siria e Sudan). Molti paesi europei (Belgio, Francia, Germania, Grecia, Malta e UK) hanno espresso negli anni Settanta del secolo scorso riserve in merito. Una nota di protesta è stata formulata nel 1985 dall’ambasciata olandese a Tripoli per conto della Comunità europea affermando l’illegalità della «proclamazione, contrariamente al vigente diritto consuetudinario internazionale, della sovranità libica sulla totalità delle acque del golfo della Sirte». Nel 2005 la pretesa libica — a seguito del provvedimento di creazione della Zona di protezione della pesca (v. Pesca (Mediterraneo) — è stata nuovamente contestata dall’Unione europea, con la nota verbale n. 08/2005, durante la presidenza britannica, riguardo ai suoi limiti esterni spostati verso il largo per effetto di linee di base non conformi al diritto internazionale. 26
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3. Golfo di Taranto È qualificato come «baia storica» dal D.P.R. 26 aprile 1977, n. 816 sulle linee di base del mare territoriale italiano che ne ha previsto la chiusura con una linea (della lunghezza di 60 miglia) tracciata tra S. Maria di Leuca e Punta Alice. L’insenatura è una baia in senso giuridico in quanto ha una superficie pari a quella del semicerchio che ha come diametro la linea di chiusura e presenta, perciò, caratteristiche di marcata indentazione nella terraferma. Questa circostanza, cui è collegata quella particolare situazione di sottoposizione al dominio terrestre che è presupposto dell’esercizio di diritti esclusivi di sovranità, trova anche conferma nel fatto che le fauces terrarum del golfo (penisola salentina e Calabria) sono di notevole lunghezza e modesta larghezza.
Carta nautica dell’Istituto Idrografico della Marina riportante la linea di chiusura del golfo di Taranto (Fonte: IIM).
Gli elementi su cui si basa la storicità non sono stati indicati dal nostro paese né al momento della emanazione del suindicato provvedimento sulle linee di base né in altre precedenti o successive occasioni. Il caso del golfo di Taranto è inoltre ignorato dalla letteratura sulle baie storiche a eccezione del già citato de Cussy (Phases et Causes Célèbres du Droit Maritime des Nations, del 1856) che lo enuncia assieme a quelle della baia canadese di Hudson, al golfo del Messico e ai golfi italiani di Napoli e Salerno. Per questo motivo sono state avanzate riserve nei confronti della iniziativa italiana, sia da parte della dottrina internazionalistica sia da parte degli Stati Uniti che, nell’ambito del «Freedom of Navigation Programme» (FON), il quale prevede l’opposizione alle pretese marittime giudicate non conformi al Diritto interna-
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zionale, hanno manifestato le loro perplessità con una prima nota diplomatica di protesta, nel 1984, e con successive iniziative di contestazione. Il caso è stato discusso in riunioni bilaterali, nel 1984, nel corso delle quali gli Stati Uniti hanno esposto il convincimento che al golfo non possa essere legittimamente attribuito lo status di baia storica, in mancanza dei requisiti necessari. La posizione ufficiale degli Stati Uniti è che: «a coastal state claiming such status for a body of water must over a long period of time have openly and continually claimed to exercise sovereignty over the body of water, and its claims must have resulted in an absence of protest of foreign States, amounting to acquiescence on their part». Il 24 febbraio 1982, prima della protesta statunitense, si era verificato il caso del transito nel golfo di Taranto, in immersione, di un sommergibile (v.) di nazionalità sconosciuta (identificato come un sommergibile sovietico classe «Victor») in contrasto con il regime del divieto di transito nelle acque interne (v.): l’intrusione — che l’ex Unione Sovietica non ha comunque mai rivendicato come una propria iniziativa — può essere considerata, per le modalità con cui si è svolta, una forma di contestazione implicita della sovranità italiana sul golfo. Anche la Gran Bretagna (dichiarazione del 13 ottobre 1981 alla House of Lords) ha manifestato riserve sostenendo che: «Italy claims gulf of Taranto as internal waters. This is not consistent with our interpretation of the 1958 Geneva Convention on the territorial sea». Di fronte a queste contestazioni, da parte di alcuni studiosi è stata avanzata la tesi che il fondamento della decisione italiana vada ricercato in quella normativa (Ginevra I,4,1; UNCLOS 7, 1 ) che consente a uno Stato di chiudere una baia la cui apertura ecceda le 24 mn, quando questa sia inserita in una costa che contenga «profonde indentazioni» e sia «frastagliata». Secondo questa teoria — che evidentemente ritiene indifendibile la rivendicazione di storicità per l’impossibilità di dimostrare l’esistenza di adeguati titoli — la linea di chiusura del golfo di Taranto sarebbe, in sostanza, «un segmento di una linea di base retta tracciata lungo l’intera costa jonica». In realtà la storicità del golfo di Taranto è molto meno evanescente di quanto si ritenga. La sua chiusura rappresenta, infatti, il punto di arrivo di un processo lunghissimo di appropriazione dell’area, durato più di duemila anni, nel corso del quale, in diversi periodi della storia, vi è stata una coscienza e volontà di considerare il golfo di Taranto come area di esclusivo dominio. Il termine di riferimento giuridico cui fare ricorso è la nozione dell’immemorabile, concetto che non richiede il possesso continuo animus domini di un’area, ma fa invece riferimento a una «situazione di fatto costituita da tempo immemorabile le cui origini si perdono nel passato e contro cui non è dato provare alcuna situazione diversa o contraddittoria». Da questo punto di vista il titolo storico principale del nostro paese sta dunque nell’uso esclusivo della zona, da tempo immemorabile, da parte delle popolazioni locali per i propri interessi di sicurezza e di pesca che è attestato in varie epoche da fatti e circostanze di varia natura i cui punti salienti sono: — il trattato tra Roma e Taranto del IV sec. a.C., al tempo della Magna Grecia, che interdiceva ai Romani l’accesso al golfo vietandone la navigazione oltre Capo Lacinio (l’odierno Capo Colonne). Il trattato è citato da Appiano (Storia di Roma, De Rebus Samn., VII), storico del II sec. a.C. Da notare che l’azione dei Romani, nel 282 a.C., intesa a infrangere il divieto di navigazione nel golfo (unica iniziativa di protesta di un «paese straniero» nei confronti del possesso sulla zona da parte dello Stato del territorio di cui si ha notizia prima della recente contestazione degli Stati Uniti di cui s’è detto) fu contrastata con la forza dai Tarentini originando un lungo periodo di ostilità tra i due popoli; — il controllo esclusivo dell’area da parte delle genti della Magna Grecia (oltre alla colonia di Taranto, si affacciavano sul golfo quelle di Metaponto, Turi ed Eraclea, la cui fondazione risale all’VIII sec. a.C.) che è espressamente riconoDemarcazione del golfo di Taranto tra Romani e Tarantini sciuto da Strabone (Geografia, VI, 1, 2), storico del secondo «antichi trattati» (Fonte: Nistri-Lazzarini). I sec. a.C.; 28
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— i diritti esclusivi di pesca reclamati dai Tarentini sulla zona più pescosa del golfo (il banco di Amendolara prospiciente Roseto Capo Spulico) sulla base di provvedimenti emanati dai viceré spagnoli del Regno di Napoli in varie epoche, a partire dal XV sec. (il primo documento che ne regolamenta l’esercizio è il cosiddetto «Libro Rosso» di Taranto del 1463); — il divieto di navigazione all’interno del golfo, a nord della congiungente Capo Trionto-Torre Madonna dell’Alto, stabilito per esigenze militari, durante la Prima guerra mondiale, con Decreto Luogotenenziale 24 agosto 1915, n. 1312. Vedi anche: Riserve e parchi marini; Santuario per la protezione dei cetacei. BANCO DI MEDINA Vedi: Piattaforma continentale (Mediterraneo). BANDIERA DI CONVENIENZA Vedi: Nazionalità della nave. BANDIERA DI CORTESIA Vedi: Cerimoniale navale; Immunità di giurisdizione (immunità sovrana).
Legge 1819 del Regno delle Due Sicilie sulla pesca nei mari di Taranto.
BANDIERA NAVALE 1. Funzione e tipologia della bandiera navale «Le navi battono la bandiera di un solo Stato» (UNCLOS 92). Questo elementare principio è alla base della teoria della nazionalità della nave (v.) e dei connessi obblighi e responsabilità che incombono allo Stato di registrazione. Da esso discende che una nave senza bandiera o con bandiera di convenienza non può legittimamente navigare essendo priva della protezione di un qualsiasi Stato ed è perciò passibile di misure di enforcement navale (v. Polizia dell’alto mare). Corollario di tale principio — il quale vale a garantire l’ordine e la sicurezza dei mari su cui si fonda la libertà di navigazione (v.) — è l’assunto che «Ogni Stato, sia costiero, sia privo di litorale, ha diritto di far navigare nell’alto mare, navi battenti la sua bandiera» (UNCLOS 90). Il diritto per gli Stati privi di litorale di poter registrare sul suo territorio navi mercantili con una propria bandiera è stato esplicitamente affermato per la prima volta dalla Dichiarazione di Barcellona del 20 aprile 1921 (LN, TS, ). L’UNCLOS (art. 125) ha ulteriormente disciplinato la materia prevedendo che tali Stati abbiano il diritto di accedere al mare per usufruire della libertà dell’alto mare (v.). La Svizzera è, per esempio, uno degli Stati che, pur sprovvisti di accesso al mare, dispongono di una propria Marina mercantile. La bandiera navale coincide di solito con la bandiera nazionale. Molti Stati hanno tuttavia istituito differenti bandiere navali a seconda che siano destinate a identificare proprie navi da guerra (v.), navi in servizio governativo non commerciale (v.) o navi mercantili. La Gran Bretagna adotta per esempio la white ensign per le unità della Royal Navy, la blue ensign per quelle di Stato, e la red ensign per il naviglio mercantile. Questo è anche, come si dirà più avanti, il caso dell’Italia. 2. Bandiera navale nel Diritto bellico Un particolare tipo di bandiera navale è la Bandiera di combattimento di cui sono dotate le navi da guerra. Essa è di dimensioni superiori a quella normalmente adoperata e assolve la funzione di identificare la nave come un legittimo belligerante della guerra marittima. Secondo i principi del Diritto bellico marittimo (v.) le navi da guerra possono anche adottare lo stratagemma di camuffare il loro aspetto esteriore, ma hanno l’obbligo, al momento in cui iniziano un attacco, di inalberare la Bandiera di combattimento. Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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La bandiera navale è l’elemento principale da cui scaturisce, nella guerra marittima, il carattere nemico di una nave mercantile che è perciò passibile di cattura e confisca o, a certe condizioni, di affondamento se coinvolta in atti ostili. Il «principio della bandiera» costituisce un criterio basato sull’evidenza che tiene conto della specificità delle operazioni belliche navali. Ciò non toglie che esso può essere derogato caso per caso, nel senso che una nave da guerra può decidere di verificare ulteriormente la nazionalità di un mercantile prendendo visione della documentazione di bordo al fine di acquisire ulteriori prove. Peraltro la verifica della nazionalità può essere anche effettuata nei confronti di un mercantile che inalbera una bandiera diversa da quella nemica: il carattere nemico della nave può, infatti, essere la risultante di altri criteri, quali per esempio, quello della nazionalità dell’armatore. 3. Regolamentazione ordinamento italiano L’ordinamento giuridico italiano prevede tre tipi di bandiera navale (v. immagine a pag. 9): una per la Marina Militare, una per le navi in servizio governativo non commerciale (v.) e una per la Marina mercantile. L’articolo 98 del COM, (Codice dell’Ordinamento Militare (D.LGS. 66-2010), al riguardo così dispone: «1. La bandiera navale istituita per la Marina Militare e per la Marina mercantile è conforme ai modelli indicati, rispettivamente, con decreto del ministro della Difesa e con quello delle Infrastrutture e dei trasporti. 2. A ogni nave della Marina Militare, escluse le unità ausiliarie e quelle di uso locale, all’infuori della dotazione normale di bandiere, sono consegnate una bandiera nazionale, che prende il nome di Bandiera di combattimento, e uno stendardo. 3. La Bandiera di combattimento deve alzarsi sempre in combattimento e, se le condizioni di tempo e di navigazione lo consiglino, allorquando è presente a bordo il Presidente della Repubblica e nelle grandi solennità; lo stendardo, in combattimento, è posto su apposito sostegno nell’interno della torre, del ponte o della camera di comando». Il su riportato comma 3 dell’art. 98 del COM riproduce l’art. 138 della Legge di Guerra (R.D. 14151938) nella parte in cui prescrive: «La nave da guerra non può entrare in combattimento senza bandiera o con bandiera diversa da quella nazionale». Le bandiera navale militare è anche assegnata, secondo l’articolo 296, 2 TUOM, Testo unico dell’Ordinamento Militare (D.P.R. 90-2010), ai mezzi navali in dotazione all’Arma dei Carabinieri, al Corpo della guardia di finanza e al Corpo delle capitanerie di porto-Guardia costiera iscritte nei Ruoli speciali del naviglio militare dello stato tenuti dal ministero della Difesa. Il citato TUOM così regolamenta all’articolo 289 l’impiego, da parte del naviglio iscritto nel Registro delle navi in servizio governativo non commerciale (v.), di un’apposita bandiera navale: «inalberano la bandiera nazionale costituita dal tricolore italiano, caricato al centro della fascia bianca dell’emblema dello Stato, di cui al decreto legislativo 5 maggio 1948, n. 535...». Quanto alla bandiera della Marina mercantile l’articolo 155 del Codice della navigazione prescrive che le «navi abilitate alla navigazione a norma dell’articolo 149 inalberano la bandiera italiana». Le caratteristiche della bandiera navale militare e di quella mercantile furono stabilite per la prima volta, dopo la nascita della Repubblica, con il seguente testo del decreto legislativo del capo provvisorio dello Stato n. 1305 del 9 novembre 1947: «È istituita per la Marina Militare e per la Marina mercantile una bandiera navale conforme ai modelli risultanti dalla tavola annessa al presente decreto, firmata dai ministri per la Difesa e per la Marina mercantile. Per la Marina Militare, la bandiera navale è costituita dal Tricolore italiano, caricato, al centro della banda bianca, dall’emblema araldico della Marina Militare, rappresentante in quattro parti gli stemmi di alcune repubbliche marinare (Venezia, Genova, Pisa, Amalfi), e sormontata da una corona turrita e rostrata. Per la Marina mercantile, la bandiera navale è costituita dal Tricolore italiano, caricato, al centro della banda bianca, dallo stemma araldico indicato nel precedente comma, senza corona turrita e rostrata, e con il leone di san Marco con il libro, anziché con spada...». BANDIERA OMBRA Vedi: Nazionalità della nave. BANDIERA (Saluto alla) Vedi: Cerimoniale marittimo. 30
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BIODIVERSITA’ MARINA Vedi: Alto mare; Protezione della biodiversità marina. BLOCCO NAVALE 1. Regime Diritto conflitti armati Il blocco navale (naval blockade) è una classica misura contemplata dal Diritto bellico marittimo (v.) volta a impedire l’entrata o l’uscita di qualsiasi nave dai porti di un belligerante. La prassi del blocco è disciplinata — se si esclude la Dichiarazione di Parigi del 1856 sui Principi della guerra marittima — da norme di natura consuetudinaria, non essendo mai entrata in vigore la Dichiarazione di Londra del 1909 sul Diritto della guerra marittima che lo regolamentava. I principi di tale Dichiarazione sono stati recepiti nell’ordinamento italiano dalla Legge di Guerra (R.D. 1415-1938). Requisiti del blocco sono, in termini generali, l’effettività e l’imparzialità. Esso deve inoltre essere formalmente dichiarato e notificato agli Stati terzi. La sua disciplina, come risultante dalle norme suindicate e dalla successiva regolamentazione delle Convenzioni di Ginevra sul Diritto umanitario, prevede in estrema sintesi: 1) la definizione in termini geografici della zona bloccata da notificare ai neutrali; 2) il mantenimento di una Forza aeronavale, di cui possono far parte anche sommergibili, dedicata stabilmente in mare all’applicazione del blocco in modo imparziale nei confronti del naviglio di qualsiasi bandiera; 3) la cattura dei mercantili che abbiano violato il blocco e il deferimento al giudizio amministrativo di un «tribunale delle prede»; 4) l’attacco ai mercantili che tentino di resistere alla cattura; 5) l’esclusione dal blocco dei traffici relativi ai beni di prima necessità come viveri e medicinali e altri aiuti umanitari, secondo l’art. 54, n. 1 del I Protocollo di Ginevra del 1977 addizionale alle Convenzioni di Diritto umanitario del 1949. Dall’applicazione del principio di effettività deriva che sono illegittimi i così detti «blocchi fittizi» messi in atto in alto mare, a grande distanza dalla costa, con Forze navali non idonee a garantirne la reale esecuzione. Si discute, a questo riguardo, sulla liceità dei blocchi proclamati dalla Gran Bretagna nel 1915 e nel 1939 a grande distanza della Germania. 2. Casi recenti A ragione delle sue caratteristiche lo strumento del blocco navale, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, era ritenuto non più adeguato alla realtà dei conflitti in mare, in relazione all’evoluzione degli armamenti che rendono vulnerabile una Forza navale dislocata a distanza ravvicinata dalla costa. In anni recenti la prassi del blocco è stata tuttavia ripresa. Nel 2006 Israele, all’indomani dell’attacco mosso dalle milizie di Hezbollah operanti in Libano, aveva decretato il blocco delle acque territoriali del Libano (questo blocco era terminato dopo qualche giorno con il passaggio alla Maritime Task Force a guida italiana del compito di controllare le acque territoriali libanesi, sino alla costituzione della UNIFIL Task Force). Un ulteriore blocco navale è stato attuato da Israele nel 2011 avanti alle coste di Gaza nell’ambito del conflitto con le milizie palestinesi di Hamas. In questa occasione è accaduto l’episodio della nave Mavi Marmar di bandiera turca trasportante aiuti alla popolazione palestinese che aveva tentato di forzare il blocco a circa 60 mn dalla costa ed era stata perciò attaccata dalla Marina israeliana. Una commissione d’indagine UN ha affermato nel 2011 la legalità del blocco pur ritenendolo sproporzionato nelle modalità. Nel 2015 una coalizione a guida saudita ha imposto il blocco delle coste yemenite avanti al porto di Aden. 3. Casi impropri Non va confuso con il blocco il contrabbando di guerra (v.). Entrambi sono misure di interferenza con la navigazione neutrale e, ovviamente, con quella nemica. Il primo è volto a impedire tutte le comunicazioni marittime, in ingresso e in uscita dalle coste nemiche nel corso di un conflitto armato e, di regola, dovrebbe svolgersi in prossimità delle acque territoriali nemiche. Il secondo è invece volto a impedire in acque internazionali i rifornimenti al nemico, trasportati da navi neutrali, di determinate categorie di beni destinati allo sforzo bellico. Differente è anche l’embargo navale (v.), sanzione decisa dalle Nazioni unite, sulla base del capo VII della Carta, nei confronti di paesi che abbiano commesso gravi violazioni della pace e della legalità in-
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ternazionale. Le operazioni di embargo non comportano il blocco navale delle coste del paese nei cui confronti sono attuate. Esse legittimano invece l’esercizio di misure coercitive da parte delle navi da guerra dei paesi partecipanti all’operazione nei confronti dei mercantili di qualsiasi bandiera coinvolto in traffici marittimi commerciali con lo Stato sottoposto a embargo. Vanno egualmente distinti dal blocco navale: — i casi di quarantena marittima (maritime quarantine) simili a quella proclamata il 23 ottobre 1962 dagli Stati Uniti per impedire il trasporto a Cuba di missili strategici forniti dall’ex Unione Sovietica mediante intercettazione, fermo, visita, ispezione e dirottamento delle navi di qualsiasi bandiera dirette a Cuba per accertare che non trasportassero carichi vietati: la legittimazione di questa misura venne individuata nel principio della legittima difesa preventiva, anche se la Dichiarazione presidenziale del 23 ottobre 1962 esplicitamente richiamava anche l’applicazione dell’accordo di difesa collettiva tra le repubbliche del centroamerica; — le operazioni volte a contenere il traffico via mare di migranti in prossimità delle coste del paese di origine e in base all’autorizzazione fornita dallo stesso. Un caso è quello del controllo degli espatri clandestini dall’Albania messo in atto dall’Italia, nelle acque territoriali albanesi e nelle acque internazionali del Canale d’Otranto, su richiesta di Tirana sulla base dell’accordo di Roma del 25 marzo 1997 mediante scambio di lettere relativo alla «collaborazione per la prevenzione degli atti illeciti che ledono l’ordine giuridico nei due paesi e l’immediato aiuto umanitario quando è messa a rischio la vita di coloro che tentano di lasciare l’Albania»: immediatamente dopo l’entrata in vigore dell’accordo era accaduto il 27 marzo 1997, in alto mare, il tragico incidente della collisione tra la nostra corvetta Sibilla e la motovedetta albanese Kater I Rades in cui erano periti 108 cittadini albanesi (v. Traffico e trasporto illegale di migranti in mare). BOCCHE DI BONIFACIO Vedi: Area marina specialmente protetta (PSSA); Acque territoriali (Mediterraneo); Pesca (Mediterraneo); Riserve e parchi marini; Stretti e canali internazionali. BOSNIA-ERZEGOVINA La Bosnia-Erzegovina, essendo provvista di una fascia costiera (sia pur della limitata estensione di circa 10 km) è a tutti gli effetti uno Stato costiero del mare Adriatico (v.). Gli Accordi di pace di Dayton del 21 novembre 1995, nel definire l’assetto della regione balcanica al termine del conflitto per la spartizione dell’ex Iugoslavia, hanno, infatti, previsto l’assegnazione di una zona di mare, in prossimità della città bosniaca di Neum. Il regime delle acque di tale zona è quello delle acque territoriali (v.): esse sono tuttavia inglobate interamente dentro le acque interne (v.) della Croazia nel canale di Mali Stan sì da costituire una vera e propria enclave. Con Accordo in data 30 luglio 1999, Croazia e Bosnia-Herzegovina hanno stabilito che il relativo confine marittimo sia costituito dalla mediana tra la penisola bosniaca di Klek e la penisola croata di Peljesac. Gli Accordi di Dayton, tenendo conto che nella ristretta fascia costiera della Bosnia-Erzegovina non vi sono porti veri e propri e che il traffico via mare con Neum deve avvenire attraverso le acque interne croate, hanno garantito l’accesso al porto croato di Ploce di merci e passeggeri provenienti o diretti in quello Stato: Croazia e Bosnia-Erzegovina hanno assunto i rispettivi impegni con accordo in data 8 settembre 1998 che, tra l’altro, istituisce in Ploce una «free and foreign trade zone». La soluzione prevista può considerarsi conforme al principio secondo cui, al fine di facilitare il traffico in transito relativo agli «Stati senza litorale» (come è in realtà la Bosnia-Erzegovina, viste le caratteristiche della fascia costiera, priva di porti, che le è stata assegnata), possono essere stabilite delle zone franche nei porti degli Stati vicini (UNCLOS 128). BULGARIA Vedi: Cavi e condotte (Mediterraneo); Mar Nero; ZEE (Mediterraneo). 32
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CANADA Vedi:
Baie storiche; Mare Artico.
CANALE DI CORINTO Vedi: Stretti e canali internazionali. CANALE DI CORSICA Vedi: Stretti e canali internazionali. CANALE DI KIEL Vedi: Stretti e canali internazionali. CANALE DI OTRANTO Vedi: Mare Adriatico. CANALE DI PANAMA Vedi: Stretti e canali internazionali. CANALE DI SUEZ Vedi: Stretti e canali internazionali. CAVI E CONDOTTE SOTTOMARINE Il diritto di posare cavi elettrici, telegrafici o telefonici e condotte sottomarine sul fondo dell’alto mare (v.) al di là della piattaforma continentale (v.) è riconosciuto a tutti gli Stati (Ginevra II, 2 e 26; UNCLOS 87, 1, lettera c. 112, 1) con l’obbligo di tenere nel dovuto riguardo i cavi e le condotte già installati da altri Stati (UNCLOS 112, 2). Tale diritto sussiste anche sul fondo della zona economica esclusiva (UNCLOS 58, 1). Per quanto riguarda la piattaforma continentale (v.) lo Stato costiero, pur non potendo impedire la posa di cavi e condotte sottomarine da parte di altri Stati, ha il diritto di (UNCLOS 79, 1, 2 e 3) adottare ragionevoli misure per salvaguardare l’esplorazione e la tutela delle proprie risorse naturali, approvare il tracciato e stabilire le condizioni per l’ingresso nelle proprie acque territoriali. Il danneggiamento doloso o derivante da negligenza colposa di cavi e condotte sottomarine è considerato punibile dalla Convenzione di Parigi del 14 marzo 1884 sulla protezione dei cavi telegrafici che riserva allo stato di bandiera dell’unità incriminata il diritto di applicare la sanzione. Ogni Stato deve dunque emanare proprie norme per punire la commissione di tali illeciti da parte di mercantili di bandiera (UNCLOS 113). Le navi da guerra (v.) degli Stati firmatari di tale convenzione (tra i quali figurano Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Italia) sono autorizzate a fermare e verificare la nazionalità delle navi mercantili sospette di aver commesso tale illecito esercitando poteri analoghi a quelli del diritto di visita (v.). In caso di accertata violazione, l’unico provvedimento adottabile è un rapporto allo Stato di bandiera. La convenzione di Parigi del 1884 è stata ratificata con R.D. 1° gennaio 1886, n. 3630. La materia è stata regolamentata nell’ordinamento italiano con la legge 19 dicembre 1956, n. 1447 il cui testo è stato inserito negli articoli 219-230 del Testo Unico delle Poste (D.P.R. 29 marzo 1973, n. 156). La vigilanza sull’integrità delle condotte sottomarine attraverso cui passano i rifornimenti energetici di un paese ha assunto grande rilievo nel quadro del contrasto alle minacce asimmetriche in mare. Essa si colloca nel quadro della tutela della maritime security (v. sicurezza marittima) demandata alle Marine negli spazi extraterritoriali. La funzione di protezione della sicurezza energetica (v. Piattaforma continentale) italiana è affidata alla Marina Militare dal nostro ordinamento giuridico nell’ambito delle competenze a essa attribuite dall’art. 111 del Codice dell’Ordinamento Militare in materia di «Vigilanza a tutela degli interessi nazionali e delle vie di comunicazione marittime al di là del limite esterno del mare territoriale».
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CAVI E CONDOTTE SOTTOMARINE (MEDITERRANEO) Il principale gasdotto sottomarino del Mediterraneo è quello italo-algerino detto TransMed che, partendo dall’oasi del Sahara algerino di Hassi R’ Mel, giunge sino in Italia, attraverso la Tunisia, con una condotta sottomarina di 156 km da Capo Bon a Mazara del Vallo (il tracciato del gasdotto, relativamente al tratto nelle acque territoriali e nella piattaforma continentale tunisina, è stato determinato con accordo tra l’ENI e la Tunisia del 25 ottobre 1977). Un ulteriore tratto di 15 km, posato nello stretto di Messina, collega il gasdotto alla rete metanifera nazionale. A questo gasdotto si è aggiunto nel 2005 quello denominato GreenStream che collega il giacimento di gas di Mellitah (ubicato sulla piattaforma continentale libica) con Gela attraverso una pipeline di 520 km che si snoda sulla piattaforma continentale (v.) di Libia e Malta prima di raggiungere la piattaforma continentale italiana. Il Trans Adriatic Pipeline (TAP) trasporterà invece in Italia, attraversando il Canale d’Otranto, l’Albania e la Grecia, il gas del giacimento di Shah Denizz in Azerbaijan. A questo fine esso si collegherà con il gasdotto Trans Anatolian Pipeline (TANAP) che si snoda su territorio turco per circa 1.000 km dal confine greco-turco sino a Baku sul mar Caspio (v.) passando per la Gasdotti del Mediterraneo centro-occidentale (Fonte: SVG). Georgia. In Turchia arriva anche il gas trasportato dal TurkStream, proveniente dalla Russia attraverso il Mar Nero (v.). Per il futuro è anche prevista la costruzione dell’ulteriore condotta EastMed che porterà in Europa, passando per la Grecia, via Creta e Cipro, il gas estratto nel giacimento israeliano-cipriota Afrodite del Mar di Levante (v.). Sembra invece sospeso il progetto di realizzare una pipeline di 285 km tra l’Algeria e la Sardegna (il Galsi), che passando per Olbia, dovrebbe poi giungere sino a Piombino. Nel mar Adriatico (v.) è in esercizio la condotta di 45 km che trasporta a Pola, in Croazia, il gas estratto dalla piattaforma Ivana K ubicata sull’omonimo giacimento antistante l’Istria. Alla rete dei gasdotti sottomarini si aggiungerà quella degli elettrodotti, tramite la posa di cavi sottomarini tra la Sardegna e la Corsica e tra la Sardegna e l’Italia continentale. Nel 2015 è stata realizzata, con fondi UE, l’interconnessione elettrica tra l’Italia e Malta tramite un cavo sottomarino di 96 km che si inabissa a Marina di Ragusa.
Potenziale tracciato del gasdotto EastMed. In alto il percorso del gasdotto TANAP-TAP (Fonte: Statfor 2018).
Cavi elettrici e telecomunicazioni Italia-Malta (Fonte: Malta Gov.).
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CERIMONIALE MARITTIMO Il saluto tra navi si effettua, secondo una consolidata prassi, ammainando la rispettiva bandiera navale (v.) nazionale nel momento in cui esse s’incrociano. Il saluto tra navi da guerra (v.) di diversa bandiera è basato, oltre che su regole di etichetta navale, su criteri di reciprocità: esso è, infatti, espressione del più generale principio di eguaglianza degli Stati che non ammette deroghe nemmeno in mare. Nel caso una nave da guerra incroci un mercantile nazionale o straniero quest’ultimo è tenuto a salutare per primo la nave da guerra ammainando la propria bandiera. Il mancato rispetto di questa prassi può costituire un presupposto per l’adozione da parte della nave da guerra della procedura di verifica della nazionalità, vale a dire dell’inchiesta di bandiera (v.). In passato, in alcuni periodi dei secoli XV, XVI e XVII, la pretesa da parte delle navi armate di saluto alla propria bandiera (che i mercantili effettuavano ammainando la vela maestra), oltre a essere un mezzo per scoprire navi dedite alla pirateria (v.), assunse il carattere di un omaggio alla potenza di alcuni Stati come la Gran Bretagna e la Spagna. La Gran Bretagna impose inoltre tale saluto, soprattutto durante il Regno di Giacomo I ai primi del Seicento, come riconoscimento della propria sovranità sui «mari britannici» adiacenti le coste (v. acque territoriali). In teoria, rientra nel cerimoniale navale anche la prassi di issare la bandiera dello Stato del porto in occasione di soste all’estero. La consuetudine è senz’altro in uso in occasione di scali commerciali di navi mercantili. Forti riserve sono invece state espresse da vari paesi sulla sua applicazione nei confronti di navi da guerra con riguardo all’immunità sovrana (v.) di cui esse godono che comporta l’esenzione da qualsiasi forma di giurisdizione dello Stato costiero, inclusa quella relativa a tale prescrizione. Alcuni Stati (come Croazia, Albania e Romania) hanno ufficialmente avanzato una simile pretesa includendola nella propria regolamentazione sulle visite di navi straniere. La normativa militare italiana sugli onori prevede che la bandiera del paese di sosta venga issata a riva, a titolo di cortesia, sulla nave da guerra nel momento dell’arrivo in porto o in occasione di festività nazionali locali. La formula della bandiera di cortesia — adottata da vari Stati caso per caso — consente di considerare come volontaria e unilaterale un’azione che altrimenti potrebbe essere considerata come riconoscimento di una pretesa illegittima. CHOKE POINTS Vedi: Geopolitica del mare; Stretti e Canali internazionali. CINA Vedi:
CIPRO Vedi:
Isole; Libertà dei mari; Prevenzione attività pericolose in mare.
Cavi e condotte sottomarine; Zona contigua; ZEE (Mediterraneo).
CIRCOSTANZE SPECIALI Vedi: Delimitazione; Piattaforma continentale. CONSIGLIO GENERALE DELLE PESCHERIE PER IL MEDITERRANEO Vedi: Pesca (Mediterraneo). CONTRABBANDO DOGANALE Vedi: Diritto d’inseguimento; Nave in servizio governativo; Polizia marittima; Zona contigua.
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CONTRABBANDO DI ARMI (Arms Smuggling) Vedi: Sicurezza marittima. CONTRABBANDO DI GUERRA Il contrabbando di guerra (war contraband) è una misura del Diritto bellico marittimo (v.) prevista dalla Dichiarazione di Londra del 1909, testo di natura consuetudinaria non avente natura convenzionale, ma purtuttavia recepito dall’Italia nella Legge di Guerra (R.D. 1415-1938). Essa è volta a impedire che pervengano, al belligerante, rifornimenti di beni essenziali per lo sforzo bellico. Tali beni appartengono a due categorie e cioè quelli — come armi, navi da guerra e munizioni — destinati per natura a usi militari esclusivi, costituenti «contrabbando assoluto» e quelli suscettibili di uso duale, pacifico o bellico costituenti «contrabbando relativo». La disciplina del contrabbando di guerra prevede: — l’emanazione delle liste di contrabbando, da notificare ai paesi neutrali, indicanti i beni il cui trasporto al «nemico» è vietato da parte dei mercantili neutrali (v. Neutralità marittima); — l’esercizio del diritto di visita (v.) in alto mare (v.) nei confronti dei mercantili neutrali per controllare il carico trasportato facendo uso della forza in caso di resistenza, con possibilità di dirottamento in porto qualora la visita non possa essere eseguita in mare per avverse condimeteo o inaccessibilità del carico; — la sottoposizione al giudizio del tribunale delle prede (organo amministrativo che ogni paese belligerante è tenuto a istituire) dei mercantili (siano essi neutrali o nemici) sospetti di violazione al regime del contrabbando, perché sia decretata la confisca del carico e della nave. L’applicazione del regime del contrabbando di guerra si è avuta durante il conflitto tra l’Iran e l’Iraq (1980-88). Il 3 settembre 1987, si verificò l’attacco del mercantile italiano Jolly Rubino, al largo dell’isola iraniana di All Farisijah, da parte di una imbarcazione di irregolari iraniani (pasdaran). Il fatto indusse il governo italiano a inviare in zona una Forza navale della Marina Militare con il compito di tutelare la libera navigazione in alto mare e nello stretto di Hormuz (v.) dei mercantili italiani. A questo fine fu adottata la protezione in convoglio (v.). Il contrabbando di guerra si fonda su presupposti giuridici diversi da quelli dell’embargo navale (v.) adottabile a seguito di specifiche risoluzioni autorizzative emanate dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite; la prassi dell’embargo navale ha tuttavia mutuato dal contrabbando di guerra, in via analogica, l’applicazione di specifiche procedure. Esso è inoltre intrinsecamente diverso rispetto alla misura del blocco navale (v.). CONVENZIONE DI MONTREUX DEL 1936 Vedi: Demilitarizzazione (Mediterraneo); Mar Nero; Stretti Turchi. CONVENZIONE DI COSTANTINOPOLI DEL 1888 Vedi: Canale di Suez; Demilitarizzazione (Mediterraneo); Mar Rosso. CONVOGLIO Secondo il regime del contrabbando di guerra (v.) una nave da guerra (v.) ha il diritto, nel corso delle ostilità, di fermare e sottoporre a visita in mare un mercantile neutrale per controllare se trasporti beni destinati a un belligerante suscettibili di essere impiegati nel corso di un conflitto. In deroga a questo regime la Dichiarazione di Londra del 1909 contenente norme di carattere consuetudinario recepite dall’Italia nella Legge di Guerra (R.D. 1415-1938) prevede che le navi neutrali che viaggiano in convoglio scortate da navi da guerra della loro bandiera sono esenti da visita. Il comandante del convoglio, su richiesta della nave da guerra belligerante, ha tuttavia l’obbligo di fornire tutte le informazioni sulla natura e sul carico delle navi scortate che la visita consentirebbe di ottenere. Ciononostante, se il comandante della nave da guerra belligerante, continua a nutrire sospetti sul carico, il comandante del convoglio procede direttamente a un controllo il cui esito viene riportato in un verbale. Se i sospetti della nave da 36
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guerra belligerante si rivelano fondati dopo questo accertamento, i mercantili coinvolti sono privati della protezione del convoglio e possono quindi essere catturate. Secondo la prassi internazionale formatasi nel corso del conflitto Iran-Iraq del 1991, viene ritenuta ammissibile anche la protezione accordata a mercantili neutrali da un convoglio multinazionale composto da navi da guerra non belligeranti. La soluzione di proteggere i mercantili dal rischio pirateria (v.) facendoli navigare in convoglio sotto la scorta di navi da guerra (anche di altra nazionalità) è stata adottata nel corso delle operazioni condotte al largo del Corno d’Africa — in particolare nel corridoio di traffico istituito nel Golfo di Aden — sulla base delle specifiche risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite. Vedi anche: Navicert; Neutralità marittima. CORNO D’AFRICA Vedi: Geopolitica del mare; Pirateria; Somalia; CORSA (Guerra di) Vedi: Diritto bellico marittimo; Pirateria. CRIMEA Vedi:
CROAZIA Vedi:
Mare di Azov; Mar Nero.
Acque territoriali (Mediterraneo); Baia di Pirano; Bosnia-Erzegovina; Cavi e condotte sottomarine (Mediterraneo); Cerimoniale navale; Delimitazione; Demilitarizzazione (Mediterraneo); Mare Adriatico; Pesca (Mediterraneo); Piattaforma continentale (Mediterraneo); Protezione dell’ambiente marino (Mediterraneo); Ricerca e soccorso in mare; Successione tra Stati; Transito inoffensivo delle navi da guerra; ZEE (Mediterraneo).
DELIMITAZIONE 1. Principi generali La I Convenzione di Ginevra del 1958 (art. 12, 1) in materia di delimitazione delle acque territoriali (v.), tra Stati con coste opposte o adiacenti, prevedeva il principio base che, in mancanza di accordo, uno Stato potesse «to extend its territorial sea beyond the median line every point of which is equidistant from the nearest points on the baseline from which the breadth of the territorial seas of each of the two States is measured», salvo correzioni in caso di «special circumstances». Analoga era la norma relativa a zona contigua (v.) e piattaforma continentale (v.). Il valore giuridico obbligatorio del criterio dell’equidistanza nei confronti degli Stati che non erano parti della convenzione di Ginevra è stato negato dalla Corte internazionale di giustizia (v.) nella sentenza del 1969 relativa alla piattaforma continentale del Mare del Nord (controversia tra Germania, Olanda e Danimarca). In tale occasione, e in successive sentenze, la Corte ha sosteSupplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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nuto che la delimitazione deve farsi dalle parti interessate di comune accordo, secondo principi equitativi, prendendo in considerazione criteri pertinenti, primo fra tutti quello della proporzionalità tra lo sviluppo costiero di uno Stato (cosiddetta facciata marittima) e le zone di piattaforma attribuite allo stesso Stato. A questo risultato la Corte era pervenuta considerando che le aree del fondale non appartengono allo Stato costiero per il solo fatto di ricadere in prossimità del suo territorio, quanto piuttosto perché sono «a prolongation of its land territory under the sea». A parere della Corte l’applicazione del criterio dell’equidistanza può invece portare ad attribuire a uno Stato aree di piattaforma che sono il prolungamento naturale della terraferma di un altro Stato in contrasto con il principio per cui «la terra domina il mare» (land dominates the sea). Di tale indirizzo ha tenuto conto l’UNCLOS quando ha disciplinato la delimitazione degli spazi marini extraterritoriali agli articoli 74, 1 e 83, 1 — relativi rispettivamente alla ZEE e alla piattaforma continentale — stabilendo che «La delimitazione (…) tra Stati con coste opposte o adiacenti viene effettuata per accordo sulla base del diritto internazionale, come previsto all’articolo 38 dello Statuto della Corte internazionale di giustizia, al fine di raggiungere una soluzione equitativa». In questo modo al metodo «equidistanza/circostanze speciali» è stata sostituita la regola dell’«risultato equitativo». Come giustamente viene notato l’UNCLOS non indica la norma sostanziale che regola la materia delle delimitazioni non essendo stato possibile, durante la conferenza diplomatica di codificazione, raggiungere il consenso sulla definizione di ben precise regole di delimitazione. Varie decisioni della Corte internazionale di giustizia e del tribunale del Diritto del mare (v.) danno tuttavia concretezza alla metodologia delle delimitazioni. Nella sentenza del 1985 relativa al caso della piattaforma continentale Malta-Libia la Corte, non accogliendo le tesi espresse da Malta, aveva in particolare stabilito che «there was no reason to assign a role to geographical or geophysical factors when the distance between the two States was less than 400 miles (as in the instant case). It also considered that the equidistance method did not have to be used and was not the only appropriate delimitation technique». Tra le tante decisioni possono citarsi quelle del: 1984 tra Canada-Stati Uniti relativa al Golfo del Maine; 1993 tra Danimarca-Norvegia relativa alla Groenlandia e all’isola Jan Majen; 2001 tra Bahrain e Qatar; 2009 tra Romania-Ucraina; 2012 tra Colombia-Nicaragua, 2017 Ghana-Costa d’Avorio. A esse vanno aggiunte altre importanti sentenze arbitrali rese nel 1985 tra Guinea-Guinea Bissau, nel 1992 tra Canada-Francia relative alle isole di Saint Pierre e Miquelon e nel 1999 tra Yemen ed Eritrea. 2. Criteri delimitazione La metodologia indicata in tali sentenze si articola su tre passaggi (c.d. «three steps process» e cioè: 1) tracciamento preliminare di una linea di equidistanza geometrica tra le coste rilevanti degli Stati interessati; 2) rettifica successiva se esistono «circostanze rilevanti che esigano l’aggiustamento o lo spostamento di tale linea al fine di ottenere un risultato equitativo», quali la proporzionalità tra la lunghezza delle coste rilevanti da prendere a base per la delimitazione; 3) esecuzione di un test di proporzionalità mediante comparazione tra l’estensione delle aree marine da attribuire a ciascuna parte e la lunghezza delle rispettive coste rilevanti al fine di verificare il carattere equitativo del risultato raggiunto. Le circostanze rilevanti che possono essere considerate caso per caso come principi equitativi, in aggiunta a quella della proporzionalità, sono state individuate dalla dottrina, tenendo conto della giurisprudenza internazionale, in fattori quali: la configurazione generale della costa che possa, per esempio, penalizzare uno Stato caratterizzato da una conformazione costiera concava (come nel caso della Germania nella già citata controversia del Mare del Nord del 1969); la presenza di isole; la struttura geologica del fondale (per esempio presenza di giacimenti di idrocarburi) o la sua conformazione morfologica (per esempio canyon o montagne sottomarine); la disparità di lun38
Costruzione confine della piattaforma continentale Malta-Libia (Fonte: ICJ).
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ghezza tra le coste rilevanti, la loro direzione generale e la distanza tra di esse; l’esistenza di circostanze storiche, politiche ed economiche ovvero attinenti la navigazione. Un certo peso nella definizione di un confine può anche avere gli interessi di difesa e di sicurezza di uno Stato. Al riguardo, nella citata sentenza del 1985 tra Malta-Libia, la Corte ha precisato segue: «[Entrambe le Parti] si sono riferite a quando questo concetto legale [di piattaforma] è emerso per la prima volta nel Proclama Truman. Comunque nel presente caso nessuna delle due parti ha sollevato la questione se il diEffetto ridotto isole su linea di delimitazione (Fonte: Hellenic ritto attuale attribuisca allo Stato costiero particolari Naval Academy). competenze nel campo militare sulla sua piattaforma continentale, incluse quelle relative al collocamento di apparecchiature militari». Tale utilizzo militare della piattaforma continentale può ipotizzarsi qualora vengano collocate, anche in tempo di pace, mine dormienti, ordigni per la lotta antisommergibile, idrofoni. 3. Confini acque territoriali, zona contigua e zona archeologica Per ciò che concerne la delimitazione di acque territoriali (v.), zona contigua (v.) e zona archeologica (v.) i criteri adottati dall’UNCLOS sono diversi da quelli valevoli per ZEE e piattaforma continentale. In particolare l’UNCLOS ha: — confermato la regola secondo cui la delimitazione delle acque territoriali, in mancanza di accordo, è data dalla linea mediana «di cui ciascun punto equidistante dai punti più prossimi delle linee di base dalle quali si misura la larghezza del mare territoriale di ciascuno dei due Stati» (in questo caso, mediana è quindi sinonimo di equidistanza), fermo restando la possibilità di apportarvi le correzioni rese necessarie dall’esistenza di circostanze speciali o di titoli storici (UNCLOS 15); — eliminato ogni regolamentazione della delimitazione della zona contigua (v.) tra Stati con coste opposte, nel caso di distanza tra le linee di base dei due Stati inferiore alle 24 miglia, consentendo in tal modo la sovrapposizione delle rispettive zone contigue (UNCLOS 33, 2). Secondo un’autorevole interpretazione, tra gli Stati parte della I convenzione di Ginevra del 1958 sarebbe tuttavia ancora in vigore il principio ivi previsto all’art. 24, n. 3 secondo cui nessuno Stato, a meno di diverso accordo, può estendere la sua zona contigua al di là della mediana. Questo approccio è stato seguito dall’Italia nella Legge 23 ottobre 2009, n. 157 di ratifica della convenzione UNESCO sul patrimonio culturale sommerso (v.) stabilendo all’art. 3 che quando la zona archeologica «... si sovrappone con un’analoga zona di un altro Stato e non è ancora intervenuto un accordo di delimitazione, le competenze esercitate dall’Italia non si estendono oltre la linea mediana di cui all’articolo 1, comma 3, della legge 8 febbraio 2006, n. 61 [relativa alla ZPE]». 4. Confini ZEE e piattaforma continentale Ci si chiede se i principi e i metodi per la delimitazione della piattaforma continentale siano gli stessi adottabili per la ZEE. La disciplina dell’UNCLOS è in materia identica, in quanto l’art. 74, 1 relativo alla ZEE è perfettamente speculare rispetto all’art. 83,1 riguardante la piattaforma. Il principio è sempre lo stesso: raggiungimento di un risultato equitativo senza obbligo di adottare alcun metodo prefissato. Valgono quindi per la ZEE i criteri di delimitazione elaborati dalla giurisprudenza e dalla dottrina internazionale per la piattaforma continentale. Solo che alcune «circostanze rilevanti» si attagliano specificatamente alla ZEE, com’è per quelle biologiche, ecologiche ed economiche riguardanti l’ecosistema complessivo dell’area da spartire o gli interessi di pesca tradizionale delle comunità locali. Non esiste nessun obbligo di far coincidere ZEE e piattaforma continentale. L’ipotesi normale è da ritenersi tuttavia quella della completa sovrapposizione della colonna d’acqua al fondale nell’ambito del limite delle 200 mn dalle linee di base del mare territoriale adottando un confine monolineare come previsto dagli accordi di delimitazione tra Cipro e Israele del 2010 e tra Cipro ed Egitto del 2003 (v. ZEE-Mediterraneo). Analoga soluzione è stata adottata da Francia e Italia nel definire, con l’accordo di Caen del 21 marzo 2015 Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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(non ancora entrato in vigore al 2020), le frontiere marittime di ZEE e piattaforma continentale oltre che delle rispettive acque territoriali. Rilevante è anche il fatto che la Corte internazionale di giustizia (CIG) in molti casi (come quelli del golfo del Maine, Nicaragua/Colombia, Romania/Ucraina, Perù/Cile), abbia applicato, su richiesta delle parti, il sistema del confine unico. La stessa CIG, nella sentenza del 2001 sul Caso Qatar v. Bahrain al para 169, ha osservato che «...the concept of a single maritime boundary does not stem from multilateral treaty law but from State practice, and that it finds its explanation in the wish of States to establish one uninterrupted boundary line delimiting the various — partially coincident — zones of maritime jurisdiction appertaining to them». In teoria è comunque sempre possibile che la delimitazione del fondo marino facente parte della piattaforma continentale di uno Stato diverga da quella della colonna d’acqua sovrastante di cui lo stesso Stato ha la titolarità nell’ambito della ZEE. In risposta alla proclamazione unilaterale croata della Zona di protezione ecologica e della pesca del 2003 che adotta come limite della nuova zona quello della sottostante piattaforma continentale, l’Italia, Linea di equidistanza provvisoria ZEE Romania-Ucraina con nota verbale del 15 marzo 2006 (UN LOS Bulle(Fonte: ICJ). tin n. 60, p. 127) ha dichiarato che «there is no legal foundation for the automatic extension, however provisional, of the seabed line of delimitation agreed upon in 1968 to superjacent waters» (v. Pesca (Mediterraneo). Le difficoltà di pervenire a un accordo, nel caso in cui le parti non riescano a raggiungere un’intesa sul tracciato della linea di delimitazione della piattaforma continentale o della ZEE possono essere superate temporaneamente. Gli Stati hanno, infatti, la possibilità di concludere, in uno spirito di comprensione e cooperazione, accordi provvisori di natura pratica (UNCLOS, 74, 3; 83, 3). Un esempio in materia è costituito dall’accordo tra Algeria e Tunisia dell’11 febbraio 2002 relativo sia agli spazi di acque territoriali sia a quelli di piattaforma continentale e ZEE (v. Acque territoriali-Mediterraneo). Vedi anche: Baia di Pirano; Bocche di Bonifacio e Golfo di Trieste (Acque territoriali Mediterraneo); 40
Linee separate di giurisdizione ZEE e PC: caso Australia-Indonesia (Fonte: Australian Gov.).
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DEMILITARIZZAZIONE L’imposizione di vincoli relativi al divieto dell’uso delle armi in determinate zone costiere o in specifiche zone di mare non trova la sua fonte nel principio generale dell’uso pacifico dell’alto mare (UNCLOS 88). Questo principio ha, infatti, un contenuto programmatico e non impone agli Stati obblighi di comportamento diversi da quello (UNCLOS 301) di «astenersi da qualsiasi minaccia o uso della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza di qualsiasi Stato, o contraria ai principi di diritto internazionale recepiti nella Carta delle Nazioni unite». Se intesa come divieto di installazioni o di attività militari, la demilitarizzazione trova dunque il suo fondamento esclusivamente in specifici accordi internazionali o in norme consuetudinarie. In particolare: — la proibizione di effettuare test di armi atomiche in acque internazionali non è stabilita da alcun trattato di portata generale. È tuttavia opinione della dottrina che un tale divieto abbia natura di regola consuetudinaria dovendosi ritenere che esso sia preordinato a non intaccare la libertà dei mari (v.) con un uso che ne limiterebbe altrimenti la portata. La questione è stata affrontata in via incidentale avanti la Corte internazionale di giustizia nel caso Australia-Nuova Zelanta/Francia per gli esperimenti nucleari nell’atollo di Mururoa nella Polinesia francese; — il trattato antartico del 1o dicembre 1959 prevede che l’Antartide «sarà usato esclusivamente per fini pacifici» e che «qualsiasi misura di carattere militare, quale l’installazione di basi militari e di fortificazioni, l’esecuzione di manovre militari, e la prova di qualsiasi tipo di armi sarà proibita»; — il trattato di non proliferazione nucleare, firmato a Londra, Mosca e Washington il 1o luglio 1968, riconosce il diritto di gruppi di Stati di concludere accordi regionali per la creazione di zone marittime denuclearizzate (nuclear free zones). In tali zone, che sono vincolanti solo per gli Stati aderenti e non pongono quindi limitazioni ai diritti degli Stati terzi, resta impregiudicato il libero uso del mare, ivi compresa la libertà di navigazione delle navi a propulsione nucleare. Esse sono state istituite nell’area: a) latinoamericana, con il trattato di Tlatelolco del 1967; b) del Sud Pacifico, con il trattato di Rarotonga del 1985; c) africana, con il trattato di Pelindaba dell’11 aprile 1996. Da anni è in corso il tentativo di istituire anche una zona denuclearizzata (NWFZ dall’acronimo di Nuclear Weapons Free Zone) in Medio Oriente a suo tempo auspicata dalla UNGA Resolution 3263 (1974). Il Segretario generale delle NU nel suo Rapporto del 2019. Il , ha messo in chiaro che «a zone would comprise the national territories of two or more neighboring States, including their territorial waters and airspace. It would also be possible for States separated from each other by high-sea areas or otherwise to form a nuclear-weapon-free zone. Furthermore, a nuclear-weapon-free zone might be extended by agreement into geographical areas not under the jurisdiction of any State, for instance sea areas beyond territorial waters»; per poi concludere che «decision not to make [nuclear weapons] will have to be affirmed and reaffirmed again and again by the Governments and peoples of the region. A nuclear-weapon-free zone can be the effective framework within which that decision is formulated, carried out, and sustained»; — il trattato dell’11 febbraio 1971, firmato da Londra, Mosca e Washington, proibisce la posa di armi nucleari o di altre armi di distruzione di massa sul fondo e sul sottofondo marino. DEMILITARIZZAZIONE (MEDITERRANEO) 1. Quadro di situazione L’imposizione di vincoli relativi al divieto dell’uso delle armi e/o di installazioni militari è stata attuata nel Mediterraneo nelle seguenti aree: — canale di Suez (v.) ove, secondo la Convenzione di Costantinopoli del 1888 si prevede che: «Il Canale sarà sempre libero, in tempo di guerra come in tempo di pace, a ogni nave mercantile o da guerra, senza distinzione di bandiera (...). Esso non sarà mai soggetto all’esercizio del diritto di blocco» e che «nessun atto di ostilità o nessun atto volto a impedire la libera navigazione nel Canale potrà essere eseguito al suo interno e nei suoi porti d’accesso sino al raggio di 3 miglia, anche se la Turchia fosse una delle potenze belligeranti»; — stretto di Gibilterra (v.) ove la demilitarizzazione è stabilita sulla base della dichiarazione di Londra dell’8 aprile 1904 tra Gran Bretagna e Francia (cui aderì successivamente la Spagna con la dichiarazione di Parigi del 3 ottobre 1904) che ha per oggetto la smilitarizzazione della costa marocchina dello stretto; — stretti Turchi ove, secondo la Convenzione di Montreux del 1936 — v. stretti Turchi, para b) —, sono stabilite limitazioni, per tonnellaggio e tipo di unità, al transito delle navi da guerra dei paesi esterni al Mar Nero (v.).
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LA SMILITARIZZAZIONE DELLE ISOLE GRECHE DELL’EGEO La situazione degli obblighi di smilitarizzazione che gravano sulla Grecia nell’Egeo può così sintetizzarsi: 1) Lemno e le isole adiacenti: il vincolo di demilitarizzazione era contenuto nel trattato di Losanna del 24 luglio 1923. La successiva convenzione di Montreux del 20 luglio 1936, pur menzionando tale trattato non ha confermato espressamente tale obbligo. Attualmente la Turchia ne reclama il rispetto mentre la Grecia sostiene che il regime previsto dal Trattato di Losanna del 1923 è stato abrogato da quella di Montreux del 1936 (v. Stretti); 2) Isole dell’Egeo centrale: (Lesbo, Chio, Samo e Nikaria). Il regime di queste isole era regolamentato dall’art. 13 del suidicato trattato di Losanna nel senso che era proibita l’installazione di qualsiasi «base navale» o «fortificazione». Attualmente la Grecia non contesta la validità di tale regime. La Turchia ha più volte assunto iniziative per richiederne la stretta osservanza da parte della Grecia; 3) Isole del Dodecaneso: (Stampalia, Rodi, Calki, Scarpanto Carso Piscopi, Misiro, Calimno, Lezo, Patinco, Lipso, Simi, Cos e Castelrosso). L’art. 14 del Trattato di Pace del 10 febbraio 1947 tra l’Italia e le potenze alleate, nel prevedere il trasferimento delle isole del Dodecaneso sotto la sovranità della Grecia, stabilisce che «le predette isole saranno e rimarranno smilitarizzate». In merito all’applicazione di tale obbligo la Turchia sostiene che la smilitarizzazione delle stesse isole è stata disposta per venire incontro alle proprie esigenze di sicurezza. Da parte di alcuni studiosi si mette invece in rilievo che la Turchia, non essendo parte del trattato di pace del 1947, non ne può reclamarne l’applicazione in proprio favore, tenuto anche conto del fatto che lo scopo di tale regime dovrebbe invece essere ricercato nell’impedire un’utilizzazione del Dodecaneso dalle Forze navali dell’ex Unione Sovietica.
2. Obblighi riguardanti l’Italia Analoghi obblighi di demilitarizzazione furono anche imposti all’Italia dagli articoli 49 e 50 del Trattato di Pace del 1947 per ciò che concerneva sia il divieto di costruire opere militari, navali, e aeronautiche nella Sicilia e nella Sardegna, sia l’obbligo di mantenere smilitarizzate le isole di Pantelleria, Lampedusa, Linosa, Lampione e Pianosa. Riguardo a questi vincoli occorre precisare che nessuna delle clausole del trattato di pace del 1947 riguardante la smilitarizzazione di territori costieri e insulari italiani è ancora in vigore. Questo è il parere della dottrina e questa è la posizione assunta dagli Stati Uniti, in sede ufficiale, motivata con la considerazione che sarebbero venute meno le iniziali condizioni di diritto e, di fatto, che imponevano obblighi all’Italia nei confronti delle potenze vincitrici. 3. Obblighi imposti all’ex Iugoslavia Lo stesso trattato di pace all’art. 11, nel prevedere la cessione all’ex Iugoslavia della piena sovranità sull’isola di Pelagosa e sulle isolette adiacenti, stabiliva che «l’isola di Pelagosa rimarrà smilitarizzata» e che i pescatori italiani godranno nelle acque adiacenti degli stessi diritti di cui godevano i pescatori jugoslavi prima del 1941 (v. Pesca-Mediterraneo). È discorde la valutazione della validità dell’obbligo di mantenere smilitarizzata Pelagosa (ora sotto sovranità croata). Da parte di alcuni studiosi si sostiene che la smilitarizzazione sarebbe stata disposta a garanzia delle esigenze di sicurezza dell’Italia; da parte di altri si ritiene, invece, che il vincolo fu posto per salvaguardare la libertà di transito in Adriatico tenuto conto che la localizzazione dell’isola in posizione centrale nell’area ha un considerevole valore strategico per il controllo delle rotte di entrata e uscita dal bacino Adriatico. La questione andrebbe ora considerata alla luce del fatto che tutti gli Stati rivieraschi dell’Adriatico fanno oramai parte della NATO. 4. Politica russo-sovietica La smilitarizzazione del Mediterraneo è un tema a più riprese affrontato dall’ex Unione Sovietica negli anni passati. L’Unione Sovietica, perseguendo un suo disegno di strategia marittima che privilegiava la 42
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riduzione della presenza navale americana in Mediterraneo piuttosto che un rafforzamento della propria, aveva adottato una peculiare visione della questione mediterranea riassunta nello slogan «fare del Mediterraneo un lago di pace». Un precedente in tal senso era rappresentato dalla tradizionale politica sovietico-zarista dei mari chiusi (v. Libertà dei mari). Gli interventi pubblici dei leader sovietici su questo tema furono non pochi; si può ricordare, al riguardo, che già nel 1967 l’allora segretario generale del PCUS, Breznev, chiese l’allontanamento della VI Flotta degli Stati Uniti dal Mediterraneo motivandola con un progetto di denuclearizzazione e smilitarizzazione dell’area, il cui controllo doveva essere riservato ai paesi costieri. La medesima proposta fu ripetuta nel 1988 con grande strepito propagandistico da Gorbaciov, a Belgrado quando dichiarò: «Riaffermiamo la nostra volontà di ritirare dal Mediterraneo le flotte sovietica e americana…». In sintonia con simili iniziative, Malta nel 1979 aveva dichiarato solennemente di essere «a neutral State» impegnandosi a: 1) perseguire una politica di non allineamento; 2) non partecipare ad alcuna alleanza militare; 3) non ammettere nei suoi cantieri navali unità statunitensi o sovietiche. 5. Neutralità maltese Un caso a sé è quello della neutralità che Malta ha stabilito nella sua Costituzione. Dopo un periodo di benevola apertura alle esigenze militari della NATO, iniziato nel 1964 con l’acquisizione dell’indipendenza dalla Gran Bretagna, nel 1971 — in coincidenza con la vittoria elettorale del partito laburista di Dom Mintoff — a Malta si verificò un cambiamento politico: il Comando navale NATO del Sud Europa (COMNAVSOUTH), considerato non più gradito dal nuovo governo, dovette essere spostato a Napoli. Contemporaneamente Malta si aprì all’ex Unione Sovietica e alla Libia. Questa fase di rischieramento politico internazionale dell’isola si interruppe quando il governo maltese, per reagire a mire egemoniche libiche, dovette proclamare la sua neutralità nel 1979, recependola con emendamento approvato nel 1987, nella sua Costituzione la cui section 1 al riguardo così dispone: «(3) Malta is a neutral state actively pursuing peace, security and social progress among all nations by adhering to a policy of non-alignment and refusing to participate in any military alliance. Such a status will, in particular, imply that: (a) no foreign military base will be permitted on Maltese territory; (b) no military facilities in Malta will be allowed to be used by any foreign forces except at the request of the Government of Malta, and only in the following cases: (i) in the exercise of the inherent right of self-defence in the event of any armed violation of the area over which the Republic of Malta has sovereignty, or in pursuance of measures or actions decided by the Security Council of the United Nations; or, (ii) whenever there exists a threat to the sovereignty, independence, neutrality, unity or territorial integrity of the Republic of Malta; (…) (e) the shipyards of the Republic of Malta will be used for civil commercial purposes, but may also be used within reasonable limits of time and quantity, for the repair of military vessels which have been put in a state of noncombat or for the construction of vessels, and in accordance with the principles of non-alignment the said shipyards will be denied to the military vessels of the two superpowers». L’Italia si fece garante di tale status con l’accordo del 15 settembre 1980 mediante scambio di note concernente la dichiarazione relativa alla neutralità di Malta (ancora in vigore), ratificato con Legge 15 aprile 1981, n. 149 cui hanno fatto seguito protocolli relativi all’assistenza finanziaria allo sviluppo e all’invio di una missione di cooperazione militare dedicata alla protezione dell’integrità territoriale dell’isola. In questa sede si fa menzione della neutralità maltese per i suoi aspetti marittimi. Anzitutto, per ciò che riguarda l’impegno di Stati Uniti ed ex Unione Sovietica (al tempo, uniche due «super potenze»). Ma, anche per le implicazioni della garanzia italiana, visto che in certe occasioni, in passato, è stato affermato da esponenti maltesi che il nostro paese: 1) non potrebbe contestare le pretese di Valletta relativa a un’estesa piattaforma continentale (v. Piattaforma continentale (Mediterraneo)) perché altrimenti si configurerebbe una violazione dell’integrità territoriale dell’isola di cui noi ci siamo fatti garanti; 2) sarebbe obbligato a intervenire nella SAR maltese (v. Ricerca e soccorso in mare) proprio in forza dello stesso principio. Vedi anche: Disarmo navale. Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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DENUCLEARIZZAZIONE Vedi: Demilitarizzazione. DIRITTI UMANI IN MARE (PROTEZIONE DEI) A partite dalla fine della Seconda guerra mondiale la tutela dei diritti umani, intesa come protezione dell’integrità fisica e morale della persona umana, ha assunto rilievo internazionale. La Carta delle NU del 1945 può considerarsi il primo atto che ne afferma il valore, cui si sono aggiunte dopo qualche anno la Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948 e la Convenzione del 1951 sullo stato di rifugiato. Un ulteriore impulso — anche se limitato ai paesi aderenti al Consiglio d’Europa — è giunto dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (CEDU) in applicazione della quale, la Corte EDU, con la sentenza del Caso Hirsi (v. Traffico e trasporto illegale di migranti in mare), ha condannato il nostro paese per i respingimenti collettivi verso la Libia. Altri casi giudicati dalla stessa Corte relativi a situazioni in cui erano state poste in essere azioni di polizia sulla base dell’UNCLOS, sono Rigopoulos v. Spain e il Medvedyev v. France: in entrambi è stata affermata la violazione dei principi della CEDU in relazione al notevole ritardo con cui erano state condotte dinanzi all’autorità giudiziaria persone in custodia su navi da guerra intervenute contro mercantili impegnati in operazioni antidroga in alto mare (v. Traffico di stupefacenti in mare). Il tema rimanda peraltro ai problemi palesatisi durante la crisi della pirateria (v.) del Corno d’Africa quando si creò un vuoto di giurisdizione per la difficoltà di concedere le ordinarie garanzie ai pirati catturati. Il problema attiene quindi, in termini generali, alla compatibilità tra quanto prevede l’UNCLOS con riguardo a diritti e obblighi degli Stati nei vari spazi marittimi e quanto è invece stabilito dalle pertinenti norme internazionali attinenti i diritti umani delle singole persone. Come detto, la Corte CEDU, ha sin qui svolto un ruolo rimarchevole nel raccordare i due ambiti giuridici. Ma, ancor più rilevante è stata l’affermazione da parte dell’ITLOS (Tribunale internazionale per il Diritto del mare) di una interpretazione dell’UNCLOS orientata alla tutela delle persone. Nel caso Saiga 2 (v. Polizia dell’alto mare) lo stesso tribunale ha per esempio stabilito che, ove sia necessario far uso della forza nei confronti di una nave impegnata in attività illecita, un principio base è che «the use of force must be avoided as far as possible…. Considerations of humanity must apply in the law of the sea, as they do in other areas of international law». Non a caso il SUA Protocol (v. Terrorismo marittimo) ha recepito questo orientamento nell’art. 8 bis quando ha previsto (art. 8 bis, 3 che: «States Parties shall take into account the dangers and difficulties involved in boarding a ship at sea and searching its cargo, and give consideration to whether other appropriate measures agreed between the States concerned could be more safely taken in the next port of call or elsewhere». Il fatto è che l’UNCLOS, come è stato detto, non è un «human rights instrument», per sé. In realtà, a un’attenta lettura, la stessa convenzione contiene norme volte indirettamente a tutelare la persona umana. Anzitutto il principio del genuin link (v. Nazionalità della nave) è quello che meglio garantisce che le condizioni di vita dei marittimi imbarcati su navi sub standard, magari con bandiera di convenienza, siano adeguatamente tutelate secondo la regolamentazione internazionale sul lavoro marittimo. Ma, un particolare risalto va dato, dal punto di vista dei diritti umani agli obblighi di soccorso stabiliti dall’art. 98 e alla discendente regolamentazione sul luogo di sbarco di migranti salvati (v. Ricerca e soccorso in mare), anche se deve notarsi che non vi sono strumenti internazionali, nemmeno a livello di regolamentazioni UE, che scoraggino o vietino l’applicazione ai migranti di procedure di respingimento. Devono ricordarsi infine i rischi, a volte mortali, corsi dai pescatori, soprattutto in Adriatico e nel Canale di Sicilia, per l’aggressività di quei paesi che svolgono una polizia della pesca che preveda l’uso di armi da fuoco. Nulla può giustificare, anche di fronte a casi di pesca illegale, un simile comportamento violento. E, infatti, l’UNCLOS è al riguardo chiaro nel disporre all’art. 73, con riguardo alla ZEE (v.) sia il principio del «pronto rilascio» dei battelli fermati, sia quello secondo cui: «Le sanzioni previste dagli Stati costieri in caso di violazione delle leggi e dei regolamenti di pesca nella zona economica esclusiva non possono includere misure di restrizione della libertaÌ personale salvo accordi diversi tra gli Stati interessati, neì alcuna altra forma di pena fisica». Questa norma in sé non è tuttavia sufficiente a scongiurare che i pescatori siano coinvolti in azioni violente: essa va, infatti, letta e applicata alla luce del principio stabilito dagli articoli 21 e 22 della Convenzione di New York del 1995 sulle specie ittiche migratorie che, per la sorveglianza della pesca in alto mare, vieta l’harassment e la forza eccessiva.
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DIRITTO BELLICO MARITTIMO Il tradizionale Diritto bellico marittimo inteso come insieme di norme regolanti la guerra marittima ha origini antiche basate su fonti non solo consuetudinarie ma anche pattizie. Per esempio, il trattato franco-spagnolo dei Pirenei del 1659 disciplinava già in modo dettagliato le modalità di svolgimento della visita a mercantili ai fini del contrabbando di guerra (v.). Una prima definizione in senso moderno delle regole applicabili si ebbe con la Dichiarazione di Parigi del 16 aprile 1856 — approvata al termine della Guerra di Crimea da Austria, Francia, Inghilterra, Piemonte, Russia e Turchia — con cui: 1) si aboliva la guerra di corsa (v. pirateria); 2) si regolamentavano alcuni aspetti della neutralità marittima (v.) relativamente al trasporto di merci; 3) si stabilivano le modalità del blocco (v.). Successivi sviluppi si devono alle otto convenzioni dell’Aja del 1907 dedicate a navi mercantili, mine, bombardamento navale, diritto di cattura e istituzione del tribunale delle prede. A esse seguì la Dichiarazione di Londra del 1909 relativa al Diritto della guerra marittima che stabilisce i fondamenti delle operazioni belliche sul mare in materia di blocco, contrabbando, visita, assistenza ostile e prede. Tale Dichiarazione non entrò mai in vigore ma assunse un rango di fonte consuetudinaria generalmente accettata, tant’è che fu tenuta presente dal nostro paese nella redazione della Legge di Guerra (R.D. 1415-1938) relativamente alla parte dedicata alla guerra marittima. Circa le funzioni esercitabili dalla nave da guerra (v.) la stessa legge all’art. 132 stabilisce, tra l’altro, il seguente fondamentale principio: «Le navi che possono compiere operazioni belliche, compresa la visita e la cattura di navi e di aeromobili, sono soltanto quelle da guerra indicate negli articoli 133 e 134 [navi da guerra e navi mercantili trasformate in navi da guerra]». A seguito dell’emanazione della Carta delle Nazioni unite che vieta il ricorso alla guerra come metodo per risolvere le controversie tra Stati, delle convenzioni di Diritto umanitario di Ginevra del 1949 e della prassi instauratasi nel corso di vari conflitti internazionali come quello delle Falkland\Malvinas e del Golfo Persico (v.), si è creato un nuovo corpus di norme costituenti il Diritto dei conflitti armati sul mare. In attesa di pervenire a una nuova convenzione internazionale in materia, su iniziativa dell’Istituto internazionale di Diritto umanitario di San Remo e del Comitato internazionale della Croce Rossa di Ginevra è stato redatto, da un gruppo di esperti, come compilazione privata non vincolante, il Manual on International Law applicable to armed Conflicts at Sea. Questo testo, oltre a tener conto delle norme e della prassi internazionale sui conflitti in mare, considera anche i riflessi sulle operazioni belliche del regime dell’UNCLOS in materia di spazi marittimi, in particolare, piattaforma continentale (v.) e ZEE (v.) ove lo svolgimento di attività belliche (si pensi alla posa di sensori passivi o di mine dormienti) nelle acque di un paese neutrale è legittima a condizione che non crei pregiudizio ai diritti funzionali di protezione e sfruttamento esercitabili dallo Stato costiero. Circa il regime del transito negli stretti (v.) in situazioni di conflitto armato il citato Manuale di Sanremo, tenendo conto dell’UNCLOS e della prassi adottata durante alcuni conflitti recenti come quello IranIraq, adotta una regolamentazione improntata ai seguenti principi: 1) in periodo di conflitto armato continua ad applicarsi, sia per i belligeranti sia per i neutrali, il diritto di passaggio in transito vigente in tempo di pace; 2) i paesi rivieraschi neutrali non possono quindi imporre limitazioni al transito anche perché la loro neutralità non è inficiata dal semplice passaggio di navi belligeranti; 3) queste navi devono a loro volta astenersi dall’uso della forza nei confronti dello stato costiero, anche se, durante il transito, possono adottare misure difensive (quali, operazioni aeree, navigazione in formazione, sorveglianza acustica); 4) i paesi rivieraschi belligeranti possono adottare misure interdittive esclusivamente nei confronti di navi da guerra di altro paese belligerante; 5) essi possono in teoria collocare mine nelle proprie acque facenti parte di uno stretto, a condizione che in questo modo non si renda pericolosa la navigazione delle navi neutrali e purché esista una rotta alternativa di convenienza similare; 6) le navi da guerra neutrali conservano il diritto di passaggio negli stretti le cui acque sono sotto la sovranità di Stati belligeranti, provvedendo, in forma precauzionale, a darne preavviso agli stessi. Vedi anche: Convoglio, Contrabbando di guerra, Disarmo navale, Navicert, Protezione dell’ambiente marino, Sommergibile. DIRITTO CONFLITTI ARMATI SUL MARE Vedi: Diritto bellico marittimo.
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DIRITTO DEL MARE (Codificazione) Terminato il periodo — che va dal XVII al XVIII secolo — dell’elaborazione teorica dei principi della libertà dei mari (v.) in contrapposizione a quelli del controllo esclusivo degli Stati costieri sulle zone di interesse commerciale e strategico, nel XIX secolo ha inizio la codificazione vera e propria del moderno Diritto marittimo internazionale. Il primo atto normativo può considerarsi, sia pur nella materia affine del Diritto bellico marittimo (v.), la Dichiarazione di Parigi del 1856 con cui, oltre a disciplinare il contrabbando di guerra (v.), si dispose il divieto della guerra di corsa (v. Pirateria). La Convenzione di Costantinopoli del 1888 relativa al Canale di Suez rappresenta invece il primo strumento internazionale dedicato alla libertà di navigazione. Successivamente, dopo un periodo di codificazione del Diritto bellico marittimo nel corso delle Conferenze dell’Aja, si pervenne sotto l’egida della Società delle nazioni alla firma delle due Convenzioni e Statuti di Barcellona del 1921 sulla libertà di transito e sul regime dei canali navigabili di interesse internazionale, A questi accordi fece seguito nel 1923 la convenzione di Ginevra sul regime internazionale dei porti (LN, TS, vol. 58, p. 285). Al riguardo, circa la questione della chiusura dei porti si rinvia alla voce Ricerca e soccorso in mare. Nel 1930, sotto gli auspici della medesima Società delle nazioni, si tenne a l’Aja la 1a «Conferenza della codificazione progressiva del diritto internazionale». I contrasti insorti tra i paesi partecipanti impedirono l’adozione di un testo concordato. I punti di divergenza riguardarono principalmente la possibile estensione delle acque territoriali (v.) al di là del limite delle 3 mn ammesso al tempo, e il riconoscimento dei poteri dello Stato costiero nella zona contigua (v.): queste soluzioni furono avversate da Gran Bretagna e Stati Uniti. Ciononostante fu possibile redigere una bozza di convenzione sul regime giuridico del mare territoriale in cui si definiva il principio del transito inoffensivo (v.). La stasi dello sviluppo del diritto del mare imposta dalla Seconda guerra mondiale fu interrotta dalla istituzione nel 1947, a iniziativa dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, della International Law Commission la quale iniziò il lavoro di codificazione di varie materie, tra cui vi era il regime dell’alto mare e delle acque territoriali. Nel frattempo, la Corte internazionale di giustizia, con sentenza del 1949 si pronunciò sull’affare tra Albania e Gran Bretagna del canale di Corfù originato dal danneggiamento, da parte albanese, di due caccia britannici. La Corte, dopo aver affermato la responsabilità albanese per non aver notificato le coordinate dei campi minati come previsto dalla VIII convenzione dell’Aja del 1907, stabilì che la Gran Bretagna aveva legittimamente esercitato il diritto di transito inoffensivo nel canale di Corfù (v. Transito negli stretti) di proprie navi da guerra (v.) L’opera della Corte, nella definizione dei principi guida del Diritto internazionale marittimo, continuò con la sentenza del 1951 relativa alla controversia tra Gran Bretagna e Norvegia sulle zone di pesca, nella quale furono poste le premesse della dottrina delle linee di base (v.) e delle baie storiche (v.). Su iniziativa delle NU fu successivamente convocata la I Conferenza sul Diritto del mare che, iniziati i suoi lavori a Ginevra il 24 febbraio 1958, li terminò il 29 aprile dello stesso anno con l’adozione delle seguenti quattro Convenzioni il cui testo base era stato redatto negli anni precedenti dalla International Law Commission: I convenzione sul mare territoriale e sulla zona contigua; II convenzione sull’alto mare; III convenzione sulla pesca e sulla conservazione delle risorse biologiche dell’alto mare; IV convenzione sulla piattaforma continentale. L’accordo raggiunto tra i paesi partecipanti non fu tuttavia totale in quanto rimase aperta la questione dell’estensione delle acque territoriali. Per risolvere questo problema fu convocata a Ginevra, nell’aprile 1960, una II conferenza del Diritto del mare, nel corso della quale non si riuscì a trovare la necessaria intesa. Le Convenzioni di Ginevra del 1958 mostrarono ben presto i loro limiti. Esse erano, infatti, ricognitive del diritto consuetudinario vigente al tempo e prive di contenuti innovativi, risultando perciò, inadeguate di fronte ai cambiamenti che si annunciavano nella prassi degli Stati costieri, soprattutto in materia di sfruttamento delle risorse marine. L’Assemblea generale delle NU emanò perciò la risoluzione n. 2750/C-XXV del 17 dicembre 1970 che stabiliva la convocazione di una III Conferenza sul Diritto del mare. Il consesso si riunì per la prima volta a Caracas nel 1973, e proseguì successivamente i suoi lavori in Jamaica. Dopo 11 sessioni si pervenne alla definizione del testo della United Nation Conventions on the Law of the Sea (UNCLOS) adottata a Montego Bay il 10 dicembre 1982. Votarono contro la sua approvazione Israele, Turchia, Venezuela e Stati Uniti; questi ultimi erano contrari alle soluzioni adottate
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nella parte XI della convenzione in materia di regime internazionale dei fondi marini (v. Area internazionale dei fondi marini). La convenzione è entrata in vigore il 16 dicembre 1994, un anno dopo il deposito della 60a ratifica. Il valore giuridico delle disposizioni dell’UNCLOS prima della sua entrata in vigore era stato esaminato nel 1984 dalla Corte internazionale di giustizia nell’ambito del caso della delimitazione del golfo del Maine tra Stati Uniti e Canada. Nell’occasione la Corte aveva osservato che, poiché è innegabile che numerose disposizioni dell’UNCLOS, come quelle concernenti la piattaforma continentale (v.) e la ZEE (v.), erano state adottate senza obiezioni di alcuno Stato per generale consenso (consensus), doveva ritenersi che queste stesse andassero considerate espressione del diritto consuetudinario vigente e, quindi, fossero di per sé giuridicamente vincolanti. Numerosi Stati non hanno ancora aderito alla Convenzione. Tra questi, oltre a Eritrea, Iran, Israele e Libia, vi sono gli Stati Uniti (che tuttavia la applicano nella misura in cui riflette il diritto internazionale consuetudinario), e la Turchia che la ritiene pregiudizievole ai propri interessi nel mar Egeo (v.). La ratifica da parte dell’Italia è avvenuta con Legge 2 dicembre 1994, n. 689. DIRITTO DI ASILO Vedi: Rifugio temporaneo. DIRITTO DI INSEGUIMENTO È il potere attribuito alle navi da guerra (v.) alle navi in servizio governativo (v.) e agli aeromobili militari (v.) di inseguire una nave straniera quando si hanno fondati sospetti che questa abbia violato leggi o regolamenti nazionali (Ginevra II, 23; UNCLOS 111). L’inseguimento deve essere iniziato quando la nave o una delle sue imbarcazioni si trovi nelle acque interne (v.), nelle acque arcipelagiche (v.), o nel mare territoriale (v.) dello Stato che effettua l’inseguimento e può continuare in alto mare (v.), al di fuori delle aree di giurisdizione nazionale, soltanto se non sia stato interrotto. La nave inseguitrice può anche costatare e notificare l’infrazione trovandosi al di fuori di tali zone. Condizione per l’inizio dell’inseguimento è che venga accertato che la nave inseguita, o sue imbarcazioni che la usino come «nave madre», si trovi entro i limiti di una delle zone suindicate soggette alla giurisdizione nazionale. Nel caso che venga inseguita un’imbarcazione che una «nave madre», trovandosi al di fuori di tali zone, impieghi per violare le leggi dello Stato costiero (per esempio per introdurre tabacchi di contrabbando o sbarcare migranti illegali), si realizza l’ipotesi della «presenza costruttiva» (Ginevra II, 23, 3; UNCLOS 111, 4). Il diritto d’inseguimento può essere esercitato anche con riguardo alle infrazioni commesse nella zona contigua (v.), nella zona economica esclusiva (v.) o nelle acque sovrastanti la piattaforma continentale (v.) in relazione alla lesione di particolari diritti funzionali riconosciuti allo Stato costiero in tali zone. L’inseguimento va preceduto da un ordine di fermo dato con un mezzo radio, ottico o acustico e da distanza tale da poter essere ricevuto. Un inseguimento iniziato da un aereo con le modalità su riportate può essere continuato da un altro aereo o nave purché non vi sia interruzione. Durante l’inseguimento la nave inseguitrice può fare uso della forza, secondo criteri di necessità, proporzionalità e gradualità (v. Polizia dell’alto mare) per costringere la nave inseguita a fermarsi. Questa, quando raggiunta, è catturata e condotta in un porto nazionale per gli opportuni provvedimenti. L’intervento in alto mare di una nave da guerra della stessa bandiera del mercantile inseguito per proteggerlo dall’azione coercitiva della nave inseguitrice, può ritenersi consentito se la nave inseguitrice pretenda di esercitare illegittimamente l’inseguimento in assenza delle condizioni e dei requisiti previsti dall’UNCLOS e vi sia evidenza di questo, oppure usi la forza in modo eccessivo mettendo in pericolo la vita delle persone. L’applicabilità di tali principi in materia di uso della forza da parte di unità in servizio di polizia è stata affermata dal tribunale del Diritto del mare (v.) nella sentenza del 1o luglio 1999 relativa alla controversia tra Saint Vincent e Grenadines e la Guinea sulla cattura del mercantile Saiga (para 153-159): il Saiga era una nave battente bandiera di Saint Vincent e Grenadine catturata dalla Guinea in acque internazionali perché sospetta di aver commesso contrabbando di carburanti nella ZEE dopo un inseguimento culminato in un’azione a fuoco. In tale sentenza il tribunale ha giudicato eccessiva, sproporzionata e non Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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giustificata dalle circostanze l’azione delle autorità della Guinea, mettendo in evidenza che in materia di uso della forza la stessa convenzione non contiene norme specifiche, ma rinvia alle altre norme di diritto internazionale applicabili (UNCLOS 293, 1). Il diritto di inseguimento cessa non appena la nave inseguita entri nel mare territoriale dello Stato di cui batte bandiera o di altro Stato (UNCLOS 111, 3). Una deroga a questo principio può aversi qualora vi sia il consenso dello Stato costiero interessato. In ipotesi in cui la nave inseguita abbia commesso in alto mare atti di pirateria (v.) e cerchi di sottrarsi alla cattura rifugiandosi nelle acque territoriali di un altro Stato potrebbe in teoria parlarsi di reverse hot pursuit. L’adozione di una simile prassi in via unilaterale, benché sostenuta da alcuni paesi, non appare tuttavia conforme alla regolamentazione internazionale: essa postula, infatti, l’immediata informazione allo Stato costiero cui potrebbe seguire successivamente l’adozione di misure coercitive soltanto se lo stesso Stato non fosse in grado di intervenire. DIRITTO DI SORVOLO Vedi: Spazio aereo internazionale; Stretti internazionali. DIRITTO DI VISITA È la facoltà attribuita alle navi da guerra (v.) di sottoporre a visita in alto mare, in tempo di pace, una nave mercantile straniera nei soli casi (Ginevra II, 22; UNCLOS 110, 1) in cui vi sia fondato sospetto che questa sia dedita alla pirateria (v.) o alla tratta degli schiavi (v.), effettui trasmissioni radio o televisive non autorizzate (v), sia priva di nazionalità ovvero usi più bandiere come bandiere di convenienza (v. Nazionalità della nave) o, benché batta bandiera straniera o rifiuti di mostrare la propria bandiera abbia in realtà la stessa nazionalità della nave da guerra. Nella pratica consuetudinaria vigente, l’esercizio di questo diritto presuppone che la nave da guerra incontri una nave mercantile che non alzi bandiera e che, sospettando l’esistenza di una delle suindicate situazioni, decida di effettuare l’inchiesta di bandiera (v.). La nave da guerra che si avvale del diritto di visita deve improntare la sua azione a cautela, provvedendo a: 1) intimare al mercantile di fermarsi con mezzi radio o ottici, facendo ricorso, in caso di inadempimento, a un colpo di avvertimento (warning shot); 2) inviare sulla nave sospetta, con una motobarca, un proprio ufficiale per il controllo dei documenti di bordo (atto di nazionalità, ruolo equipaggio, giornale nautico, ecc.); 3) eseguire, ove i sospetti permangano dopo il controllo dei documenti, un’ispezione della nave medesima. La più recente prassi internazionale, recepita da accordi sul contrasto a traffici illeciti in mare (v. Terrorismo marittimo; Traffico e trasporto illegale di migranti in mare), evidenzia, nell’esecuzione in mare di visite e ispezioni a imbarcazioni, l’esigenza di stringenti misure di salvaguardia per la tutela dell’integrità fisica, dei diritti umani e della dignità delle persone trasportate e della sicurezza dei mezzi e del carico, tenendo anche conto che i pericoli connessi alla messa in atto di abbordaggi in mare possono consigliarne la loro esecuzione in porto. Al riguardo, è sintomatico quanto stabilito dall’art. 9 del Protocollo di Palermo del 2000 sul traffico di migranti via mare. Se, a seguito della visita, i sospetti si rivelino fondati, la nave mercantile può essere condotta, per gli opportuni provvedimenti, in un porto nazionale o in un porto estero ove risieda un’autorità consolare. Una nave da guerra italiana in attività di polizia dell’alto mare (v.) potrebbe intervenire qualora si tratti di: 1) una nave nazionale che eserciti pirateria o tratta degli schiavi, o che abbia commesso gravi irregolarità occultando la propria nazionalità (CN 200 e 202) o falsificando i documenti di bordo; 2) una nave straniera dedita alla pirateria (UNCLOS 105); 3) una nave priva di nazionalità (stateless); in quest’ultimo caso il provvedimento è giustificato sia dalla mancanza di giurisdizione di altri Stati sia dall’interesse dello Stato che interviene a prevenire o reprimere la violazione di proprie leggi: nel far ciò è però necessario tenere, nella dovuta considerazione, i diritti personali dei marittimi imbarcati la cui integrità è tutelata penalmente dallo Stato di appartenenza. Al di fuori di queste ipotesi, alla nave da guerra è solo consentito di raccogliere le prove dell’attività illecita, trasmettendo un dettagliato rapporto alle autorità superiori nazionali per l’inoltro allo Stato di cui la nave batte la bandiera: è questo, per esempio, il caso del danneggiamento di cavi e condotte sot48
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tomarine (v.). Se l’esito della visita porti a ritenere infondati i sospetti, la nave fermata dovrebbe essere indennizzata per le perdite e i danni subiti. L’esercizio dei poteri di visita è peraltro riconosciuto anche agli aeromobili militari (v.) e alle navi e agli aeromobili in servizio governativo (v.), ove a ciò esplicitamente autorizzati dallo Stato di appartenenza (UNCLOS 110, 5). Il diritto di visita può trovare il suo fondamento in un trattato bilaterale ed essere svolto, quindi, in situazioni diverse da quelle di cui s’è detto. Un esempio era offerto dal trattato tra l’Italia e la Spagna del 23 marzo 1990 per la repressione del traffico illecito della droga in mare. Nel corso di un conflitto armato il ricorso al diritto di visita è consentito in alto mare alle navi da guerra dei belligeranti nei confronti dei mercantili di qualsiasi bandiera per accertare nazionalità e natura del carico trasportato, in applicazione del regime del contrabbando di guerra (v.). La materia è disciplinata, nell’ordinamento italiano, dagli articoli 181-191 della Legge di Guerra (R.D. 1415-1938). L’esercizio del diritto di visita erga omnes può anche trovare fondamento, sulla base della Carta delle NU, in risoluzioni ONU che abbiano stabilito l’applicazione di misure di embargo navale (v.) nei confronti di paesi che abbiano violato la legalità internazionale, ovvero nel diritto di difesa legittima internazionale (v. Interdizione marittima). Vedi anche: Polizia dell’alto mare. DISARMO NAVALE 1. Riduzione delle flotte Al termine del Primo conflitto mondiale, quando la potenza navale tedesca era ormai distrutta e la Gran Bretagna conservava intatto tutto il suo potenziale marittimo, iniziò negli Stati Uniti un massiccio piano di costruzioni navali ritenendosi dal Governo statunitense che la nazione americana dovesse dotarsi di una grande flotta da guerra per tutelare i suoi interessi mondiali. In parallelo iniziò lo sviluppo della Marina nipponica. La corsa al riarmo navale ingaggiata tra Stati Uniti e Giappone, condusse nel 1921 a una iniziativa per la riduzione e la limitazione degli armamenti navali. La proposta di indire una conferenza ad hoc fu lanciata dagli Stati Uniti che invitarono a Washington, oltre a Gran Bretagna e Giappone, anche Francia e Italia, lo sviluppo delle cui flotte era necessario vincolare onde permettere alla Gran Bretagna di poter prendere impegni rispetto alle altre due potenze oceaniche. Il risultato raggiunto fu il trattato di Washington del 6 febbraio 1922, che sanzionò la parità, in termini qualitativi e quantitativi, tra Stati Uniti e Gran Bretagna da un lato e Francia e Italia dall’altro, con in mezzo il Giappone. A tale intesa seguì, nel 1930, una nuova conferenza, tenutasi a Londra, cui parteciparono le potenze firmatarie del trattato del 1922 e che portò il 22 aprile 1930 a un ulteriore accordo che sanzionò la parità tra Stati Uniti e Gran Bretagna anche in termini di incrociatori, caccia e sommergibili. Restarono in parte fuori dall’accordo Italia e Francia che non trovarono un punto d’incontro, a causa della pretesa francese di ottenere un tonnellaggio superiore a quello del nostro paese. Con il trattato di Londra del 25 marzo 1936 si abbandonarono infine i criteri di proporzionalità e di limitazioni quantitative tra le flotte (fu però affermato un obbligo di notificare la costruzione di nuove navi) mantenendo il principio delle limitazioni qualitative. Da ricordare inoltre che nell’ambito di questo Trattato fu inserito, il Processo Verbale sulla guerra sottomarina (già contenuto nella parte IV del trattato di Londra del 1930) che parificava il sommergibile (v.) alle navi di superficie ai fini del rispetto delle regole di Diritto bellico marittimo (v.) per l’attacco alle navi mercantili. 2. Limitazioni alle attività navali operative I tentativi di imporre limiti allo svolgimento di attività operativa navale risalgono, come s’è visto, alla linea sostenuta dai sovietici, sin dagli anni Cinquanta del secolo scorso, di proporre per il Mediterraneo (v.) un regime di demilitarizzazione (v. Demilitarizzazione-Mediterraneo). Essi furono tenacemente contrastati dagli Stati Uniti e dagli altri paesi NATO che, garantendo una vigile e massiccia presenza navale in tutto il bacino, evitarono quel «vuoto di potenza» che i sovietici auspicavano per controllare tutta l’intera regione mediterranea dalle proprie basi del Mar Nero (v.). Altrettanto decisa era stata la posizione Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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assunta dalla NATO nel contrastare sul piano operativo e politico-diplomatico le pretese di alcuni paesi mediterranei tendenti a imporre limitazioni all’attività delle Forze navali nelle proprie ZEE (v.), e al loro transito nelle acque territoriali (v.). In tale quadro va collocato il problema dell’estensione al settore marittimo, a suo tempo proposto dall’ex Unione Sovietica, delle misure tendenti a rafforzare la sicurezza e la fiducia reciproca (CSBM - Confidence and Security Building Measures) adottate in campo terrestre sulla base della conferenza sulla Sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE) di Helsinki del 1975. In definitiva può dirsi come il fatto che la materia sia stata affrontata a più riprese senza mai pervenire a risultati concreti, dimostri l’atipicità dello strumento navale, cui mal si concilia, in relazione alle esigenze di mobilità, sia la notifica preventiva delle esercitazioni da svolgere, sia la presenza a bordo di osservatori. Va precisato infine che, benché ascrivibili al genus delle misure navali di confidenza reciproca, le intese navali per evitare incidenti in mare (v. Prevenzione attività pericolose in mare) hanno una loro autonomia rispetto a quelle di disarmo navale. EGITTO Vedi:
Baie storiche (Mediterraneo); Isole; Mar Rosso; Palestina; Protezione dell’ambiente marino; Stretti e canali internazionali; Transito inoffensivo delle navi da guerra; Zona contigua; ZEE (Mediterraneo).
EMBARGO NAVALE 1. Principi generali Con questo termine si intende l’applicazione di misure di controllo e imposizione coattiva di sanzioni economiche decise dalle Nazioni Unite, sulla base del Capo VII della Carta del 1945 (art. 43), nei confronti di Paesi che abbiano commesso gravi violazioni della pace e della legalità internazionale. Le operazioni di embargo non comportano il blocco navale (v.) delle coste del Paese nei cui confronti sono attuate. Esse legittimano invece l’esercizio erga omnes di misure coercitive da parte delle navi da guerra dei Paesi partecipanti all’operazione verso il naviglio mercantile di qualsiasi bandiera che si presuma coinvolto in traffici marittimi commerciali con lo Stato sia sottoposto a embargo. Per quanto legittimata dall’autorità di specifiche risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’ONU (che, non disponendo di Forze navali sotto il proprio comando e controllo, deve delegarne l’esecuzione agli Stati membri o a organizzazioni regionali come la NATO o l’UE), l’applicazione in ambito marittimo di tali misure coercitive non è attualmente regolata da alcuna disposizione di diritto positivo. I poteri esercitabili durante l’imposizione di un embargo navale non rientrano, infatti, nel quadro dell’UNCLOS che si limita invece a disciplinare l’esercizio del diritto di visita (v.) in tempo di pace. 2. Prassi internazionale In assenza di una normativa speciale, la condotta delle Forze navali durante operazioni di embargo navale è stata improntata alla regolamentazione del Diritto bellico marittimo (v.) applicando in via analogica, ove possibile, la Dichiarazione di Londra del 26 febbraio 1909 sul Diritto della guerra marittima (mai entrata in vigore e, quindi, rimasta allo stadio di documento privo di forza obbligatoria anche se riflettente principi di natura consuetudinaria). Circa la prassi relativa, dalle risoluzioni emanate per gli embarghi contro l’Iraq o l’ex Iugoslavia (svoltesi, rispettivamente nel Golfo Persico, sulla base della risoluzione 665 (1990) e in Adriatico, in applicazione delle risoluzioni 757, 787 (1992) e 820 (1993) può dedursi che le navi da guerra (v.) sono gli unici soggetti (in analogia alla disciplina dei legittimi belligeranti della guerra marittima) autorizzati a partecipare alle operazioni navali. Esse hanno in particolare il diritto di: a) visitare e ispezionare (visit and search) il carico sia delle navi mercantili del paese oggetto delle sanzioni delle NU sia di quelle di qualsiasi altro paese terzo (che, in senso lato, può definirsi come «neutrale») 50
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al fine di accertare la natura e la destinazione del carico trasportato alla luce di quanto stabilito dalle apposite risoluzioni; b) esercitare la forza, secondo i principi della necessità e proporzionalità, minimizzandone l’intensità a evitare qualsiasi danno alle persone imbarcate, nel caso che un mercantile opponga resistenza alla visita o cerchi di sfuggire; c) dirottare (divert) il mercantile verso un porto di sua scelta, fuori dell’area in cui le risoluzioni ONU abbiano stabilito il divieto di trasportare rifornimenti, ovvero verso una diversion area per l’esecuzione della visita qualora le condizioni meteorologiche o l’inaccessibilità del carico non ne consentano l’esecuzione in mare per l’adozione dei provvedimenti di confisca del carico e di sequestro della nave nel caso che la violazione sia stata già accertata al momento della visita. 3. Tipologia embarghi Dall’esame delle risoluzioni emanate più di recente con riguardo alla situazione della Libia e della Cirenaica emerge invece una prassi parzialmente diversa. La Risoluzione 1973 (2011) ha, infatti, stabilito una classica forma di interdizione navale (v.) disponendo la facoltà per le navi da guerra operanti di adottare misure coercitive di visit and search come si deduce dalla formula di usare «tutte le misure proporzionate alle specifiche circostanze per condurre tali ispezioni», ma ha circoscritto l’embargo al solo traffico di armi, escludendo invece altri beni di valenza strategica come i carburanti. Questo regime è stato a più riprese prorogato con successive risoluzioni sino a oggi (2020) con una significativa deroga rispetto al precedente regime coercitivo: per l’abbordaggio ai mercantili sospetti, la Risoluzione 2292 (2016) stabilisce che lo Stato di bandiera dia il consenso ovvero che i paesi operanti in mare «make good-faith efforts to first obtain the consent of the vessel’s flag State prior to any inspections pursuant», con ciò legittimando l’adozione di procedure di «silenzio-assenso». Selettivo è stato anche l’embargo relativo al traffico petrolifero dalla Cirenaica stabilito con la Risoluzione 2146 (2014) volto a salvaguardare l’integrità territoriale ed energetica della Libia. ERITREA Vedi:
Delimitazione; Isole; Mar Rosso.
FLIGHT INFORMATION REGION (FIR) Vedi: Regione per le informazioni di volo. FRANCIA Vedi:
Acque territoriali (Mediterraneo); Baia di Mentone; Bocche di Bonifacio; Canale di Corsica; Delimitazione Linee di base (Mediterraneo); Pesca (Mediterraneo); Piattaforma continentale (Mediterraneo); Prevenzione delle attività pericolose in mare; Protezione dell’ambiente marino (Mediterraneo); Santuario per la protezione dei mammiferi; Zona contigua; ZEE (Mediterraneo).
Freedom of Navigation Programme (FON) Vedi: Baie storiche; Libertà dei mari; GENUIN LINK Vedi: Nazionalità della nave. Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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GEOPOLITICA DEL MARE L’essenza della geopolitica sta nelle relazioni che esistono tra una politica internazionale di potenza e le caratteristiche dei fattori geografici ed economici che la influenzano. Si pensi alle teorie sugli «spazi vitali» che, a cavallo delle due guerre mondiali, sono state utilizzate da regimi invasori come la Germania o il Giappone. Simili le motivazioni della politica coloniale messa in atto in Africa e nel Medio Oriente da alcune nazioni europee come la Francia o la stessa Italia, per appropriarsi, sulla sponda sud del mar Mediterraneo (v.), di territori appartenuti all’Impero ottomano. Non a caso, d’altronde, l’Impero spagnolo era stato costruito, dopo la scoperta dell’America, mediante l’appropriazione violenta di estesi territori costituenti i punti di approdo della rotta atlantica da sfruttare per acquisire materie prime, manodopera e mercati per i propri prodotti. Applicata agli spazi marittimi, la geopolitica mostra con maggior evidenza il suo radicamento in elementi geografici come la conformazione delle coste, la presenza di isole (v.) da utilizzare come basi commerciali e militari, l’importanza delle vie di comunicazioni commerciali passanti per stretti e punti di transito (v. Stretti e canali internazionali), l’esistenza di bassofondi ricchi di risorse ittiche, la necessità di proteggere l’ambiente marino dai rischi derivanti dal transito di navi con carichi pericolosi. Il pensiero è rivolto immediatamente al concetto imperiale romano del Mediterraneo come Mare nostrum, realizzazione in termini geopolitici di una visione di potere basato, sin dagli albori della lotta contro Cartagine, sul dominio dei «mari di casa». In sostanza un’anticipazione della teoria dei mari chiusi (v.) considerati come un’unità spaziale e politica. In aggiunta, si può ricordare sia la politica marittima veneziana che quella britannica. Venezia costruì le fondamenta della sua fortuna durata quasi mille anni sul controllo delle vie di comunicazione commerciali verso il Levante mediante l’acquisizione di isole come quelle ioniche, di Creta (al tempo denominata Candia), di Cipro e di porti dalmati, albanesi e greci. Non a caso le fortezze di Modone (Methoni) e Corone (Korone) nel Peloponneso erano dette «gli occhi di Venezia» in quanto punti di controllo dell’accesso all’Adriatico e approdi sulla rotta verso il Levante e la Terrasanta. In questa prospettiva si deve vedere il ruolo primario e privilegiato assegnato dalla Serenissima al suo Arsenale come cantiere gestito dallo Stato per la costruzione e manutenzione delle galee. In questa dimensione geopolitica orientata principalmente al mare va anche collocata la pretesa veneziana — così bene teorizzata da Fra Paolo Sarpi — di esercitare il controllo esclusivo sul golfo di Venezia (v. Baie storiche (Mediterraneo), vale a dire l’intero Adriatico considerato come spazio vitale per gli interessi della Serenissima e perciò vigilato costantemente da un Gruppo navale detto Squadra del golfo. La Gran Bretagna, altra nazione marittima per eccellenza, si impadronì, a partire dal Seicento, di una catena di isole in Atlantico, Mediterraneo e Pacifico (si ricordi l’occupazione di Malta che nel 1800 fu sottratta ai francesi e ai cavalieri di San Giovanni) che le consentirono in breve di divenire la prima potenza economica mondiale. Funzionale alla politica marittima britannica — che riuscì a sopravanzare Spagna, Francia, Olanda e Portogallo anch’esse impegnate in analoga competizione — era l’idea di avvalersi della sorveglianza navale dei principali stretti come Gibilterra, Bab el-Mandeb, Hormuz e Malacca (v. Stretti e canali internazionali) intesi come choke points necessari a mantenere il controllo delle principali rotte commerciali. Parte di questo disegno fu anche il canale di Suez (v.) che, benché inizialmente finanziato dalla Francia, entrò successiva- La dominazione marittima veneziana nella sua massima estensione mente nell’orbita britannica con l’occupa(Fonte: commons.wikimedia.org). 52
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zione nel 1882 della zona del canale e dell’intero Egitto. Il successo della Gran Bretagna nello sfruttare a pieno i fattori geopolitici a sé favorevoli si deve alla capacità di mettere in atto un’efficace strategia marittima. Come questo sia stato possibile è materia che richiede lo studio di vari fattori quali: storia, posizione geografica, conformazione fisica del territorio, estensione territoriale, popolazione, carattere nazionale, forma di governo. Quando, come nel caso della Gran Bretagna e degli Stati Uniti (il maggior teorico della strategia marittima è stato nell’Ottocento l’ammiraglio statunitense Alfred Mahan), tutti questi elementi interagiscono in senso positivo, si ha la creazione di quello che è definito come «potere marittimo». In definitiva, la geopolitica marittima è ancora un concetto da utilizzare per comprendere la politica marittima attuata nell’evo moderno delle potenze europee. Ciò non toglie tuttavia che fattori geopolitici sono spesso alla base di strategie adottate da Stati apparentemente privi di ambizioni di potenza. La piccola isola di Malta evidenzia, per esempio, ambizioni geopolitiche nello sfruttare la sua collocazione geografica e nel pretendere sia una vastissima area di piattaforma continentale (v. Piattaforma continentale-Mediterraneo), sia una altrettanto enorme zona SAR (v. Ricerca e soccorso in mare). Nel mare Artico (v.), ove è in corso una partita per aggiudicarsi le risorse dei fondali liberate dallo scioglimento dei ghiacci, Norvegia e Danimarca sono attivissime nel trarre vantaggio dalla propria posizione geografica, agendo in competizione con Canada, Stati Uniti e Russia. In effetti, a prescindere dall’eterno grande gioco sul mare delle superpotenze in cui è anche entrata con forza la Cina, di recente sono sorte vecchie dispute regionali perfettamente inquadrabili nella casistica geopolitica. Nel Mediterraneo la storia e la cronaca contemporanea ci presentano altri esempi significativi. La Tunisia ha portato avanti per più di cinquant’anni una disputa con l’Italia incentrata sull’esercizio di diritti esclusivi di pesca in una zona di alto mare a sud-est di Lampedusa denominata Mammellone (v. Pesca (Mediterraneo) da secoli frequentata da pescatori siciliani e per anni pattugliata da Forze navali della Marina Militare nell’ambito delle funzioni di Vigilanza Pesca (VIPE). La Libia ha invece utilizzato la pretesa sul golfo della Sirte (v.) come un’arma diplomatica per sfidare gli Stati Uniti nel campo della libertà di navigazione. La situazione dei bacini del mar Egeo (v.) e del Mar di Levante (v.) in cui sono coinvolti Grecia, Cipro e Turchia, configura inoltre casi di studio tipicamente geopolitici. Valenza geopolitica presenta, infine, altre questioni marittime concernenti il regime di alcuni mari chiusi come il Mar Nero (v.) e il mar Caspio (v.), lo status legale degli stretti e canali internazionali, e finanche la denominazione del Golfo Persico (v.) in contrapposizione a quella di Mar Arabico, o degli stretti Turchi (v.) che Grecia e Russia vorrebbero chiamarsi semplicemente «stretti». Sul concetto geopolitico di Mediterraneo allargato si rinvia alla voce mar Mediterraneo. Vedi anche: Global common (beni comuni). GERMANIA Vedi: Acque territoriali; Prevenzione delle attività pericolose in mare; Stretti e canali internazionali; Tribunale internazionale del Diritto del mare. GIBILTERRA Vedi: Acque territoriali (Mediterraneo); Stretti e canali internazionali (Stretto di Gibilterra).
GLOBAL COMMONS (BENI COMUNI) L’antico concetto romanistico dei beni res communes omnium insuscettibili di appropriazione è divenuto di attualità nel dibattito di natura accademica e geopolitica sull’accesso alle risorse dell’alto mare (v.) e dello spazio. Per quanto riguarda il mare è noto che nella compilazione delle Institutiones ( I. 2.1 pr.-1) di Giustiniano è affermato che «naturali iure communia sunt omnium haec: aer et aqua profluens et mare et maris». È logico collegare questo principio — a dimostrazione del suo valore universale — alla dottrina del libero uso delSupplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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l’alto mare (v. Libertà dei mari) sviluppatasi durante i secoli, sino a essere teorizzata da Hugo Grozio nel suo Mare Liberum con l’assunto che «Other goods …were not divided, because nature ordered that they had to remain communia. This was the case expecially with sea…». Certo è che l’alto mare, così come regolamentato oggi dall’UNCLOS, può considerarsi il paradigma dei moderni beni comuni caratterizzati da un uso incentrato sulla libertà di navigazione che è sì aperta a tutte le nazioni ma che non è indiscriminata. Alla libertà dell’alto mare fa riscontro, per quanto riguarda il fondo e il sottofondo del mare, l’area internazionale dei fondi marini (v.) concetto immaginato in sede NU dall’ambasciatore maltese Arvid Pardo: questi, nel 1967, in un suo intervento all’Assemblea generale, lanciò l’idea di considerare le risorse degli oceani al di là delle aree di giurisdizione nazionale come patrimonio comune dell’umanità («common heritage of mankind»). Anche l’Antartide è in teoria un’area che, non essendo soggetta alla sovranità di alcun Stato, secondo il trattato può rientrare a pieno titolo nella categoria, anche se con il Trattato del 1958, le parti non hanno rinunciato a loro specifiche pretese di sovranità. Una nuova specie di bene comune protetto in mare è rappresentata dalle risorse genetiche marine (v. Protezione della biodiversità marina) il cui accesso a beneficio di tutti si avvia a essere regolamentato nell’ambito di un accordo applicativo dei principi dell’UNCLOS, dedicato alla conservazione delle risorse marine nelle aree al di fuori della giurisdizione nazionale (ABNJ dall’acronimo inglese). In generale la biodiversità marina è considerata un «common concern of humankind». Infine va notato che il concetto di bene comune, declinato come global common nella visione statunitense della libertà dei mari (v.), ha assunto valenza geopolitica (v. Geopolitica del mare) nel senso che è associato a politiche tese a contrastare — come avviene nel Mar della Cina — l’egemonia marittima di altri Stati. GOLFO DI AQABA Vedi: Mar Rosso. GOLFO DI EL ARAB Vedi: Baie storiche (Mediterraneo). GOLFO DI GABES Vedi: Baie storiche (Mediterraneo); Linee di base (Mediterraneo). GOLFO DI GUINEA Vedi: Pirateria. GOLFO DELLA SIRTE Vedi: Baie storiche (Mediterraneo); Geopolitica del mare; Libertà dei mari; Linee di base (Mediterraneo). GOLFO DI TARANTO Vedi: Baie storiche (Mediterraneo); Linee di base (Mediterraneo). GOLFO DI TUNISI Vedi: Baie storiche (Mediterraneo); Linee di base (Mediterraneo). GOLFO DI TRIESTE Vedi: Acque territoriali (Mediterraneo). 54
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GOLFO DI VENEZIA Vedi: Baie storiche (Mediterraneo); Geopolitica del mare; Libertà dei mari; Mare Adriatico. GOLFO PERSICO Il Golfo Persico, essendo collegato all’oceano Indiano attraverso lo stretto di Hormuz (v.), rientra nella categoria dei mari chiusi (v.). È circondato dalle coste di Oman, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Qatar, Bahrain, Kuwait, Iraq e Iran. Le linee di base (v.) istituite dall’Iran nel 1973 non sono riconosciute dagli Stati Uniti che hanno formalmente protestato nel 1994. Gli Stati Uniti non riconoscono nemmeno la pretesa iraniana a esercitare «security jurisdiction» sulla propria zona contigua (v.). Dispute sussistono inoltre tra Iraq e Kuwait, e Iran e Arabia Saudita per contrastanti rivendicazioni su varie isole. Bahrain e Qatar hanno raggiunto un’intesa, sulla base della sentenza della Corte internazionale di giustizia del 16 marzo 2001, per la delimitazione (v.) delle zone marittime (acque territoriali (v.), piattaforma continentale (v.) e ZEE (v.) di rispettiva giurisdizione, e per le questioni di sovranità sulle isole Hawar. In passato sono stati stipulati accordi di delimitazione della piattaforma continentale tra Iran e Arabia Saudita (1969), Qatar (1970) Bahrain (1972), Dubai (1974) e Oman (1975). Irrisolta è tuttora la questione del confine marittimo tra Iran e Iraq nell’area del Chatt-al-Arab che ha originato nel 1981 la guerra tra i due paesi. In precedenza, nel 1975, era stata raggiunta un’intesa, con la mediazione dell’Algeria, che definiva questo confine fissandolo alla mediana del canale (c.d. thalweg) della confluenza dei fiumi Tigri ed Eufrate. Il termine Golfo Arabico non è riconosciuto dalle Nazioni unite come sostitutivo di Golfo Persico. Lo Chatt-el-Arab (Fonte: IBRU). GRAN BRETAGNA Vedi: Acque territoriali; Bandiera navale; Diritto del Mare (codificazione); Geopolitica del mare; Libertà dei mari; Prevenzione delle attività pericolose in mare; Stretti e canali internazionali (Stretto di Gibilterra). GRECIA Vedi:
Acque territoriali (Mediterraneo); Cavi e condotte sottomarine (Mediterraneo); Demilitarizzazione (Mediterraneo); Geopolitica del mare; Isole (Regime delle) Mar Egeo;
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Piattaforma continentale (Mediterraneo); Protezione dell’ambiente marino (Mediterraneo); Regione per le informazioni di volo; Ricerca e soccorso in mare; Spazio aereo nazionale; Stretti e canali internazionali; Traffico e trasporto illegale di migranti in mare (Mediterraneo); ZEE (Mediterraneo) GUARDIA COSTIERA (Corpo delle capitanerie di porto) Vedi: Bandiera navale; Nave da guerra; Nave in servizio governativo non commerciale; Pesca; Piattaforma continentale (sicurezza offshore); Protezione dell’ambiente marino; Ricerca e soccorso in mare; Sicurezza marittima; Traffico e trasporto illegale di migranti in mare. GUARDIA COSTIERA (Funzione della Marina Militare) Vedi: Pesca; Polizia dell’alto mare; Protezione dell’ambiente marino; Ricerca e soccorso in mare; Sicurezza marittima; Traffico e trasporto illegale di migranti in mare; Unione europea. GUARDIA DI FINANZA (Corpo della) Vedi: Bandiera navale; Nave da guerra; Nave in servizio governativo non commerciale; Ricerca e soccorso in mare; Sicurezza marittima; Traffico di stupefacenti in mare; Traffico e trasporto illegale di migranti in mare. HALAIB TRIANGLE Vedi: Mar Rosso. IMMIGRAZIONE IRREGOLARE VIA MARE Vedi: Blocco navale; Diritti umani in mare (Protezione dei); Polizia dell’alto mare; Ricerca e soccorso in mare; Traffico e trasporto illegale di migranti in mare. IMMUNITÀ DI GIURISDIZIONE (Immunità sovrana) Le navi da guerra (v.) e le navi in servizio governativo (v.) non commerciale hanno, in alto mare (v.), completa immunità (sovereign immunity) dalla giurisdizione di qualsiasi Stato diverso da quello di bandiera (UNCLOS 95 e 96). L’immunità delle navi da guerra e delle navi in servizio governativo non com56
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merciale permane durante il transito nelle acque territoriali (v.) o il soggiorno nelle acque interne (v.) di un altro Stato e riguarda l’esenzione da fermo, ispezione, tasse e applicazione di leggi straniere. L’immunità dalla giurisdizione civile e doganale delle navi in servizio governativo non commerciale durante le soste in porti esteri è regolamentata dalla Convenzione di Bruxelles del 1926 sulle navi di Stato e relativo Protocollo applicativo. Il regime di immunità di cui godono le navi da guerra durante la sosta in porti esteri è stato esaminato dal tribunale arbitrale chiamato a pronunciarsi sulla concessione di misure provvisorie a favore della fregata Argentina ARA Libertad la quale, durante la visita a Port Tema (Ghana), era stata sottoposta dalle autorità locali a misure giudiziarie di fermo e sequestro per pretese inadempienze contrattuali e amministrative. Con Ordinanza del 15 dicembre 2012 la Corte ha stabilito che il Ghana dovesse consentire senza condizioni che la nave lasciasse il porto e le acque di giurisdizione nazionale provvedendo anche al suo rifornimento. È importante notare che nelle premesse del provvedimento si riconosca che: 1) «any act which prevents by force a warship from discharging its mission and duties is a source of conflict that may endanger friendly relations among States»; 2) «actions taken by the Ghanaian authorities that prevent the ARA Libertad…from discharging its mission and duties affect the immunity enjoyed by this warship under general international law»; 3) «attempts by the Ghanaian authorities on 7 november 2012 to board the warship ARA Libertad and to move it by force to another berth without authorization by its Commander and the possibility that such actions may be repeated, demonstrate the gravity of the situation and underline the urgent need for measures…». In conseguenza della condizione di immunità di tali navi pubbliche, i fatti delittuosi avvenuti a bordo durante il soggiorno in acque sotto sovranità straniera, qualunque sia la loro natura, ricadono sotto la giurisdizione dello Stato di bandiera; il colpevole resta quindi a bordo in attesa di essere sottoposto a procedimento al rientro in patria. All’unità navale potrà, tuttavia, essere richiesto di lasciare il porto e uscire dalle acque territoriali. Lo Stato costiero ha, invece, giurisdizione sui fatti che abbiano ripercussioni sul suo territorio; qualora si tratti di illeciti di scarso rilievo è consuetudine che il colpevole sia riconsegnato alle autorità di bordo. Nessun’altra misura è perciò adottabile dallo Stato costiero nei confronti di una nave da guerra o una nave in servizio governativo non commerciale. L’immunità dalla giurisdizione straniera dei membri dell’equipaggio per i fatti accaduti a bordo si estende sia a quelli avvenuti su imbarcazioni della nave sia a quelli commessi a terra, in divisa, durante il compimento di un servizio. Circa tali reati connessi al servizio, la rinuncia alla giurisdizione da parte dello Stato del porto dovrebbe essere prevista da uno specifico accordo appartenente al genus dei SOFA (Status of Force Agreement) simile a quelli in vigore tra le Forze dei paesi NATO o UE. In assenza di un simile accordo, in teoria può invocarsi la prassi navale (che per il vero non sembra assurta a livello di consuetudine internazionale) in forza della quale il paese ospite rinuncia tacitamente alla propria giurisdizione a vantaggio di quella del paese di bandiera. Elementi in favore di questa prassi si traggono dalla Dichiarazione di Stoccolma del 1928 relativa al «Regime delle navi e dei loro equipaggi nei porti stranieri in tempo di pace» (documento non-binding elaborato dall’Institut de Droit International) nel quale si afferma (art. 20, 3 e 4) che: «Si des gens du bord, se trouvant à terre en service commandé, soit individuellement, soit collectivement, sont inculpés de délit ou de crime commis à terre, l’autorité territoriale peut procéder à leur arrestation, mais elle doit les livrer au commandant sur la demande de celuici. L’autorité territoriale doit, lors de la remise des délinquants, faire suivre les procès-verbaux constatant les faits; elle a le droit de demander qu’ils soient poursuivis devant les autorités compétentes et qu’avis lui soit donné du résultat des poursuites». Diversa la situazione — secondo quel che risulta dalla citata dichiarazione di Stoccolma del 1928 — nel caso di reati non inerenti al servizio commessi a terra da membri dell’equipaggio, dal momento che i medesimi ricadono pienamente sotto la giurisdizione delle autorità locali. Le stesse autorità, sulla base di una prassi invalsa in alcuni paesi (Italia compresa), possono però rinunciare a perseguire i fatti commessi, qualora essi siano di scarsa lesività penale, consegnando i colpevoli al comando di bordo: in questo modo si attua una sorta di espulsione amministrativa. Qualora il colpevole riesca a salire a bordo egli gode comunque di immunità: potrà essere consegnato alle autorità locali soltanto a seguito di estradizione, qualora tra i due paesi esista un accordo di cooperazione giudiziaria. In relazione al regime di immunità sovrana di cui godono, le navi da guerra e le navi in servizio governativo non commerciale sono esenti dall’applicazione delle disposizioni dell’UNCLOS riguardanti Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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la protezione dell’ambiente marino (v.), pur dovendo fare in modo di osservarle, per quanto ragionevole e possibile in relazione alle proprie esigenze operative (UNCLOS 236). All’immunità è anche connessa la facoltà, di cui godono le navi pubbliche, durante la sosta in un porto estero, di dare rifugio temporaneo (v.) a connazionali e cittadini dell’Unione europea o anche a persone di nazionalità straniera la cui integrità personale sia minacciata da pericolo imminente. Questione dibattuta è se le navi da guerra e le altre navi pubbliche conservino la loro condizione di immunità dopo essere affondate. Il problema si pone per i relitti giacenti da non lungo tempo (meno di 100 anni) in acque internazionali o nelle acque territoriali di un altro Stato, ma anche per quelle di epoca più antica per le quali è più difficile provare una continuità di «dominio» da parte dello Stato di bandiera (v. Protezione patrimonio culturale sommerso). Esula dal tema dell’immunità sovrana la condizione delle navi mercantili durante il transito in acque territoriali (v. transito inoffensivo). I mercantili, benché siano territorio dello Stato di bandiera, possono a certe condizioni essere sottoposte alla giurisdizione dello Stato costiero. Questo ha, infatti, il potere di intervenire penalmente nell’ipotesi di fatti commessi a bordo di una nave in transito qualora si tratti di reati che hanno conseguenze sullo Stato stesso o siano tali da disturbarne la pace e il buon ordine, ovvero l’intervento delle autorità locali sia stato richiesto (UNCLOS 27). Egualmente inappropriato è il riferimento all’immunità sovrana per i nuclei militari di protezione imbarcati su navi mercantili a protezione dei rischi da attacchi di pirateria (v.): in questo caso deve, infatti, parlarsi di immunità funzionale di cui godono all’estero i rappresentanti ufficiali di uno Stato (nell’ipotesi di specie i militari componenti il team) per fatti commessi per servizio in adempimento di ordini, istruzioni o ROE. Vedi anche: Ricerca e soccorso in mare; Protezione dell’ambiente marino (Mediterraneo); IMPERO ROMANO Vedi: Geopolitica del mare; Mar Mediterraneo; Pirateria. IMPRESA INTERNAZIONALE DEI FONDI MARINI Vedi: Area internazionale dei fondi marini. INTERNATIONAL MARITIME ORGANIZATION (IMO) Vedi: Organizzazione Marittima Internazionale. INCHIESTA DI BANDIERA È l’attività di accertamento, inquadrabile nell’ambito della polizia dell’alto mare (v.), della nazionalità di un mercantile compiuta da una nave da guerra (v.) come atto prodromico all’eventuale esercizio del diritto di visita (v.). Una nave mercantile, nel caso in cui, incontrando una nave da guerra, non si attenga alla prassi del cerimoniale marittimo (v.) che le impone di effettuare per prima il saluto mostrando la propria bandiera, può essere invitata a comunicare la nazionalità ove esista un ragionevole motivo di sospetto. La richiesta è fatta dalla nave da guerra alzando la bandiera nazionale o con altro segnale ottico. Se la richiesta non viene soddisfatta, l’unità militare è autorizzata a sparare a proravia o, come estrema ratio, a far uso della forza. Nell’esercizio dell’inchiesta la nave da guerra può avvicinarsi al mercantile sospetto (di qui il termine anglosassone «right of approach») il quale non ha tuttavia obbligo di sostare per facilitare l’azione. Dopo che la nave mercantile abbia mostrato la bandiera, si può procedere a visita nel caso in cui permangano dubbi sulla nazionalità o vi siano sospetti su attività illecite rientranti nella casistica del diritto di visita (pirateria, tratta degli schiavi, trasmissioni non autorizzate). A tal fine la nave da guerra, ordinato al mercantile di fermarsi, può inviare a bordo della nave fermata un ufficiale, accompagnato dal personale ritenuto necessario, con il compito di esaminare le carte di bordo (atto di nazionalità, ruolo equipaggio, giornale nautico, ecc.) o di procedere a ulteriori accertamenti sulla nave. 58
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L’ordinamento italiano prevede che «le navi mercantili nazionali devono obbedire all’intimazione di fermata delle navi da guerra di potenze amiche, giustificando, se richieste, la propria nazionalità» (CN 201). INTERDIZIONE MARITTIMA (Marittime Interdiction Operations) L’elaborazione della nozione di «Maritime Interdiction Operations» (MIO) si deve alla dottrina giuridica della US Navy. Con questa espressione si indica l’attività di sorveglianza e interdizione del traffico marittimo commerciale di qualsiasi bandiera posta in essere da navi da guerra (v.) sulla base di un embargo navale (v.) o nell’ambito dell’esercizio del diritto di legittima difesa internazionale. Le misure adottabili nelle MIO sono quelle classiche di: 1) richiesta di identificazione (query) e informazioni circa destinazione, origine, immatricolazione e carico; 2) fermo, visita e ispezione (visit and search); 3) dirottamento (diversion) in porti diversi da quelli di destinazione anche in vista dell’eventuale sequestro del carico qualora ciò sia autorizzato da risoluzioni ONU; 4) uso della forza secondo principi di necessità, proporzionalità e gradualità contro i mercantili che non obbediscono all’intimazione di fermo (v. Polizia dell’alto mare). Le MIO costituiscono misure applicative di specifiche risoluzioni ONU che stabiliscano un embargo coercitivo come nel caso del regime sanzionatorio marittimo verso l’Iraq, la ex Iugoslavia o la Libia. Quando non si verifichino queste condizioni, la base legale può essere rinvenuta, a seconda delle circostanze, nel principio della legittima difesa internazionale ex art. 51 della Carta o anche nella difesa preventiva che può assumere la forma dell’anticipatory self-defence nell’imminenza di un attacco armato, o della pre-emptive self defence qualora si voglia evitare una potenziale minaccia. Quest’ultima giustificazione è stata posta, dagli Stati Uniti, a fondamento e dell’operazione marittima Enduring Freedom condotta a partire dal 2002 contro al-Qaeda nel Mar Arabico e del blocco di Cuba messo in atto nel 1962, definito «Maritime Quarantine» (v. Blocco navale). In casi del genere le navi da guerra impegnate in operazioni di interdizione adottano, infatti, misure navali di interferenza con la libertà di navigazione dei mercantili di bandiera straniera che possono trovare una qualche legittimazione, in via analogica, solo se si fa riferimento al regime della neutralità marittima (v.) caratteristico dei conflitti armati sul mare. Le MIO vengono inquadrate nell’ambito più generale delle Maritime Security Operations (MSO). Vedi anche: Contrabbando di guerra; Libertà dei mari; Proliferation security iniziative (PSI); Terrorismo marittimo, Traffico e trasporto illegale di migranti in mare. INTERESSI MARITTIMI NAZIONALI Vedi: Polizia dell’alto mare. IRAN Vedi:
Mar Caspio; Golfo Persico; Stretti e canali internazionali; Transito inoffensivo delle navi da guerra; ZEE.
ISOLE (Regime giuridico delle) 1. Principi generali Il regime giuridico applicabile alle isole è così regolamentato dall’UNCLOS, art. 121: «1. Un’isola è una distesa naturale di terra circondata dalle acque, che rimane al di sopra del livello del mare ad alta marea. 2. Fatta eccezione per il disposto del numero 3, il mare territoriale, la zona contigua, la zona economica esclusiva e la piattaforma continentale di un’isola vengono determinate conformemente alle disposizioni della presente convenzione relative ad altri territori terrestri. 3. Gli scogli che non si prestano all’insediamento umano né hanno una vita economica autonoma non possono possedere né la zona economica esclusiva né la piattaforma continentale». Appare chiaro dalla lettura di tale disposizione che le isole sono sottoposte allo stesso regime della terra ferma avendo titolo ai medesimi spazi marittimi. L’essenziale è che si tratti di un’isola in senso stretto e cioè di una terra circondata sempre dal mare. Altrimenti, se si tratta invece di un semplice scoglio Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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disabitato e inabitabile, tale titolarità non sussiste. Egualmente atipica è la situazione giuridica degli scogli affioranti a bassa marea e cioè, come recita l’art. 13 dell’UNCLOS, «un rialzamento naturale del fondale attorniato dalle acque, che emerge a bassa marea ma è sommerso ad alta marea»: esso non ha titolo a possedere acque territoriali tranne che sia a una distanza dalla terraferma non superiore alla larghezza delle acque territoriali: in questo caso può essere utilizzato per tracciare linee di base (v.). Per comprendere il problema bisogna pensare alla miriade di scogli disabitati delle Isole Spratly e Paracels di cui la Cina afferma il possesso costruendovi strutture fisse in modo da poter reclamare spazi di acque territoriali e ZEE. Oppure all’isolotto di Rockall che, benché affiori solo qualche decina di metri e abbia ridottissimo perimetro costiero di circa 500 m, è conteso da Gran Bretagna, Islanda, Irlanda e Danimarca interessate a sfruttarne le risorse naturali (v.) di piattaforma continentale e ZEE. Il tracciamento di linee di base utilizzando isole in senso stretto presuppone, comunque, che esse siano vicine alla costa e siano legate alla terraferma da interessi economici e forme di dominio terrestre (UNCLOS, art. 7). 2. Problemi delimitazione Altro problema è quello dell’effetto che le isole possono avere nella delimitazione (v.) degli spazi marittimi tra Stati con coste opposte o adiacenti. La questione è stata più volte oggetto di decisioni della giurisprudenza internazionale tenendo conto delle particolarità del singolo caso, senza che tuttavia possa dedursi l’esistenza di criteri generali (v. fig. pag. 36 e pag. 37). L’unico principio valido per la delimitazione di ZEE e piattaforma continentale è, infatti, quello del «risultato equitativo». Nel caso della delimitazione del Mar Nero (v.) la Corte internazionale di giustizia con sentenza del 2009, ha per esempio affermato l’irrilevanza dell’isola dei Serpenti, ai fini della definizione della frontiera marittima di ZEE e piattaforma continentale, pur riconoscendo alla stessa isola la titolarità a 12 mn di acque territoriali. Eguale indirizzo è stato sostenuto dall’ITLOS nel caso Bangladesh-Mynmar affermando che «…l’effetto da attribuire a un’isola… dipende dalle realtà geografiche e dalle circostanze del caso. Non esiste una regola generale…». È chiaro, per esempio, che un conto è la Sardegna cui va riconosciuto, per le sue dimensioni, un effetto pieno nei confronti dell’Algeria, un’altra è la piccola Kastelorizo cui non potrebbe essere attribuito lo stesso peso nella delimitazione della ZEE con la Turchia. Quanto alle ipotesi in cui — come avviene tra Grecia e Turchia — vi siano formazioni insulari tra le rispettive coste continentali che ricadano nella «parte sbagliata» della mediana, in mancanza di regole si tende a modificare la linea di equidistanza o a seguire la soluzione della enclave (vedi accordo italo-tunisino a pag. 116). 3. Contese per sovranità territoriale Connessa all’effetto sui confini marittimi vi è anche, a volte, una questione di titolarità del possesso di un’isola o di un gruppo di isole. Il problema delle isole contese si inquadra nell’ambito più generale dei principi per l’acquisizione della sovranità territoriale. La questione è stata esaminata dalla Corte internazionale di giustizia nel caso riguardante alla disputa relativa alle isole Hawar e Zubarah del Golfo Persico tra Qatar e Bahrain; la Corte ha concluso che le isole costituiscono terra firma e sono perciò soggette alle regole e ai principi dell’acquisizione territoriale. La giurisprudenza della stessa Corte è consolidata nel richiedere, come prova dell’esistenza di un titolo, la manifestazione di effettività della pretesa, vale a dire «display of authority on a given territory». Questo principio è stato riaffermato nella sentenza del 2012 sul caso Nicaragua-Colombia, per stabilire che la Colombia può a buon diritto vantare sovranità su determinate isole in contestazione, avendo su di esse esercitato per lungo tempo e senza proteste da parte del Nicaragua, forme di autorità. La dottrina ha elaborato, in materia, la teoria dei tre modi di acquisto di sovranità territoriale e cioè: scoperta, occupazione e conquista. Nel primo caso si tratta della prassi diffusasi all’inizio dell’evo moderno dell’annessione di un territorio considerato nullius perché non rivendicato da alcuno Stato. Altrimenti si verte nell’ipotesi di insediamento di uno Stato su un’isola di un altro Stato o con la forza o l’acquiescenza del sovrano territoriale. In ogni caso, fermo restando che l’occupazione violenta di un territorio costituirebbe una forma di aggressione vietata dal diritto internazionale, il titolo di possesso si consolida solo se vi è esercizio effettivo, continuo e prolungato di sovranità con l’acquiescenza degli Stati 60
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terzi. Se si pensa ai modi in cui si è formata la potenza marittima spagnola sin da quando nel 1492 Colombo sbarcò, nel nome della corona spagnola, su Hispaniola, si ha un’idea di come tale teoria sia stata sistematicamente applicata durante i secoli passati. Un caso di studio è quello dell’Isola Ferdinandea che apparve nel 1831, che inabissatasi dopo pochi mesi di vita effimera, giace ora a pochi metri sotto il mare a poche miglia da Sciacca. La questione sulla possibile sovranità italiana qualora essa riemergesse si è accesa nel 2001. Di fronte a notizie sull’attività sismica dell’area, che sembravano far presagire una fuoriuscita di materiale vulcanico in forma di isola, la stampa inglese reclamò i diritti della corona ricordando che una bandiera britannica era stata piantata nel 1831 su quella che veniva denominata isola di Graham, ma dimenticando che il Regno delle Due Sicilie l’aveva già considerata proprio territorio. Il titolo derivante da un trattato è un peculiare modo di acquisto di sovranità sulle isole. Quando la potenza francese era già tramontata, il Congresso di Vienna del 1815 legittimò la presenza sull’isola di Malta della corona britannica già insediatasi de facto. Simile la situazione delle isole ottomane di Rodi e del Dodecaneso che passarono de jure al Regno d’Italia con il Trattato di Losanna del 1923 per poi essere assegnate, alla fine della Seconda guerra mondiale, alla Grecia, dal Trattato di Pace del 10 febbraio 1947 tra l’Italia e le potenze alleate. La dissoluzione dell’Impero ottomano, che era alla base della sua spartizione operata con il citato trattato di Losanna, continua ad avere una strana appendice nella vicenda di Gavdos. Quest’isola a sud di Creta — che alcuni identificano nella mitica Ogigia della ninfa Calypso, un tempo veneziana, poi sottratta dalla Grecia all’Impero ottomano nel 1908 e attualmente abitata e amministrata da cittadini greci — è stata rivendicata a più riprese dalla Turchia, sostenendo che essa non era compresa tra quelle cedute con il trattato di Losanna. Simile la contesa che ha opposto con toni violenti Grecia e Turchia per l’isolotto disabitato di Imia (Kardak, in turco) nel 1996 (v. Mar Egeo). Nel Mar Rosso (v.) lo Yemen e l’Eritrea hanno risolto nel 1998 la controversia relativa alle isole Hanish, un tempo sotto sovranità ottomana, poi rimaste nel Novecento prive di nazionalità, ma sostanzialmente sotto il controllo congiunto di Gran Bretagna e Italia, allora insediata nella colonia Eritrea. L’interesse concorrente di Yemen ed Eritrea per l’arcipelago, collocato in prossimità dello Stretto di Bab el-Mandeb e strategicamente importante sia ai fini del controllo del traffico marittimo, che dello sfruttamento di possibili giacimenti petroliferi, ha generato la disputa. Dopo l’occupazione dell’Isola di Hânîsh al-Kabîr da parte dell’Eritrea nel 1995, i due paesi hanno deferito la controversia, relativa alla sovranità, a un tribunale arbitrale che, con sentenza del 9 ottobre 1998, ha attribuito allo Yemen la gran parte dell’arcipelago in considerazione dell’animus possidendi manifestato per un periodo rilevante con l’acquiescenza dell’Eritrea. Non ancora risolta è invece la disputa delle Falkland-Malvinas che contrappone Gran Bretagna ad Argentina da quando questa, nel 1982 ha cercato di occuparle militarmente. È noto che l’impiego da parte inglese di un forte dispositivo bellico aeronavale ha evitato che l’Argentina riuscisse nel suo intento, rafforzando l’amministrazione britannica che, iniziata de facto nel 1833, continua a oggi con il pieno consenso della popolazione residente. La scoperta di ingenti giacimenti energetici ha riacceso l’interesse dell’Argentina; la Gran Bretagna, pur mantenendone il possesso, parrebbe orientata a raggiungere un accordo. A seguito di un referendum tenutosi nel 2013, gli abitanti di quello che l’Inghilterra considera un suo territorio oltremare, hanno scelto di rimanere britannici. Allo stesso modo si trascina da quasi due secoli la contesa, nel Pacifico settentrionale, tra Russia e Giappone per le isole Kurili e tra Giappone e Corea del Sud per gli isolotti di Dokdo. La Cina si confronta invece con Brunei, Filippine, Malesia, Giappone, Taiwan e Vietnam, in una partita che riguarda varie pretese su materie come pesca, ricerca scientifica o prospezioni petrolifere, per il possesso delle già citate isole Paracels e Spratly del Mar Cinese Meridionale. Le Filippine nel 2013 hanno sottoposto la questione dei diritti pretesi dalla Cina, relativamente alle isole di proprio interesse, a un tribunale arbitrale (PCA Case 2013-19). La Corte, pur in assenza della Cina, non costituitasi nel procedimento, ha emanato una sentenza nel 2016 parzialmente favorevole alle Filippine. Nella decisione si stabilisce, tra l’altro, che: i diritti pretesi nella c.d. «Nine Dash Line» (linea dei nove tratti) esulano dall’ordinario regime dell’UNCLOS e devono perciò trovare fondamento in consolidati titoli storici della Cina, peraltro non dimostrati; le isole come gli scogli disabitati delle Spratly «non possono generare una zona marittima estesa, o una zona Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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Delimitazione tra isolotti del Dodecanneso e Turchia, stabilita dal protocollo italo-turco del 1932; il punto 30 è quello di equidistanza tra lo scoglio di Kardak (in greco, Imia) e l’isolotto turco di Kato (Fonte: commons.wikimedia.org). Formazioni insulari Mar Cinese Meridionale (Fonte: US LIS, 143).
economica esclusiva» che si sovrapponga a quella filippina; l’accesso dei pescatori filippini alle acque della secca di Scarborough si basa su diritti di pesca tradizionali; il ricorso a manovre pericolose da parte di unità navali cinesi impegnate in attività di law enforcemente (v. Polizia alto mare) non trova fondamento nel diritto internazionale. Nel 2017 si è invece risolta la questione del possesso delle Isole di Sanafir e Tiran poste all’imboccatura dello stretto di Tiran (v.), occupate dall’Egitto sin dagli anni Cinquanta del secolo scorso su richiesta dell’Arabia Saudita, poi passate sotto controllo militare israeliano durante il 1967, e infine riconsegnate all’Egitto nel 1982 a seguito degli accordi di pace di Camp David. L’Egitto, previa autorizzazione del proprio parlamento, le ha, infatti, definitivamente trasferite all’Arabia Saudita cui appartenevano per successione all’Impero ottomano. Nel 2016 i due paesi — che portano avanti un progetto di costruzione di un ponte che, passando sulle isole, unisca le sponde dello stretto — hanno anche firmato un accordo di deliStretto di Tiran, isole Sanafir e Tiran (Fonte: UN LIS, 112). mitazione marittima.
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ISOLA DI PELAGOSA (Palagruca) Vedi: Demilitarizzazione (Mediterraneo); Pesca (Mediterraneo); Piattaforma continentale (Mediterraneo). ISRAELE Vedi:
ITALIA Vedi:
Blocco navale; Diritto del mare (codificazione); Palestina; Stretto di Tiran.
Acque territoriali (Mediterraneo); Area internazionale dei fondi marini; Baie storiche (Mediterraneo); Blocco navale; Bocche di Bonifacio; Canale di Corsica; Canale d’Otranto; Canale di Suez; Demilitarizzazione (Mediterraneo); Geopolitica del mare; Linee di base (Mediterraneo); Mare Adriatico; Mare Mediterraneo; Mar Rosso; Nave da guerra; Nave in servizio governativo; Nazionalità della nave; Pesca (Mediterraneo); Piattaforma continentale (Mediterraneo); Pirateria; Polizia marittima; Prevenzione attività pericolose in mare; Protezione dell’ambiente marino (Mediterraneo); Ricerca e salvataggio marittimo Ricerca scientifica in mare; Santuario per la protezione dei mammiferi; Stretti Turchi; Stretto di Messina; Stretto di Sicilia; Stretto di Tiran; Stretti e canali internazionali; Traffico illecito di stupefacenti in mare; Traffico e trasporto illegale di migranti in mare; Transito inoffensivo delle navi da guerra; Transito e soggiorno nelle acque territoriali italiane; Zona archeologica; Zona contigua; Zona economica esclusiva; Zona economica esclusiva (Mediterraneo); Zona interdetta alla navigazione.
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IUGOSLAVIA (ex REPUBBLICA FEDERALE DI) Vedi: Acque territoriali (Mediterraneo); Contrabbando di guerra; Embargo navale; Linee di base (Mediterraneo); Mare Adriatico; Piattaforma continentale (Mediterraneo); Protezione ambiente marino (Mediterraneo); Successione tra Stati; Zona interdetta alla navigazione; Zona pericolosa per la navigazione e il sorvolo. JETTISON AREA (Area di scarico) Vedi: Zona pericolosa per la navigazione e il sorvolo. KAZAKISTAN Vedi: Mar Caspio. LIBANO Vedi:
Blocco navale; Mar di Levante; ZEE (Mediterraneo).
LIBERTÀ DEI MARI 1. Mare liberum vs Mare clausum La prima affermazione del principio per cui «ciascuno è libero, per il diritto delle genti, di viaggiare sul mare in quei luoghi e presso quelle nazioni che a lui piaccia», si deve a Hugo Grotius che nella sua dissertazione Mare Liberum scritta nel 1601, sostenne la tesi della libertà di navigazione degli olandesi contro le pretese portoghesi di esercitare diritti sovrani nell’oceano Indiano. Le rivendicazioni del Portogallo si basavano sulla Bolla Inter caetera di papa Alessandro VI del 4 maggio 1493 che aveva attribuito alla Spagna le isole e i territori posti di là della linea congiungente i poli, situata a 100 leghe a ovest delle Azzorre e di Capo Verde. E anche sul successivo trattato di Tordesillas del 7 giugno 1494 con il quale, mediante una linea congiungente i poli, passante 370 leghe a ovest di Capo Verde, era stata sancita la suddivisione delle sfere di influenza marittima tra la Spagna e il Portogallo. La stessa Spagna, pur sostenendo propri diritti esclusivi sugli oceani, si oppose sul finire del Cinquecento alla pretesa della Repubblica di Venezia di possesso esclusivo del mare Adriatico denominato al tempo golfo di Venezia (v. Baie storiche-Mediterraneo). Alla dottrina del Mare liberum si oppone quindi quella del Mare clausum. Il principio affermato da Grozio, del mare come bene comune non suscettibile di appropriazione esclusiva e perciò aperto alla libera navigazione, fu contrastato dalla Gran Bretagna, a difesa dei propri interessi commerciali di pesca nel Mare del Nord, con l’opera di Selden, Mare Clausum seu Dominium Maris del 1635. In seguito, la stessa Inghilterra mutò indirizzo, facendo della libertà dei mari l’emblema della sua politica di potenza marittima (v. Geopolitica del mare). La visione britannica della libertà di mare è perfettamente espressa dal giudice Lord Stowell dell’Alta corte dell’ammiragliato, nell’ambito della decisione sul caso del Le Louise (1817) con il seguente dictum: «Essendo tutte le nazioni eguali, esse hanno un eguale diritto di far uso continuo degli spazi liberi degli oceani…dove non esiste un’autorità locale, dove tutti gli Stati si incontrano su un piede di parità e indipendenza». Unica deroga ammessa divenne la regola dell’estensione delle acque territoriali (v.) dei singoli Stati sino alla distanza di 3 miglia, corrispondenti alla massima gittata delle artiglierie dell’epoca. Agli inizi del Novecento la libertà dei mari ha avuto una sua consacrazione nel secondo dei «Quattordici Punti» con cui il presidente Wilson difese gli interessi marittimi degli Stati Uniti sostenendo «la libertà assoluta di navigazione su tutti i mari, fuori delle acque territoriali, in pace e in guerra, salvo che i mari siano totalmente o in parte chiusi da un’azione internazionale per l’applicazione di accordi internazionali». Ma la politica di Wilson sulla libertà di navigazione, più che una scelta estemporanea, era l’espressione di un
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principio impresso nel patrimonio genetico della nazione statunitense sin da quando, agli inizi dell’Ottocento, il presidente Jefferson aveva inviato unità navali contro il pasha di Tripoli per contrastare gli atti di pirateria (v.) associati alla pretesa d’imporre tributi alla navigazione commerciale. Nel 1825, nel decidere il caso «Marianna Flora», la US Supreme court aveva affermato che «negli oceani, in tempo di pace, tutte le nazioni possiedono una completa eguaglianza in quanto il mare è la via di comunicazione comune a tutti, in cui nessuno può vantare prerogative maggiori o esclusive». La libertà di navigazione tornò alla ribalta dopo la Seconda guerra mondiale con la sentenza in cui la Corte internazionale di Giustizia del 1949 sul caso dello stretto di Corfù, dichiarò che la libertà di navigazione delle navi da guerra nelle acque territoriali degli stretti si configura come un «general and well-recognized principle». In contrapposizione all’approccio liberista di potenze come Stati Uniti e Gran Bretagna, la Russia, sin dal periodo zarista ma anche in quello sovietico e post-sovietico, ha sempre sostenuto tesi che le permettessero il controllo esclusivo di ampi spazi di mare. Nel Memorandum del 1950 dell’’International Law Commission dedicato alla dottrina marittima sovietica, era chiaramente specificato che Mosca, a fronte della proclamata fedeltà ai principi marittimi liberistici, avanzava da tempo varie rivendicazioni che li contraddicevano; erano, infatti, considerati «mari chiusi», non solo il bacino lacustre del mar Caspio (v.), ma anche il Mar Nero (.v.), il Mar di Azov e il mare Artico (v.). 2. Regime giuridico Il luogo di elezione della libertà dei mari è l’alto mare, come espressamente riconosciuto dalla II Convenzione di Ginevra del 1958 il cui art. 2,1 che ha così regolamentato con un linguaggio che riecheggia i secoli passati: «Essendo l’alto mare aperto a tutte le nazioni, nessuno Stato può validamente sostenere di assoggettarne alcuna parte alla propria sovranità». Il principio della libertà dei mari codificato in tal modo è attualmente contenuto nell’art. 87,1 dell’UNCLOS che lo declina nel modo tradizionale («l’alto mare è aperto a tutti gli Stati, sia costieri sia privi di litorale»). L’art. 125,1 regolamenta inoltre in modo specifico il diritto degli Stati privi di litorale di accesso al mare e dal mare per esercitare i diritti riconosciuti nella presente Convenzione, inclusi quelli relativi alla libertà dell’alto mare» (v. Bandiera navale; Nazionalità della nave). Al riguardo, si cita il caso Bolivia-Cile deciso dalla ICJ nel 2018, in cui è stato affermato che l’accesso della Bolivia al mare è questione da risolvere per accordo, anche se è esclusa, da parte cilena, l’esistenza di un obbligo di negoziare. La valenza generale del principio contenuto nell’art. 87 dell’UNCLOS è stata riaffermata dall’ITLOS in una sentenza del 2019 relativa al caso del M/V Norstar, nave cisterna sequestrata nel 1998 in Spagna su ordine della magistratura italiana per violazione di norme doganali connesse al rifornimento in alto mare di un’imbarcazione da diporto rientrata in Italia subito dopo il bunkeraggio. Il tribunale ha escluso la nostra giurisdizione prescrittiva, osservando che: 1) «article 87 of the Convention, which concerns the freedom of the high seas, provides that the high seas are open to all States and that the freedom of the high seas comprises, inter alia, the freedom of navigation»; 2) «Decree of Seizure by the Public Prosecutor at the Court of Savona against the M/V Norstar with regard to activities conducted by that vessel on the high seas and the request for its execution…may be viewed as an infringement of the rights of Panama under article 87 as the flag State of the vessel». L’art. 87 ha anche una portata ulteriore in quanto va letto in connessione con l’art. 58 che, relativamente alla ZEE, garantisce a tutti gli Stati l’esercizio delle «libertà di navigazione e di sorvolo e di altri usi del mare, leciti in ambito internazionale, collegati con tali libertà, come quelli associati alle operazioni di navi, aeromobili, condotte e cavi sottomarini, e compatibili con le altre disposizioni della presente convenzione». Per comprendere tale regime va considerato che l’importanza dell’alto mare nella governance degli oceani è in un certo modo diminuita con l’approvazione dell’UNCLOS che ha cercato di conciliare le tradizionali istanze alla libertà di navigazione negli oceani con quelle relative al rafforzamento della giurisdizione funzionale nelle aree marittime costiere. Negli anni Settanta del Novecento si sviluppò, in Sudamerica e Africa centrale, il movimento per la protezione delle risorse di pesca nella fascia delle 200 mn; apparve chiaro così che la posta in gioco era l’erosione della libertà dei mari al di là delle acque territoriali; il passo ulteriore fu l’istituzione di ZEE (v.). Il conflitto tra paesi territorialisti e paesi liberisti (tra i quali c’erano ovviamente le potenze marittime come Stati Uniti e Gran Bretagna) fu composto attraverso forme di compromesso da cui scaturì la regolamentazione sui generis e tutto sommato ambigua del suindicato art. 58 dell’UNCLOS. Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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Oltre che nell’alto mare e nelle ZEE, la libertà dei mari si esplica anche nelle acque territoriali (v.) con il diritto di transito inoffensivo (v.) condizionato dall’obbligo di rispettare la sovranità e l’integrità territoriale dello Stato costiero. Analogo il regime di passaggio negli stretti e nei canali internazionali (v.). Dall’incertezza dell’applicazione alla navigazione militare delle norme generali deriva la questione della mobilità delle flotte. 3. Mobilità delle flotte La prassi di alcuni Stati si è in alcuni casi sviluppata secondo criteri non del tutto in linea con lo spirito e la lettera dell’UNCLOS. Forme di creeping jurisdiction hanno evidenziato una sorta di territorializzazione delle ZEE mirate principalmente a inficiare la libertà di navigazione limitando determinate attività navali straniere. Forme di creeping jurisdiction hanno evidenziato una sorta di territorializzazione delle ZEE. Tali questioni sono state concettualizzate nell’ambito del problema della così detta Mobilità delle flotte che è stato al centro dell’attenzione politica negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso quando alcuni Stati hanno preso — in funzione nazionalistica e anti occidentale — ad avanzare pretese di preventiva notifica o autorizzazione dell’attività svolta da navi da guerra straniere nelle loro ZEE. Espressione eloquente di tale tendenza a limitare la navigazione militare nelle ZEE è la posizione assunta dal Brasile (uno degli Stati più attivi nel processo di codificazione del nuovo diritto del mare) quando, nell’aderire all’UNCLOS, ha dichiarato che «the Convention do not authorize other States to carry out in the exclusive economic zone military exercises or manoeuvres, in particular those that imply the use of weapons or explosives, without the consent of the coastal State». Identico, nel considerare il libero transito di unità militari nelle ZEE come pregiudizievole per la sicurezza nazionale, è l’orientamento dell’India che nel 1995, al momento della ratifica della convenzione, ha così argomentato: «The Government of the Republic of India understands that the provisions of the Convention do not authorize other States to carry out in the exclusive economic zone and on the continental shelf military exercises or manoeuvres, in particular those involving the use of weapons or explosives without the consent of the coastal State». Da parte della Cina non risulta essere stata emanata una specifica dichiarazione in materia di ZEE. Tuttavia, di fatto, Pechino ostacola il libero esercizio della navigazione militare straniera nella propria ZEE. Il suo «Exclusive Economic Zone and Continental Shelf Act» del 1998, stabilisce surrettiziamente un regime autorizzativo, sia per la ricerca scientifica e idrografica nella ZEE, sia per il transito delle navi militari straniere. Del tutto differente è invece la posizione di altri paesi, come la Germania, l’Olanda e l’Italia, che invece non intravedono limitazioni, in periodo di pace, all’attività di navi da guerra nelle ZEE straniere. Circa le tesi espresse dall’Italia al momento di firma e ratifica dell’UNCLOS in favore della libertà di movimento delle Forze navali si rinvia all’apposito riquadro inserito al para 2. della voce ZEE del presente Glossario: esse sono del tutto in linea con l’orientamento dei paesi aderenti al G7 che in varie riunioni, come quella di Lucca del 2017, hanno ribadito il loro impegno a mantenere la libertà di navigazione e sorvolo così come altri diritti, libertà e usi del mare che siano legittimi a livello internazionale. Il problema non riguarda comunque solo la navigazione militare nelle ZEE, ma anche quella nelle acque territoriali (v.). Il punto concerne l’applicabilità alle navi da guerra del regime del transito inoffensivo (v. Transito inoffensivo navi da guerra). A questo riguardo la posizione italiana è stata, come per le ZEE, altrettanto netta. Il nostro paese ha depositato alle NU una dichiarazione secondo cui: «Nessuna delle disposizioni della Convenzione, che corrispondono in questa materia al diritto consuetudinario internazionale, può essere considerata come autorizzante lo Stato costiero a far dipendere il passaggio inoffensivo di particolari categorie di navi straniere dalla preventiva notifica o consenso». Tale posizione italiana anticipa l’interpretazione adottata da Stati Uniti e Unione Sovietica nel Joint Statement del 1989. Deve anche dirsi, tuttavia, che in materia permangono posizioni divergenti da parte di paesi che richiedono ancora la previa notifica o autorizzazione del transito, come Albania, Algeria, Croazia, Egitto, Libia, Malta, Slovenia. Un ulteriore aspetto della navigazione militare è quello delle modalità di esercizio del diritto di passaggio in transito (v.) negli stretti internazionali, relativamente, per esempio, all’adozione di assetti di autodifesa in acque ristrette. 4. Polizia dell’alto mare L’ordinamento internazionale attribuisce, in alto mare, alle navi da guerra di tutte le nazioni, poteri di enforcement per garantire la legalità dei traffici marittimi (v. Sicurezza marittima) contrastando minacce quali Pirateria (v.), Terrorismo marittimo (v.), Traffico stupefacenti in mare (v.), nell’ambito della più 66
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ampia funzione di polizia dell’alto mare (v.), secondo criteri che tengono conto dell’esigenza di non interferire — se non nei casi previsti (v. Diritto di visita; Diritto di inseguimento) — con la libertà di navigazione di cui godono tutte le navi mercantili (v.) con regolare nazionalità (v.). 5. L’US FON Programme La visione statunitense sulla libertà dei mari è alla base del Freedom of Navigation (FON Programme) adottato nel momento in cui gli interessi strategici statunitensi sono stati minacciati da pretese eccessive basate su erronea applicazione dell’UNCLOS. Nel 1978, di fronte al progressivo estendersi della giurisdizione esclusiva degli Stati costieri su vaste aree di alto mare, gli Stati Uniti hanno, infatti, iniziato attività volte a «non prestare acquiescenza nei confronti di atti unilaterali di altri Stati volti a restringere i diritti e le libertà della comunità internazionale nella navigazione e nel sorvolo». Nell’ambito del FON sono state messe in atto, nel 1981 e nel 1986, le note proteste contro la chiusura del golfo della Sirte (v.). In questo quadro si collocano anche le azioni recenti e passate tese a contrastare la proclamazione italiana del golfo di Taranto come baia storica (v.). Il Programma ha ricevuto nuovo impulso dal 2015 quando gli Stati Uniti hanno iniziato a effettuare sistematiche operazioni dimostrative nel Mar Cinese Meridionale per affermare la libertà di passaggio nelle acque circostanti le isole artificiali, installazioni e strutture create dalla Cina su bassofondi emergenti a bassa marea (v. Isole). Critiche al FON vengono rivolte da chi ne mette in risalto gli aspetti unilaterali che prescindono dagli ordinari mezzi di risoluzione delle controversie marittime; al riguardo viene fatto anche notare che gli Stati Uniti non sono parti dell’UNCLOS. Il FON può considerarsi comunque come un test della legalità di pretese marittime che in prima approssimazione risultano eccessive e non conformi all’UNCLOS. I risultati di queste valutazioni sono riportati in apposito Testo del Dipartimento di Stato. Vedi anche: Bandiera navale; Geopolitica del mare; Interdizione marittima; Ambiente marino; Protezione biodiversità marina; Zona interdetta alla navigazione; LIBIA Vedi:
Baie storiche (Mediterraneo); Linee di base (Mediterraneo); Cavi e condotte sottomarine (Mediterraneo); Embargo navale; Geopolitica del mare; Linee di base (Mediterraneo); Pesca (Mediterraneo); Piattaforma continentale (Mediterraneo); Traffico e trasporto illegale di migranti; Transito inoffensivo delle navi da guerra; Zona economica esclusiva (Mediterraneo).
LINEA DI BASE Il termine indica genericamente la linea dalla quale è misurata l’ampiezza delle acque territoriali (v.). La tipologia delle varie ipotesi previste dall’UNCLOS in rapporto alla situazione geografica dell’area interessata è, in particolare, quella sotto indicata. 1. Linea di base normale È detta linea di base normale (normal baseline) la linea di bassa marea lungo la costa (Ginevra I, 3; UNCLOS 5). Essa costituisce il limite interno dal quale è misurata l’ampiezza delle acque territoriali (v.). Casi particolari che influenzano il tracciamento di linee di base sono costituiti dalle isole (v.), dalla presenza, negli atolli o barriere coralline, di scogli o rocce affioranti, o dalla esistenza di opere portuali permanenti come le scogliere, o dalla speciale configurazione geografica di foci o delta di fiumi. Sono invece esclusi da questo regime i bassifondi o gli scogli che emergono a bassa marea, a meno che su di essi sia stata costruita una installazione fissa quale, per esempio, un faro (Ginevra, I, 11; UNCLOS 13). Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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2. Linea di base retta Ai fini del tracciamento delle linee di base può altresì essere impiegato il metodo delle linee di base rette (straight baselines) colleganti punti appropriati della costa, nel caso in cui questa presenti profonde rientranze e sia molto frastagliata o quando, nelle sue immediate vicinanze, esistano delle isole costituenti una frangia (Ginevra I, 4,1; UNCLOS 7,1). La configurazione di queste linee di base — la cui lunghezza massima non è di misura predeterminata — non deve tuttavia allontanarsi in modo apprezzabile dalla direzione della costa; le zone di mare racchiuse da esse, per essere considerate acque interne (v.), devono, in aggiunta, essere strettamente collegate al dominio terrestre. È peraltro consentito il tracciamento di particolari linee di base rette che deroghino a tale principio, qualora lo Stato costiero abbia in loco interessi economici particolari la cui esistenza e importanza sia chiaramente testimoniata dal lungo uso (Ginevra I, 4, 4; UNCLOS 7,5). Il tracciamento di linee di base rette tra i punti di entrata di una insenatura è anche ammesso, oltre che nella citata ipotesi in cui la costa sia molto frastagliata o presenti profonde rientranze, nel caso in cui si tratti di una baia in senso giuridico, vale a dire di un «incavo ben marcato» avente una superficie almeno eguale a quella del semicerchio il cui diametro sia costituito dalla linea di chiusura dell’insenatura. Questa non può tuttavia eccedere le 24 miglia (Ginevra I, 7,2; UNCLOS 10,2). Il limite delle 24 miglia, nella determinazione della linea di chiusura di una insenatura, può essere derogato nell’ipotesi in cui l’area sia rivendicata dallo Stato costiero a titolo di «baia storica» (v.). 3. Linea di base arcipelagica Sono dette linee di base arcipelagiche (arcipelagich baseline) le linee di base rette congiungenti i punti estremi delle isole e degli scogli più esterni di uno «Stato arcipelagico» intendendo come tale uno Stato costituito interamente da uno o più arcipelaghi e, eventualmente, da altre isole (UNCLOS 46). Le linee di base arcipelagiche, a partire dalle quali vengono misurate le acque territoriali (v.), la zona contigua (v.), la piattaforma continentale (v.) e la zona economica esclusiva (v.), racchiudono al loro interno le acque arcipelagiche (v.). Regime legale linee di base (Fonte: Francalanci). I principali requisiti cui devono rispondere queste linee (UNCLOS 47) sono: 1) lunghezza di ogni linea non superiore a 100 miglia (o 125 miglia per non più del 3% del totale dei segmenti); 2) rapporto tra superfici marine e terre emerse in ragione, al massimo, di 9 a 1; 3) tracciato complessivo che non si discosta in modo sensibile dalla configurazione dell’arcipelago. LINEE DI BASE (MEDITERRANEO) Si sono sinora avvalsi della possibilità di tracciare linee di base rette (v.), a modifica del regime, seguito in precedenza, che individuava nella linea di bassa marea lungo la costa la linea di base normale delle acque territoriali (v.), la gran parte dei paesi del Mediterraneo e, cioè, Marocco, Algeria, Tunisia, Malta, Libia, Egitto, Siria, Turchia, Albania, Iugoslavia, Italia, Francia, Spagna. In particolare, per ciò che concerne le iniziative adottate in materia dal nostro paese e da alcuni degli Stati confinanti, c’è da dire che: — la Tunisia, con il decreto 73-527 ha adottato un sistema che prevede la chiusura del golfo di Tunisi (38 miglia di apertura)
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Porzione linee di base tunisine (Fonte: ICJ).
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con tre segmenti che uniscono le estremità dell’insenatura con due isolotti posti al suo ingresso, e del golfo di Gabes (46 miglia di apertura) che al pari del precedente viene annoverato tra le baie storiche (v.) con vari segmenti che, partendo da Ras Kapoudia e appoggiandosi a punti individuati da boe situate su bassi fondali, giungono sino all’isola di Djerba; — la Libia, con la Dichiarazione del 19 ottobre 1973, ha effettuato la chiusura del golfo della Sirte (v.) con una linea di base della lunghezza di 302 miglia coincidente con il parallelo 32° 30’, giustificata facendo ricorso ai principi delle baie storiche (v.). L’organica definizione di un sistema di linee di base lungo le coste libiche — nel cui ambito è stata confermata la linea di chiusura della Sirte — stata attuata con la Decisione n. 105 del 14 luglio 2015; con lo stesso provvedimento è stato fissato il confine della Zona di protezione della pesca (v. Pesca (Mediterraneo) estesa 62 mn dalle linee di base; — Malta, con provvedimento del 1971, ha definito le linee di base del proprio mare territoriale tracciando 26 segmenti che uniscono i punti estremi delle isole che compongono l’arcipelago maltese, ivi compreso l’isolotto di Filfla; — l’ex Iugoslavia, con legge del 1965 emendata nel 1979, ha tracciato un sistema di linee di base rette (della lunghezza comLinee di base maltesi (Fonte: ICJ). plessiva di 244 miglia) che racchiude tutte le isole che fronteggiano le proprie coste, a eccezione di quelle di Pelagosa, Cazza, Busi, Lissa e Sant’Andrea; — l’Albania, con decreto del 1970 modificato nel 1990, ha tracciato 7 segmenti (aventi una lunghezza complessiva di 87 miglia) che chiudono le imboccature di tutte le insenature, ivi compresa la baia di Valona e l’antistante isolotto di Saseno; — la Francia, con decreto del 2015-958 (le cui coordinate sono state espresse in WGS84 con decreto 2018-681), ha proclamato le proprie linee di base tracciando, lungo la costa mediterranea 7 segmenti che uniscono punti appropriati della costa, se-guendone l’andamento, e racchiudono le insena-ture esistenti. Analogo metodo è stato seguito lungo le coste a sud-est e a ovest della Corsica, mentre a nord-est dell’isola, nel tratto prospiciente l’arcipelago toscano, la linea di base quella costiera di bassa marea; — l’Italia, con D.P.R. 26 aprile 1973, n. 816, ha adottato un sistema di linee di base (articolato, lungo la penisola, in 21 segmenti, e attorno alla Sicilia e alla Sardegna, rispettivamente, in 10 e 7 segmenti) che ha prodotto una notevole semplificazione del margine esterno del mare territoriale che è passato, in questo modo, a uno sviluppo lineare di meno di 5.000 km, rispetto ai 7.551 km della penisola (3.702 km di coste continentali) e delle isole (3.849 km di coste insulari di cui 1.500 Linee di base albanesi (Fonte: US LIS). della Sicilia e 1.850 della Sardegna). La loro rappreSupplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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sentazione d’insieme è nella figura nr. 2 del presente Glossario. A seguito di ciò è stata facilitata l’attività di polizia e vigilanza nei vitali settori della difesa nazionale, della lotta al contrabbando, della conservazione dell’ambiente marino, della pesca. Punti salienti dell’iniziativa sono la chiusura di: a. Arcipelago toscano con linee che, partendo dalla foce dell’Arno, in prossimità di Pisa, congiungono le isole Gorgona, Capraia, Elba, Pianosa, Scoglio d’Africa, Montecristo, Giglio, Giannutri, per poi ritornare sulla costa a Civitavecchia; b. Isole Pontine e golfi di Napoli e Salerno con linee congiungenti Anzio, le isole di Palmarola, Ponza, Ischia e Capri, l’estremità meridionale del golfo di Salerno; c. Golfo di Squillace e, a titolo di baia storica (v.), del golfo di Taranto (v.); d. Golfo di Manfredonia e delle isole Tremiti con linee congiungenti Peschici, le Tremiti, Termoli e Punta Penna a nord di Vasto; e. Golfo di Venezia da Punta della Maestra a Ponte di Piave. LINEA MEDIANA O DI EQUIDISTANZA È tale la linea — ciascun punto della quale è equidistante dai punti più vicini delle linee di base dalle quali è misurata — tracciata per la delimitazione (v.) delle zone di rispettiva giurisdizione di Stati con coste opposte o adiacenti. I termini di linea mediana e di linea di equidistanza sono generalmente considerati sinonimi per quanto riguarda la delimitazione delle acque territoriali (UNCLOS 15). In effetti, sembra più corretto parlare di principio dell’equidistanza sulla base del quale è tracciata una linea mediana. A questa stregua, soprattutto per quanto riguarda il confine della ZEE (v.), la linea di equidistanza rappresenta una costruzione strettamente geometrica, mentre la mediana è il frutto di un aggiustamento della linea di equidistanza tenendo conto dei criteri di delimitazione adottati.
Costruzione linea di equidistanza Italia-Spagna (Fonte: Francalanci).
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Costruzione linea di equidistanza Italia-Malta (Fonte: Francalanci).
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MALTA Vedi:
Demilitarizzazione (Mediterraneo); Geopolitica del mare; Linee di base (Mediterraneo); Nazionalità della nave; Pesca (Mediterraneo); Piattaforma continentale (Mediterraneo); Regione per le informazioni di volo (FIR); Ricerca e soccorso in mare; Traffico e trasporto illegale di migranti in mare; Transito inoffensivo delle navi da guerra.
MAMMELLONE (zona di pesca a sud-ovest di Lampedusa) Vedi: Pesca (Mediterraneo). MARE ADRIATICO Quello che durante i secoli XIV-XVII, nel periodo di massima espansione della potenza della Repubblica di Venezia veniva denominato golfo di Venezia (v. Baie storiche (Mediterraneo) può considerarsi un classico esempio di mare chiuso (v.) in quanto possiede i requisiti previsti a tal fine dalla normativa internazionale (UNCLOS 122), e cioè: — è circondato da più Stati rivieraschi (Italia, Slovenia, Croazia, Bosnia Erzegovina, Repubblica Federale di Iugoslavia, Albania) e da Stati che non hanno accesso al mare («land-locked States»: secondo UNCLOS, 124) come l’Austria e l’Ungheria che usano per i loro traffici commerciali terminali i porti del bacino (per esempio Trieste e Capodistria) e che hanno perciò interesse a che sia preservato il loro diritto di transito e l’uso delle rotte di accesso; — è collegato con il mar Jonio tramite il passaggio del Canale d’Otranto, la cui ampiezza, nel tratto più stretto, è di 42 m. Avendo al centro, tra le acque territoriali (v.) italiane e quelle albanesi, una zona di alto mare (v.) della larghezza di 18 mn, il Canale d’Otranto non è uno stretto internazionale (v.); — presenta un tratto di acque internazionali di larghezza inferiore a 1 mn nella parte in cui si fronteggiano le acque territoriali italiane prospicienti l’isola di Pianosa e quelle croate antistanti l’isola di Pelagosa (Pelagruca) (v. Demilitarizzazione (Mediterraneo); Pesca (Mediterraneo); — è già stato interamente delimitato, relativamente alla piattaforma continentale (v.), dall’accordo tra l’Italia e l’ex Iugoslavia dell’8 gennaio 1968 e da quello tra l’Italia e l’Albania del 18 dicembre 1992. A partire dal 2003 la situazione degli spazi marittimi dell’Adriatico, caratterizzato da zone di alto mare al di là delle acque territoriali degli Stati costieri, ha iniziato a cambiare. In sintonia con il nuovo trend dell’Unione europea che si era espressa a favore della creazione di zone di protezione della pesca (v.) quale misura per evitare il continuo depauperamento delle risorse ittiche causato dalla pesca intensiva e indiscriminata, la Croazia ha istituito la ZERP, Zona di protezione ittica ed ecologica. La protezione dell’ambiente marino (v.) si è così rivelata come un’ulteriore ragione per procedere alla creazione di zone di giurisdizione nazionale. Successivamente anche la Slovenia ha istituito proprie zone di protezione ecologica (2005) e della pesca (2006) cui si è aggiunta da ultimo l’Italia che, con la Legge 8 febbraio 2006, n. 61, si è dotata di una propria ZPE, riservandosi tuttavia di procedere caso per caso alla sua effettiva creazione. Sinora il nostro paese si è avvalso di tale facoltà sono nel Tirreno, ma non in Adriatico. Lo sviluppo della cooperazione nei settori economico, culturale, ambientale e della lotta ai fenomeni illegali tra i paesi che si affacciano sulla sponda adriatica costituisce oggetto dell’Iniziativa adriatico-ionica (IAI) cui aderiscono Albania, Bosnia-Erzegovina, Croazia, Grecia, Italia, Montenegro, Serbia, Slovenia e che si avvale di un segretariato permanente avente sede ad Ancona. Tra le materie in cui si esplica la cooperazione tra i paesi della IAI vi è il trasporto marittimo, la sicurezza della navigazione e la protezione ambientale. Nel campo della sicurezza marittima l’Italia ha assunto un ruolo
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guida pervenendo alla firma, nel corso della Conferenza di Ancona del 2000, di un Memorandum d’intesa con: 1) la Slovenia, la Croazia, l’Albania e la Grecia per la cooperazione nelle operazioni di ricerca e salvataggio in mare (v.) mediante la definizione dei limiti delle rispettive zone SAR; 2) la Slovenia, la Croazia, l’Albania, la Grecia, per l’adozione di un comune sistema di VTS (Vessel Traffic Service); 3) la Croazia e l’Albania per l’adozione di un sistema comune di rotte e di schemi di separazione del traffico; 4) la Slovenia e la Croazia concernente un sistema di riporto obbligatorio (Ship Reporting Mandatory System-ADRIREP) per navi petroliere e quelle trasportanti carichi pericolosi e inquinanti. A margine dell’IAI è in atto un’iniziativa di cooperazione tra le Marine militari di Italia, Croazia, Montenegro, Albania e Grecia denominata ADRION, volta a realizzare forme di interoperabilità nel campo della sicurezza marittima (v.) e del SAR. Al 2020 non è ancora risolta la disputa che contrappone Croazia e Slovenia per la titolarità delle acque della baia di Pirano (v.) e degli spazi marittimi contigui. Vedi anche: Acque territoriali (Mediterraneo); Pesca (Mediterraneo); Protezione dell’ambiente marino (Mediterraneo); ZEE (Mediterraneo). MAR ARABICO Vedi: Golfo Persico. MARE ARTICO 1. Regime spazi marittimi 1.1 Aspetti generali Si indica come Artico la regione a nord del Circolo polare artico su cui si affaccia, intorno al mare Artico, Canada, Danimarca (con la Groenlandia), Norvegia, Russia e Stati Uniti (con l’Alaska). Nell’Artico ricade il Polo Nord, vale a dire il punto in cui l’asse di rotazione terrestre interseca la superficie della terra. Gran parte della sua estensione è coperta per quasi tutto l’anno dallo spesso strato di ghiaccio della banchisa la cui dimensione è, com’è noto, in via di costante riduzione per via dei cambiamenti climatici. Quando, probabilmente a metà di questo secolo, per la prima volta il mare Artico non sarà interamente coperto dai ghiacci, apparirà chiaro che la sua superficie acquea è cinque volte quella del mar Mediterraneo (v.): esso è, infatti, un mare semichiuso (v.) circondato dai citati Stati, ma in contatto con gli altri mari attraverso vari stretti e passaggi. Prevalenti sono dunque nella questione artica gli aspetti marittimi, ma altrettanto rilevanti sono le implicazioni riguardanti la geopolitica del mare (v.) connesse allo sfruttamento delle risorse marine naturali (v.) e al controllo delle vie di comunicazione. 1.2 Governance Non esiste al momento un trattato artico simile a quello Antartico () basato sulla protezione dell’Antartide tutelandone l’ambiente e l’utilizzazione a scopi pacifici (v. Global commons). Nel 2008 Canada, Danimarca, Norvegia, Federazione Russa e Stati Uniti hanno invece emesso la dichiarazione di Ilulissat in cui si afferma che «…the law of the sea provides for important rights and obligations concerning the delineation of the outer limits of the continental shelf, the protection of the marine environment, including ice-covered areas, freedom of navigation, marine scientific research, and other uses of the sea». Con ciò si è espressa la volontà di non regolamentare il regime dell’Artico con un apposito trattato. Vi è tuttavia un’organizzazione intergovernativa volta a promuovere la cooperazione tra gli Stati artici e le comunità indigene in materia di tutela dell’ambiente e sviluppo sostenibile: è Arctic Council composto da Canada, Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia, Federazione Russa, Svezia e Stati Uniti; Olanda, Polonia, Regno Unito, Francia, Germania, Spagna, Italia e Cina sono osservatori. Il Council si è fatto promotore nel 2011 di un Agreement on Cooperation on Aeronautical and Maritime Search and Rescue in the Arctic; l’intesa è improntata alla messa in comune degli assetti di ricerca e soccorso in mare (v.) e alla creazione di zone comuni di intervento. Circa il regime multilaterale di cooperazione dell’Artico, si deve anche citare il Polar Code dell’IMO, testo di prescrizioni non obbligatorie dedicato a incrementare la sicurezza della navigazione. 72
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Spazi marittimi dell’Artico (Fonte: IBRU).
1.3 Piattaforma continentale estesa (ECS) In futuro, al momento del disgelo, l’area del mare Artico attorno al Polo sarà, dal punto di vista giuridico, uno spazio di alto mare (v) ricadente al di là delle ZEE (v.) degli Stati rivieraschi. Le giurisdizioni degli Stati costieri non coprono quindi tutta l’area ma si spingono sino ai limiti massimi previsti dall’UNCLOS e cioè, 200 mn per la ZEE, e 350 mn per la extendend continental shelf (ECS) estesa oltre le 200 mn della ordinaria piattaforma continentale (v.). Sinora hanno presentato all’apposita commissione delle NU richieste di esame delle proprie pretese, Russia, Norvegia e Danimarca. Gli Stati Uniti non lo hanno ancora fatto, non essendo parte dell’UNCLOS. Il Canada ha preannunciato l’intenzione di adire la Commissione. La Russia è stata, nel 2001, il primo paese ad avanzare la propria submission relativa alla ECS dell’Artico, in esito alla quale la commissione aveva formulato specifiche raccomandazioni notando come le dorsali di Lomonosov e di Mendeleev (che dalla piattaforma euroasiatica si spingono oltre il Polo) non potessero considerarsi «alture sottomarine» ai fini dell’art. 76 della CNUDM. Questa norma stabilisce, infatti, che nelle dorsali sottomarine il limite della piattaforma continentale non può spingersi oltre le 350 mn, a meno che non si tratti appunto di «elevazioni sottomarine che sono elementi naturali del margine continentale». Tenendo conto di tali raccomandazioni la Russia, nel 2015, ha presentato una nuova Partial Revised Submission che riduce la configurazione dell’area adattandola alle zone che, sulla base di più approfondite verifiche scientifiche, sono risultate facente parte del «Complex of the Central Arctic Submarine Elevations, namely the Lomonosov Ridge, Mendeleev-Alpha Rise and Chukchi Plateau». Al di là dei limiti della ECS vi è anche una porzione di Area internazionale dei fondi marini (v.). Va considerato tuttavia che i limiti di ZEE e piattaforma continentale — e quindi, per conseguenza, di alto mare e Area — potrebbero subire modifiche per effetto dei cambiamenti alla linea di costa determinati dall’innalzamento del livello dei mari susseguente alla fine della glaciazione.
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Polo Nord: teoria russa dei «settori»
Rivendicazioni russe oltre le 200 mg basate sulla «teoria dei settori» (Fonte: Arctic Search Com).
Il carattere internazionale dei fondali ricadenti sotto il Polo Nord è divenuto di attualità quando nel 2007 un sottomarino russo a propulsione nucleare vi ha piantato una bandiera nazionale a significare una possibile rivendicazione di diritti sovrani. La pretesa russa non è ben chiara; fonti accademiche, a prescindere dai succitati chiarimenti scientifici forniti dal governo alla commissione relativamente alla ECS, hanno espresso la tesi dei diritti storici sui mari interni; tesi che si inquadra nell’ambito della c.d. «teoria dei settori di attrazione» elaborata in anni passati. Nei primi anni della Rivoluzione sovietica, per rimediare a un allentamento del dominio sugli spazi artici insidiato dagli Stati adiacenti, si corse ai ripari adottando, nel 1926, un decreto secondo cui sarebbero appartenute all’Unione Sovietica «tutte le terre e le isole, già scoperte o da scoprire, ...collocate nel nord dell’oceano Artico, a settentrione delle coste sovietiche sino al Polo comprese tra aree identificate da specifici meridiani e linee di costa». Studiosi sovietici cercarono allora di dare una base teorica ai diritti russi ipotizzando, a fini strategici e di ricerca scientifica (non dimentichiamo che si era al tempo delle spedizioni polari del generale Umberto Nobile), la natura territoriale dell’Artico. La tesi si basava sulla considerazione che «... i ghiacci galleggianti debbano essere legalmente assimilati al Mare Polare, mentre le formazioni stabili vadano equiparate al territorio polare. I paesi che si affacciano sul Polo acquisiscono sovranità su di essi entro i limiti dei loro settori di attrazione... Nel prendere in considerazione le particolarità dell’Artico... si è obbligati a concludere che la dottrina dell’alto mare, se applicata all’Artico, è del tutto non soddisfacente. La sovranità dovrebbe collegare gli Stati ai Poli, sull’Artico, nell’ambito dei loro settori di attrazione». Tale teoria, espressione di concezioni geopolitiche riconducibili al principio di contiguità e continuità geografica, ha continuato a influenzare la politica marittima russa anche dopo la fine dell’Unione Sovietica, nonostante apparisse sempre più chiara la sua mancanza di fondamento giuridico e la sua ambiguità di fondo. 1.5 Mare di Barents Benché non appartenente geograficamente al mare Artico, il mare di Barents va considerato come un elemento della partita: al suo interno sono stati, infatti, rinvenuti due importanti giacimenti e cioè, lo Shtokman ricadente sulla piattaforma russa e lo Snohvit, posizionato sulla piattaforma norvegese. Russia e Norvegia hanno raggiunto un eccellente livello di cooperazione marittima avendo risolto 74
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tutte le loro questioni di delimitazioni nel 2010 con un accordo che ripartisce l’area di ZEE del mare di Barents. L’ex Unione Sovietica aveva rivendicato diritti nel mare di Barents sin dal 1928, in un’area che dalle proprie isole giungeva sino alla già citata linea di settore, confine tracciato per meridiano sino al Polo. La pretesa era speculare a quella secondo cui la sovranità riconosciuta alla Norvegia sulle isole Svalbard dal Trattato del 1920 (di cui è parte anche l’Italia), fosse limitata alle sole acque territoriali. La Norvegia sosteneva invece che alle Svalbard competessero anche aree di piattaforma continentale e di ZEE, e che queste si estendessero sino alla mediana con i territori russi. Per rimediare ai continui incidenti di pesca, nel 1978 i due paesi avevano stipulato un accordo provvisorio che, senza pregiudizio delle rispettive pretese, considerava l’area in contestazione una «zona grigia» in cui esercitare in modo coordinato giurisdizione verso i battelli nazionali e di paesi terzi. Negli anni Settanta, infatti, si è scoperto che la zona, oltre a essere ricca di pesce, lo è anche di idrocarburi, con riserve stimate di circa seimila miliardi di metri cubi. Invece di protrarre per altri decenni un contenzioso che avrebbe ostacolato ricerca e sfruttamento degli idrocarburi nella zona contesa, le due parti hanno stipulato, il 15 settembre 2010, un accordo di delimitazione (v.) che ripartisce l’area in Delimitazione mar di Barents (Fonte: UNEP). questione. Il confine stabilito, valevole sia per la piattaforma continentale sia per la ZEE, è costituito dalla mediana (v.), e cioè una linea di equidistanza modificata con aggiustamenti volti a tener conto della diversa lunghezza delle coste dei due paesi in modo da pervenire a un risultato equitativo. Russia e Norvegia si sono anche impegnate a gestire congiuntamente i giacimenti posti a cavallo del confine. 2. Nuove rotte polari 2.1 Fine glaciazione Sullo sfondo delle dispute territoriali si agitano ovviamente concreti interessi economici. Secondo attendibili stime, sotto la piattaforma continentale artica vi sarebbe il 25% delle riserve mondiali di combustibili fossili. La Russia e la Norvegia appaiono favorite nella partita in corso avendo già individuato cospicui giacimenti di idrocarburi. La fine della glaciazione che avanza inesorabilmente ha inoltre indotto gli operatori marittimi a considerare la possibilità di seguire rotte alternative a quelle attuali — passanti in prevalenza per i canali di Suez (v.) e di Panama (v.) — così da collegare il Pacifico all’Atlantico provenendo da est o l’Atlantico al Pacifico provenendo da ovest. In questo modo si realizzerebbero risparmi di tempi e costi di viaggio: si calcola, che utilizzando il Passaggio a nord-ovest (PNO) attraverso l’arcipelago artico canadese, il percorso tra l’Asia e l’Atlantico si abbrevi di 7.000 mn rispetto alla rotta che utilizza il canale di Panama. La rotta più seguita è al momento il Passaggio a nord-est (PNE) che costeggia la Siberia fino alla Russia europea e che è più breve di quella attuale passante attraverso lo stretto di Malacca, l’oceano Indiano, Suez e il Mediterraneo: essa permette di ridurre sino al 40% i tempi di percorrenza di circa 10 giorni. A tali rotte andrebbe infine aggiunta quella transpolare: quando in futuro anche la zona centrale del Polo sarà libera dai ghiacci per alcuni mesi l’anno, si creerà una ulteriore rotta polare che collegherà direttamente l’Europa all’Asia attraSupplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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verso l’alto mare e senza transitare nelle acque sotto sovranità canadese e russa. Anche se non si ha alcuna evidenza su come questa previsione possa realizzarsi, essa è tuttavia ritenuta possibile e risulta essere già allo studio da parte del suindicato Arctic Council.
Nuove rotte polari (Fonte: IBRU).
2.2 Northern Sea Route (NSR) La Northern Sea Route (NSR) è una via di comunicazione internazionale la cui importanza per l’economia mondiale si va sempre più delineando, a mano a mano che la Russia sta iniziando a costruire infrastrutture energetiche dedicate allo sfruttamento delle risorse marine e a disciplinare il transito nelle acque territoriali e nella ZEE per esigenze di sicurezza e di tutela ambientale. La visione politica russa è quella del grande Nord come un proprio spazio vitale nel cui ambito si colloca l’iniziativa di emanazione della legge federale del 28 luglio 2012 che definisce la NSR come «storica via di comunicazione nazionale della Federazione Russa» così delimitandola geograficamente: «L’area della NSR si riferisce
Northern Sea Route (Fonte: NSRA).
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a un’area che collega la costa russa della Federazione, incluse acque interne e territoriali, zona contigua e ZEE, e limitata a est dalla linea di delimitazione con gli Stati Uniti e dal parallelo passante per Capo Deznev nello stretto di Bering, a ovest dal meridiano che va da Capo Zhelanie all’arcipelago della Nuova Zemlja...». Nel 2013 è stata emanata una Regolamentazione che prescrive un sistema di pilotaggio obbligatorio e di assistenza di navi rompighiaccio, un servizio di allerta meteo, di soccorso e di sorveglianza antinquinamento. È inoltre stabilita la preventiva notifica del transito. Quest’obbligo — da osservare con 45 giorni di anticipo — dovrebbe riguardare anche le navi da guerra e le navi in servizio governativo. Vari sono i rilievi, oltre a quello concernente le prerogative di immunità sovrana di cui godono tali navi nemmeno sotto la specie della tutela antinquinamento (art. 236 CNUDM), riguardante il fondamento giuridico della regolamentazione emanata dal Cremlino. Per esempio, si osserva che il richiamo fatto all’art. 234 dell’UNCLOS relativo alla protezione ambientale delle aree coperte dai ghiacci come base legale della disciplina, riguarda — oltre, come ovvio, acque interne e territoriali — le sole ZEE, mentre, invece, tratti della NPR ricadono anche in aree di alto mare. In definitiva, potrebbe dirsi che le autorità russe, nel regolamentare il transito nella NSR, hanno mantenuto una visione territorialistica dei propri mari adiacenti, ancora ispirata alla teoria dei settori di cui si è detto. 2.3 Passaggio a nord-ovest Due opposte visioni giuridiche si confrontano nel definire il regime di transito nel Passaggio a nordovest (NWP, dall’acronimo inglese), via d’acqua tra la baia di Baffin e il mare di Beafourt. Da un lato il Canada lo considera come «historic internal waters», delimitate dal suo sistema di linee di base rette (v.) tracciate intorno al limite esterno dell’arcipelago artico sulla base dei principi dell’UNCLOS (art. 7, 3), in cui le navi straniere, siano esse mercantili che da guerra, non godono di libertà di transito inoffensivo (v.); secondo la legislazione canadese, il passaggio delle navi straniere è, infatti, sottoposto a limitazioni. Dall’altro gli Stati Uniti che disconoscono tale pretesa e considerano invece il NWP come uno stretto internazionale (v.) che mette in comunicazione l’Atlantico con il Pacifico in cui tutte le navi straniere possono esercitare il passaggio in transito (v.) che garantisce loro libertà di transito nel rispetto dei diritti sovrani dello Stato costiero. La questione si trascina da decenni. Nel 1985 gli Stati Uniti notificarono preventivamente al Canada il passaggio del loro rompighiaccio USSCG Polar Sea, pur precisando che lo facevano in forma di volontaria cooperazione senza tuttavia riconoscere alcun diritto di concedere permesso. Nel 1988 i due paesi stipularono l’Agreement on Arctic Cooperation, una sorta di accordo a non essere d’accordo con cui: 1) entrambi decidevano di cooperare tra loro sulla protezione dei reciproci interessi nell’Artico e sulla protezione delle sue risorse, pur mantenendo le reciproche posizioni sullo status del NWP; 2) gli Stati Uniti dichiaravano che avrebbero richiesto il consenso del Canada per il transito di proprie navi rompighiaccio nelle acque Passaggio a Nord-Ovest (Fonte: University Laval). pretese dal Canada. Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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2.4 Tutela ambientale Nel mare Artico, in vicinanza dell’Alaska, si verificò nel 1989 la catastrofe ecologica della petroliera Exxon Valdez che riversò in mare 40.000 t di idrocarburi. Anche per questo motivo il tema della salvaguardia ambientale dell’Artico è all’attenzione dell’Unione europea che nel proprio Regolamento offshore indica agli Stati membri la seguente policy: «Le acque artiche sono un ambiente marino prossimo di particolare importanza per l’Unione europea e svolgono un ruolo importante nell’attenuare il cambiamento climatico. Le serie preoccupazioni ambientali relative alle acque artiche richiedono particolare attenzione per garantire la protezione ambientale dell’Artico in relazione a qualsiasi operazione offshore nel settore degli idrocarburi, compresa l’esplorazione, e tenendo conto del rischio di gravi incidenti e della necessità di una risposta efficace. Gli Stati membri che sono membri del Consiglio artico sono incoraggiati a promuovere attivamente i più elevati standard di sicurezza ambientale nell’ambito di questo ecosistema vulnerabile e peculiare, per esempio attraverso la creazione di strumenti internazionali per la prevenzione, la preparazione e la risposta all’inquinamento marino da idrocarburi nell’Artico…». La protezione delle rotte polari della NSR e del Passaggio a nord-ovest è oggetto, come detto, di provvedimenti adottati da Russia e Canada nelle acque di propria giurisdizione. Il Polar Code dell’IMO, raccomanda l’adozione di ulteriori misure negli spazi di alto mare basate sull’applicazione della Convenzione MARPOL per evitare inquinamenti causati da idrocarburi o da navi. MARE DI AZOV Il Mare di Azov, bacino di circa 40.000 kilometri quadrati in cui sfocia il Don, comunica con il Mar Nero (v.) attraverso lo stretto di Kerch, passaggio ampio poche miglia che divide la Crimea a ovest dalla penisola di Taman a est, al centro del quale vi è l’isola di Tuzla. Prima che nel 1991 la Crimea acquisisse l’indipendenza dalla Russia, il Mar di Azov era uno spazio di acque interne (v.) sotto sovranità russa, come tale interdetto all’accesso di navi non dirette verso porti dell’area. Nell’intento di confermare tale regime, nel 2003 i due paesi adottarono una dichiarazione congiunta in cui affermavano che «Historically the Sea of Azov and the Kerrch strait are internal waters of the Ukraine and Russia» e che, per conseguenza, le unità militari battenti bandiera di Stati terzi possono solo entrare nel Mare di Azov e attraversare lo stretto di Kerch su invito di uno dei due paesi. La delimitazione delle acque nello stretto (con conseguente attribuzione dell’isola di Tuzla all’Ucraina) e delle altre frontiere marittime del Mare di Azov si era avuta con l’accordo del 12 luglio 2012, poi decaduto a seguito dell’occupazione della Crimea da parte russa nel 2014. Di fatto, a seguito della stessa occupazione (condannata con risoluzione non vincolante nel 2014 dall’Assemblea generale delle NU, ma approvata dalla popolazione locale con un referendum), la Russia ha nuovamente acquisito una quasi completa sovranità sul Mare di Azov e sulle acque dello stretto di Kerch, (tranne lo spazio antistante al porto di Mariupol). Come reazione all’annessione della Crimea, l’Ucraina ha anche chiuso i propri porti alle navi di bandiera russa e a quelle che, in precedenza, avessero fatto scalo in porti russi. Nel 2016 l’Ucraina, sulla base dell’annesso VII all’UNCLOS, ha istituito un arbitrato citando la Russia a comparire con riguardo a una disputa concernente «coastal state rights in the Black Sea, Sea of Azov, and Kerch Strait». La Russia, a differenza da quanto fatto dalla Cina nel caso del Mar Cinese MeIpotetica rappresentazione degli spazi marittimi nel Mare di Azov ridionale (v. Isole), si è regolar(Fonte: voelkerrechtsblog.org).
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mente costituita. L’Ucraina ha contestato alla Russia di aver violato propri diritti su: 1) risorse minerali e risorse viventi; 2) opposizione alla costruzione di un ponte nello stretto di Kerch che limita la libertà di navigazione e minaccia l’ambiente marino; 3) patrimonio culturale sommerso. A fronte delle eccezioni preliminari avanzate dalla Russia contro la competenza a pronunciarsi sulla questione della sovranità sulla Crimea, la Corte ha stabilito nel 2020 che il caso può continuare fino alla pronuncia di merito, in quanto la decisione finale riguarderà solo le modalità di applicazione dell’UNCLOS ma non l’annessione della Crimea. A margine della disputa si è verificato nel 2018 l’episodio del sequestro da parte russa di tre unità militari in transito nello stretto di Kerch per asserite violazioni di norme sulla sicurezza marittima. Il tribunale del Diritto del mare, chiamato a pronunciarsi, ha ordinato alla Russia, come misura cautelare, il rilascio dei marinai. Nell’ambito di questo procedimento sono state respinte le eccezioni pregiudiziali della Russia sull’assenza di giurisdizione relativa alle «attività militari». A giudizio del tribunale, il pattugliamento dello stretto da parte russa, per verificare il rispetto delle condizioni per il passaggio inoffensivo è, infatti, attività di Law enforcement di natura non militare in quanto «the distinction between military and law enforcement activities must be based primarily on an objective evaluation of the nature of the activities in question» (v. Polizia alto mare). Nel 2018 la Russia ha completato la costruzione del ponte sullo stretto, aprendolo al transito viario e ferroviario tra il proprio territorio e la Crimea. MARE DI BARENTS Vedi: Mare Artico. MAR CASPIO 1. Profilo storico-geografico Il mar Caspio, essendo interamente circondato dalle coste di Federazione Russa, Iran, Kazakistan, Azerbaigian e Turkmenistan, senza avere alcun accesso esterno, non può, dal punto di vista giuridico, definirsi un mare chiuso (v.). Questo, benché le sue dimensioni (1.200 km di lunghezza; 400.000 kilometri quadrati di superficie) siano adeguate a quelle di un mare e nonostante nel trattato di navigazione russo-iraniano del 25 marzo 1940 esso fosse indicato come «soviet-iranian sea». Non è senza significato, d’altronde, che in passato, il mar Caspio, in conformità alla situazione giuridica dei laghi, era considerato una superficie acquea costituente proprietà indivisa, res communis di Russia e Persia, unici Stati rivieraschi. Questi due paesi, con il trattato di Mosca del 26 febbraio 1921, avevano peraltro previsto che le rispettive unità mercantili godessero di eguali diritti di navigazione (nel secolo precedente la Persia aveva invece attribuito alla Russia il diritto esclusivo di tenervi delle navi da guerra) e avevano regolamentato la pesca costiera; nulla era invece stabilito in ordine allo sfruttamento delle risorse minerali sottomarine. Con la dissoluzione dell’Unione Sovietica si è rotto l’equilibrio geopolitico e giuridico che sino allora aveva caratterizzato la situazione. La causa principale stava nel problema della spartizione delle cospiSupplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
Spazi acque del mar Caspio soggetti a giurisdizione nazionale (Fonte: ssl.freshfields.com).
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cue riserve di petrolio e gas giacenti nel fondo, condizionata dall’applicazione o meno del regime previsto dall’UNCLOS per le risorse minerarie giacenti nella piattaforma continentale (v.). L’Iran aveva continuato a sostenere il principio del condominio indiviso, evidentemente a sé favorevole, in quanto avrebbe evitato le penalizzazioni derivanti dalla delimitazione (v.) secondo la mediana (v.) che le avrebbe dato titolo al 12-13% dell’intero bacino. Di qui la tesi iraniana che gli Stati rivieraschi avessero diritto a possedere le acque e il fondo del Caspio nella misura eguale per tutti del 20%. Questa posizione era supportata inizialmente dalla Federazione Russa che tuttavia aveva manifestato aperture verso l’applicabilità del regime delle acque territoriali (v.) della piattaforma continentale e della ZEE (v.) stabilito dall’UNCLOS. https://ssl.freshfields.com/noindex/. 2. Accordo di spartizione del 2018 Con la Convenzione sullo status legale del Caspio, firmata il 12 agosto 2018 ad Aktau (Kazakistan), Russia, Iran, Azerbaigian, Kazakistan e Turkmenistan hanno definito un regime in cui, oltre alla fissazione degli spazi di giurisdizione, si stabiliscono specifici principi di governance. Tra questi, come dichiarato ufficialmente vi è la trasformazione del Caspio in una «zona di pace, buon vicinato e amicizia; il suo uso per fini pacifici, il rispetto per la sovranità e l’integrità territoriale; l’assenza nel Caspio di forze militari che non appartengano alle parti …[in cui] ciascuno Stato applica i suoi diritti sovrani di uso del sottofondo entro i limiti della propria area di fondale…[e può] collocare condotte sottomarine a condizione di osservare i requisiti ecologici». In sostanza, lo status giuridico del Caspio costituisce un unicum che non ha riscontro in alcun altro strumento internazionale e che si basa su specifici principi elencati all’art. 3 dell’accordo. Vengono previste acque territoriali di 15 mn dalle linee di base (v.) in deroga alla regola delle 12 mn e una zona riservata di pesca di 10 mn adiacente alle acque territoriali (che non è quindi una ZEE). Al di là di questa zona di pesca vi è un common maritime space, sorta di alto mare (v.) aperto agli usi dei soli paesi rivieraschi che possono esercitarvi, tra l’altro, la navigazione e la pesca, nel rispetto di stringenti parametri di protezione ambientale. La posa di cavi e condotte è libera, nel senso che non si richiede il consenso di tutti e cinque gli Stati parte, ma va concordata con i paesi che esercitano giurisdizione sul fondale interessato. È evidente, in sostanza, che le parti hanno dovuto accettare compromessi su vari punti, primo fra tutti quello, preteso dalla Russia, dell’interdizione del Caspio alle Forze navali di terzi Stati e ai mercantili di bandiera diversa dagli Stati rivieraschi. Il temuto ingresso di Forze NATO è stato sventato con le clausole che non è ammessa la presenza di Forze armate diverse da quelle delle parti (Art. 3,6) e che il loro territorio non può essere usato per attività militari contro qualsiasi altra parte (art. 3, 7). È un fatto, comunque, che ogni Stato abbia sue acque territoriali ove esercita diritti di piena sovranità. Mosca pare essere tornata la dominatrice del Caspio, ora che ne ha fatto un ennesimo mare chiuso simile, nell’esclusivo controllo degli Stati costieri, al Mar Nero (v.) in cui Le infrastrutture energetiche del Caspio; si noti l’ipotetica linea di equidistanza del fondale (Fonte: EIA). non vige la libertà dei mari (v.). Ti80
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rando le somme, la nuova governance del Caspio sembra essere un riuscito esperimento di alchimia politico-giuridica realizzato utilizzando pezzi di antichi accordi russo-iraniani, istanze di emergenti repubbliche transcaucasiche, istituti del moderno diritto del mare disciplinati dall’UNCLOS. La quale Convenzione, per quanto a parole non applicabile all’accordo di Aktau del 2018, alla fin fine ne costituisce il termine di riferimento principale per regime acque territoriali, principi libertà di navigazione degli Stati parti nel common maritime space, futura proclamazione delle linee di base e, soprattutto, definizione dei confini dei settori del fondale, cioè a dire delle aree di piattaforma continentale. MARE CHIUSO O SEMICHIUSO È definito come tale un golfo, bacino o mare circondato da due o più Stati e collegato a un altro mare o a un oceano da uno stretto, o costituito, interamente o principalmente, dalle acque territoriali (v.) o dalle Zone economiche esclusive (v.) di due o più Stati (UNCLOS 122). La regola, nel caso di mari di tal fatta, è quella stabilità dall’art. 123 dell’UNCLOS secondo cui: «Gli Stati costieri di un mare chiuso o semichiuso dovrebbero cooperare fra loro nell’esercizio dei diritti e nell’adempimento degli obblighi loro derivanti dalla presente Convenzione», in special modo nello svolgimento di attività relative ai settori della conservazione e sfruttamento delle risorse viventi inerenti alla pesca (v.), della protezione dell’ambiente marino (v.), della ricerca scientifica in mare (v.). Per mare chiuso si intende, più in particolare, un mare interamente circondato da terre e, quindi, senza sbocchi esterni, come, per esempio, il mar Caspio (v.). Sono invece annoverati tra i mari semichiusi il Mediterraneo (v.), l’Adriatico (v.), il Mar Rosso (v.) il mar Egeo e il Mar Nero (v.). Per ciò che concerne quest’ultimo bacino va notato che il concetto di mare chiuso è stato più volte invocato, in passato, dall’ex Unione Sovietica per negare il diritto degli Stati Uniti, in quanto paese non rivierasco, a esercitare la libertà di transito al suo interno (v. Libertà dei mari). Il concetto di mare chiuso è quindi spesso condizionato dalla geopolitica del mare (v.). MAR EGEO 1. Spazi marittimi Per le sue caratteristiche geografiche e con riguardo agli aspetti giuridici connessi a tutte le questioni di contenzioso pendenti con la Grecia, prima di tutte quelle relative alla ZEE (v.) e alla piattaforma continentale (v.), il mar Egeo viene visto dalla Turchia come un mare semichiuso (v.) in cui cooperare per l’esercizio dei propri diritti. Diversa ovviamente la visione della Grecia che, in relazione alla sua storia millenaria e a quelle delle comunità di stirpe greca ivi stanziate, considera invece l’Egeo alla stregua di un Mare nostrum, concedendo alla Turchia ristrettissimi spazi marittimi adiacenti alle coste. Si discute se le acque dell’Egeo possano considerarsi acque arcipelagiche (v.) in relazione alle migliaia (per la precisione 3.042) di isole greche esistenti al suo interno raggruppate a sud negli arcipelaghi delle Cicladi e del Dodecaneso, e a nord nelle Sporadi, oltre a singole isole come Samo, Chio, Lesbo, Lemno e Samotracia. La Repubblica di Venezia, al tempo del proprio dominio su alcune isole, denominava, in effetti, l’Egeo come l’«Arcipelago». Stricto sensu le acque dell’Egeo non possono però considerarsi acque arcipelagiche in quanto né la Grecia, né la Turchia sono Stati arcipelagici intendendo come tali, degli Stati costituiti interamente da uno o più arcipelaghi ed, eventualmente, da altre isole (UNCLOS 46). Lo status delle acque territoriali (v.) dell’Egeo è ancora, al 2020, un caso sui generis nell’ambito della prassi internazionale. Sia la Grecia sia la Turchia continuano, infatti, a fissare il limite delle proprie acque territoriali (v. Acque territoriali-Mediterraneo) a 6 mn, a meno dei casi in cui le loro coste, per la presenza di isole greche in prossimità alle coste turche, si fronteggino a una distanza inferiore alle 12 mn. In queste ipotesi si applica il criterio della mediana (v.), salvo accordi contrari o titoli storici particolari. Da notare che la mediana costituiva già il confine tra le isole del Dodecaneso e la costa turca al tempo in cui il Regno d’Italia aveva sovranità sulle stesse isole, secondo quanto previsto Accordo per la delimitazione del confine marittimo fra le isole italiane dell’Egeo e il territorio turco firmato ad Ankara il 4 gennaio 1932 — vedi immagine a pag. 62 — e dal discendente Processo Verbale del 28 dicembre 1932 (questo Processo Verbale è stato invocato dalla Grecia, nel 1995, come titolo per la sovranità sull’isolotto di Imia che è rivendicato dalla Turchia con il nome di Kardak). Atene, nel ratificare l’UNCLOS con la legge n. 2321 del 23 giugno 1995, ha stabilito che «la Grecia ha il diritto inalienabile, in applicazione dell’art. 3 della ratificata Convenzione, di estendere in qualsiasi momento le acque territoriali fino a una distanza di 12 miglia». Nel Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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corso del 2020 il Governo greco ha previsto di estendere a 12 mn il limite delle acque territoriali delle Isole Ionie e di Creta. Tale iniziativa può essere considerata una contromisura greca all’accordo TurchiaLibia. Sta di fatto che la sua realizzazione pregiudicherebbe in modo sostanziale gli interessi vitali della Turchia (che, anche per questo, non ha ratificato l’UNCLOS sostenendo che il limite delle 12 miglia «non ha acquisito il carattere di regola di diritto internazionale consuetudinario») in quanto per effetto di ciò: — la Grecia porrebbe sotto la sua sovranità circa il 70% dell’Egeo; — verrebbe meno la fascia di acque internazionali attualmente esistente nell’Egeo centrale; — i porti turchi dell’Anatolia verrebbero a essere «chiusi» (a essi si potrebbe accedere da ovest esercitando il transito inoffensivo (v.) attraverso le acque territoriali greche o, da sud, seguendo rotte costiere lungo le coste turche), a meno di non istituire dei corridoi di transito simili alla Junction Area creata in favore della Slovenia dalla Corte arbitrale che ha deciso nel 2017 il caso del golfo di Pirano (v.); — lo stretto di Cerigo (punto di passaggio obbligato per accedere all’Egeo da sud) verrebbe a essere interamente coperto dalle acque territoriali greche trasformandosi in uno stretto internazionale soggetto al regime del passaggio in transito (v.). Irrisolta è ancora, come detto, la questione della delimitazione della piattaforma continentale grecoturca (v. Piattaforma continentale (Mediterraneo) che si trascina da quarant’anni senza alcun positivo progresso: i due paesi mantengono ferme le loro posizioni e spesso entrano in contenzioso ogni qual volta vengono avviate prospezioni energetiche in area disputate. La Turchia ha tra l’altro fatto spesso ricorso al dispiegamento di Forze aeronavali per proteggere le proprie navi di ricerca. È invece divenuta di attualità la questione della ZEE del Mar di Levante (v.) che coinvolge Turchia, Cipro, Grecia ed Egitto: dopo la stipula del suindicato accordo sulla delimitazione della ZEE turco-libica, la Grecia potrebbe essere indotta a proclamare la ZEE nell’Egeo e nel MediterraIsole mar Egeo (Fonte: GPIL). neo orientale, oltre che nello Ionio. 2. Spazi aerei Le posizioni di Grecia e Turchia divergono in materia di spazio aereo nazionale. Mentre la Turchia, in linea con l’UNCLOS e la Convenzione di Chicago del 1944, prevede uno spazio aereo coincidente con le proprie acque territoriali stabilite dalla legge n. 2674 del 29 maggio 1982, la Grecia adotta invece una regolamentazione particolare. Il testo base della legislazione greca è il Decreto del 6 settembre 1931 concernente «l’ampiezza delle acque territoriali con riguardo alla materia della navigazione e della difesa aerea» il quale prevede una zona aerea di 10 mn (peraltro già stabilita come «zona di sicurezza» dalla precedente legge n. 4141 del 26 marzo 1913) sulla quale la Grecia reclama «sovranità piena e assoluta». Conseguenza di ciò è l’esistenza di una situazione in cui a una fascia di acque territoriali di 6 mn si sovrappone uno spazio aereo nazionale di 10 miglia. Un’altra fonte di disputa fra Grecia e Turchia è il regime del «flight information region» (FIR) (v.), area dello spazio aereo internazionale (v.) entro la quale, sulla base delle prescrizioni ICAO, gli aeromobili devono comunicare allo Stato costiero che ne è responsabile, informazioni per la sicurezza del traffico aereo. La Grecia 82
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— la cui Athens FIR, istituita nel 1952, copre gran parte dell’Egeo e confina con la FIR di Ankara che comprende invece il solo spazio aereo sovrastante le acque territoriali — sostiene la tesi che all’interno di essa debba esistere una stretta integrazione tra traffico aereo militare e civile. Di qui la pretesa di sottoporre a controllo tutti gli aeromobili militari operanti nella FIR anche se non diretti verso lo spazio aereo nazionale. Nell’agosto 1974 la Turchia, con notam 714 aveva unilateralmente modificato l’estensione della propria FIR (Istanbul FIR) spostandola verso ovest sino al centro dell’Egeo. Di fronte alla reazione della Grecia che, in risposta, aveva sospeso il sorvolo dell’Egeo, la Turchia ha successivamente revocato la propria iniziativa. La FIR di Atene coincide con la zona SAR greca di responsabilità per la ricerca e soccorso in mare (v.). 3. Demilitarizzazione isole greche Egeo Si rinvia, al riguardo, al riquadro inserito nel presente Glossario alla voce, Demilitarizzazione (Mediterraneo). MAR DI LEVANTE Il Mar di Levante è, dal punto di vista geografico, la parte più orientale del Mediterraneo: a nord è circoscritta dal mar Egeo (v.) e dalle coste turche dell’antica Cilicia, a est e sud bagna Cipro, Siria, Libano, Israele ed Egitto, mentre a ovest confina con il Mar Libico lungo la congiungente tra Creta e Cirenaica. Dal punto di vista storico il Mar di Levante, oltre a essere la culla della talassocrazia minoica del XV sec. a.C. (v. Geopolitica del mare), è stato il primo spazio marittimo in cui sono state condotte su vasta scala operazioni contro la pirateria (v.): Gneo Pompeo fu, infatti, autorizzato dal senato a condurre attività di contrasto con un’ingente flotta armata che nel 67 a.C. riuscì a debellare i pirati nella Cilicia. Venezia fece del Mar di Levante il suo bacino di influenza politico-commerciale dopo l’acquisizione dell’isola di Creta nel 1204, a seguito della presa di Costantinopoli durante la IV crociata. Creta (alias Candia, nella terminologia veneziana) divenne così la più importante base della Serenissima sulla via del Levante per il commercio con il Mar Rosso e le Indie, assieme a Cipro di cui acquisì il possesso nel 1473. Con la conquista di Cipro da parte degli Ottomani, nel 1573, il Mar di Levante cadde poi sotto il dominio completo della Sublime Porta che ne mantenne il controllo sino a metà Ottocento quando, nel 1869, fu aperto il canale di Suez (v. Stretti e canali internazionali). L’attuale importanza strategica del bacino è testimoniata dalle recenti crisi internazionali che hanno interessato tutti i paesi rivieraschi, compresa la sedicente Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
Mar di Levante (Fonte: Eia).
Giacimenti e infrastrutture energetiche nel Mar di Levante (Fonte: Egypt Independent).
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Repubblica Turca di Cipro del Nord (RTCN), nata con l’occupazione militare turca del 1973, che non è riconosciuta in campo internazionale. L’esistenza della RTCN agita da anni le acque del Mar di Levante facendo sentire i suoi effetti su varie questioni marittime. La Turchia — quale potenza occupante la RTCN — contesta gli accordi di delimitazione della ZEE (v. ZEE-Mediterraneo) che la Repubblica di Cipro ha stipulato con l’Egitto (2003), Libano (2007) e Israele (2010) reclamando ritorni economici per la popolazione turco-cipriota derivanti dallo sfruttamento delle risorse energetiche. Ingenti giacimenti di idrocarburi sono, infatti, stati scoperti negli ultimi anni, quali il Leviathan le cui riserve, al largo di Israele, sono stimate in 90 miliardi di metri cubi di gas e in 850 milioni di barili di petrolio. Sino al 2015 la Turchia, per riaffermare i propri interessi energetici, ha inoltre dislocato navi di ricerca offshore nella ZEE cipriota facendole scortare da proprie navi da guerra. Ulteriori tensioni tra Nicosia e Ankara sono insorte con riguardo alla giurisdizione cipriota sull’intera zona SAR (v. Ricerca e soccorso in mare) circostante l’isola che la Turchia contesta. La Turchia, per parte sua, ha delimitato nel 2011 con la RTCN l’area a nord dell’isola. In un certo modo, i problemi di delimitazione del Mar di Levante sono in parte connessi a quelli dell’Egeo (v.): la contestazione turca della ZEE egiziano-cipriota, riguarda, infatti, le pretese greche nell’area circostante il Dodecaneso. Va ricordato infine che l’ENI, nella porzione egiziana della ZEE delimitata con Cipro, ha scoperto nel 2015 l’enorme giacimento gasifero di Zohr stimato in 850 miliardi di metri cubi. L’ENI è anche titolare, assieme alla Total, di concessioni energetiche nella ZEE cipriota, ove nel 2018 è avvenuto l’episodio della Saipem 12000, nave di ricerca operante per conto dell’ENI cui la Turchia ha intimato di allontanarsi dalla zona di attività perché interdetta alla navigazione. MARE LIBERO Vedi: Alto mare; Libertà dei mari. MAR MEDITERRANEO 1. Mediterraneo geografico Vera e propria via d’acqua internazionale, il Mediterraneo è attraversato da linee di traffico mondiali che mettono in comunicazione l’Atlantico con il Mar Rosso (v.), il Mar Nero (v.) e il golfo Persico (v.) at-
Aree geografiche del Mediterraneo (Fonte: IIM). 84
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traverso il canale di Suez (v.). Il mar Mediterraneo (che ha una superficie di circa 2.500.000 kilometri quadrati, pari allo 0,7% delle acque del globo, e uno sviluppo costiero di circa 46.000 kilometri) presenta tutte le caratteristiche per essere definito un mare chiuso o semichiuso (v.), poiché, oltre a essere in collegamento con altri mari tramite lo stretto di Gibilterra e il canale di Suez (v. Stretti e canali internazionali), è circondato da vari paesi. Esso bagna 25 Stati di tre continenti ed è composto da 10 bacini interni. Questi, procedendo da Gibilterra verso est, sono: il Mare di Alboran, il Mar delle Baleari, il Mar Ligure, il Tirreno, lo Ionio, il Mar Pelagico, il mar Adriatico (v.), il mar Egeo (v.), il Mar di Creta e il Mar di Levante (v.). Dal punto di vista commerciale, con più di 80 porti di rilevanza internazionale e 2.000 collegamenti marittimi, è ai primi posti dei traffici mondiali in quanto al suo interno (in ogni momento sono in circolazione non meno di 2.000 navi) transitano merci per un volume che in media è stimato in circa 750 milioni di t. Cospicua è la percentuale dei prodotti petroliferi: basti dire che lo attraversa il 30% del petrolio mondiale (circa 400.000.000 t annue) e quasi i due terzi delle risorse energetiche necessarie all’Italia e agli altri paesi europei, comprese quelle trasportate dai gasdotti sottomarini (v. Cavi e condotte). 2. Mediterraneo allargato Il concetto di mare chiuso o semichiuso che gli Stati rivieraschi — come avvenuto per il Mar Nero, cercano si assoggettare a controllo esclusivo — fa parte della geopolitica del mare (v.) in modo non dissimile da quello opposto di un mare considerato nella sua dimensione allargata che lo metta a sistema con altri bacini tra loro connessi da rotte marittime commerciali. Da questo punto di vista, i limiti geopolitici del Mediterraneo sono, in effetti, molto più ampi di quelli reali. Ragionando in termini di Wider Mediterranean, il suo limes occidentale può essere identificato, al di là delle Colonne d’Ercole dello stretto di Gibilterra, nel meridiano passante per le Canarie; il che porta a includere sia l’area strategica del golfo di Guinea (v. Pirateria), sia le rotte del Nord Europa. A est i confini geopolitici del Mediterraneo sono ancora più estesi e giungono sino al Mar Nero e al mar Caspio e, verso sud, al Mar Rosso, al Corno d’Africa, al golfo di Aden e al Golfo Persico. Nell’ottica dell’Italia che guarda ai mari adiacenti come fulcro dei propri interessi nazionali e come vie di transito e commercio, i confini del Mediterraneo ricadono sicuramente al di là di quelli geografici. D’altronde, non è un caso che la nostra Marina sia stata impegnata a più riprese in attività di peace-keeping navale (v.) a partire dagli anni Ottanta del Novecento in aree extra mediterranee. Questo è avvenuto con l’operazione di stabilizzazione del Libano del 1982, il pattugliamento dello stretto di Tiran (v.) sotto egida MFO dello stesso anno, lo sminamento del golfo di Suez del 1984, la protezione del traffico di bandiera durante il conflitto Iran-Iraq del 1987, la partecipazione all’embargo navale (v.) contro l’Iraq del 1991,
Il Mediterraneo allargato ipotizzato da ISPI.
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sino ad arrivare all’operazione Enduring Freedom nel Mar Arabico del 2004 e all’attività di contrasto della pirateria (v.) al largo del Corno d’Africa iniziata nel 2008. La visione italiana del Mediterraneo allargato non è come ovvio solo di natura militare. I nostri interessi strategici si interfacciano difatti con gli altri interessi nazionali di natura prevalentemente economica. L’approvvigionamento energetico dell’Italia dipende in buona misura dal flusso dei rifornimenti di idrocarburi che giungono via mare dal Golfo Persico attraverso gli stretti di Hormuz e Bab el- Mandeb, il Mar Rosso e il canale di Suez. Sulla stessa rotta viaggiano altresì̀ le importazioni italiane di materie prime e le nostre esportazioni di prodotti finiti. 3. Territorializzazione Mediterraneo Mare caldo il Mediterraneo è, in senso metaforico oltre che geofisico. Le tensioni geopolitiche tra gli Stati che vi si affacciano hanno accelerato il processo della sua suddivisione — spesso con iniziative unilaterali oggetto di violente contestazioni — in spazi di giurisdizione nazionale. Ecco dunque che lo status quo degli spazi marittimi del Mediterraneo è in lenta ma inesorabile trasformazione (v. Piattaforma continentale-Mediterraneo; ZEE-Mediterraneo). Da lungo tempo, quello che come Mare nostrum era stato sotto il controllo esclusivo dei Romani, godeva di una situazione giuridica improntata ai principi del Mare liberum (v. Libertà dei mari) teorizzati da Hugo Grozio. A partire dal secolo XIX, terminata l’epoca in cui la Serenissima interdiceva il transito nell’Adriatico alla Spagna e i «Barbary States» (v. Pirateria) assoggettavano a tributi il passaggio di navi straniere lungo le coste del Nord Africa, si erano, infatti, realizzate nel Mediterraneo le condizioni per l’esercizio del libero uso del mare. Anche quando, ai primi del Novecento, i paesi mediterranei avevano cominciato a istituire acque territoriali (v.) di 3 miglia (poi estese a 6 nel dopoguerra, e infine a 12 secondo i criteri attualmente in vigore), vaste zone di alto mare (v.) avevano sempre garantito la libertà di navigazione nel bacino. Questa situazione rispondeva agli interessi di tutte le Potenze navali dell’epoca ed era perciò stata preservata anche negli anni della Guerra fredda. Un’ulteriore ragione per preservare tale situazione era che, ove gli Stati rivieraschi avessero istituito proprie ZEE, non vi sarebbero più state aree di alto mare, considerato che in nessun punto del Mediterraneo le coste degli Stati frontisti distano tra loro più di 400 miglia. Dall’inizio del XXI secolo, per effetto dell’applicazione dell’UNCLOS, il vento che spira sul Mediterraneo è però cambiato. Spinti dall’esigenza di tutelare le proprie risorse ittiche dal continuo depauperamento messo in atto da flotte Distanze inferiori a 400 mg tra coste opposte del Mediterraneo (Fonte: Francalanci). 86
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pescherecce provenienti dall’Estremo Oriente, molti paesi hanno preso in considerazione la possibilità di istituire zone in cui esercitare parte dei diritti funzionali relativi alla ZEE. Alla base di queste posizioni c’è, in alcuni casi, l’idea che «non può essere contestato che, quello che per le grandi potenze marittime le quali si affacciano sul Mediterraneo è considerato soprattutto uno spazio di navigazione internazionale avente una dimensione strategica capitale, per tutte le popolazioni degli Stati della riva sud, è invece uno spazio da cui trarre risorse alimentari» (v. Pesca (Mediterraneo). Egualmente comprensibili e fondati sono i timori di quegli Stati, primo fra tutti la Francia, che da tempo paventano i rischi ecologici per le proprie coste derivanti da versamenti accidentali di idrocarburi causati da sinistri marittimi, considerato il gran numero di navi (stimate in 200) che in ogni momento sono in navigazione. Se così è, si può ragionevolmente ipotizzare che la peculiarità giuridica del Mediterraneo è destinata a cambiare nel senso di un generale rafforzamento delle giurisdizioni nazionali negli spazi extraterritoriali. La sua «territorializzazione» appare così inevitabile come del resto indica la continua creazione di estese ZEE come quella istituita dall’Algeria nel 2018 o quella turco-libica del 2019 (v. ZEE- Mediterraneo). Anche la posizione dell’Italia, sinora contraria alle ZEE per non determinare limitazioni alle libertà di navigazione, potrebbe di conseguenza mutare. Proposte per la sua istituzione da parte dell’Italia — che sarebbe costretta a farlo per non creare vuoti di giurisdizione attorno alle proprie coste — sono state formulate in sede parlamentare durante la XVIII legislatura. 4. Cooperazione regionale Al di là delle spinte nazionalistiche insite nella creazione di spazi di giurisdizione funzionale, è ipotizzabile che in futuro si rafforzerà la cooperazione regionale e/o transfrontaliera in specifiche materie. Tale cooperazione è già da tempo avviata, nel quadro del regime delineato dall’UNCLOS per i mari chiusi o semichiusi, in materia di protezione dall’inquinamento (v. Protezione dell’ambiente marino-Mediterraneo), con vari strumenti come la Convenzione di Barcellona del 1976 o il Santuario dei Mammiferi (v.). Il mar Mediterraneo costituisce anche una «special area» (v. Area marina specialmente protetta), in cui vigono standard restrittivi per la prevenzione dell’inquinamento da idrocarburi e rifiuti solidi. Anche i flussi migratori via mare che nel Mediterraneo sono in continua crescita sin dai primi anni Novanta del secolo scorso hanno fatto emergere l’esigenza di avviare forme di cooperazione per il controllo del traffico e trasporto illegale di migranti (v.). L’Unione europea ha ricoperto un ruolo primario nel lanciare, nel 2015, l’operazione navale EUNAVFOR-MED Sophia dedicata sia al contrasto di tali traffici, sia al SAR, sia soprattutto all’interdizione del contrabbando di armi con la Libia. Al termine del suo mandato, nel marzo 2020, questa operazione è stata sostituita da quella denominata «Irini», egualmente incentrata sulla lotta al contrabbando di armi. Rilevante è anche stato il ruolo dell’Italia nell’assolvere gli obblighi di salvataggio e accoglienza: basti dire che nel periodo 2013-18 sono sbarcate nel nostro paese circa 600.000 persone, salvate in mare da nostre unità, da mercantili, da imbarcazioni ONG e da navi partecipanti alle operazioni di FRONTEX ed EUNAVFOR-MED. Vedi anche: Acque territoriali (Mediterraneo); Baie storiche (Mediterraneo); Cavi e condotte (Mediterraneo); Demilitarizzazione (Mediterraneo); Geopolitica del mare; Linee di base (Mediterraneo); Pesca (Mediterraneo); Piattaforma continentale (Mediterraneo); Polizia alto mare; Protezione dell’ambiente marino (Mediterraneo); Ricerca e soccorso in mare; Stretti e canali internazionali; Zona contigua. MAR NERO 1. La «Questione degli stretti» È un mare chiuso (v.) sia in senso giuridico che geografico, essendo collegato al mar Mediterraneo (v.) attraverso l’unico accesso degli stretti Turchi (v.) ed essendo interamente circondato dalle acque territoriali (v.) di Turchia, Romania, Bulgaria, Federazione Russa, Ucraina e Georgia. Tali caratteristiche ne hanno consentito, durante i secoli passati, il controllo da parte di alcuni paesi costieri. In questo contesto si è sviluppata la pretesa turca basata sul così detto «antico principio dell’Impero ottomano» secondo cui l’accesso al Mar Nero — che sin dalla conquista di Costantinopoli nel 1453 era diventato un mare sottoposto a dominio esclusivo — doveva essere interdetto al transito, anche mercantile, delle potenze straniere, a meno di espressa autorizzazione. Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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Nel 1809 la Gran Bretagna aveva riconosciuto espressamente all’Impero ottomano tale principio. E anche la Russia, ai primi dell’Ottocento, con vari trattati, aveva ritenuto conveniente, per la propria politica di potenza, riaffermare la chiusura degli stretti. Fu così che, al termine della guerra di Crimea, il trattato di Parigi del 1856 provvide a neutralizzare il Mar Nero in modo da mettere al riparo Turchia, Francia e Gran Bretagna dal riarmo navale zarista. Esso, all’art. 11, stabiliva, infatti, che: «Il Mar Nero è neutralizzato. Aperto alla Marina mercantile di tutti i paesi, le sue acque e i suoi porti sono…preclusi alle navi da guerra degli Stati costieri e delle altre potenze». Mal sopportando questa limitazione, la Russia la contestò nel 1870, al tempo della guerra franco-prussiana. In risposta la convenzione di Londra del 1871 e il trattato di Berlino del 1878, oltre a liberalizzare il traffico commerciale, affermarono il diritto della Turchia, per salvaguardare la propria sicurezza, di consentire l’ingresso in Mar Nero di navi da guerra straniere. Crollato l’Impero ottomano nel 1918, le potenze alleate proclamarono la libertà di transito negli stretti in conformità alla politica dagli Stati Uniti (v. Libertà dei mari) che sin dalla seconda metà dell’Ottocento, a più riprese, avevano contestato la pretesa ottomana di interdire il transito alle navi da guerra. Per conseguenza, prima il trattato di Sèvres del 1920 e poi la convenzione degli stretti, annessa al trattato di Losanna nel 1923, firmato dalle potenze alleate dopo la dissoluzione dell’Impero ottomano, stabilì un regime di libertà di passaggio e navigazione in favore delle navi di qualsiasi bandiera. Questi trattati imposero anche alla Turchia onerose clausole di smilitarizzazione delle zone costiere degli stretti (v. Demilitarizzazione). Il controllo sulla loro applicazione fu demandato a un’apposita «Commissione internazionale degli stretti» presieduta da Ankara, di cui facevano parte Francia, Gran Bretagna e Italia. Qualche anno dopo, la rinata Turchia di Mustafà Kemal Ataturk riuscì tuttavia a rovesciare la partita riguadagnando a proprio favore un ruolo chiave nel controllo degli stretti. In ciò, favorita dalla politica isolazionistica della Russia sovietica che approvava le pretese turche alla effettiva sovranità sugli stretti in funzione antioccidentale; e anche dalle buone relazioni instaurate con la Grecia e dal credito guadagnato nei confronti della Gran Bretagna. Quando la Turchia, nel 1936, richiese la revisione della convenzione di Losanna del 1923, invocando la clausola rebus sic stantibus per affermare che il cambiamento della situazione internazionale non giustificava più il regime in essa previsto di libertà di transito e smilitarizzazione degli stretti, in pochi mesi si addivenne alla definizione della nuova Convenzione di Montreux del 20 luglio 1936 (v. Stretti turchi), che ha, di fatto, ristabilito, sia pur in chiave più adeguata ai tempi, l’antico status quo del Mar Nero come mare chiuso. 2. Spazi marittimi Il Mar Nero presenta un altro carattere che lo connota come mare chiuso: tutti gli Stati rivieraschi hanno proclamato proprie ZEE (v.) eliminando del tutto gli spazi di alto mare (v.). Lo hanno fatto la Russia (1977 e 1998), la Turchia (1986) la Romania (1986), la Bulgaria (1987), l’Ucraina (1995) e la Georgia (1998). Stante la ristrettezza del bacino le cui coste opposte in nessun punto distano più di 400 miglia, le frontiere di queste ZEE sono state stabilite per accordo nei seguenti casi: Russia-Turchia (scambio di note del 1986 confermante il limite della piattaforma continentale definito nel 1978); Bulgaria-Turchia (1997); Georgia-Turchia (1997). Non è invece stato ancora concordato il confine Romania-Turchia né, a motivo dell’autoproclamata indipendenza dell’Abkhazia, quello laterale Russia-Georgia. Sulle frontiere marittime Ucraina-Romania di ZEE e piattaforma continentale si è pronunciata Corte internazionale di giustizia con sentenza del 2009 che ha stabilito una delimitazione (v.) improntata a criteri equitativi tenendo conto del rapporto di proporzionalità (a favore dell’Ucraina) tra le coste rilevanti dei due paesi. Quanto all’Ucraina essa è Stato successore (v. Successione tra Stati) della Federazione Russa relativamente alla frontiera con la Turchia; con la Russia sono insorte criticità dopo l’occupazione e l’annessione della Crimea nel 2014, a seguito della quale la base navale di Sebastopoli (dal 1991 concessa dall’Ucraina alla Russia in uso) è passata sotto controllo russo. Le Forze navali ucraine si sono per conseguenza spostate a Odessa. Nel 2016 l’Ucraina ha aperto con la Russia una disputa per la giurisdizione sugli spazi marittimi adiacenti alla Crimea e sullo stretto di Kerch (v. Mar di Azov) deferendola a un Tribunale arbitrale. 3. Cooperazione regionale Le tensioni Russa-Ucraina e Russia-Turchia determinatesi nel 2015 non rallenteranno probabilmente il processo di cooperazione regionale già avviato. In passato erano state, infatti, intraprese varie iniziative, 88
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quali la convenzione di Bucarest del 1992 sulla protezione del Mar Nero dall’inquinamento (v. Protezione dell’ambiente marino) o l’accordo di Ankara del 1998 sulla cooperazione nel campo della ricerca e salvataggio (v. Ricerca e soccorso in mare). Gli Stati rivieraschi cooperano inoltre per la gestione delle risorse ittiche nell’ambito della Commissione generale della Pesca per il Mediterraneo (v. Pesca (Mediterraneo), organismo regionale costituito nell’ambito della FAO con competenze estese sia al Mediterraneo sia al Mar Nero. MAR ROSSO 1. Via d’acqua internazionale Il Mar Rosso è contornato da otto paesi: Egitto, Sudan, Eritrea, Gibuti, Yemen, Arabia Saudita, Giordania e Israele. Ne fanno parte i golfi di Suez e Aqaba; l’accesso a quest’ultimo è attraverso lo stretto di Tiran (v.). La sua lunghezza (misurata dalla città di Suez all’imboccatura dell’omonimo canale di Suez (v.) sino allo stretto di Bab el-Mandeb (v.) è di 1.040 miglia; la larghezza, nella parte di massima ampiezza prospiciente l’Eritrea, è di 190 miglia. Dal punto di vista giuridico, il Mar Rosso risponde pienamente alla nozione di mare chiuso (v.). Esso costituisce inoltre una via di comunicazione marittima in quanto collega il Mediterraneo all’oceano Indiano attraverso il canale di Suez e lo stretto di Bab el-Mandeb. Rilevante è la sua importanza sul piano geopolitico: le comunicazioni commerciali dei paesi europei attraverso il Mar Rosso (in media 20.000 transiti annuali di navi mercantili di cui 2.000 di bandiera italiana) sono incentrate sulle direttrici tra il Mediterraneo da una parte e il Corno d’Africa e il golfo di Aden dall’altra. Nonostante il Mar Rosso rivesta un’indubbia funzione di international waterways, da parte degli Stati costieri è emerso in anni recenti l’orientamento a gestire in via diretta ed esclusiva la sicurezza del bacino (v. Sicurezza marittima). La prova si è avuta quando nel 2009, con la Ryad Declaration, tutti i paesi rivieraschi, con l’esclusione della sola Israele, hanno costituito una Forza marittima regionale per il contrasto alla pirateria (v.). 2. Spazi marittimi La definizione degli spazi marittimi del bacino può dirsi completato quasi del tutto. Hanno istituito linee di base rette (v.) l’Arabia Saudita, l’Eritrea, il Sudan e l’Egitto. L’Egitto ha, in particolare, chiuso con una linea di base di 36 mn il golfo di Suez attribuendogli quindi, in questo modo, lo status di acque interne (v). Per conseguenza, il traffico in entrata e in uscita dal canale di Suez è in regime di transito inoffensivo (v). Proteste sono state formulate dagli Stati Uniti per questa situazione che è ritenuta in contrasto con la libertà di passaggio stabilita dalla Convenzione di Costantinopoli del 1888. Anche la zona Sud del Mar Rosso, nel tratto che dalle isole Hanish va sino allo stretto di Bab el-Mandeb, è interamente coperta dalle acque territoriali di Yemen, Eritrea e Gibuti, Isole Hanish, Zubair e Jebel At Tair. Circa le altre zone marittime, l’Arabia Saudita ha una zona contigua di 12 miglia. L’Egitto, pur avendo previsto in teoria la proclamazione di una zona economica esclusiva (v.), non lo ha ancora fatto, mentre l’Arabia Saudita l’ha istituita nel 2011. Tra i due Stati non esiste nessun accordo di delimitazione (v.), nemmeno relativo alla piattaforma continentale (v.). Essendo venuta meno, per effetto della guerriglia del fronte eritreo, la sovranità dell’Etiopia sulla fascia costiera, gli spazi marittimi tra il Sudan e Gibuti appartengono all’Eritrea che, dopo aver acquisito l’indipendenza nel 1991, ha confermato la validità della precedente legislazione marittima etiopica, mantenendo le 12 mn delle acque territoriali stabilite nel 1951. Quanto all’Etiopia, sino al 1998 gli è stato garantito dall’Eritrea l’uso del porto di Assab; successivamente ha concordato con Gibuti di avvalersi delle sue infrastrutture portuali nell’ambito dei diritti di accesso al mare che l’UNCLOS (art. 125) riconosce agli Stati privi di litorale. 3. Dispute Un particolare problema derivava dalla presenza, tra l’Eritrea e lo Yemen, delle isole Hanish-Zukar, collocate in prossimità dello stretto di Bab el-Mandeb in posizione strategicamente importante sia ai fini del controllo del traffico marittimo sia ai fini dello sfruttamento di possibili giacimenti petroliferi. Sulla sovranità avanzavano pretese entrambi i paesi, come già era avvenuto negli anni Trenta del secolo scorso, quando Italia e Gran Bretagna, che ne avevano il possesso, avevano definito le questioni di reciproco interesse con l’annesso 3 all’Accordo di Roma del 16 aprile 1938. Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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Dopo la decisione del governo dello Yemen di costruire un impianto turistico nella Grande Hanish, e dopo l’occupazione della stessa isola da parte dell’Eritrea, nel 1995, i due paesi hanno deferito la controversia a una Corte arbitrale che ha emanato due distinte decisioni: quella del 1998 attribuisce allo Yemen le isole di al-Tayr, Zuqar-Hanish e Zubayr e quelle di Mohabbakan e Haycock all’Eritrea; la successiva del 1999 ha definito la questione del confine marittimo stabilendo un’unica linea valevole per la piattaforma continentale e ZEE. Sulla base di questa sentenza i due paesi hanno stipulato, con accordo del 1999, una delimitazione di tutti gli spazi marittimi, costituita da una linea di equidistanza modificata. Con accordo del 12 giugno 2000, Yemen e Arabia Saudita hanno tracciato la frontiera marittima laterale delle rispettive acque territoriali. Il golfo di Aqaba è, tranne una piccola porzione nella parte meridionale, interamente coperto dalle acque territoriali di Arabia Saudita, Egitto e Giordania. Tra Egitto e Giordania è stato stipulato il 18 gennaio 1996 un accordo di delimitazione (linea mediana sino al punto triplo con l’Egitto). Nessuna delimitazione è invece stata stabilita tra Egitto e Arabia Saudita. L’Egitto ha rinunciato alle proprie pretese sulle isole di Tiran e Senarir (v. Isole) collocate all’ingresso dello stretto di Tiran (v.): nel 2017 la sovranità su di esse è stata trasferita all’Arabia Saudita. Una disputa sussiste tra Egitto e Sudan per quanto riguarda il c.d. «Halaib Triangle», zona a nord del 22° parallelo costituente il confine tra i due paesi secondo l’accordo angloegiziano del 1899. La questione è sorta nel 1902 quando la Gran Bretagna decise, unilateralmente, di fissare un diverso confine amministrativo, a nord di tale linea, comprendente appunto la zona adiacente alla città di Halayib. Successivamente, l’Egitto occupò temporaneamente tale zona nel 1958 e, nel 1990, dopo alterne vicende, inserì nel proprio sistema di linee di base (punti 41-56) la linea di costa antistante. Come reazione a questa iniziativa il Sudan nel 1991 concesse permessi petroliferi nella stessa area marina. Confine ZEE Yemen-Eritrea (Fonte: PCA). MARE TERRITORIALE Vedi: Acque territoriali. MARINA MILITARE Vedi: Nave da guerra; Nave in servizio governativo non commerciale; Pesca; Polizia dell’alto mare; 90
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Diritto e Geopolitica del Mediterraneo allargato; Piattaforma continentale (sicurezza offshore); Protezione dell’ambiente marino; Ricerca e soccorso in mare; Sicurezza marittima; Traffico e trasporto illegale di migranti in mare. MARITIME INTERDICTION OPERATIONS (MIO) Vedi: Interdizione marittima. MARITIME LAW ENFORCEMENT (MLE) Vedi: Polizia dell’alto mare. MARITIME QUARANTINE Vedi: Blocco navale. MISURE NAVALI CONFIDENZA RECIPROCA (Naval CBM) Vedi: Disarmo navale; Prevenzione attività pericolose in mare MAROCCO Vedi: Stretti e canali internazionali; Zona contigua; ZEE (Mediterraneo). MONACO (PRINCIPATO) Vedi: Acque territoriali (Mediterraneo); Protezione dell’ambiente marino (Mediterraneo); Santuario per la protezione dei mammiferi. MONTENEGRO Vedi: Acque territoriali (Mediterraneo); Successione tra Stati. NAVE DA GUERRA 1. Funzione delle navi da guerra Nel XIX secolo si è definitivamente affermato il principio giuridico secondo cui le navi da guerra, essendo esclusivamente soggette alla giurisdizione dello Stato di bandiera, godono di completa immunità (v.) in alto mare (v.) e nelle acque territoriali (v.) straniere. Da quando è stata emanata la dichiarazione di Parigi del 1856 sui principi della guerra marittima (v. Diritto bellico marittimo) che ha proibito la guerra di corsa (v. Pirateria) intesa come affidamento a navi private armate di funzioni belliche, le navi da guerra costituiscono inoltre gli unici soggetti che hanno diritto di partecipare alle ostilità, quali legittimi combattenti. Contemporaneamente si è consolidato il concetto secondo cui, come è stato efficacemente detto, le stesse navi da guerra «rappresentano la sovranità e l’indipendenza dello Stato di appartenenza in modo più perfetto di qualunque altro mezzo sul mare». Connesso a tale situazione giuridica e ai discendenti poteri di jus imperii è il compito di vigilare sulla sicurezza dei traffici marittimi internazionali che nei secoli si è imposta quale attività primaria delle navi da guerra in tempo di pace, per garantire la regolarità dei traffici commerciali e, più in generale, la legalità internazionale contrastando fenomeni come la pirateria e la tratta degli schiavi (v.). Questo ruolo delle navi da guerra può definirsi come polizia dell’alto mare (v.) o, secondo la terminologia anglosassone, Maritime Law Enforcement (MLE). Funzione correlata è anche il compito di rappresentare l’autorità dello Stato nei confronti dei mercantili di bandiera per prevenire e reprimere eventuali illeciti da essi commessi in alto mare o in acque territoriali straniere. L’ordinamento Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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italiano prevede, a questo fine, che le navi da guerra nazionali esercitino, in questi spazi, funzioni di polizia marittima (CN, art. 200) e funzioni di polizia giudiziaria (CN, art. 1235, n. 4) nei confronti dei mercantili nazionali. Quale strumento politico-diplomatico dello Stato nelle aree marittime di interesse al di là delle acque territoriali, le navi da guerra da secoli svolgono il compito di proteggere in alto mare la vita e i beni dei cittadini i quali siano oggetto di illegittimi atti di violenza posti in essere da paesi stranieri in tempo di pace. Il diritto di reagire con la forza a tali atti ha trovato col tempo la sua collocazione nell’ambito del principio giuridico della difesa legittima. Le navi da guerra sono, infatti, i soli organi dello Stato a potersi confrontare sul mare con autorità di altri paesi. Basti pensare al più che cinquantennale impegno della Marina Militare nel Canale di Sicilia (v. Pesca (Mediterraneo). Rilevante è, al riguardo, la capacità delle navi da guerra di esercitare la forza in modo limitato, cioè a dire strettamente commisurato alle esigenze sulla base dei criteri della necessità, gradualità e proporzionalità. La soggettività di diritto internazionale delle navi da guerra le abilita quindi, sul piano politico-diplomatico, a rappresentare lo Stato; da ciò deriva l’esigenza che la loro azione all’estero sia a un tempo ferma e autorevole, ma anche prudente, per non creare situazioni che possano sfociare in casus belli. Esclusivo delle navi da guerra, e storicamente affermato come funzione di diplomazia flessibile ed efficace, è anche il compito di far valere i diritti e gli interessi della nazione in aree che siano oggetto di pretese contrastanti di altri Stati che intendano esercitare giurisdizione territoriale o diritti sovrani di sfruttamento. La storia è ricca di esempi in proposito: basti pensare alle secolari contese per l’esercizio di diritti di pesca, alle prospezioni petrolifere in aree disputate o alle operazioni navali per contrastare le pretese di alcuni Stati intese a limitare la libertà di navigazione (v. Libertà dei mari). In definitiva, le navi da guerra ricoprono un ruolo flessibile e polivalente nell’ambito del teatro marittimo la cui essenza può sintetizzarsi, come è stato detto, in Diritto, Forza e Diplomazia. 2. La nave da guerra nel diritto internazionale Di pari passo con lo sviluppo dei principi regolanti la condizione giuridica di extraterritorialità delle navi da guerra, e quindi il loro ruolo di unici soggetti aventi diritto a partecipare alle operazioni di guerra marittima, si è avuto nell’ordinamento internazionale la definizione della nozione giuridica di nave da guerra, sia essa di superficie sia sommergibile (v.). I principi basilari sono stati posti, ai fini della condotta delle ostilità in mare, nella VII Convenzione dell’Aja del 1907, concernente la trasformazione delle navi mercantili in navi da guerra che individua i seguenti elementi caratterizzanti: 1) sottoposizione al controllo diretto e alla responsabilità dello Stato; 2) segni distintivi esteriori che distinguono le navi da guerra della rispettiva nazionalità; 3) esistenza di un comandante debitamente autorizzato il cui nome figuri nell’elenco degli ufficiali della Marina; 4) sottoposizione dell’equipaggio alla disciplina militare. In modo analogo, la I Convenzione di Ginevra del 1958 (art. 8, 2) prevedeva doversi trattare di una «nave che appartenga alle Forze navali di uno Stato, porti i segni distintivi esteriori adottati per le navi da guerra della sua nazionalità, sia posta sotto il comando di un ufficiale debitamente incaricato dal governo e il cui nome è iscritto nell’elenco degli ufficiali della Marina da guerra, abbia un equipaggio soggetto alla disciplina delle Forze armate regolari». La situazione è in parte cambiata a seguito dell’entrata in vigore dell’UNCLOS che, pur confermando la distinzione in precedenza vigente tra navi da guerra e navi di Stato (v. Navi in servizio governativo non commerciale), ha apportato significativi mutamenti. L’art. 29 della convenzione medesima — benché continui a non richiedere come per il passato che una nave da guerra, per essere tale, debba essere armata — ha ora previsto, nel suo testo in lingua inglese, che essa «appartenga alle Forze armate, porti i segni esterni che distinguono tali navi della sua nazionalità, sia posta al comando di un ufficiale debitamente autorizzato dal governo dello Stato e il cui nome appaia nell’appropriato ruolo di servizio o suo equivalente, abbia un equipaggio soggetto alla disciplina delle Forze armate regolari». Pertanto, non viene più fatto riferimento né all’appartenenza alle Forze navali (Naval forces) né all’iscrizione del comandante nell’elenco degli ufficiali della Marina da guerra (Navy list). Per converso, il testo francese (facente egualmente fede come quello inglese) usa la formula più restrittiva «al comando di un ufficiale di Marina» («qui est pacè sous le commandement d’oun officier de marine»). Circa il richiamo all’appartenenza della nave da guerra alle Forze armate che è presente in entrambi i testi, esso sarebbe stato introdotto per tenere conto 92
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dell’integrazione delle differenti branche delle Forze armate dei vari paesi, dell’utilizzazione di imbarcazioni da parte dell’Esercito e dell’Aeronautica e dell’esistenza di una Guardia costiera come unità separata delle Forze armate di uno Stato. Non tutte le unità che fanno parte delle Forze armate e battono quindi bandiera militare possono però considerarsi di per sé «da guerra» ai fini del possesso delle relative prerogative e dei relativi poteri. È necessario, infatti, accertare, caso per caso, quella che è la volontà dello Stato di bandiera circa l’attribuzione della qualifica a proprie unità navali. La manifestazione di questa volontà assume diverse forme. All’esterno, nei rapporti con gli altri Stati, vengono anzitutto in rilievo i segni di riconoscimento, primi tra tutti la bandiera navale e i distintivi ottici di riconoscimento («visual call sign», secondo la fraseologia NATO, o «pendant» secondo la terminologia anglosassone). Tra questi segni può anche comprendersi quel particolare appellativo che precede la denominazione dell’unità, come United States Ship (USS) adoperato negli Stati Uniti o Her Majesty’s Ship (HMS) in uso in Gran Bretagna. Sta di fatto che, se non sussiste tale volontà dello Stato di bandiera, non è possibile ipotizzare la partecipazione a operazioni navali multinazionali di unità che, per quanto astrattamente dotate dei requisiti internazionali per essere considerate da guerra, non siano integrate nelle «Forze navali armate» di un paese. Il pericolo sta, infatti, nell’assenza di condivisione, da parte di queste unità, degli standard operativi navali con conseguente rischio di malintesi e incidenti che potrebbero coinvolgere anche paesi terzi. Peraltro, anche in situazioni che non si configurino come crisi internazionali, la questione assume rilievo dal punto di vista politico-diplomatico nei confronti degli Stati terzi, in quanto sarebbe estremamente pericoloso affidare, negli spazi extraterritoriali, a navi che non siano sotto il controllo delle Marine, compiti di difesa dei diritti e degli interessi nazionali: il rischio sarebbe, oltre alla sovrapposizione dei ruoli e allo spreco di risorse, il frammentare l’azione dello Stato in ambito internazionale in più settori di intervento che agiscano autonomamente, adottando comportamenti difformi. 3. La nave da guerra nell’ordinamento italiano 3.1 Disciplina normativa L’ordinamento italiano contiene nel Codice dell’Ordinamento Militare (COM) e nel Codice della navigazione, disposizioni che configurano la nave da guerra nazionale come soggetto di poteri e prerogative in funzione, come si è detto, dello svolgimento di attività di polizia dell’alto mare. Quanto alla definizione di nave da guerra, il testo in lingua francese dell’art. 29 dell’UNCLOS (riportato in traduzione non ufficiale in allegato alla Legge di ratifica 2 dicembre 1994 n. 689) adotta l’espressione «posta al comando di ufficiale di Marina». Essa è stata così recepita nell’art. 239, 2 del COM: «Per “nave da guerra” si intende una nave che appartiene alle Forze armate di uno Stato, che porta i segni distintivi esteriori delle navi militari della sua nazionalità ed è posta sotto il comando di un ufficiale di Marina al servizio dello Stato e iscritto nell’apposito ruolo degli ufficiali o in documento equipollente, il cui equipaggio è sottoposto alle regole della disciplina militare». Il COM ne stabilisce quindi una nozione più restrittiva in quanto prescrive il requisito della sottoposizione al comando di un «ufficiale di Marina», tenendo evidentemente conto della realtà giuridica dell’ordinamento del naviglio militare italiano e delle diverse funzioni svolte dalle sue componenti (v. Polizia alto mare). Per meglio comprendere la questione bisogna considerare che il COM — con una visione complessiva delle Forze marittime dello Stato — accomuna con l’art. 239, sotto l’unica categoria delle «navi militari», sia le navi da guerra sia le altre navi su cui sia imbarcato personale a status militare, così disponendo: «Sono navi militari quelle che hanno i seguenti requisiti: a) sono iscritte nel ruolo del naviglio militare; b) sono comandate ed equipaggiate da personale militare, sottoposto alla relativa disciplina; c) recano i segni distintivi della Marina Militare o di altra Forza armata o di Forza di polizia a ordinamento militare». La categoria delle «navi militari» è anche prevista dall’art. 11, 2 del Codice penale militare di pace che così recita: «Agli effetti della legge penale militare, sono navi militari e aeromobili militari le navi e gli aeromobili da guerra, le altre navi o aeromobili regolarmente trasformati in navi o aeromobili da guerra, e ogni altra nave e ogni altro aeromobile adibiti al servizio delle Forze armate dello Stato alla dipendenza di un comandante militare». Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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In sostanza, l’ordinamento italiano disciplina in modo unitario il «naviglio militare», tenendo conto del fatto che il segno distintivo della bandiera navale militare (v. Bandiera navale) è attribuito sia alle navi da guerra della Marina Militare iscritte nel «Quadro del naviglio militare dello Stato», sia alle altre specie di navi a status militare iscritte nel «Ruolo speciale del naviglio militare dello Stato di cui all’art. 243 del COM e all’art. 292 del TUOM, Testo unico dell’Ordinamento Militare (D.P.R. 902010). Le navi da guerra, pur essendo in termini generali delle navi militari, rappresentano quindi una categoria specifica. 3.2 Status unità Guardia di Finanza e Guardia costiera Il problema della qualificazione specifica delle «navi da guerra» è stato affrontato e risolto negativamente — con riguardo alle unità navali del Corpo della guardia di finanza — dalla Corte di Cassazione in una pronuncia dedicata alla configurazione del reato di cui all’art. 1100 del CN («Resistenza o violenza contro nave da guerra»), nell’ambito di un noto caso relativo alla nave ONG Sea Watch 3. La Suprema corte (Cassazione penale, Sezione III, Sentenza 20 febbraio 2020, n. 6626), osserva, nella premessa della decisione, che: «La Guardia di Finanza è un “Corpo di polizia a ordinamento militare”, parte integrante delle Forze armate, dipendente dal ministero dell’Economia e delle finanze. Il naviglio a essa assegnato appartiene dunque alle Forze armate. Tale naviglio, inoltre, porta i segni distintivi esteriori delle navi militari italiane (batte cioè bandiera italiana) e imbarca un equipaggio sottoposto alle regole della disciplina militare. Per poter essere qualificata come “nave da guerra”, tuttavia, l’unità della Guardia di Finanza deve altresì essere comandata da “un Ufficiale di Marina al servizio dello stato e iscritto nell’apposito ruolo degli ufficiali o in documento equipollente”, il che nel caso in esame non è dimostrato. Non è sufficiente che al comando vi sia un militare, nella fattispecie un maresciallo, dal momento che il “maresciallo” non è ufficiale»; precisando inoltre che «la legge 13 dicembre 1956, n. 1409, art. 6, (norme per la vigilanza marittima ai fini della repressione del contrabbando dei tabacchi) punisce gli atti di resistenza o di violenza contro tale naviglio con le stesse pene stabilite dall’art. 1100 del codice della navigazione, per la resistenza e violenza contro una nave da guerra». Per poi concludere che «Proprio per il fatto che, nel 1956, il legislatore ha esplicitamente stabilito che agli atti di resistenza commessi contro navi della Guardia di Finanza si applicassero le medesime pene previste per la resistenza a nave da guerra, si deve concludere che di per sé tali navi non sono annoverabili tra le “navi da guerra”. Diversamente ragionando non si comprenderebbe il senso di tale disposizione di legge, che sarebbe del tutto superfluo». Da notare infine che la Cassazione ha evidenziato che la nuova disciplina introdotta dall’art. 239, 2 del COM, confligge sia con il precedente indirizzo giurisprudenziale che applicava estensivamente alle unità della Guardia di Finanza la tutela penale stabilita per le navi da guerra, sia con la norma, ora abrogata, dell’art. 133 della Legge di Guerra (R.D. 1415-1938) che forniva una definizione più ampia di nave da guerra quanto alla possibilità che al comando ci fosse «personale militare o militarizzato» di qualsiasi grado e Forza armata o Corpo militare. Le conclusioni raggiunte per le unità della Guardia di Finanza non sono valide per il naviglio del Corpo delle capitanerie di porto-Guardia costiera, considerato che quest’ultimo, quando comandato da ufficiali, potrebbe possedere tutti i requisiti per rientrare a pieno titolo nella qualificazione stabilita dall’art. 239, 2 del COM in quanto il Corpo, secondo lo stesso COM (art. 132) «dipende dalla Marina Militare» per quanto riguarda lo svolgimento di specifiche funzioni di concorso alla difesa marittima e dello Stato. Dubbi possono però sorgere se si considera che il ministero di riferimento, sia per il personale sia per le unità navali, è quello delle Infrastrutture e trasporti. Al riguardo, va inoltre tenuto conto del fatto che secondo l’art. 297, 2 e 3 del TUOM: « [Il Comando generale delle Capitanerie di porto] provvede ad assegnare alle sedi le unità navali e i mezzi navali contemplati dal presente titolo, in funzione delle esigenze dei servizi di Istituto, e sovraintende al loro impiego e alla loro efficienza». Vedi anche: Cavi e condotte sottomarine; Diritto di visita; Diritto di inseguimento; Inchiesta di bandiera; Immunità di giurisdizione; Interdizione marittima; Nave in servizio governativo; Nave mercantile; Polizia alto mare; Protezione del patrimonio culturale subacqueo; Ricerca e soccorso in mare; Transito inoffensivo delle navi da guerra.
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NAVE A PROPULSIONE NUCLEARE Vedi: Demilitarizzazione; Protezione dell’ambiente marino; Transito inoffensivo. NAVE DI STATO Vedi: Nave in servizio governativo non commerciale. NAVE IN SERVIZIO GOVERNATIVO NON COMMERCIALE (NAVE DI STATO) 1. Regime giuridico internazionale 1.1 Status giuridico La categoria delle navi appartenenti a uno Stato e utilizzate esclusivamente per un servizio pubblico non commerciale (Ginevra I, 22, 1; UNCLOS 32 e 96) gode, al pari delle navi da guerra (v.), di completa immunità di giurisdizione (v.). Nell’ambito di questa categoria assume particolare rilievo la specie delle «navi identificabili, con chiari segni distintivi, come unità in servizio governativo e autorizzate a questi effetti» (Ginevra II, 23, 4; UNCLOS 111, 6) le quali, pur non essendo navi da guerra, possono essere attualmente autorizzate dallo Stato di bandiera a esercitare poteri autoritativi in alto mare (v.) nei confronti di navi mercantili straniere nell’ambito del diritto di inseguimento (v.) e del diritto di visita (v.). Nella terminologia corrente esse sono anche indicate come navi di Stato. La qualifica di nave di Stato spetta allo Stato di bandiera; la nave deve essere dotata a bordo di documentazione che comprovi lo status oltre agli appositi segni distintivi e, eventualmente, a una specifica bandiera navale diversa da quella da guerra. Alle navi di Stato appartengono, per esempio, quelle — dotate di apparecchiatura elettronica ma apparentemente strutturate come mercantili — che nella terminologia della NATO sono indicate come navi AGI (Auxiliary Gathering Intelligence) impiegate dall’ex Unione Sovietica e ora dalla Federazione Russa o dalla Cina per lo svolgimento di attività di intelligence al di fuori delle acque territoriali (v. transito inoffensivo). 1.2 Differenze funzionali rispetto alle navi da guerra La differenza sostanziale tra la categoria delle navi da guerra e quella delle navi di Stato, entrambe appartenenti al genus delle navi pubbliche, sta nella differente funzione e nella differente legittimazione giuridica dell’una e dell’altra. Le navi da guerra — a prescindere ovviamente dal compito primario di difesa dello Stato in mare — costituiscono lo strumento politico-militare dello Stato nei rapporti con gli altri Stati e, come tali, rappresentano la nazione all’estero sia nel corso delle attività militari di loro pertinenza, sia durante le visite ufficiali in cui sono loro assegnate funzioni di «diplomazia flessibile» (mostrare la bandiera, presenziare in occasione di visite del Capo dello Stato, aprire la strada a intese per migliorare i rapporti tra i due paesi, tenere i contatti con le comunità nazionali all’estero, ecc.). Sul piano giuridico le navi da guerra hanno una legittimazione piena in acque internazionali (e, a certe condizioni, in acque territoriali straniere) per esercitare funzioni di controllo della legalità dei traffici marittimi internazionali e per vigilare sulle navi mercantili nazionali (v. Polizia dell’alto mare). Le navi di Stato hanno invece una legittimazione limitata per materia (ratione materiae), nel senso che al di là delle acque territoriali possono esercitare soltanto quei poteri che sono funzionali allo svolgimento dei loro compiti d’istituto relativi a specifiche competenze, come la ricerca e soccorso in mare (v.), la vigilanza sul contrabbando doganale (v.), sul traffico di stupefacenti in mare (v.) e sulla protezione dell’ambiente marino (v.). 2. Ordinamento italiano 2.1 Distinte tipologie di navi di Stato L’ordinamento italiano disciplina due distinti tipi di navi di Stato: da un lato le navi iscritte nel Ruolo del naviglio militare dello Stato di cui all’art. 239, 1 del Codice dell’Ordinamento Militare (COM) che non abbiano i requisiti per essere classificate come «navi da guerra» ai sensi del comma 2 dello stesso articolo; dall’altro le «navi in servizio governativo non commerciale» iscritte nell’apposito ruolo previsto dall’art. 283 del Testo Unico dell’Ordinamento Militare (D.P.R. 90-2010) (TUOM). Secondo l’art. 292 dello stesso TUOM, tali navi sono quelle destinate a essere impiegate in «attività d’istituto delle amministrazioni
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dello Stato, alle quali sono attribuite competenze in materia di: pubblica sicurezza, protezione dagli incendi, protezione dell’ambiente marino, trasporto di mezzi e di personale per la pubblica utilità e per le esigenze dell’amministrazione penitenziaria, intervento in caso di calamiyà; sperimentazione tecnologica e ricerca scientifica oceanografica o ambientale marina». La distinzione tra le due specie di navi di Stato è evidentemente connessa al possesso o meno dello status militare da parte del personale che le impiega e alla natura dei compiti svolti dall’amministrazione di appartenenza. 2.2 Navi militari La Cassazione Penale nella sentenza 6626 del 20 febbraio 2020, già citata in precedenza, ha affermato che «… le navi della Guardia di Finanza sono certamente navi militari, ma non possono essere automaticamente ritenute anche da navi da guerra». Sulla base di questo potremmo argomentare che la categoria delle navi militari abbia valenza giuridica unitaria, connotando un ben preciso gruppo di unità che, pur essendo iscritte nell’apposito ruolo e dotate della bandiera navale militare ai sensi degli articoli 292 e 296 del TUOM, non sono navi da guerra. In realtà si deve considerare che l’art. 11, 2 del Codice Penale Militare di Pace dispone che: «Agli effetti della legge penale militare, sono navi militari e aeromobili militari le navi e gli aeromobili da guerra…e ogni altra nave e ogni altro aeromobile adibiti al servizio delle Forze armate dello Stato alla dipendenza di un comandante militare». È vero quindi, secondo l’ordinamento italiano, che non tutte le navi militari sono da guerra; ma è anche vero, ovviamente, che tutte le «navi da guerra» sono anche militari. 2.3 Bandiere navali Come già accennato, la bandiera navale militare è assegnata, secondo il TUOM, ai mezzi navali in dotazione all’Arma dei Carabinieri, al Corpo della guardia di finanza e al Corpo delle capitanerie di portoGuardia costiera iscritte nei ruoli speciali del naviglio militare dello Stato tenuti dal ministero della Difesa. Quello della bandiera può quindi considerarsi un ulteriore elemento idoneo a unificare la categoria delle navi militari, fermo restando la specificità delle «navi da guerra». Il citato TUOM, all’articolo 289, attribuisce inoltre al naviglio iscritto nel Registro delle navi in servizio governativo non commerciale (v.), un’apposita ulteriore bandiera navale: esse «inalberano la bandiera nazionale costituita dal Tricolore italiano, caricato al centro della fascia bianca dell’emblema dello Stato, di cui al decreto legislativo 5 maggio 1948, n. 535...». NAVE MERCANTILE La categoria delle navi private — che concettualmente si contrappone a quella delle navi pubbliche comprendente navi militari, navi da guerra (v.) e navi di Stato (v.) — riguarda le navi mercantili e le unità da diporto. L’UNCLOS non fornisce alcuna definizione di esse ma anzi usa indifferentemente l’espressione ship e quella di vessel senza ulteriore aggettivazione o specificazione. Si vedano per esempio i fondamentali articoli 91 e 92 della stessa UNCLOS relativi a Nationality of ships e a Status of ships che regolamentano la nazionalità della nave (v.); oppure il suo art. 211 sull’inquinamento provocato da navi riguardante la protezione dell’ambiente marino (v.). Non meno generico è il testo dell’annesso alla SOLAS Convention (v. Sicurezza della navigazione) che tuttavia distingue tra varie specie di navi private quali: Passenger ships; Cargo ships; Fishing vessels; Ships not propelled by mechanical means; Wooden ships of primitive build; Pleasure yachts not engaged in trade. Proprio per questo vi è la tendenza a definire la nave in senso negativo, differenziandola da altre categorie. Sintomatico è per esempio il fatto che il Sanremo Manual on International Law applicable to armed Conflicts at Sea (v. Diritto bellico marittimo) preveda, ai fini della regolamentazione delle ostilità sul mare, che «Merchant vessel means a vessel, other than a warship, an auxiliary vessel, or a State vessel such as a customs or police vessel, that is engaged in commercial or private service» (para 13, i). Un’ulteriore differenziazioni concettuale oramai, generalmente accettata, è quella basata su elementi funzionali che distingue tra navi con capacità di propulsione e di trasporto di merci e passeggeri, e altri mezzi che operano in mare, come depositi galleggianti di carburante, piattaforme offshore o turbine flottanti facenti parte di wind farms per la produzione di energia elettrica. 96
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Al riguardo, circa le piattaforme di estrazione di idrocarburi, il discrimine ad aversi nave, sta nella loro capacità di galleggiare, o liberamente o venendo ancorate al fondale. Il fatto che lo Stato di registrazione abbia giurisdizione su di esse come navi — ovunque esse operino — si deduce a contrario dagli articoli 60 e 80 dell’UNCLOS: queste norme prevedono, infatti, che lo Stato costiero abbia giurisdizione sulle «isole artificiali, installazioni e strutture costruite» (il che vuol dire che sono fisse) sulla sua ZEE o piattaforma continentale. Per le altre tipologie di mezzi galleggianti l’orientamento sembra essere quello di ricomprenderli comunque nella nozione di nave, anche se la soluzione sembra essere motivata da questioni assicurative e di responsabilità per danni all’ambiente marino. Per comprendere i termini della questione è comunque utile l’esame della legislazione italiana. Il nostro Codice della navigazione all’art. 136 così dispone: «Per nave s’intende qualsiasi costruzione destinata al trasporto per acqua, anche a scopo di rimorchio, di pesca, di diporto, o ad altro scopo. Le navi si distinguono in maggiori e minori. Sono maggiori le navi alturiere; sono minori le navi costiere, quelle del servizio marittimo dei porti e le navi addette alla navigazione interna. Le disposizioni che riguardano le navi si applicano, in quanto non sia diversamente disposto, anche ai galleggianti mobili adibiti a qualsiasi servizio attinente alla navigazione o al traffico in acque marittime o interne». Secondo l’ordinamento italiano, requisito della nave è dunque la destinazione al trasporto per acqua, il che presuppone che la nave sia autopropulsa. L’esistenza a bordo di alloggi per l’equipaggio non è stabilita come ulteriore requisito, ma la sua rilevanza si deduce dall’art. 164 CN che la indica tra le condizioni di navigabilità. La categoria dei galleggianti iscritti in appositi registri (denominati inventari) è inoltre quella che meglio si presta a risolvere i problemi che molti paesi incontrano nel disciplinare l’attività di mezzi non autopropulsi. La normativa stabilita dal Codice della navigazione si riflette sul Codice della nautica da diporto (D.LGS. 171-2005) che distingue tra: a) unità da diporto (costruzione di qualunque tipo e con qualunque mezzo di propulsione destinata alla navigazione da diporto); b) nave da diporto: (unità con scafo di lunghezza superiore a ventiquattro metri); c) imbarcazione da diporto con scafo di lunghezza superiore a dieci metri e fino a ventiquattro metri); d) natante da diporto (unità da diporto a remi, o con scafo di lunghezza pari o inferiore a dieci metri). NAVE MILITARE Vedi: Bandiera navale; Nave da guerra; Nave in servizio governativo non commerciale. NAVE SENZA BANDIERA (NAVE STATELESS) Vedi: Diritto di visita; Nazionalità della nave; Polizia dell’alto mare; Terrorismo marittimo; Traffico di stupefacenti in mare. Traffico e trasporto illegale di migranti in mare NAZIONALITÀ DELLA NAVE 1. Genuine link La nazionalità delle navi mercantili risulta dalla bandiera navale (v.) e dai documenti di bordo (atto di nazionalità per la legislazione italiana). Ogni nave può navigare sotto la bandiera di un unico Stato ed è soggetta, in alto mare (v.), alla sua giurisdizione esclusiva. Affinché uno Stato possa legittimamente concedere la sua bandiera deve esistere un legame sostanziale («genuine link» secondo la terminologia di Ginevra II, 5, 1; UNCLOS 91, 1) tra la nave e l’ordinamento nazionale. Lo stesso Stato, per esercitare efficacemente la sua giurisdizione è tenuto ad assolvere vari obblighi nei confronti delle navi di propria bandiera, principalmente ai fini di salvaguardarne la navigabilità e le condizioni di lavoro a bordo da parte dei marittimi (UNCLOS 94). Di seguito uno specifico focus sulle questioni relative alla giurisdizione esclusiva e all’effettivo possesso di una nazionalità. Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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2. Giurisdizione esclusiva Stato di bandiera La giurisdizione a favore dello Stato di bandiera è disciplinata da UNCLOS 97 che la configura come esclusiva in caso di «collisione o di altro incidente di navigazione nell’alto mare che coinvolga la responsabilità penale e disciplinare del comandante o di altre persone in servizio sulla nave». Il problema delle modalità di esercizio di tale giurisdizione fu esaminato dalla Corte permanente internazionale di giustizia del 1927 nella controversia che opponeva Francia e Turchia, che è nota come caso Lotus. La disputa si era sviluppata a seguito di una collisione tra il piroscafo francese Lotus, che si dirigeva a Costantinopoli, e l’imbarcazione turca BozKurt, che affondò. Il Lotus riuscì a salvare 10 dei 18 passeggeri del BozKurt. I due ufficiali di guardia a bordo della Lotus e del BozKurt vennero arrestati dalla polizia turca in attesa dell’avvio di un procedimento penale per omicidio colposo. Durante il processo, la difesa dell’ufficiale francese sostenne che i tribunali turchi non avevano giurisdizione, ma l’argomento non venne accolto e l’ufficiale fu condannato al pagamento di una multa e al carcere. Francia e Turchia sottoposero la questione alla Corte permanente di giustizia internazionale. Per la Francia, il comportamento turco era in contrasto con il diritto internazionale, che non consente la giurisdizione statale su uno straniero, quando il reato sia stato commesso al di fuori del territorio nazionale. La Turchia sosteneva, invece, che la propria giurisdizione derivasse dalla nazionalità della vittima e dal fatto che il reato fosse stato commesso contro una nave battente bandiera turca. Nella sentenza del 1927 la Corte accettò la tesi turca affermando che al tempo non vi era nessuna norma di diritto internazionale che proibisse a uno Stato di esercitare giurisdizione sul proprio territorio per fatti aventi effetto su persone e beni sotto la propria giurisdizione. Il caso Lotus non fu, peraltro, un caso isolato. Nel 1876 era accaduto l’incidente del Franconia, una nave di bandiera germanica entrata in collisione con un mercantile inglese mentre era in navigazione al di fuori delle acque territoriali britanniche; nell’occasione, la Corte inglese incaricata di decidere sul caso, aveva affermato la propria competenza. Per superare l’interpretazione adottata con queste decisioni, sia la I convenzione di Ginevra del 1958 (art. 11) sia l’UNCLOS, introdussero il principio della giurisdizione esclusiva (penale e disciplinare) dello Stato di bandiera della nave al cui master o ad altre persone imbarcate venissero mossi addebiti penali e disciplinari. Questo nuovo regime era stato anticipato dalla convenzione di Bruxelles del 1952 sull’unificazione di certe regole in materia di responsabilità penale in materia di collisioni o altri incidenti di navigazione. Circa il significato dell’espressione «incidente di navigazione» (incident of navigation), a parere di certa dottrina «la frase chiaramente include una collisione…ma si estende a qualsiasi maritime causalty»: essa appare, infatti, nell’art. 94.7 dell’UNCLOS con riferimento a incidenti causanti la perdita della vita o altri danni a cittadini di un altro Stato. La questione della giurisdizione esclusiva esercitabile dallo Stato di bandiera nell’ipotesi che accadano siffatti incidenti ha assunto rilievo nell’ambito del «Caso Lexie» tra Italia e India la cui risoluzione è stata affidata a un tribunale arbitrale. 3. Navi Stateless e navi con bandiera di convenienza 3.1 Condizione navi stateless Secondo l’articolo 91 dell’UNCLOS la nazionalità delle navi è la base su cui il regime marittimo internazionale è incardinato: ogni Stato ha il potere per fissare le condizioni per l’assegnazione della relativa nazionalità, per la registrazione delle navi nel proprio territorio e per il diritto di battere la relativa bandiera provata da appropriati documenti; un «genuine link» deve comunque esistere tra lo Stato e la nave che batte la sua bandiera. Le navi devono battere la bandiera di una singola nazione in modo da rendere noto alla comunità internazionale quale Stato ha giurisdizione su di esse. Come conseguenza di questo obbligo, le navi «senza nazionalità» sono navi non legittimamente registrate in alcuno Stato; tali sono anche le navi «che navigano sotto le bandiere di due o più Stati impiegandole secondo convenienza» (UNCLOS, 92, 2). Le navi prive di nazionalità (stateless), non potendo invocare la protezione di alcuno Stato, sono soggette alla giurisdizione di tutti gli Stati che abbiano motivo per esercitarla. La prassi seguita dall’Italia è indicata nelle Direttive della Direzione Nazionale Antimafia del 2014 dedicate al contrasto in alto mare del favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (v. Traffico e trasporto illegale di migranti in mare). 98
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3.2 Flag of convenience La categoria delle navi con «flag of convenience» (FOC) — a prescindere dall’ipotesi disciplinata dall’art. 92, 2 dell’UNCLOS di navi che abbiano falsi documenti di plurima nazionalità — è comunque più ampia di quella delle navi senza nazionalità. L’art. 94 dell’UNCLOS definisce i doveri dello Stato di bandiera concernenti l’effettivo esercizio della giurisdizione in tutte le materie riguardanti la protezione dell’equipaggio e della salvaguardia della nave. Conseguentemente, quando una nave batte una bandiera nazionale diversa da quella del proprio paese (il paese del/dei proprietario/i della nave), il «genuine link» potrebbe non essere reale a causa della mancanza di una effettiva giurisdizione e controllo dello Stato. Il concetto di nave FOC riguarda quindi stricto sensu il caso di una nave legalmente battente bandiera di uno Stato diverso da quello di appartenenza: da questo punto di vista, il criterio più comune per determinare se una nave è iscritta in un open registry (eufemismo utilizzato al posto di FOC) è basato su facilitazioni finanziarie e basse tutele sindacali dei marittimi imbarcati. Al riguardo l’International Transport Workers’Federation (ITF), per individuare i paesi rientranti nel concetto di FOC, usa i seguenti elementi: 1) il paese permette ai non cittadini di avere e controllare una nave; 2) l’accesso e il trasferimento dal registro è semplificato; 3) le tasse sul reddito dei trasporti sono basse o inesistenti; 4) l’impiego a bordo di non nazionali è permesso liberamente; 4) il paese non ha il potere (o la volontà) di imporre regolamenti nazionali o internazionali sui proprietari delle navi. 3.3 Rischi sicurezza marittima Un elenco dei paesi open registry è stato redatto dalla suindicata ITF: esso comprende Antigua e Barbuda, Bahamas, Barbados, Belize, Bermuda (UK), Bolivia, Burma, Cambogia, Isole Cayman, Comoros, Cipro, Guinea Equatoriale, Isole Faroe, Georgia, Gibilterra, Honduras, Jamaica, Libano, Liberia, Malta, Isole Marshall (Stati Uniti), Mauritius, Moldova, Mongolia, Antille Olandesi, Corea del Nord, Panama, Sao Tome e Príncipe, Saint Vincent e Grenadine, Sri Lanka, Tonga, Vanuatu. Tra questi paesi, Panama, Liberia e Isole Marshall hanno iscritto nei propri registri circa il 40% dell’intera flotta mercantile mondiale. Il pericolo che alcune navi FOC siano una minaccia alla sicurezza marittima (v.) è stato preso in considerazione nell’ambito del Comitato consultivo delle NU sul Diritto del mare. Nell’occasione è stato evidenziato che la mancanza di controlli e di regolamenti potrebbe costituire una grave minaccia transnazionale contribuendo a instaurare un ambiente favorevole per il traffico e trasporto illegale di armi (v.), droghe (v. Traffico stupefacenti), persone (v. Traffico e trasporto illegale di migranti) e rifiuti tossici (v. Protezione ambiente marino) e pesca illegale (v. Pesca). L’IMO, oltre a emanare direttive sul Port State Control (v. Sicurezza marittima) volto a evitare l’impiego di mercantili sub standard relativamente a navigabilità e condizione dei marittimi imbarcati, si è occupata anche dello specifico caso delle «navi fantasma» (phantom ship). Con la risoluzione A.923(22) del 29 novembre 2001 dedicata alle misure per impedire la registrazione di simili navi, l’IMO — facendo espresso riferimento al loro coinvolgimento in atti di pirateria (v.) — ha richiesto agli Stati di vigilare attentamente nel registrare mercantili sulla base di informazioni false, controllando in particolare se il mercantile abbia già altra bandiera. 3.4 Misure adottabili In considerazione della minaccia costituita da tali categorie di navi per l’ordinato svolgimento delle attività marittime, le navi da guerra (v.) e le navi in servizio governativo non commerciale (v.) di qualsiasi nazione possono, nell’ambito dell’esercizio dei poteri connessi al diritto di visita (v.), sottoporre tali navi a inchiesta di bandiera (v.) e, qualora risulti confermata la mancanza di nazionalità, catturarle e condurle con la forza in un porto nazionale per gli opportuni provvedimenti. Come affermato dalla Corte di Cassazione italiana in varie decisioni relative al traffico e trasporto illegale di migranti in mare (v.) l’esercizio in alto mare dei poteri coercitivi ex art. 110, 4 UNCLOS va però distinto da quello del successivo eventuale esercizio della giurisdizione nei confronti di persone coinvolte in attività illecite in quanto: «L’articolo 110 della convenzione prevede difatti il diritto di visita di una nave priva di nazionalità, ma solo ai fini di accertamento; nulla dispone invece circa la legittimazione ad adottare poteri coercitivi reali e personali, che resterebbero di esclusiva giurisdizione dello Stato che su quella nave ha giurisdizione ai sensi dell’articolo 97 della convenzione stessa, il quale espressamente rimette le eventuali azioni Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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penali o disciplinari contro le persone a bordo di tale nave allo Stato di bandiera, ovvero — mancando la bandiera — allo Stato di cui dette persone hanno la nazionalità» (Cassazione penale sezione I, 23 maggio 2014, n. 36052, Arabi, Rv. 260040). NAVICERT Al fine di evitare le interferenze con il commercio marittimo dei neutrali, connesso all’esercizio del diritto di visita per il controllo dei beni costituenti contrabbando di guerra (v.), i belligeranti (v. Diritto bellico marittimo) possono prevedere il rilascio di appositi certificati denominati navicert. Con tali documenti i consolati di un belligerante, o altra autorità a ciò designata, certificano che il mercantile è stato esaminato al momento del carico in un determinato porto ed è stato trovato privo di merci costituenti contrabbando di guerra. Il possesso di un navicert non è comunque un titolo per evitare la visita in mare o l’eventuale cattura da parte del belligerante che lo ha rilasciato. Il sistema dei navicert non ha più avuto applicazione dopo la Seconda guerra mondiale. In occasione dei recenti embarghi navali (v.) che hanno comportato un esteso ricorso al diritto di visita nei confronti del naviglio mercantile, ne è stato tuttavia ipotizzato un adattamento alle crisi internazionali in cui le nazioni partecipanti a coalizioni multinazionali (si pensi a Enduring Freedom, lanciata nel Mar Arabico dopo l’attacco alle Torri Gemelle) esercitino diritti di belligeranza sulla base di risoluzioni delle NU. NEUTRALITÀ MARITTIMA Il concetto di neutralità marittima implica l’esercizio di diritti di inviolabilità del territorio e delle acque territoriali (v.) e di libertà di commercio in alto mare (v.) da parte degli Stati che, astenendosi dalla partecipazione a un conflitto armato sul mare (v. Diritto bellico marittimo), assumano lo status di neutrali nei confronti dei belligeranti. La libertà di commercio marittimo dei neutrali, sviluppata a partire dal XVIII secolo con varie «Leghe di neutralità», ha trovato il suo riconoscimento nell’accordo raggiunto tra Gran Bretagna — che era interessata a ottenere la proibizione della guerra di corsa (v. Pirateria) — e Francia con la Dichiarazione di Parigi del 1856 su alcuni principi di diritto marittimo. Questo accordo stabiliva che: 1) la bandiera neutrale garantisce protezione alla merce di un belligerante presente a bordo, a eccezione di quella costituente contrabbando di guerra (v.); 2) la merce neutrale, a eccezione del contrabbando di guerra, non può essere sequestrata nel caso sia trasportata da mercantile di bandiera nemica. Le regole fondamentali che disciplinano la libertà di navigazione dei neutrali in tempo di guerra sono state poi fissate dalla Dichiarazione di Londra del 1909 sul Diritto della guerra marittima — testo non avente natura convenzionale, ma purtuttavia contenente norme di carattere consuetudinario recepite nella Legge di Guerra (R.D. 1415-1938) — secondo cui i mercantili neutrali possono essere fermati e sottoposti a visita dalle navi da guerra di un belligerante al fine di accertare se trasportino beni essenziali per lo sforzo bellico del nemico, assoggettabili come tali a confisca. L’inviolabilità delle acque interne, territoriali e delle acque arcipelagiche (v.) dei neutrali, è stabilita dalla XIII Convenzione dell’Aja relativa ai diritti e doveri delle potenze neutrali in caso di guerra marittima (ratificata dall’Italia, entrata in vigore nel 1910 e recepita nella legge di neutralità italiana del 1938). I belligeranti, pur potendo esercitare il transito inoffensivo (v.) in queste zone di mare (che non devono tuttavia essere usate come «santuari» per operazioni contro gli avversari), sono obbligati ad astenersi da atti di ostilità compresa la visita e la cattura di navi neutrali. I belligeranti possono altresì sostare in porti neutrali, di norma per non più di ventiquattr’ore salvo deroghe giustificate dalla necessità di riparazioni per il ripristino della navigabilità (sono quindi vietati gli imbarchi di personale, di armamenti e di altro materiale che accresca la capacità militare e che non sia quindi indispensabile per raggiungere il più vicino porto nazionale). L’osservanza di questi obblighi ha riguardato, nel 1939, all’inizio delle ostilità tra Germania e Regno Unito, il caso della corazzata tedesca Admiral Graf Spee costretta a riparare nel porto di Montevideo. Sulla base degli stessi criteri, un mercantile catturato da un belligerante può essere condotto in un porto neutrale solo per indifferibili esigenze. La violazione di questi obblighi comporta, per lo Stato neutrale, la possibilità di trattenere, mediante opportune misure, la nave da guerra belligerante per la durata del conflitto e di rilasciare 100
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il mercantile catturato. La sosta in porti neutrali di navi da guerra di opposti belligeranti è consentita, ma un periodo di ventiquattr’ore deve intercorrere tra la partenza di una nave e l’arrivo di un’altra. La stessa XIII convenzione dell’Aja pone inoltre limitazioni alla libertà di commercio dei neutrali vietando loro la consegna ai belligeranti, a qualunque titolo, direttamente o indirettamente, di navi da guerra, munizioni o di altro qualsiasi materiale bellico. Il problema è se tale regime della neutralità marittima sia ancora applicabile nel corso dell’attuale fase del diritto internazionale in cui la Carta stabilisce il divieto della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie, a meno del ricorso all’uso della forza per legittima difesa sulla base dell’art. 51 della Carta. Il ricorso al controllo della navigazione neutrale si è avuto durante il conflitto Iran-Iraq nel periodo 1986-87. Di fronte al ripetuto esercizio del diritto di visita da parte dell’Iran verso i mercantili stranieri, la posizione assunta dalla gran parte dei paesi terzi interessati alla protezione dei propri mercantili è stata quella di ritenere che questo diritto fosse non indiscriminato ma piuttosto avesse carattere di eccezionalità in relazione a esigenze di legittima difesa. Vedi anche: Blocco navale; Convoglio, Interdizione marittima; Navicert; Pirateria. OMAN Vedi:
Golfo Persico; Stretto di Hormuz.
ORGANIZZAZIONE MARITTIMA INTERNAZIONALE L’International Maritime Organization (IMO è un’agenzia delle Nazioni unite competente in materia di sicurezza marittima (v.) e di prevenzione dell’inquinamento del mare (v. Protezione dell’ambiente marino). Il ruolo dell’Organizzazione è riconosciuto dall’UNCLOS, che invita tutti gli Stati a osservarne gli standard. Creata nel 1948, l’IMO è divenuta un organismo che, attraverso la sua produzione normativa (convenzioni internazionali, regolamenti e raccomandazioni) disciplina tutti i settori di attività riguardanti la navigazione. I principali trattati approvati nell’ambito dell’IMO sono: — la Convenzione di Londra del 1974 sulla sicurezza della vita umana in mare (SOLAS 1974) (v. Sicurezza marittima); — Convenzione di Londra del 1973 sulla prevenzione dell’inquinamento da navi (MARPOL) (v. Protezione dell’ambiente marino); — la Convenzione di Roma del 1988 per la repressione dei reati diretti contro la sicurezza della na-vigazione marittima (SUA Convention). La tradizionale competenza dell’IMO in materia di sicurezza marittima intesa come maritime safety, sulla spinta delle nuove minacce terroristiche, si è estesa alla sicurezza internazionale (maritime security). In questo quadro, nel 2005 sono stati approvati due protocolli di modifica alla SUA Convention (v. Terrorismo marittimo). PAKISTAN Vedi: Zona economica esclusiva. PALESTINA Nell’ambito dell’accordo del 4 maggio 1994 sulla striscia di Gaza tra Israele e l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Gaza-Jericho Agreement) è stata prevista (annesso I, art. IX) la creazione di una Maritime Activity Zone (MAZ) lungo la costa della striscia di Gaza, estesa 20 miglia verso il largo, divisa in tre zone di cui: — le zone «K» ed «M» contigue alle acque territoriali (v.) di Israele ed Egitto, della larghezza rispettiva di 1,5 e 1 miglio, costituiscono «closed areas» in cui la navigazione è riservata alle attività della Marina israeliana; — la zona «L», compresa tra le due zone precedenti», è aperta alle attività di pesca (v.) e ricreative riservate ai battelli autorizzati dall’autorità della Palestina. Nel 2019 Israele ha riconfigurato la MAZ portandola a 15 mn. A sua volta la Palestina, con Dichiarazione del 24 settembre 2019 (contestata da Israele in quanto non considera la Palestina un’entità statuale), Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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ha istituito al largo delle proprie coste zone marittime di giurisdizione, tra le quali è compresa la ZEE (v. ZEE-Mediterraneo) fissandone i limiti. PARTICULARLY SENSITIVE SEA AREA (PSSA): Vedi: Area marina particolarmente sensibile; Protezione dell’ambiente marino. PASSAGGIO ARCIPELAGO Vedi: Acque arcipelagiche. PASSAGGIO INOFFENSIVO Vedi: Transito inoffensivo. PASSAGGIO IN TRANSITO Vedi: Transito inoffensivo. PATRIMONIO COMUNE DELL’UMANITA’ Vedi: Area internazionale dei fondi marini. PEACE-KEEPING NAVALE La categoria delle operazioni per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale attuate nel contesto della Carta delle Nazioni Unite si declina in vari modi che vanno dal semplice capacity-building alle missioni di imposizione della pace (peace-enforcing) durante un conflitto armato, passando attraverso il vero e proprio peace-keeping in cui Spazi marittimi Palestina (Fonte: UN Doalos). i militari svolgono un ruolo neutrale di interposizione, potendo usare la forza solo per difendere se stessi e i propri mezzi. Tale varia tipologia — spesso caratterizzata da connotazioni ibride — può essere peraltro inquadrata nel contesto più vasto delle peace support operations (PSOs) che, pur privo di connotazioni giuridiche, rende bene l’idea delle finalità delle singole missioni. Un posto a sé, nell’ambito delle PSOs, hanno le operazioni navali di pace (peace-keeping naval operations). Purtroppo si tende a lasciare in ombra questo settore, confondendolo con tutte le altre attività navali. Eppure, la dimensione marittima delle attività di mantenimento o di imposizione della pace da anni ha assunto una propria rilevanza che è testimoniata dalle numerose missioni internazionali condotte da tutte le Marine nel quadro della Carta. Gli esempi sono tanti. È ancora viva la memoria del primo caso di embargo navale (v.) coercitivo condotto in Adriatico, negli anni Novanta del secolo, sulla base di specifiche risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle NU contro l’ex Iugoslavia. La missione navale (denominata Sharp Guard) riguardava l’adozione di misure di controllo e imposizione coattiva in mare di sanzioni economiche decise dalle Nazioni unite, sulla base del capo VII della Carta: l’art. 42 stabilisce, infatti, che «il Consiglio di Sicurezza… può intraprendere, con Forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale…». Altri casi di embargo sono, com’è noto, quello nei confronti dell’Iraq, legittimato dalla UNSCR 665 (1990) e quello relativo alla Libia, ancora in corso, sulla base della UNSCR 1973 (2011) e di altre successive. Questo tipo di operazioni legittima l’esercizio di misure coercitive da parte delle navi da guerra dei paesi partecipanti verso il naviglio mercantile di qualsiasi bandiera che si presuma coinvolto in traffici marittimi commerciali con lo Stato sottoposto a embargo. Ma non ci sono solo gli embarghi navali. A partire dal 2002 la nostra Marina partecipò per esempio alla operation Enduring Freedom (OEF) nel Golfo Persico e nel Mare Arabico, durante la quale la coalition 102
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of willings a guida americana operava, in applicazione dei principi della Carta delle NU, contro i nonstate actors (Talebani e al-Qaeda) che avevano appoggiato in Afghanistan le attività di terrorismo internazionale. Alle unità navali partecipanti era assegnato il compito — avvalendosi dei diritti di belligeranza verso il naviglio straniero — di procedere al suo fermo, visita e ispezione (stop, visit and search, secondo la terminologia anglosassone) nel caso di sospetti di coinvolgimento in attività terroristiche. Tra l’altro, nel corso dell’operazione, nel gennaio-febbraio 2002, nostri velivoli imbarcati sulla portaeromobili Garibaldi, svolsero anche attività aeree in appoggio alle forze operanti in Afghanistan. Ma c’è di più. Nel 2006 una nostra Forza navale, con componente anfibia, condusse in acque libanesi l’operazione Leonte, svolgendo vari compiti in applicazione della UNSCR 1701 (2006) che aveva decretato la fine del blocco navale israeliano al Libano, tra cui la creazione di un corridoio umanitario per l’evacuazione di cittadini stranieri e il trasporto di aiuti sanitari e alimentari alla popolazione, nonché la sorveglianza volta a impedire rifornimenti di armi alle milizie libanesi. Anche le attività di contrasto alla pirateria (v.) si inseriscono nel filone delle PSOs navali. La pirateria del Corno d’Africa è stata, infatti, qualificata come una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale dalle numerose risoluzioni, a decorrere dalla 1816 (2008), che hanno autorizzato gli Stati ad avvalersi di tutti i mezzi necessari a debellare la minaccia al traffico marittimo. Infine, bisogna ricordare che la Marina Militare italiana svolge dal 1982 quella che è la più perfetta incarnazione dello spirito di neutralità e imparzialità (con il consenso delle parti) che informa il vero e proprio peace-keeping: la missione di interposizione del contingente navale della Multinational Force and Observers (MFO), costituito dal gruppo navale italiano (Comgrupnavcost 10) il quale pattuglia lo stretto di Tiran (v.) per garantire la libertà di navigazione in applicazione degli accordi di Camp David del 1979 tra Stati Uniti, Israele ed Egitto. PELAGOSA (Isola di Palagruca) Vedi: Demilitarizzazione (Mediterraneo); Piattaforma continentale (Mediterraneo); Pesca (Mediterraneo). PESCA 1. Le «guerre del pesce» Intuitivo è il concetto di risorse naturali (v.) ittiche riferibile alle varie specie che popolano i singoli mari e che l’uomo, sin dagli albori della civiltà, ha utilizzato per le proprie esigenze alimentari. Per millenni la pesca è rimasta attività condotta localmente dalle popolazioni costiere per il proprio sostentamento, non essendovi né alcuna necessità — per l’abbondanza delle risorse — di praticare uno sfruttamento intensivo dei mari, né capacità tecnica di navigare in acque d’altura. Bisogna attendere il secolo XVII per assistere alle prime dispute, nel Mare del Nord, tra pescatori di diversa nazionalità per la pesca delle aringhe che aveva assunto i caratteri di un’industria, grazie alla fiorente attività di conservarle sotto sale o affumicarle, gestita dagli olandesi. Questi pescavano liberamente lungo le coste britanniche e scozzesi sulla base di un privilegio loro rilasciato dai reali inglesi nel 1496. Col tempo la loro avidità e prepotenza spinsero la Gran Bretagna ad adottare una politica protezionistica della pesca: re Giacomo I nel 1609 — proprio nell’anno in cui Ugo Grozio esprimeva le sue celebri tesi sulla libertà dei mari (v.) — emanò un suo proclama con cui, creando le «Kink’s Chamber» (v. Acque territoriali), sottoponeva a licenza la pesca nei mari adiacenti l’Inghilterra. Inglesi e olandesi ingaggiarono nello stesso periodo un’altra disputa per la pesca delle balene nel mare Artico (v.) tra le isole Svalbard e la Nuova Zemlja. Non si trattava però di un contenzioso relativo a diritti sovrani come quello condotto da re Giacomo I, piuttosto di un conflitto tra società commerciali di diversa bandiera che operavano in acque extraterritoriali. In Atlantico simili contenziosi sono ancora ricorrenti, soprattutto per la pesca del merluzzo nei Banchi di Terranova frequentati dagli spagnoli. Ma anche per via della Brexit che ha determinato l’impossibilità per i pescatori danesi o francesi di accedere alle acque britanniche. Per non dire delle interminabili dispute che hanno opposto i nostri pescatori alla Tunisia nel c.d. «Mammellone» (v.).
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2. Regime giuridico internazionale Lo svolgimento delle attività di pesca nell’ambito delle acque territoriali (v.) rientra, per principio secolare oramai consolidato, nei diritti esclusivi dello Stato costiero che, a tale scopo, ha facoltà di emanare leggi e regolamenti per riservare ai nazionali lo sfruttamento delle relative risorse (Ginevra I, 14, 5; UNCLOS 21, 1 (e). Questi diritti non sono esercitabili nella zona contigua (v.), nel caso in cui lo Stato costiero l’abbia istituita senza tuttavia prevedere, contemporaneamente, una riserva di pesca a proprio favore mediante istituzione di una specifica zona di giurisdizione nazionale. Complementare rispetto a tale principio è quello della libertà di pesca spettante a tutte le nazioni in alto mare (v.) (Ginevra II, 2; UNCLOS 87, 1. (e). Con l’affermazione dell’istituto della ZEE (v.) che si incentra sui diritti sovrani dello Stato costiero nello sfruttamento delle risorse naturali viventi (UNCLOS 56, 1.(a) la situazione è però cambiata. Col passare del tempo, gran parte degli Stati costieri stanno via via affermando diritti sovrani di pesca su larghe porzioni di alto mare, impedendo così l’attività dei cittadini degli Stati che esercitavano tradizionalmente la pesca in quelle aree: a essi potrebbe tuttavia essere consentito l’accesso per lo sfruttamento di limitati contingenti di cattura ragguagliati al surplus delle proprie capacità di pesca (UNCLOS 61 e 70). Alto mare e ZEE sono dunque, ai fini della pesca, zone con regimi del tutto separati. Ciononostante in anni recenti si sono verificati gravi contenziosi in aree per così dire «grigie» aventi caratteristiche sui generis. Un caso che ha fatto epoca è stato per esempio il sequestro del battello spagnolo Estai abbordato dal Canada nel 1995 in alto mare ove era impegnato nella pesca dell’halibut. Il peschereccio operava in un’area dei Banchi di Terranova che ricadeva al di là della ZEE canadese ma che era sottoposta a misure di conservazione stabilite dalla Northwest Atlantic Fisheries Organization (NAFO), cui aderivano volontariamente, oltre al Canada, gli Stati Uniti e i paesi dell’Unione europea, Spagna compresa. L’intervento coercitivo canadese fu ritenuto in sé illegittimo, quale applicazione extraterritoriale di misure di enforcement verso mercantili di altra bandiera non giustificate dall’esercizio del diritto di inseguimento (v.). La Spagna, da parte sua, avrebbe dovuto prevenire e reprimere l’illecito commesso dal peschereccio nel violare le misure di conservazione, nell’ambito della giurisdizione di bandiera in applicazione degli impegni assunti con l’adesione al NAFO. Il tradizionale diritto di tutti gli Stati di far svolgere ai propri cittadini attività di pesca in alto mare è dunque soggetto alle limitazioni (UNCLOS 116) concernenti: 1) le misure per la conservazione delle risorse viventi dell’alto mare imposte ai nazionali nel quadro di accordi di cooperazione con altri Stati (Ginevra III, 3, 4 e 8; UNCLOS 117 e 118); 2) il rispetto dei diritti e degli interessi degli Stati costieri nelle zone adiacenti le proprie ZEE relativamente agli stock a cavallo di queste aree, mammiferi marini, grandi migratori, specie anadrome e catadrome (UNCLOS 63-67). Nel quadro di tale regime di cooperazione tra gli Stati, per la conservazione e gestione delle risorse dell’alto mare, sono state adottate negli ultimi anni varie iniziative. Anzitutto vi è la Convenzione delle NU di New York del 4 agosto 1995 sulle specie ittiche sconfinanti (straddling fish stocks) e altamente migratorie, il cui habitat si colloca a cavallo delle 200 miglia. L’accordo pone il principio dell’«approccio precauzionale» come criterio guida per la definizione delle politiche degli Stati di conservazione e sfruttamento delle risorse ittiche dell’alto mare. Altri principi cui s’ispira l’accordo sono l’unità biologica degli stock, la compatibilità delle misure di gestione e conservazioni applicabili, la responsabilità dello Stato di bandiera verso l’attività dei propri battelli da pesca e la cooperazione internazionale delle organizzazioni internazionali, regionali e sub-regionali di pesca. Rilevante è quanto in esso previsto circa l’uso della forza nell’ambito della polizia della pesca (v. ZEE). Inoltre, va citato il Codice di condotta per la pesca responsabile della FAO che contiene disposizioni non vincolanti, in linea con i più moderni principi precauzionali di conservazione delle risorse marine. Vedi anche: Pescherie sedentarie; Protezione biodiversità marina. 3. Regime comunitario In base all’art. 38 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea (TFUE la definizione di una politica comune della pesca è una competenza esclusiva dell’Unione; agli Stati membri resta invece il potere di adottare i provvedimenti di applicazione dei provvedimenti comunitari e i poteri di polizia
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nei confronti dei battelli da pesca di bandiera, nonché le misure di controllo sui medesimi. La politica comune stabilisce principi di non discriminazione e di eguaglianza delle condizioni di accesso tra gli Stati membri. L’UE ha la titolarità esclusiva del potere di emanare misure per la preservazione delle risorse marine e di concludere accordi di pesca con Stati non aderenti secondo la seguente tipologia: — accordi basati sul diritto reciproco delle parti contraenti di praticare la pesca nelle rispettive zone di pesca in modo da realizzare uno sfruttamento in comune delle risorse ittiche (caso degli accordi tra la Comunità e i paesi scandinavi); — accordi secondo i quali l’Unione concede alla controparte delle compensazioni finanziarie in cambio dell’accesso alle risorse di pesca in favore di battelli da pesca comunitari (caso degli accordi con i paesi dell’Africa centrale); — accordi in cui, in aggiunta ai tradizionali meccanismi di autorizzazioni alla pesca in favore di battelli comunitari dietro pagamento di compensazioni finanziarie, si prevedono forme di partenariato commerciale volto a incrementare lo sviluppo della pesca dei paesi contraenti (caso dell’accordo stipulato con il Marocco il 13 novembre 1995). Principio primario della politica comune della pesca è quello della parità di condizioni di accesso ed esercizio delle attività di pesca a «tutte le navi che battono bandiera di uno Stato membro e sono immatricolate nel territorio della Comunità», disciplinato dal Regolamento EU 1380/2013. PESCA (MEDITERRANEO) 1. Regime regionale L’esigenza di realizzare la cooperazione in materia di pesca (che per un mare chiuso come il mar Mediterraneo (v.) è un bisogno vitale) ha trovato riconoscimento nella costituzione della Commissione generale della pesca per il Mediterraneo (GFCM) avvenuta il 24 settembre 1949 sotto l’egida della FAO. Quest’organismo, composto da tutti i paesi rivieraschi del Mediterraneo e, per ciò che concerne il Mar Nero (v.), da Bulgaria, Romania e Turchia, ha competenza consultiva. Nel corso nella conferenza ministeriale di Venezia del 2003 si è consolidata la policy dell’UE in favore della creazione delle zone di protezione della pesca come mezzo per contrastare il proliferare della pesca illegale praticata in molti casi da pescherecci di paesi asiatici. In questa sede è stata emanata la «Dichiarazione sullo sviluppo sostenibile della pesca in Mediterraneo» che richiama il ruolo del GFCM nella conservazione e gestione razionale delle risorse marine viventi e invita gli Stati mediterranei a prendere in considerazione la possibilità di dichiarare proprie zone di protezione della pesca. Per effetto di ciò il quadro d’insieme delle zone di pesca del Mediterraneo, che in precedenza era alquanto frammentario, ha assunto una fisionomia nettamente orientata verso l’istituzione di tali zone rientranti nel genus delle ZEE (v.). Permangono tuttavia singole zone di pesca, istituite — come nel caso di Malta — prima dell’entrata in vigore dell’UNCLOS e incentrate sull’esercizio di diritti preferenziali di pesca e sull’adozione di misure di conservazione al di là delle acque territoriali. L’attuale situazione può riassumersi nel modo sotto indicato. Un caso di studio: il regime dei diritti tradizionali di pesca nelle acque dell’isola croata di Pelagosa (Palagruca) Il trattato di pace tra l’Italia e le potenze alleate, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947, nel prevedere all’art. 11 la cessione all’ex Iugoslavia della piena sovranità sull’isola di Pelagosa e sulle isolette adiacenti, stabilisce che «l’isola di Pelagosa rimarrà smilitarizzata» (v.) Demilitarizzazione (Mediterraneo), e che «i pescatori italiani godranno nelle acque adiacenti degli stessi diritti di cui godevano i pescatori iugoslavi prima del 1941». Benché non vi sia documentazione ufficiale che attesti, dal dopoguerra sino a oggi, l’applicazione in favore dei pescatori italiani di tale clausola impositiva di un vero e proprio vincolo reale, se ne fa cenno tenuto conto del fatto che gli interessi di pesca italiani risultano tuttora attestati da frequentazione di battelli di bandiera italiana. Al riguardo va ricordato che: 1) i diritti di cui godevano i pescatori iugoslavi prima del 1941 erano quelli stabiliti dagli accordi di Brioni del 14 settembre 1921 e di Nettuno del 20 luglio 1925 tra l’Italia e lo Stato
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serbo-croato-sloveno che autorizzavano la pesca nelle acque dell’isola di un numero prefissato di barche (non più di 40) di stanza nell’isola iugoslava di Lissa con determinate attrezzature e durante specifici periodi; 2) è da ritenersi, non essendovi alcuna diversa evidenza, che i pescatori italiani siano succeduti nella titolarità di tali diritti alle stesse condizioni; 3) non risulta che la Croazia, quale Stato successore dell’ex Iugoslavia, abbia manifestato volontà contraria all’applicazione della suindicata clausola; 4) la questione riguarda solo le acque territoriali dell’isola, poiché al di là di esse, la pesca dei nostri battelli nella Zona di protezione dichiarata dalla Croazia nel 2003, è ammessa sulla base dei principi comunitari relativi alla parità di accesso alle acque unionali. Purtroppo, continuano a verificarsi, invece, episodi coercitivi di sequestro di pescherecci italiani accusati a volte dalle autorità croate di violazioni della sovranità per presunti sconfinamenti di qualche metro nelle acque territoriali. Non è ben chiaro se ci sia nelle acque territoriali dell’isola una zona di ripopolamento. Fatto sta che non risulta mai intavolata alcuna trattativa tesa né a veder riconosciuti i diritti italiani, né a concordare uno specifico regime di accesso in applicazione del regolamento UE 1382-2013. 2. Zone riservate di pesca 2.1 Algeria Con il decreto legislativo n. 94-13 del 28 maggio 1994 l’Algeria aveva istituito una zona riservata di pesca estesa, oltre il limite delle acque territoriali, per 20 miglia (a ovest di Ras Tenes) e 40 miglia (a est dello stesso capo). Questa zona ricade attualmente nella ZEE istituita unilateralmente nel 2018 (v. ZEE-Mediterraneo). 2.2 Malta Al di là delle acque territoriali Malta aveva istituito, con legge 7 dicembre 1971, una zona di pesca riservata, estesa sino alla distanza di 25 miglia dalle linee di base (v.). La decisione maltese era stata contestata dall’Italia con nota verbale del 6 luglio 1994 del seguente tenore: «...nello spirito della convenzione di Montego Bay del 1982 (art. 123), per avere rilevanza internazionale, detta decisione avrebbe dovuto essere preceduta da un negoziato con l’Italia in qualità di altro Stato rivierasco direttamente coinvolto. Tanto più che il limite di pesca si estende oltre la linea mediana fra i due Stati». Ignorando le riserve espresse dall’Italia, con legge del 26 luglio 2005 Malta ha riaffermato tale pretesa per poi darle valenza comunitaria nell’ambito del Regolamento (CE) 1967/2006 come «Zona di conservazione e gestione della pesca» (ZCGP). L’art. 26 di questo regolamento dispone che l’accesso dei pescherecci comunitari alle acque e alle risorse della «zona che si estende fino a 25 miglia nautiche dalle linee di base intorno alle isole maltesi è... limitata ai pescherecci di lunghezza fuori tutto inferiore ai 12 metri...». A più riprese, anche in tempi non lontani (2013), Malta ha sequestrato battelli italiani per presunte violazioni di tali divieti di pesca adottando anche, oltre all’uso della forza, misure carcerarie nei confronti del personale imbarcato anche se l’UNCLOS (art. 73,3), in simili situazioni, non consente l’adozione di provvedimenti giudiziari di restrizione della libertà personale dei pescatori. 3. Il caso del «Mammellone» 3.1 Pretesa tunisina La «zona di pesca a sud-ovest di Lampedusa» che in conseguenza della sua forma è detta «Mammellone», rientra nella tipologia delle zone marine in cui lo Stato adiacente poteva adottare misure di conservazione delle risorse biologiche secondo l’art. 6 della III Convenzione di Ginevra del 1958. È l’area delimitata da «una linea che, partendo dal punto di arrivo della linea delle 12 miglia delle acque territoriali tunisine, si ricollega sul parallelo di Ras Kapoudia, con l’isobata dei 50 m e segue tale isobata fino al punto d’incontro con la linea che parte da Ras Agadir in direzione nord-est ZV = 45». La Tunisia, continua ancora oggi a prevederla nella sua legislazione del 2005 sulla ZEE come zona riservata di pesca ai soli battelli nazionali delimitata con modalità batimetriche. Il primo atto della pretesa tunisina è stato il decreto del Bey di Tunisi del 26 luglio 1951 contenente la seguente disposizione: «From Ras Kaboudia to the Tripolitanian frontier, the sea area bounded by a line which, starting from the end of the 3-mile line described above, meets the 50-metre isobath on the parallel of Ras Kaboudia and follows that isobath as far as its intersection with a line drawn northeast from Ras Ajdir, ZV 45». La Tunisia pretendeva di vantare titoli di epoca precedente, come la circolare
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del 1904 con la quale la reggenza francese aveva istituito una zona di sorveglianza al largo dell’isola di Kerkennah ai fini della pesca delle spugne. Il problema è che queste istruzioni, come altri provvedimenti emanati nello stesso periodo, sono stati dichiarati «…unilateral acts, internal legislative measures [concerning] an area of surveillance in the context of specific fishery regulations» dalla Corte internazionale di giustizia nella sentenza del 1982 sul caso Tunisia-Libia (Plateau Continental, Arret, CIJ Recueil 1982 para 88-90). 3.2 Posizione italiana Per anni, fino a quando le norme comunitarie hanno tolto agli Stati la competenza a stipulare accordi nel settore con i paesi terzi, la Tunisia ha previsto un regime preferenziale di pesca nelle proprie acque territoriali (ma il «Mammellone» ne era invece escluso), in favore dei battelli italiani, dietro pagamento di cospicue contropartite finanziarie da parte del nostro governo. Allo scadere di tali accordi l’Italia, con il decreto ministeriale del 25 settembre 1979, poi abrogato nel 2010, ha stabilito un vincolo giurisdizionale su tale zona considerandola una porzione di alto mare che è «tradizionalmente riconosciuta come zona di ripopolamento e in cui è vietata la pesca ai cittadini italiani e alle navi battenti bandiera italiana» al fine di assicurare la tutela delle risorse biologiche. Nulla autorizza a ritenere, invece, che il nostro paese avesse accettato in toto, la pretesa tunisina di esercitare diritti esclusivi di pesca su tutta l’area. Anzitutto perché è stata da noi contestata per più di trent’anni con il suindicato decreto del 1979 che la qualificava come nostra D.M. 25 settembre 1979. area di ripopolamento. E poi perché non può attribuirsi alcun valore al fatto che l’Italia ha riconosciuto il «Mammellone» come zona riservata di pesca tunisina nell’ambito degli accordi di pesca del 1963, del 1971 e del 1976: esso non aveva, infatti, un valore assoluto, ma era piuttosto un atto limitato e provvisorio di natura sinallagmatica, inscindibilmente legato alle concessioni di pesca in acque territoriali tunisine attribuite ai battelli italiani. Il problema del contenzioso di pesca italo-tunisino è sempre stato acuito dal fatto che la Tunisia pretende di assoggettare alla propria giurisdizione, mediante sequestro in mare, i battelli italiani sorpresi a pescare nella zona. Per proteggere i nostri connazionali da illegittimi atti di uso della forza, la Marina svolge un Servizio di vigilanza pesca (VIPE). Tale attività (iniziata nel 1957 e da allora mai interrotta) si inquadra nell’ambito delle funzioni di polizia marittima (v.) spettanti alle navi da guerra (v.) in acque internazionali e trova specifico fondamento giuridico nell’art. 115 del COM che riserva alla Marina Militare la vigilanza sulle attività economiche sottoposte alla giurisdizione nazionale nelle aree situate al di là delle acque territoriali italiane. Questa funzione è ora svolta nell’ambito dell’operazione della Marina Mare sicuro. Per prevenire il verificarsi di incidenti tra le rispettive unità impegnate al di là delle acque territoriali in compiti di sorveglianza e protezione di diritti e interessi nazionali la Marina Militare italiana e la Marina Militare tunisina hanno stipulato un’intesa tecnica riguardante misure pratiche destinate a evitare gli incidenti in mare e a facilitare la cooperazione operativa, firmato a Roma il 10 novembre 1998 (v. Prevenzione delle attività pericolose in mare). Con questo accordo, inquadrabile nel genus delle iniziative tendenti a rafforzare la confidenza reciproca (misure CSBM), le due Marine si sono tra l’altro impegnate a favorire la comunicazione, mediante un apposito codice di segnali speciali, di informazioni e intenzioni tra le rispettive unità impegnate in compiti di pattugliamento. Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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3.3 ZEE tunisina e «Mammellone» Il regime di zona riservata di pesca del «Mammellone» è stato fatto salvo dalla Tunisia al momento di programmare, con la legge n. 60 del 27 luglio 2005 (UN DOALOS Bulletin n. 58, p. 19) l’istituzione della propria ZEE (v. Zona economica esclusiva (Mediterraneo), nei seguenti termini: «The provisions relating to special fishing zones, stipulated in article 5 of Act n. 49/1973 dated 2 August 1973 concerning the delimitation of territorial waters, shall remain in force». È rimasta insoluta la questione dei diritti vantati dall’Italia sul «Mammellone». Il fatto che la Tunisia ne abbia mantenuto in vigore l’antico regime potrebbe indicare la volontà di concordarne con l’Italia lo status al momento in cui si addiverrà a un accordo di delimitazione (v.) delle rispettive ZEE. Una soluzione potrebbe essere quella di includerla nella SPAMI List, «List of specially protected areas of Mediterranean interest» (v. Protezione ambiente marino). Resta fermo comunque che in un futuro accordo si delimitazione si dovrebbe definire un confine che attribuisca all’Italia parte dello stesso «Mammellone» in considerazione del fatto che il limite stabilito nell’accordo del 1971 sulla piattaforma continentale (v. Piattaforma continentale (Mediterraneo nonché figura a pag. 215) rispondeva a criteri e situazioni contingenti del tempo ma non a quei principi ora in vigore sulla base dell’UNCLOS (art. 74, 1) basati sul raggiungimento di un’equa soluzione. 4. Zone comuni di pesca 4.1 Bocche di Bonifacio Italia e Francia, nell’ambito della convenzione di Parigi del 28 novembre 1986 per la delimitazione della frontiera marittima nell’area delle Bocche di Bonifacio (v.), hanno istituito una zona comune di pesca (posta a ovest delle Bocche, all’interno delle acque territoriali dei due paesi) in cui è consentita l’attività dei battelli italiani e francesi che esercitano tradizionalmente la pesca in loco. 4.2 Baia di Mentone Non è invece mai stato regolamentato da alcun accordo un regime della pesca promiscua tra Italia e Francia nella zona della baia di Mentone. Con Processo verbale stipulato nel 1892 le autorità marittime dei due paesi si limitarono, infatti, a definire gli allineamenti a terra del confine — entro le 3 miglia (al tempo, estensione massima delle acque territoriali) — delle aree in cui i rispettivi pescatori nazionali potevano praticare la loro attività. La soluzione adottata in passato (che dovrebbe cessare al momento in cui entrerà in vigore il nuovo accordo di delimitazione stipulato dai due Paesi nel 2015) ha quindi valore di modus vivendi, quale intesa di fatto a carattere parziale. Resta fermo che tale intesa provvisoria potrebbe assumere una nuova veste nell’ambito del regime della parità di accesso dei pescatori unionali.
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Circolare del 1892 relativa alla pesca nella baia di Mentone.
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4.3 Golfo di Trieste Poteva ascriversi al genus delle zone comuni la zona di pesca nel golfo di Trieste, istituita con l’accordo italo-iugoslavo di Roma del 18 febbraio 1983. Nell’area, posta a cavallo delle acque territoriali dei due paesi e delimitata da un quadrilatero, era consentita la pesca di un limitato numero di battelli di pescatori residenti nei comuni del Friuli-Venezia Giulia e della Slovenia. Questo accordo, dopo la dissoluzione dell’ex Iugoslavia, non risulta essere più in vigore tra l’Italia e gli Stati successori. 5. Zone di protezione della pesca 5.1 ZERP Croazia Nel 2003 la Croazia ha decretato l’istituzione di una zona di pesca protetta. L’iniziativa, riguardante anche la protezione ecologica (v. Protezione dell’ambiente marino) è basata sul presupposto che in Adriatico (v.) si verifica un uso non sostenibile delle specie ittiche e ha per oggetto il «contenuto della zona economica esclusiva che si riferisce ai diritti sovrani di ricerca e sfruttamento, protezione e gestione dei beni naturali viventi oltre i confini esterni del mare territoriale». Pur essendo in sé legittimo, quale esercizio parziale dei diritti funzionali rientranti nella disciplina della ZEE, il provvedimento croato ha il torto di aver stabilito unilateralmente il limite esterno della nuova zona. Senza alcuna consultazione con l’Italia, la sua frontiera marittima è stata fissata a titolo provvisorio, in attesa «della stipula degli accordi internazionali di delimitazione», sino al limite della piattaforma continentale stabilito dall’accordo italo-iugoslavo del 1968 (v. Piattaforma continentale-Mediterraneo), anche se non vi è alcuna norma internazionale che preveda l’automatica estensione del confine della piattaforma continentale alla sovrastante colonna d’acqua. Da quando la Croazia nel 2013 ha aderito all’UE i pescatori unionali (italiani compresi) beneficiano del regime della parità di accesso nella zona croata. L’iniziativa croata è stata comunque ufficialmente contestata dall’Italia con nota verbale del 15 marzo 2006 (UN LOS Bulletin n. 60, p. 127) in cui l’Italia dichiara che «...there is no legal foundation for the automatic extension, however provisional, of the seabed line of delimitation agreed upon in 1968 to superjacent waters, since any delimitation must be considered in close relation to the circumstances of the case that produce it and that change over time…». 5.2 ZPP Libia La Libia aveva, in passato, avanzato pretese di pesca riservata in alto mare: nel 1974 aveva stabilito che «la zona marittima prospiciente le acque libiche con fondali inferiori ai 200 m e comunque entro la fascia di 20 mn dalla costa libica, deve essere considerata zona di pesca riservata ai pescherecci libici». Tale pretesa è stata ampliata con decreto 37/2005 che ha proclamato una Zona di protezione dalla pesca (ZPP) che si estende per 62 miglia a partire dal limite esterno delle acque territoriali, in cui si vieta, a meno di autorizzazione delle competenti autorità, qualsiasi attività di pesca. Annessa al decreto è la Declaration of a Libyan Fisheries Protection Zone in the Mediterranean (UN LOS Bulletin n. 58, p. 14) che esplicita i presupposti dell’iniziativa. Con successivi decreti n. 104/2005 e 105/2005 del 20 giugno 2005 la Libia ha poi definito le linee di base delle proprie acque territoriali confermando la linea di chiusura del golfo della Sirte (v. Baie storiche (Mediterraneo) e, per conseguenza, i limiti esterni della zona di pesca. Questi limiti non si estendono (tranne un tratto circoscritto antistante all’isola greca di Gavdos) oltre la mediana con gli Stati frontisti. La pretesa libica è stata oggetto di proteste dell’UE nel periodo 2005-07 con note verbali in cui si evidenzia la sua illegittimità con riguardo soprattutto la fissazione di confini esterni che tengono conto della contestata chiusura della Sirte. Nella la nota verbale n. 08/2005 l’UE ha in particolare dichiarato che «the outer limit of the Libyan FPZ…trascends the median line between Greece and Libya in four points — points 27, 28, 29 and 30 — south of the Greek island of Gavdos…Therefore …request the Libyan authorities to adjust the limits of the FPZ so as to respect the median line». Con Dichiarazione del 27 maggio 2009 la Libia ha, infine, anche istituito la ZEE (UN LOS Bulletin n. 72, p. 78) i cui limiti si estendono al di là delle acque territoriali «secondo quanto permesso dal diritto internazionale», concordandoli se necessario con i paesi vicini. Sembrerebbe quindi, a questo punto, che la pretesa della ZPP sia stata assorbita da quella più ampia relativa alla ZEE che non fa più riferimento alla chiusura della Sirte. 5.3 ZPP Slovenia Con decreto del 5 gennaio 2006 la Slovenia, benché priva di accesso diretto alle acque internazionali, ha istituito proprie zone di protezione della pesca nelle seguenti aree: «zona A», coincidente con le proprie acque interne; «zona B», comprendente le acque territoriali adiacenti alle frontiere marittime di Italia
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e Croazia delimitate dal confine di Osimo fino al punto T5 (v. Acque territoriali - Mediterraneo); «zona C», in acque internazionali, di identica estensione della zona ecologica protetta (v. Protezione dell’ambiente marino - Mediterraneo). L’iniziativa slovena ha carattere temporaneo, in attesa di pervenire a una soluzione concordata con la Croazia. Al momento (2020) questa soluzione non c’è ancora, in quanto Zagabria non ha accettato la decisione emessa nel 2017 dall’apposita Corte arbitrale (v. Baia di Pirano). 5.4 ZPP Spagna Con Decreto Reale del 1° agosto 1997 la Spagna aveva istituito una Zona di protezione della pesca nel mar Mediterraneo, per tutelare il tonno rosso, applicando misure comunitarie di conservazione e controllo nei confronti dei battelli unionali. Il limite della zona si spinge sino a quella che la Spagna considera come linea mediana (v.) con la Francia nel golfo del Leone ma che la Francia contesta in quanto essa non tiene adeguato conto, a proprio favore, della concavità dello stesso golfo. Per questo motivo la ZEE francese istituita nel 2012 (v. Protezione dell’ambiente marino (Mediterraneo) si sovrappone con la zona spagnola. La Spagna ha trasformato in ZEE, con Real Decreto 236-2013, la sua Zona di protezione della pesca lasciandone inalterati i limiti fissati nel 2000, ma esprimendo le coordinate in WGS 84 (v. ZEE-Mediterraneo). L’iniziativa spagnola del 1997 era stata contestata sia dall’Italia in relazione al suo carattere unilaterale in quanto nessun coordinamento era stato condotto in ambito comunitario né era stata consultata l’Italia quale paese frontista. I punti di divergenza tra Italia e Spagna erano stati composti nel 1998 per mezzo di un’intesa pratica di natura provvisoria (che tuttavia non risulta essere mai divenuta operativa) con cui il nostro paese concordava tra le Baleari e la Sardegna un limite in parte diverso da quello definito per il fondale con l’accordo del 1974 (v. Piattaforma continentale). Vedi anche: Palestina. PESCHERIE SEDENTARIE Con il termine di pescherie sedentarie (sedentary fishery) si intendono gli «organismi che, allo stato adulto, sono immobili sul fondo o sotto il fondo, oppure sono incapaci di spostarsi se non restando in continuo contatto fisico con il fondo marino o con il suo sottosuolo» (Ginevra IV, 2,4; UNCLOS 77, 4). Il regime di sfruttamento di tali specie è quello stabilito per le risorse naturali (v.) della piattaforma continentale (v.): lo Stato costiero esercita pertanto su di esse diritti sovrani di sfruttamento. Sono esempi incontestabili di specie marine sedentarie, il corallo, le ostriche, i mitili, le spugne (la Tunisia ha per prima affermato, nell’Ottocento, il diritto esclusivo di sfruttamento dei banchi di spugne nei golfi di Gabes e di Tunisi (v. Baie storiche (Mediterraneo) al di là delle proprie acque territoriali). Non esiste, per converso, unanimità di pareri circa la possibilità di comprendere tra tali specie i crostacei e in particolare le aragoste in relazione al fatto che esse, nei loro spostamenti, non mantengono un contatto continuo con il fondo (come le «stelle di mare») ma, se disturbate, nuotano all’indietro e compiono balzi. Ciò ha determinato contenziosi internazionali quali la così detta «guerra delle aragoste» del 1962 tra Francia e Brasile. PIATTAFORMA CONTINENTALE 1. Aspetti tecnico-giuridici Per piattaforma continentale si intendevano il fondo e il sottofondo delle zone marine costiere che si estendono, al di fuori delle acque territoriali (v.), sino all’isobata dei 200 metri o, al di là di questo limite, sino al punto in cui, in relazione allo sviluppo della tecnologia estrattiva, è possibile lo sfruttamento di zone situate a profondità maggiori (Ginevra IV, 1). Il punto di partenza per l’affermazione di tale concetto è rappresentato dal Proclama Truman del 1945 con cui il Presidente degli Stati Uniti del tempo, premesso che la piattaforma continentale poteva considerarsi come il prolungamento in mare della terraferma, affermò che le risorse naturali (v.) del fondo e del sottofondo marino sottostanti l’alto mare (v.) ma adiacenti alle coste dovevano ritenersi «come appartenenti agli Stati Uniti e soggetti alla loro giurisdizione e controllo». La dichiarazione precisava, altresì, che il «carattere di alto mare delle acque sovrastanti la piattaforma continentale e il conseguente diritto di libera navigazione non era in nessun modo in discussione». Ulteriori sviluppi della prassi e della giurisprudenza internazionale hanno portato al recepimento nell’UNCLOS di nuovi principi. La definizione di piattaforma continentale attualmente in vigore è quella di 110
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area sottomarina che si estende al di là delle acque territoriali, attraverso il prolungamento naturale del territorio emerso, sino al limite esterno del margine continentale, o sino alla distanza di 200 miglia dalle linee di base (v.), qualora il margine continentale non arrivi a tale distanza (UNCLOS art. 76,1). Quello delle 200 miglia è considerato come il limite minimo che prescinde quindi dall’individuazione del margine continentale. Da questo punto di vista si parla di piattaforma continentale giuridica; dal punto di vista geologico, s’intende invece la piana sommersa che degrada, a partire dalla linea di costa, verso il largo, sino al punto in cui l’inclinazione aumenta, per poi sprofondare nella scarpata continentale ai piedi della quale inizia la zona di sedimenti rocciosi denominata risalita continentale, che discende gradualmente nella piana abissale fino al limite esterno del margine continentale. Come è stato detto: «Ogni territorio che si affaccia sul mare possiede una piattaforma continentale che ne costituisce il naturale prolungamento sottomarino; questo prolungamento che termina al limite esterno del margine continentale, definisce anche il limite tra la massa granitica continentale e la crosta oceanica, più pesante, di tipo basaltico». Il margine continentale non comprende, dunque, il fondo degli abissi oceanici con le dorsali marine e il relativo sottofondo (UNCLOS 73,3). 2. Piattaforma continentale estesa (ECS) Lo Stato costiero ha il diritto di definire il margine di quella che è detta extended continental shelf (ECS) sulla base di uno dei seguenti criteri: 1) linee distanti tra loro non più di 60 miglia e colleganti punti fissi in ciascuno dei quali lo spessore dei sedimenti rocciosi è almeno l’1% della distanza più breve tra tali punti e il piede della scarpata continentale («formula Gardiner»); 2) linee distanti tra loro non più di 60 miglia e colleganti punti fissi distanti non più di 60 miglia dal piede della scarpata continentale («formula Hedberg»): tali punti non dovranno distare più di 350 miglia dalle linee di base del mare territoriale, né più di 100 miglia dall’isobata dei 2.500 m. Gli Stati costieri, qualora si avvalgano della facoltà di definire la propria ECS oltre le 200 miglia dalle linee di base, devono sottoporre alla Commissione delle NU, sul limite della piattaforma continentale, dati e notizie relativi alla pretesa avanzata (UNCLOS 76, 8). I limiti così stabiliti divengono definitivi e vincolanti soltanto dopo che la stessa Commissione abbia formulato raccomandazioni e gli Stati interessati le abbiano recepite. All’autorità internazionale dei fondi marini (v.) va una percentuale variabile del ricavato dell’attività estrattiva. La procedura di riconoscimento è stata avviata da diversi paesi: Francia, Gran Bretagna, Irlanda e Spagna hanno avanzato congiuntamente una pretesa su una vasta area di extended piattaforma nel Mar Celtico e nel golfo di Biscaglia, i cui limiti sono stati fissati applicando i criteri di entrambe le formule indicate in precedenza; la Commissione si è pronunciata nel 2009. Ulteriori submissions sono state presentate, tra le altre, dalla Gran Bretagna per le isole Falkland (2009), dalla Spagna per le isole Canarie (2014) e dalla Russia (2015) per il mare Artico (v.).
Il confine laterale della piattaforma continentale Somalia-Kenya Somalia e Kenya avevano adito congiuntamente nel 2007, la Commissione, al fine di definire la propria ECS; la procedura si è tuttavia interrotta a seguito dell’insorgere di una disputa tra i due paesi relativa al confine laterale delle rispettive zone di piattaforma continentale entro il limite delle 200 mn: la Corte internazionale di Giustizia è stata investita del caso nel 2014 per la risoluzione di tutte le questioni di confine marittimo, ZEE compresa. Da notare che, mentre la Somalia propone una delimitazione che si svi-
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L’area di ZEE contesa da Somalia e Kenya (Fonte: AFP-DW).
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luppi, in applicazione dei principi dell’UNCLOS, lungo una linea di equidistanza laterale modificata secondo criteri di proporzionalità, il Kenya pretende un limite costituito dal parallelo passante per la città di Lamu al confine terrestre. La posta in gioco è un’area di circa 100.000 km quadrati.
Lo Stato costiero esercita sulla piattaforma continentale diritti sovrani esclusivi per l’esplorazione e lo sfruttamento delle risorse marine naturali (v.), vale a dire le «risorse minerali e altre risorse non viventi del fondo marino e del sottosuolo come pure negli organismi viventi appartenenti alle specie sedentarie (UNCLOS 77, 4.)». Tali diritti appartengono allo Stato costiero ipso facto e ab initio, nel senso che la loro titolarità non è la conseguenza di un atto di proclamazione o di un possesso effettivo realizzato mediante occupazione (UNCLOS 77, 3). Ai paesi terzi spetta invece il diritto di navigazione e sorvolo sulla massa d’acqua sovrastante la piattaforma continentale (UNCLOS 78). Egualmente libera è l’attività di pesca (v.) di tutte le specie ittiche tranne quelle stanziali (v. pescherie sedentarie), a meno che non siano state proclamate in loco zone riservate di pesca o Zone economiche esclusive (v.). La posa di cavi e condotte sottomarine (v.) è soggetta alle condizioni stabilite dallo Stato costiero, mentre la ricerca scientifica (v.) deve essere da questo espressamente autorizzata. 3. Principi delimitazione Si rinvia, in materia, alla voce Delimitazioni del presente Glossario. 4. Sicurezza energetica 4.1 Compatibilità ambientale Il problema della compatibilità delle attività di estrazione di idrocarburi in mare con i più generali obblighi di protezione dell’ambiente marino (v.) è affrontato dall’UNCLOS all’art. 194, par. 3, lett. c), laddove si stabilisce che gli Stati sono tenuti ad adottare specifici provvedimenti volti a limitare al massimo «l’inquinamento prodotto da installazioni e macchinari utilizzati per l’esplorazione o lo sfruttamento delle risorse naturali del fondo marino e del sottosuolo, con particolare riferimento ai provvedimenti intesi a prevenire incidenti e a fronteggiare le emergenze, garantendo la sicurezza delle operazioni in mare, e regolamentando la progettazione, la costruzione, l’armamento, le operazioni e la conduzione di tali installazioni e macchinari». A tali principi si conformano anche alcuni accordi di delimitazione della piattaforma continentale stipulati dall’Italia con i paesi frontisti come quello con l’Albania del 1992: all’art. IV si prevede espressamente che: «Le parti contraenti adotteranno tutte le misure possibili al fine di evitare che l’esplorazione delle loro rispettive parti della piattaforma continentale così come la coltivazione delle risorse minerarie di quest’ultima, possa pregiudicare l’equilibrio ecologico del mare ...». 4.2 Offshore in acque profonde Le attività offshore esercitabili dagli Stati costieri sul fondo e sottofondo marino della propria piattaforma continentale sono in continua espansione grazie alle nuove tecnologie estrattive che consento di raggiungere anche fondali di 3.000 metri. A questo fine possono utilizzarsi, per fondali sino a 1.500 m piattaforme galleggianti (v. Nave mercantile) ancorate. Ovvero navi dotate di un’attrezzatura di perforazione costituita da un tubo telescopico in grado di operare sino a circa 3.000 m. Il noto incidente della piattaforma petrolifera galleggiante Deepwater Horizon ha portato alla ribalta dell’opinione pubblica mondiale il problema della sicurezza delle offshore. È bene ricordare che nel disastro, avvenuto nel 2010 a circa 1.500 m sopra il pozzo Macondo del golfo del Messico, nella ZEE degli Stati Uniti a 66 mn dalle coste della Louisiana, erano morti 11 tecnici, mentre 5 milioni di barili di petrolio si riversarono in mare. In anni recenti il problema si è riproposto con maggiore evidenza a causa della continua crescita delle attività di ricerca ed estrazione di idrocarburi condotta in controtendenza rispetto alla diminuita domanda e alla maggiore produzione di energie rinnovabili. Gli Stati Uniti sono peraltro diventati il primo produttore mondiale di petrolio superando l’Arabia Saudita, grazie al112
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l’adozione di nuove tecniche nell’estrazione di gas da argille (shale gas) e di petrolio da giacimenti marini di grande profondità (max 3.000 m). Dubbi sull’opportunità di continuare a effettuare trivellazioni offshore a grandi profondità sono tuttavia sorti dopo la catastrofe ecologica causata dall’incidente della Deepwater Horizon. Come risposta ai rischi delle trivellazioni a grande profondità gli Stati Uniti avevano stabilito nel 2010 una moratoria; il provvedimento dell’amministrazione Obama è stato però revocato prima della scadenza sotto la spinta di una sentenza contraria delle corti interne e un voto sfavorevole del Congresso. 4.3 Direttiva UE offshore 2013 L’Unione europea ha adottato una strategia basata sulla definizione di stringenti regole di tutela, in conformità ai principi stabiliti in materia dall’UNCLOS, con la Direttiva 2013/30/UE relativa alla sicurezza delle operazioni in mare nel settore degli idrocarburi (direttiva offshore), si propone di definire elevati standard minimi di sicurezza per la prospezione, la ricerca e la produzione di idrocarburi in mare aperto, riducendo le probabilità che accadano incidenti gravi, limitandone le conseguenze e aumentando in questo modo la protezione dell’ambiente marino. Principi qualificanti del provvedimento dell’UE sono sia l’indipendenza e obiettività delle autorità nazionali competenti in materia, sia la responsabilità per danno ambientale degli operatori designati dai licenziatari o dalle autorità competenti per il rilascio delle licenze. Rilevante è anche il fatto che la direttiva si proponga di ridurre l’impatto sull’ambiente marino delle operazioni offshore nel quadro delle finalità della politica marittima integrata europea. 4.4 Protocollo offshore UNEP L’impegno dell’UE nel settore della sicurezza delle attività offshore del Mediterraneo (ove sono installati circa 200 impianti di estrazione) è anche dimostrato dall’adesione al protocollo relativo alla protezione del mar Mediterraneo dall’inquinamento derivante dall’esplorazione e dallo sfruttamento della piattaforma continentale, del fondo del mare e del suo sottosuolo (Protocollo Offshore di Madrid del 14 ottobre 1994). Questo strumento, entrato in vigore nel 2011 dopo l’adesione di gran parte degli Stati mediterranei, e basato sulla convenzione di Barcellona del 1995 (v. Protezione ambiente marino-Mediterraneo), disciplina le condizioni per il rilascio delle autorizzazioni, la rimozione degli impianti abbandonati o in disuso, l’uso e lo smaltimento di sostanze nocive, la responsabilità e il risarcimento dei danni, la sicurezza degli impianti nonché i relativi piani di emergenza e di monitoraggio, non senza stabilire forme di cooperazione tra gli Stati aderenti. 5. Normativa italiana di protezione In linea con il trend europeo l’Italia si è attivata dopo il disastro del golfo del Messico, emendando il codice dell’ambiente (Decreto Legislativo 3 aprile 2006 n. 152) in cui è previsto il divieto di svolgere attività estrattive a 12 mn dalle aree costiere e marine protette e, nelle altre zone, a 5 mn dalle linee di base del mare territoriale. In seguito, il limite di tale divieto è stato portato, con carattere di generalità, a 12 mn dalla costa (non più, quindi, dalle linee di base) con il comma 239 dell’art. 1 della legge 208/2015. Sulla base di tale regime, le acque interne del golfo di Taranto (v.), potrebbero essere in teoria oggetto di attività offshore, le aree ricadenti oltre le 12 mn dalla linea di costa. La suindicata direttiva offshore dell’UE è stata recepita nell’ordinamento italiano con il Decreto Legislativo 18 agosto 2015, n. 145. Questo provvedimento si inserisce, come affermato dal ministero dello Sviluppo economico «in un quadro normativo già esistente in materia di sicurezza e di protezione del mare dall’inquinamento che ha finora garantito, attraverso una rigorosa applicazione e costanti controlli da parte delle strutture tecniche del ministero, in collaborazione con gli altri enti competenti, il raggiungimento dei più alti livelli europei di sicurezza per i lavoratori e l’ambiente, con incidenti e infortuni tendenti allo zero e comunque sei volte inferiori a quelli del complesso industriale produttivo». Da notare che questo stesso provvedimento istituisce il «Comitato per la sicurezza delle operazioni a mare», quale autorità competente per l’applicazione della medesima direttiva, designandone a far parte rappresentanti della Marina Militare e del Corpo delle capitanerie di porto-Guardia costiera.
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PIATTAFORMA CONTINENTALE (MEDITERRANEO) 1. Confini Pochi sono ancora, rispetto a quelli che sarebbe necessario negoziare, gli accordi di delimitazione (v.) concernenti la piattaforma continentale (v.) dei paesi rivieraschi del Mediterraneo: quasi trenta accordi sarebbero ancora da stipulare, mentre ne risultano invece già conclusi solo sette, quattro dei quali riguardano l’Italia. Va considerato tuttavia che il trend in Mediterraneo è oramai quello di far coincidere, con un’unica frontiera marittima, i confini del fondale e della sovrastante colonna d’acqua. Al riguardo si rinvia alla voce ZEE (Mediterraneo). Per la piattaforma continentale dei singoli paesi la situazione è in particolare la seguente. 1.1 Prassi Italia (a) Zone ricerca ed estrazione I principi adottati dall’Italia per la regolamentazione della ricerca ed estrazione degli idrocarburi nella propria piattaforma continentale sono contenuti nella Legge 21 luglio 1967, n. 613. La normativa disciplina le condizioni per il rilascio dei permessi di ricerca stabilendo che: «Agli effetti della presente legge si intende per piattaforma continentale il fondo e il sottofondo marino adiacente al territorio della penisola e delle isole italiane e situati al di fuori del mare territoriale e, fino al limite corrispondente alla profondità di 200 metri o, oltre tale limite, fino al punto in cui la profondità delle acque sovrastanti permette lo sfruttamento delle risorse naturali di tali zone. La determinazione del limite esterno della piattaforma continentale italiana sarà effettuata mediante accordi con gli Stati, le cui coste fronteggiano quello dello Stato italiano e che hanno in comune la stessa piattaforma continentale. Sino all’entrata in vigore degli accordi di cui al comma precedente, non sono rilasciati permessi di prospezione non esclusiva e di ricerca né concessioni di coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi nella piattaforma continentale italiana se non al di qua della linea mediana tra la costa italiana e quella degli Stati che la fronteggiano». Tale norma è stata modificata dalla legge di ratifica dell’UNCLOS (legge 2 dicembre 1994, n. 689) sostituendo la precedente definizione con quella contenuta nell’art. 76 della stessa convenzione. Dal 1967, come indicato dal MISE, sono state aperte alla ricerca le «zone marine» così denominate: — «A» (mare Adriatico settentrionale dal parallelo 44° al parallelo 42° è delimitata a est dalla linea di delimitazione Italia-Croazia); — «B» (mare Adriatico centrale dal parallelo 44° al parallelo 42°, è delimitata a est dalla linea di delimitazione ItaliaCroazia);
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Zone marine aperte alla ricerca di idrocarburi (Fonte: MISE).
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— «C» (Mare Tirreno meridionale, tra la linea di costa siciliana e la linea isobata dei 200 metri, a ovest nel canale di Sicilia tra la linea di costa siciliana, la linea isobata dei 200 metri e un tratto della linea di delimitazione Italia-Tunisia, a sud nel canale di Sicilia tra la linea di costa siciliana, la linea isobata dei 200 metri e il modus vivendi Italia-Malta, a est nel mare Ionio meridionale tra la linea di costa siciliana e la linea isobata dei 200 metri); — «D» (mare Adriatico meridionale e nel mare Ionio ed è delimitata a ovest dalla linea di costa delle regioni Puglia, Basilicata e Calabria, fino allo stretto di Messina; a est dalla isobata dei 200 metri); — «E» (nel Mare Ligure, nel mare Tirreno e nel Mare di Sardegna. È delimitata da un lato dalla linea di costa delle regioni Sardegna, Liguria, Toscana, Lazio, Campania, Basilicata e Calabria fino allo stretto di Messina, e dall’altro lato dalla isobata dei 200 metri a eccezione dell’area marina delle Bocche di Bonifacio in cui è delimitata dalla linea Italia-Francia); — «F» (nel mare Adriatico meridionale e nel mare Ionio fino allo stretto di Messina ed è delimitata a ovest dalla isobata dei 200 metri, a est dalle linee di delimitazione Italia-Croazia, Italia-Albania e ItaliaGrecia e a sud da archi di meridiano e parallelo); — «G» (nel mare Tirreno meridionale e nel canale di Sicilia, è delimitato a nord da archi di meridiano e parallelo, a sud ovest dalla linea di delimitazione Italia-Tunisia e a est dalla isobata dei 200 metri. Il settore sud, che si estende nel canale di Sicilia è delimitato a nord dalla isobata dei 200 metri, a ovest dalla linea di delimitazione Italia-Tunisia e a est da archi di meridiano e parallelo internamente alla linea mediana Italia-Malta). La zona «C» è stata ampliata a sud-est di Malta con decreto ministeriale 27 dicembre 2012 «in una parte della piattaforma continentale italiana del mare Ionio meridionale tra il meridiano 15°10’ (limite definito dalla sentenza del 1985 della Corte internazionale di giustizia) e da archi di meridiano e parallelo internamente alla linea di delimitazione Italia-Grecia». La zona «G», dopo essere stata «ampliata» con decreto ministeriale 9 agosto 2013, comprende anche il «settore ovest» nel Mare balearico. (b) Trattati di delimitazione I trattati di delimitazione della piattaforma continentale finora stipulati dall’Italia con i paesi mediterranei frontisti sono i seguenti: — accordo con la Iugoslavia dell’8 gennaio 1968 (ratificato con D.P.R. 22 maggio 1969, n. 830): segue il criterio della mediana tra le coste dei due paesi, attribuendo un effetto nullo o minimo, nel tracciamento della delimitazione, all’isola iugoslava di Pelagosa e agli isolotti (disabitati) di Pomo e S. Andrea; scostamenti dal principio di equidistanza sono stati attuati in favore dell’Italia, nel quadro di una compensazione di aree tra le due parti, tenendo conto dell’effetto delle isole di Ja-
La piattaforma continentale italiana; le linee colorate indicano le zone delimitate per accordo (Fonte: IIM-MISE).
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buka e Galiola. La Slovenia, la Croazia e il Montenegro sono Stati successori rispetto a questo accordo (v. Successione tra Stati). Italia e Croazia hanno stipulato nel 2005 un’intesa tecnica formalizzata con scambio di lettere (v. Comunicato Ministeriale 30 settembre 2005) che, lasciando inalterato il contenuto dell’accordo del 1968, per ovviare all’incertezza dei dati cartografici non univoci, ha trasformato in datum WGS 84 le coordinate dei punti da 1 a 42 della linea di delimitazione della piattaforma continentale tracciati sulle carte nautiche italiane ed ex iugoslave allegate all’accordo del 1968; — Accordo con la Tunisia del 28 agosto 1971 (ratificato con legge 3 giugno 1978, n. 357): Delimitazione della piattaforma continentale Italia-Croazia in base all’accordo del segue il criterio della mediana 1968 (Fonte: IIM-MISE). tra le coste continentali della Tunisia e quelle della Sicilia senza dare alcun valore, ai fini della delimitazione, alle «circostanze speciali» rappresentate dalle isole italiane di Pantelleria, Lampedusa e Linosa e all’isolotto disabitato di Lampione. La porzione di piattaforma di queste isole è limitata, rispettivamente, ad archi di cerchio di 13 e 12 miglia di raggio e coincide quindi, tranne che per il caso di Pantelleria, con l’attuale estensione delle acque territoriali (v.). Per effetto dello stesso trattato è stata concessa alla Tunisia un’area di quasi 30.000 kilomeConfine Accordo Italia-Tunisia 1971 (Fonte: Sovereign Limits). tri quadrati, corrispondente a quella che sarebbe spettata all’Italia ove fosse stata adottata la linea mediana rispetto alle isole Pelagie. Da notare che la soluzione prescelta comporta che il cosiddetto «Mammellone» (v. Pesca (Mediterraneo) ricade interamente all’interno della piattaforma tunisina; — Accordo con la Spagna del 19 febbraio 1974 (ratificato con legge 3 giugno 1978, n. 348): segue il criterio della mediana tra la Sardegna e le Baleari con una linea leggermente concava che attribuisce rilievo 116
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al maggior sviluppo costiero della Sardegna rispetto all’isola di Minorca. La delimitazione era stata oggetto di riserve da parte della Francia che considerava come facente parte della propria piattaforma continentale una porzione delle aree spartite tra Italia e Spagna. In effetti, è successivamente emerso che la Francia non contesta il punto di incontro italospagnolo del confine settentrionale della delimitazione, quanto piuttosto alcune aree della sovrastante massa d’acqua che la Spagna ha acquisito, nel golfo del Leone, fissando unilateralmente il limite laterale della sua ZEE stabilita con decreto reale 236-2013; — Accordo con la Grecia del 24 maggio 1977 (ratificato con legge 23 marzo 1980, n. 290): la delimitazione tiene conto interamente delle isole Strofadi, Zante, Cefalonia, Leucade e Corfù. Unica eccezione è l’isola di Fano, cui è attribuito un effetto ridotto. Da notare che la delimitazione tiene integralmente conto della linea di chiusura tra Santa Maria di Leuca e Punta Alice del golfo di Taranto (v.); — Accordo con l’Albania del 18 dicembre 1992 (ratificato con legge 12 aprile 1995, n. 147): la delimitazione è stata determinata sulla base del principio di equidistanza espresso nella linea mediana dalle coste dei due paesi senza tener conto delle loro linee di base dritte. La delimitazione si ferma al di qua dei punti tripli con Grecia ed ex Iugoslavia da definire successivamente con gli Stati interessati; inoltre si stabilisce l’impegno delle due parti ad adottare tutte le misure possibili a evitare che le attività di esplorazione e sfruttamento delle rispettive zone di piattaforma possano pregiudicare l’equilibrio ecologico del mare o interferire ingiustificatamente con altri usi legittimi del mare. (c) Accordi in fieri Le delimitazioni non ancora definite sono relative a: — Francia: non esiste al momento alcun valido accordo di delimitazione. La trattativa condotta nel 1973-74 si interruppe data l’impossibilità di raggiungere un accordo per divergenze riguardanti principalmente sia la zona a ovest della Sardegna ove la Francia proponeva di definire un’area comune al Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
Confine accordo Italia-Spagna, 1974 (Fonte: IIM-MISE).
Confine accordo Italia-Albania del 1992; in basso, parte del confine accordo Italia-Grecia, 1977 (Fonte: IIM-MISE).
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centro del Tirreno che avrebbe impedito un accordo tra Italia e Spagna, sia la zona a est, per la quale un compromesso stava per essere raggiunto: nella figura di fianco riportata sono indicate le proposte italiane (in azzurro), quelle francesi (in verde) e la linea di compromesso (in rosso). I negoziati sono stati ripresi nel 2006 e sono stati poi conclusi con l’accordo di Caen del 21 marzo 2015 (nel 2020 non ancora entrato in vigore perché non ratificato dall’Italia) che stabilisce un confine unico per piattaforma continentale e ZEE. Al riguardo si veda anche la successiva voce ZEEMediterraneo; — Malta: un modus vivendi è instaurato, con scambio di note verbali del 29 aprile 1970, riguardante la delimitazione parziale a carattere provvisorio, dei soli fondali entro la batimetrica dei 200 m con una linea di equidistanza tra le coste settentrionali di Malta e le prospicienti coste della Sicilia; la zona «C» aperta alla ricerca dall’Italia è tuttavia arretrata di 1.000 metri rispetto all’equidistanza per realizzare una buffer zone. Questa intesa si inquadra nel genus previsto dall’art. 83, n. 3 dell’UNCLOS; essa è stata così citata al para Ipotesi negoziali di delimitazione Italia-Francia formulate durante le trattative del 17 dalla sentenza della Corte 1974 (Fonte: Francalanci). internazionale di Giustizia del caso Malta-Libia: «In 1970 agreement was reached between Malta and Italy for provisional exploitation of the continental shelf in a short section of the channel between Sicily and Malta on each side of the median line, subject to any adjustments that might be made in subsequent negotiations». Circa la questione della piattaforma continentale italo-maltese, bisogna aggiungere che la stessa Corte ha esaminato gli interessi italiani nell’ambito della controversia avviata tra Malta e la Libia nel 1982. Nell’ottobre 1983 l’Italia presentò, infatti, alla Corte una richiesta di intervento, quale terzo, ai sensi dell’art. 62 dello statuto della Corte, nel giudizio instauratosi tra i due paesi, per rivendicare propri interessi sia a ovest del meridiano 13° 50” (a sud-est delle isole Pelagie), sia a est del punto 34° 30’ N, 15°10” E. In quest’area, 68 mn a sud-est di Malta, ricade il Banco di Medina (oggetto di pretese italiane, libiche e maltesi), bassofondo in cui sembra essere stato localizzato un vasto giacimento petrolifero e che, nel settembre 1980 fu teatro dell’episodio del sommergibile libico che intimò alla nave da ricerca italiana SAIPEM 118
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2 di cessare le prospezioni condotte per conto di Malta (v. Demilitarizzazione (Mediterraneo). L’Italia, nel suo intervento, specificò le ragioni per cui si dovesse adottare, come delimitazione, una linea — diversa dall’equidistanza pura — atta a garantire un risultato equitativo. A questo fine, l’Italia indicò principalmente la necessità di considerare che, nel valutare la proporzionalità tra le coste rilevanti dei due paesi e l’area di piattaforma da spartire, la proporzionalità è nettamente a favore dell’Italia: le coste rilevanti italiane sono, infatti, anche la Calabria jonica e la Puglia, oltre alla Sicilia orientale, con la conseguenza che dovrebbe ruotare verso sud la linea di equidistanza pretesa da Malta come prolungamento di Linea (puntiforme) indicante il confine del modus vivendi Italia-Malta quella del modus vivendi. Di seguito (1970), entro la batimetrica dei 200 m. Si noti la sua limitata estensione sino al si riporta un passo dell’intervento del meridiano 15°10’ (Fonte: Libya/Malta Case, ICJ, Judgment 1985, 12, para 14). prof. Arangio Ruiz (ICJ, Libya/Malta Case, II, 497), membro della delegazione italiana, il quale, a futura memoria, spiega con chiarezza la nostra posizione: «Starting from a point to be determined to the south-east of (…) the submarine frontier between Italy and Malta should turn clockwise leaving maltese areas to its west and italian areas to the east, for both geological and geographical reason. Geographically, the line must bend in a sotherly direction as a consequence of the comparative lenghts of the respective coasts of Malta and Italy (the latter, I mean italian coasts, including, together with the huge island od Sicily, the southern part of the italian peninsula) and as a consequence of the comparative dimensions of the lands of the two States. Geologically the region belongs to what is called by geologists the “Ragusa-Malta Plateau” (also called Hyblaean Plateau) which constitutes a natural prolongation, in a south-easterly direction, of the italian landmass. It follows that in this whole region there are very extensive areas where it will be incumbent upon Italy, and not upon Malta, to proceed, together with Libya, to determine by direct Spazi marittimi Canale Sicilia: si notino le aree di interesse italiano a ovest e a est di Malta agreement or through any (Fonte: Limes, Il Mare è l'Italia, 10/2020, 216). available peaceful proceSupplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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dure the northern boundary of the libyan submarire areas. Roughly speaking, and subject to a more precise definition to be made in the appropriate phase, I would place the western limit of these extensive areas about here. The delimitation of this areas vis-à-vis Malta in the west — I shall refer to Libya later — is of course be made by taking due account of all the criteria I mentioned. Among these criteria one should not forget the extensive lenght of Italian coasts from the Egadi islands, which are at the extreme western end of our huge Sicily, to Santa Maria di Leuca, which is at the extreme end of the region of Italy which was called Apulia in old times. The exact line should be determined amicably between Italy and Malta again by direct agreement or by any other peaceful procedure agreed upon by Parties». La Corte non accolse la richiesta di intervento italiano ma, nella sua sentenza tenne conto degli interessi del nostro paese a est e a ovest di Malta, affermando che questa e la Libia avevano titolo a delimitare esclusivamente «l’area in cui non esistono pretese di terzi Stati, vale a dire l’area tra il meridiano 13° 50’ E e quello 15° 10’». Queste le conclusioni della Corte (ICJ, Libya/Malta Case, Judgment, II, para 22): «The Court therefore concludes that on the basis of the geographical definition of the claims of Italy it should limit the area within which it will give a decision by the meridian 15° 10’ E, including also that part of that meridian which is south of the parallel 34° 30’ N. No question of this kind arises to the West of the meridian 13° 50’ E, since the southward limit of Italian claims is the same as that of the claims of Malta; the area to the south is thus not in dispute in this case». Italia e Malta negli anni, dopo tale decisione della Corte, hanno avviato a più riprese trattative per una delimitazione consensuale, senza mai raggiungere un accordo stante la difficoltà, per Malta, di recedere dalle proprie consolidate posizioni espresse avanti alla Corte. A partite dal 2012 i due paesi hanno nuovamente iniziato colloqui per realizzare lo sfruttamento congiunto di una specifica zona di piattaforma continentale di rispettiva pretesa, senza pregiudizio dei propri diritti sovrani, sulla base UNCLOS (art. 83,3). Secondo quanto dichiarato dal ministero dello Sviluppo economico (vedasi Il Mare, ed. 2015, p. 59 e ss.), proprio allo scopo di creare le condizioni per lo sviluppo di una ricerca congiunta [la competente D.G.] con Decreto Ministeriale 27 dicembre 2012, ha ampliato il settore sud dell’esistente zona marina «C» a partire dal meridiano 15°10’ indicato nella sentenza della Corte, in quanto la legislazione italiana prevede che le attività minerarie siano svolte all’interno di aree marine preventivamente aperte e istituite con decreto. In questo modo si è di fatto creata una sovrapposizione tra l’area di giurisdizione italiana e quella pretesa a est da Malta. Al 2020, il negoziato per lo studio di un’eventuale esplorazione e sviluppo congiunto in una parte di mare oggetto di contenzioso, risultava non aver fatto progressi anche perché «Malta ha continuato ad assegnare a compagnie petrolifere delle aree in acque non ancora definite da un accordo bilaterale». Altro motivo — secondo quanto riportato nella succitata pubblicazione del MISE — per l’interruzione del negoziato è che «l’8 agosto 2014 il governo La zona marina «C» aperta alla ricerca di idrocarburi con D.M. 27.12.2012 maltese ha emanato il Continental Shelf (Fonte: MISE). Act 2014, una nuova legge sulla delimitazione e definizione della propria piattaforma continentale, con disposizioni in merito alla sua esplorazione e sfruttamento. Gli uffici giuridici del MAECI e del MISE, avendo ravvisato in tale legge forti elementi di criticità, hanno inviato, il 19 dicembre 2014, una nota verbale di protesta, in quanto alcune delle disposizioni del Continental Shelf Act 2014 non appaiono conformi 120
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alle previsioni di cui alla convenzione delle Nazioni unite sul Diritto del mare (UNCLOS) del 1982, oltre che lesive degli interessi dell’Italia sui fondali e sul sottosuolo marini nella piattaforma continentale al largo delle sue coste. In particolare: per il mancato riferimento alle coste adiacenti, per l’estensione della piattaforma continentale maltese sino alla linea mediana, in mancanza di accordo, per la possibilità di concedere licenze nell’ambito dell’area ricadente all’interno di tale mediana, incidendo sulla possibilità di arrivare a un accordo di delimitazione con l’Italia». PIATTAFORMA CONTINENTALE GRECO-TURCA All’origine della controversia tra Grecia e Turchia, sulla estensione della rispettiva piattaforma continentale, v’è l’iniziativa assunta unilateralmente dalla Turchia nel 1973 di regolamentare la concessione di permessi di esplorazione mineraria su zone di fondo marino prospicienti le isole greche di Samotracia, Lemno, Lesbo, Chio, Psarà e Antipsarà, assumendo che le stesse fossero da considerarsi prolungamento sommerso della massa continentale dell’Anatolia. Alla base del dissenso si pone la tesi turca secondo la quale lo studio geomorfologico del fondo del mar Egeo (v.) proverebbe, l’esistenza di vasti spazi, al largo della costa turca, che costituiscono il prolungamento naturale dell’Anatolia: le isole greche situate in vicinanza della costa turca non possederebbero quindi una specifica piattaforma al di là del limite delle proprie acque territoriali, costituendo al più delle «circostanze speciali». La Turchia, pretende, in definitiva, che la propria piattaforma continentale sia delimitata dalla mediana tra il continente europeo e quello asiatico, lasciando alle isole greche il solo spazio delle acque territoriali. Secondo la Grecia le proprie isole hanno invece titolo a possedere una piattaforma al di là delle acque territoriali: la delimitazione sarebbe, da questo punto di vista, relativa a due Stati, uno dei quali (la stessa Grecia) sarebbe una sorta di Stato arcipelagico; la piattaforma continentale turca dovrebbe essere per conseguenza limitata al ristrettissimo spazio tra le proprie isole e la costa anatolica. Il tentativo di risolvere la contesa avanti la Corte internazionale di Giustizia avviato dalla Grecia nel 1976 non ha avuto esito per il rifiuto della Turchia di accettare la giurisdizione della Corte. La stessa Turchia ritiene, infatti, che la delimitazione della piattaforma continentale in un mare semichiuso come l’Egeo, essendo una questione di natura politica prim’ancora che giuridica, possa essere raggiunta soltanto attraverso accordi diretti tra le parti interessate, sulla base dell’equità. La disputa si è riaccesa in anni recenti in relazione al contenzioso del Mar di Levante (v.). Tra l’altro, la Turchia, con riguardo al proprio accordo con la Libia del 2019 (v. ZEE-Mediterraneo), ha negato effetto alle isole di Rodi, Scarpanto e Creta, continuando a sosteIn tratteggio la piattaforma continentale rivendicata dalla Turchia nere a proprio favore le tesi espresse nel a seguito della concessione di permessi offshore nel 1973-74 caso dell’Egeo. (Fonte: Hellenic MOFA).
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1.2 Prassi altri Stati Oltre agli accordi di cui s’è detto sono stati già conclusi in Mediterraneo i seguenti trattati di delimitazione: — Francia-Monaco del 16 febbraio 1984; — Libia-Malta del 10 novembre 1986. Questo accordo, è stato concluso a seguito della già citata sentenza della Corte internazionale di giustizia del 1985 che, ai fini della definizione della controversia: 1) non ha tenuto conto delle linee di base dritte libiche costituite dalla linea di chiusura del golfo della Sirte (v.) né dell’isolotto disabitato maltese di Filfla; 2) ha invece considerato, nell’individuare due possibili linee di equidistanza, le relazioni tra le coste della Sicilia e della Libia, assegnando un effetto ridotto a Malta, quale isola con uno sviluppo inferiore a quello della terraferma libica; — Libia-Tunisia dell’8 agosto 1988 con cui, in applicazione della soluzione indicata dalla Corte internazionale di Giustizia nella sentenza del 26 febbraio 1982, si stabilisce una linea di delimitazione laterale divisa: 1) in un primo segmento conforme agli esistenti titoli storici del periodo della dominazione francese e italiana sui due paesi; 2) un secondo segmento, per parallelo, dimezzando l’effetto dell’isola tunisina di Kerkennah; — Cipro-Egitto del 2003, Cipro-Israele del 2010 e Cipro-Libano del 2007 (ancorché non ratificato dal Libano). Questi accordi adottano una linea unica di confine valevole anche per la sovrastante massa d’acqua; su di essi si veda anche le voci Mar di Levante e ZEE (Mediterraneo). PIRATERIA 1. Antichi pirati mediterranei Il Mediterraneo (v.) è stato in passato la culla della pirateria intesa come forma di spoliazione violenta in mare. Nel mito di Arione cantato da Ovidio (Fasti, 2, 83-118) ce n’è giunta l’eco: il citaredo, provenendo da Taranto, è catturato dai pirati; lanciatosi in mare e salvato da un delfino vicino la Laconia, riesce poi a debellare i suoi assalitori rifugiatisi nel golfo di Corinto. Anche Minosse, il mitico re di Creta, è ricordato da Tucidide (Guerra del Peloponneso, 1, 4-8) per aver eliminato i pirati dal Mar di Levante stabilendo una forma di dominio marittimo (la c.d. talassocrazia). In epoca greco-romana i pirati erano ancora nel Mediterraneo orientale, soprattutto nella Cilicia, lungo le coste dell’Asia Minore, dove «controllavano il mare con grandi flotte e numero sterminato di navi». Dalla Cilicia provenivano, infatti, i pirati che catturarono il giovane Giulio Cesare mentre era imbarcato su una nave diretta a Rodi, nel famoso episodio raccontato da Plutarco (Vita di Cesare, 2) in cui il condottiero fornì anzitempo prova del suo ardire. La reazione di Roma alla minaccia ai suoi traffici commerciali con l’Oriente non si fece attendere: nel 67 a.C. il senato approvò la lex gabinia conferendo a Pompeo Magno pieni poteri per debellare alla radice, con centinaia navi armate, i pericolosi banditi del mare. Il Mediterraneo divenne allora, sotto la scure del dominium maris romano, un luogo sicuro. Con la caduta dell’Impero e la fine della pax romana, il Mediterraneo fu nuovamente preda dei pirati. Covi di pirati erano in Adriatico, dove, secoli dopo, ricomparvero i temibili Uscocchi istriani che insidiarono a lungo, soprattutto nel Seicento, i traffici marittimi della Serenissima Repubblica di Venezia. I Vandali, stanziati nell’Africa settentrionale, ripetettero le scorrerie dei Fenici aprendo un lunghissimo periodo di anarchia dei mari in cui, sino ai primi del Settecento, le coste italiane furono terrorizzate dai Saraceni. Tant’è che, nel Regno di Napoli, i viceré spagnoli nel 1563 iniziarono a realizzare un sistema di torri costiere di avvistamento, poi ammodernato nel 1720. Gli antichi Stati italiani dovettero far fronte alla minaccia ai propri traffici marittimi condotta dai pirati stanziati lungo le coste occidentali dell’Africa settentrionale. La Repubblica di Venezia organizzò varie spedizioni navali verso la Tunisia, dal 1784 al 1792, nel corso delle quali l’ammiraglio Angelo Emo bombardò Sfax e pose il blocco al porto di La Goletta. Il Regno delle Due Sicilie dovette invece confrontarsi con i pirati della reggenza ottomana di Algeri conducendo nel 1784 operazioni antipirateria multinazionali ante litteram cui parteciparono le Marine del Regno di Sardegna, del Granducato di Toscana e dei Cavalieri di Malta. Ma la più grande impresa fu quella condotta nel decennio 1805-15 dalla neocostituita Marina degli Stati Uniti che riuscì a sconfiggere con azioni audaci i pirati barbareschi dei Bey di Tripoli e Algeri: le navi da guerra statunitensi al comando di Stephan Decatur furono inviate dal Congresso, a iniziativa di Thomas Jefferson, per non sottostare all’imposizione di pagare il tributo annuale di 50.000 dollari chiesto dal Pasha di Tripoli per garantire libertà di transito ai mercantili statunitensi.
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2. Corsari e pirati Negli stessi secoli dell’evo moderno in cui la pirateria mediterranea ha avuto i suoi ultimi fulgori si è sviluppata, soprattutto negli oceani, la guerra di corsa. Pirati e corsari sono, tuttavia, espressione di due fenomeni del tutto differenti: i primi dediti a depredazione violenta per fini esclusivi e privati di lucro; i secondi impegnati a condurre azioni di violenza in mare, oltre che per arricchirsi, anche per conto dello Stato di bandiera nell’ambito della guerra al commercio. Alla base del sorgere del fenomeno dei corsari vi è il fatto che all’inizio dell’era moderna alcuni Stati, non essendo dotati di una vera e propria Marina da guerra come quella della Repubblica di Venezia (che, infatti, impiegò la propria Squadra del golfo di stanza a Corfù per combattere nell’Adriatico i pirati Uscocchi), dovettero avvalersi di navi mercantili armate da privati per difendersi dagli attacchi pirati. Col tempo, queste operazioni, da meramente difensive che erano assunsero anche carattere di spoliazioni violente a similitudine di quelle dei pirati. Di qui la denominazione di tali navi private come «naves more piratico navigantes». Successivamente gli Stati intervennero a regolamentare l’attività delle navi destinate a «correre il mare» concedendo loro un’autorizzazione («lettera di marca») per quella che era anche considerata una funzione pubblica: tali navi erano dette corsare, e i corsari (in inglese, privateers) erano impegnati a combattere sia il commercio esercitato dalle navi nemiche, che quello delle navi neutrali in favore del nemico. L’utile derivante dalle prede veniva spartito tra i corsari e i governi di appartenenza. Quando tali eccessi divennero intollerabili anche per il formarsi di una maggiore coscienza della loro illiceità, la comunità internazionale cercò di limitarli. Stati Uniti e Prussia, in un trattato del 1785 si obbligarono reciprocamente, per esempio, a non avvalersi di navi corsare. Dopo il Congresso di Vienna del 1815, di fatto, nessun paese fece più ricorso a questo tipo di guerra per combattere nemici e neutrali. Ma fu solo dopo la Guerra di Crimea, con la Dichiarazione di Parigi del 1856 su alcuni principi di diritto marittimo, che si stabilì che «la guerra di corsa è e resta abolita». Inghilterra e Francia si accordarono per motivi opposti: la Francia, che pur in passato aveva combattuto l’Inghilterra con navi corsare, non aveva più grossi interessi marittimi da difendere; mentre la Gran Bretagna, che con Drake aveva tratto notevoli utili dalla guerra di corsa, grazie alla propria potente Marina esercitava oramai il completo controllo dei mari. A partire da questo momento, le navi da guerra (v.) delle Marine divengono gli unici soggetti autorizzati a usare la forza in mare. Esse sono, infatti, qualificate come i soli «legittimi belligeranti» della guerra marittima, a meno che navi mercantili non vengano incorporate nella Marina come navi da guerra secondo le regole stabilite dalla VII convenzione dell’Aja del 1907 (v. Diritto bellico marittimo). 3. Concetto giuridico 3.1 Principi consuetudinari Il pragmatico spirito che animava il diritto romano non aveva avuto dubbi nell’affermare che «il pirata non rientra fra i legittimi nemici di guerra, ma è il comune nemico di tutto il genere umano (communis hostis omnium)» (Cicerone, De officiis, III, 107). Su queste basi giuridiche si fondò la teoria, ancora oggi in vita nell’ordinamento internazionale, secondo cui la pirateria è un crimine internazionale (crimen juris gentium). La relativa nozione di diritto consuetudinario è teorizzata con chiarezza nella seguente statuizione emanata nel 1927 dalla Corte permanente di giustizia internazionale con riguardo al caso Lotus: «[il pirata] è privo della protezione della bandiera che egli può mostrare, egli è trattato come un bandito e come un nemico del genere umano che qualsiasi nazione può catturare e punire nell’interesse di tutti…». Duplice è dunque, a questa stregua, la natura del pirata che è a un tempo un bandito, in quanto depreda le sue vittime come qualsiasi altro predone di terraferma, ma anche «nemico del genere umano», poiché attenta alla libertà di navigazione. La libertà dei mari non è però solo minacciata dalla pirateria ma, in certa misura, ne rappresenta essa stessa la causa. L’alto mare (v.) che era ed è tuttora il luogo di elezione della pirateria è, infatti, uno spazio non soggetto alla sovranità di alcuno Stato. Si spiega così l’asserzione, apparentemente paradossale, del giurista cinquecentesco Alberico Gentili che «[il] pirata delinque di meno, poiché agisce nel mare che non è sottoposto ad alcuna legge». Il contrasto alla pirateria, inteso come diritto-dovere attribuito a tutti gli Stati, è divenuto nei secoli principio obbligatorio proprio per supplire alla mancanza di una specifica autorità competente ad agire per porre rimedio all’anarchia dell’alto mare. L’applicazione generalizzata di questo principio si è consolidata, a metà Ottocento, con la fine della guerra di corsa. Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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3.2 Regolamentazione convenzionale Il concetto consuetudinario di pirateria così formatosi è stato recepito e codificato nella II Convenzione di Ginevra del 1958.. Esso si basa su tre elementi fondamentali senza i quali non è possibile aversi pirateria in senso stretto, e cioè: 1) la commissione del fatto in alto mare; 2) l’uso di una nave a danno di un’altra (criterio delle due navi); 3) il fine personale di depredazione (private ends secondo la terminologia anglosassone). In anni recenti, nel corso della crisi della pirateria del Corno d’Africa di cui si dirà più avanti, si è ipotizzato un suo superamento in modo da comprendere anche la violenza esercitata nelle acque territoriali (v.) nell’ambito del concetto più generale di «armed robbery at sea» inteso come «any illegal act of violence or detention or any act of depredation, or threat thereof, other than an act of piracy, committed for private ends and direct against a ship or against persons or property on board such a ship, within a State’s internal waters, archipelagic waters and territorial sea». In realtà, tale illecito marittimo — previsto nella IMO Resolution A.1025(26) related to the Code of Practice for the Investigation of the Crimes of Piracy and Armed Robbery Against Ships — non trova una base nel diritto internazionale in quanto è solo strumentale a individuare una fattispecie penale punitiva. L’armed robbery, al di fuori del quadro delle risoluzioni delle NU sulla pirateria del Corno d’Africa, non è perciò una situazione che autorizza gli Stati a entrare nelle acque territoriali straniere per il suo contrasto. Resta, infatti, fermo che la competenza è esclusiva dello Stato costiero, a meno di specifica autorizzazione. Il concetto tradizionale di pirateria è integralmente confermato dall’UNCLOS (articoli 101 e 102) che configura appunto un’attività di depredazione o di violenza compiuta in alto mare o in zone non soggette alla giurisdizione di alcuno Stato (per esempio, coste dell’Antartide), per fini privati, dall’equipaggio da una nave mercantile o aereo privato ai danni di altra nave o aereo privato (ma non da un aeromobile a danno di una nave). La nave che è sotto il controllo effettivo di persone che intendono utilizzarla o che l’hanno utilizzata per commettere uno degli atti sopra indicati è considerata nave pirata. Anche la nave pirata utilizzata come «nave madre» per assistere operativamente piccole imbarcazioni impegnate in azioni di pirateria è considerata nave pirata. Sono assimilati agli atti commessi da una nave privata quelli compiuti da una nave o aeromobile militare il cui equipaggio si sia ammutinato. Il semplice ammutinamento non seguito dall’abbordaggio di un’altra unità non rappresenta tuttavia, di per sé, una forma di pirateria. Inoltre, non costituisce nemmeno pirateria l’uso della forza, condotto con modalità illecite, da parte di navi da guerra neutrali nei confronti di navi mercantili di altra bandiera. Difatti, durante la I conferenza del diritto del mare del 1956, non furono accolte le proposte tendenti a recepire i principi degli articoli 2 e 3 dell’Accordo di Nyon del 1937: in questa intesa, stipulata durante la guerra civile Spagnola, si stabiliva che ogni sommergibile non identificato, il quale avesse attaccato una nave mercantile non appartenente ad alcuna delle parti in conflitto con la Spagna, fosse equiparato a una nave pirata e potesse quindi essere attaccato e affondato da qualsiasi altra nave da guerra. 3.3. Pirateria e terrorismo marittimo Quanto al concorso nella pirateria, l’UNCLOS (art. 101, lett. b), c) fa anche rientrare nella fattispecie le attività di partecipazione volontaria e di incitamento o favoreggiamento. Si discute se tali possano essere quelle compiute da persone operanti a terra in appoggio logistico ai pirati. Il fine privato può anche essere diverso dallo scopo di depredazione (c.d. «animus furandi») potendo pensare per esempio a una vendetta privata. Il fine privato non è quindi in teoria escluso nemmeno se coesiste un fine di altra natura, quale quello politico. L’importante è che l’azione non abbia in sé una predominante connotazione politica in quanto, in questo caso, si configura l’altro illecito del terrorismo marittimo (v.) disciplinato dalla convenzione di Roma del 1988 per la repressione dei reati diretti contro la sicurezza della navigazione marittima (denominata SUA Convention dall’acronimo del titolo in inglese) e dal susseguente protocollo adottato a Londra nel 2005 (SUA Protocol). Diversa è, infatti, la struttura dei due illeciti, sicché non è accettabile sul piano giuridico formale la tendenza di alcuni Stati a equipararli tra loro, quasi che la loro repressione e perseguibilità penale sia un’opzione discrezionale. Solo la pirateria, quale crimine di carattere internazionale, è dunque perseguibile in alto mare da parte delle navi da guerra e dalle navi in servizio governativo di qualsiasi nazionalità. Nel caso del terrorismo marittimo il regime convenzionale del protocollo di Londra presuppone invece il consenso dello Stato di bandiera. Va tuttavia notato che tale approccio, tendente a confondere ed equiparare nella sostanza le due differenti figure di illecito, è
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somalo e alla nascita di bande criminali stanziate in approdi, come quello di Eyl nel Puntland, e dedite a lucrare dai sequestri di mercantili per conto di gruppi armati. 4.2 Azione delle Nazioni unite La reazione della comunità internazionale a tali fenomeni può farsi risalire al sequestro nel 2008 dello yacht francese Le Ponant, quando apparve chiaro che il Consiglio di sicurezza delle NU non poteva che adottare misure straordinarie. Il che fu fatto con la risoluzione 1816 (2008) la quale, riconoscendo la pirateria somala come una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale, sulla base del capo VII della Carta autorizzava gli Stati ad adottare tutte le «necessarie misure» chiedendo loro di dislocare in area assetti navali. Questa risoluzione, come anche le altre di analogo contenuto emanate successivamente, ha indicato nell’UNCLOS (e nel diritto consuetudinario in essa recepito) il quadro giuridico applicabile alle attività di antipirateria con ciò escludendo la possibilità di far ricorso al diritto dei conflitti armati. Tale impostazione giuridica, perfettamente attagliata alla realtà della pirateria somala, ha avuto due implicazioni. Da un lato l’uso della forza contro i pirati è stato ritenuto configurabile solo entro i limiti della inevitabilità, ragionevolezza, necessità e proporzionalità proprie delle attività marittime di enforcement del tempo di pace delineate dalla giurisprudenza del Tribunale del diritto del mare (v.) nel caso Saiga (v. Polizia dell’alto mare). Dall’altro, i pirati non sono stati considerati «legittimi combattenti» da annientare o catturare come prigionieri di guerra ma banditi da assicurare, nel pieno rispetto dei diritti umani (ma non del diritto umanitario), alla giustizia. D’altronde era già stato Cicerone, come già detto, a chiarire che «il pirata non rientra fra i legittimi nemici di guerra, ma è il comune nemico di tutto il genere umano». Un’apparente deroga a tale regime generale risiede nella facoltà concessa dalle Nazioni unite alle navi da guerra in attività antipirateria di operare anche nelle acque territoriali somale. Com’è noto, l’alto mare e le acque internazionali (v.) della ZEE e della zona contigua sono il teatro del contrasto alla pirateria, mentre al di fuori di tali zone l’attività repressiva è un’esclusiva attribuzione dello Stato costiero che la esercita nelle proprie acque interne e territoriali. Non è perciò possibile l’inseguimento di una nave privata che cerchi di sottrarsi alla cattura rifugiandosi nelle acque territoriali di un altro Stato (prassi del reverse hot pursuit), a meno del consenso di questo. Le Nazioni unite hanno quindi permesso in via eccezionale, su autorizzazione del Transitional Federal Government (TFG) somalo, l’ingresso nelle acque territoriali di Forze navali straniere. Questo spiega perché nelle varie risoluzioni si parlasse indifferentemente di interdizione della pirateria e dell’armed robbery, cioè a dire di quella forma di violenza in acque interne e territoriali che, come già chiarito, esula dalla nozione di pirateria in senso stretto, ma che presenta rilievo ai fini penali. 4.3 Problemi di giurisdizione Il problema della giurisdizione esercitabile nei confronti dei pirati catturati si è rivelato cruciale nell’ambito delle attività svolte al largo della Somalia. Sin dall’inizio delle operazioni antipirateria è stato, infatti, evidente che il modus operandi di alcuni Stati presenti in area con loro navi da guerra era orientato al rilascio, in prossimità delle coste somale, dei pirati catturati. Questo, sia per mancanza di volontà di confrontarsi con le complesse questioni giudiziarie relative alla convalida di arresti eseguiti senza l’acquisizione di validi strumenti di prova, sia per l’incapacità di processare i pirati per mancanza, nell’ordinamento giuridico nazionale, di norme punitive della pirateria. Per esempio, la corvetta danese Absalon, dopo aver catturato 10 pirati e averli tenuti a bordo per sei giorni, li lasciò liberi sulle spiagge somale a seguito di un provvedimento di chiusura delle indagini, per insufficienza probatoria, assunto dai giudici del proprio paese. Tale prassi (detta «catch and release») è stata contrastata dalle Nazioni unite che in varie sedi ha sollecitato gli Stati che non l’avevano ancora fatto a dotarsi della necessaria legislazione incriminatrice. Peraltro, il Consiglio di sicurezza delle NU ha cercato di mitigare l’ambigua formula dell’art. 105 dell’UNCLOS che non impone agli Stati alcun obbligo di perseguire penalmente i pirati, indicando criteri per l’esercizio della giurisdizione. È stato così che sin dalla prima risoluzione del 1816 (2008) è stato fatto appello a tutti gli Stati e in particolare «agli Stati di bandiera, dei porti o rivieraschi, gli Stati della nazionalità delle vittime o dei perpetratori di atti di pirateria o rapina armata, e altri Stati con giurisdizione rilevante in base al diritto internazionale e alla legislazione nazionale, di cooperare nel determinare la giurisdizione». Di ciò ha tenuto conto l’Unione eu126
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ropea, sulla base del mandato dell’operazione navale antipirateria EUNAFVOR Atalanta approvato con la Joint Action 2008/851/CFSP del 10 novembre 2008, nello stipulare accordi con Kenya, Seychelles, Mauritius e Tanzania per il trasferimento dei pirati in custodia amministrativa sulle navi dopo la cattura. Da notare infine che la comunità internazionale, a prescindere da tali accordi aventi natura contingente, ha privilegiato la giurisdizione territoriale delle corti penali somale, scartando ogni altra ipotesi di affidamento della giurisdizione a tribunali internazionali già esistenti o da costituire ad hoc. 5. Pirateria golfo di Guinea Le minacce alla sicurezza marittima mettono a rischio la stabilità degli spazi marittimi antistanti Ghana, Togo Benin, Nigeria, Camerun, Guinea Equatoriale, paesi che si affacciano sul golfo di Guinea. L’area è afflitta da varie forme di crimine organizzato, tra le quali, oltre alla classica pirateria e all’assalto di impianti petroliferi offshore, un posto principale occupa l’armed robbery, forma di violenza propria delle acque interne e territoriali. In effetti, se si guarda alla cartina a margine indicante la voluntary reporting area, elaborata a iniziativa delle Marine di UK e Francia, dal Maritime Domain Awareness for Trade, Gulf of Guinea (MDAT-GoG), ci si rende conto che la potenziale area di rischio ricade prevalentemente in zone costiere, comprendendo tutt’al più gran parte della ZEE nigeriana. Nel golfo di Guinea è dunque improprio parlare solo di pirateria dell’alto mare nel senso stretto definito dall’UNCLOS, ed è quindi fuorviante assimilare la sua situazione (caratterizzata anche da traffico di armi e droga collegato al crimine transnazionale) a quella del Corno d’Africa. Ma c’è un altro fondamentale elemento di differenza: i paesi che vi si affacciano, quali Ghana, Togo Benin, Nigeria, Camerun, Guinea Equatoriale, cooperano tra loro. Con varie risoluzioni il Consiglio di sicurezza ha incoraggiato l’adozione di una strategia marittima regionale, con il supporto di organizzazioni regionali come l’Economic Community of West African States (ECOW AS), l’Economic Community of Central African States (ECCAS) e il Gulf of Guinea Commission (GGC). Tale azione internazionale ha portato al summit di Yaoundé del 2013, durante il quale è stata approvata una cooperazione regionale sviluppata sotto gli auspici dell’IMO, basata su un Memorandum of Understanding on maritime safety and security in Central and West Africa, oltre che un Code of Conduct. Questa cooperazione regionale — che ha assunto a modello quella regolamentata, per il Corno d’Africa, dal Djibouti Code of Conduct — ha fatto diminuire le attività criminali in mare, anche se continuano a verificarsi episodi di depredazione a mercantili. Per completare il discorso va infine citato il contributo, in termini di capacity building marittimo ai paesi dell’area, da parte del G7 Friends of the Gulf of Guinea Group (G7++FOGG di cui fa parte l’Italia) nonché quello fornito dagli Voluntary reporting area del golfo di Guinea (Fonte: UKHS). Stati Uniti con il programma Africa Partnership Station (APS). 6. Protezione mercantili 6.1 PCASP e VPD Specifico rilievo ha infine avuto, nell’ambito delle misure per contrastare la pirateria somala, la questione dell’imbarco sui mercantili di personale armato, per finalità di protezione ma non di contrasto, Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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senza che con ciò si modificasse lo status dei mercantili rispetto a quello delle navi da guerra (da ricordare che durante la Prima e la Seconda guerra mondiale era stata ammesso che i mercantili potessero essere dotati di armamento limitato all’autodifesa). Si tratta dell’impiego di personale civile (i così detti PCASP, acronimo di «privately contracted armed security personnel»). O anche, in alternativa, di personale militare (i così detti VPD, acronimo di «vessel protection detachment») il cui impiego fu raccomandato dall’IMO, con riguardo alla pirateria del Corno d’Africa, nelle Best Management Practices Version 4 (BMP4) del 2011. La possibilità per gli Stati, di autorizzare tali misure aggiuntive, va considerata espressione del loro monopolio dell’uso della forza in mare da cui discende anche la regolamentazione dell’attività di VPD e PCASP sui mercantili di bandiera nel quadro dei principi del genuin link (v. Nazionalità della nave) stabiliti dall’UNCLOS. Esse si inquadrano, oltre che nel generale principio di legittima difesa, nell’autorizzazione a usare all necessary means per prevenire e reprimere la pirateria concessa agli Stati dal Consiglio di sicurezza con varie risoluzioni. La prassi dei PCASP ha avuto applicazione generalizzata da parte di tutti gli Stati, sia pur in assenza di linee guida IMO che risolvessero i nodi della giurisdizione e dei limiti all’uso della forza nell’attività di protezione del mercantile. Le soluzioni adottate sono state in ogni caso state improntate al rispetto del principio — stabilito dalla Convenzione SOLAS 1974 (v. Sicurezza della navigazione) — relativo alle funzioni prioritarie di comando del master del mercantile nei confronti di tutti i soggetti imbarcati, PCASP compresi. Non altrettanto è invece avvenuto per i VPD. A partire dall’operazione Atalanta dell’Unione europea, il loro imbarco era stato previsto a protezione dei mercantili incaricati di trasportare in Somalia gli aiuti del programma alimentare mondiale (WFP); successivamente, non ha tuttavia ricevuto ulteriore applicazione se si escludono le misure adottate da Francia («Equipes de protection Embarquée») operanti su navi da pesca di bandiera al largo delle Seychelles), da Spagna e Olanda. Attualmente, al 2020, le misure raccomandate per l’autoprotezione dei mercantili sono indicate nelle BMP5 «Best Management Practices to Deter Piracy and Enhance Maritime Security in the Red Sea, Gulf of Aden, Indian Ocean and Arabian Sea, 2018». 6.2 Prassi Italia (a) Nuclei militari di protezione (NMP) e Guardie giurate Diverso il caso dell’Italia che com’è noto è stato l’unico paese ad aver regolamento in modo organico, sia l’imbarco su mercantili di bandiera di personale militare dei Nuclei militari di protezione (NMP), sia l’impiego sugli stessi mercantili di Guardie giurate. L’iniziativa era stata adottata dopo che numerosi mercantili di bandiera italiana erano stati attaccati e sequestrati dai pirati, come il rimorchiatore Buccaneer (2009), la M/C Savina Caylyn (2009), la M/N Rosalia D’Amato e la M/N Enrico Ievoli (2011). Tale progetto fu poi disciplinato nell’articolo 5, commi l e 2, della Legge 2 agosto 2011, n. 130, prevedendo che il ministero della Difesa potesse stipulare con l’armatoria privata italiana convenzioni per l’imbarco, a richiesta e con oneri a carico degli armatori, di NMP composti da personale della Marina. La normativa disponeva inoltre che il personale dei NMP operasse in conformità alle direttive e alle regole di ingaggio emanate dal ministero della Difesa, presupponendo quindi che esso fosse inserito nella catena di comando militare senza alcun rapporto di subordinazione con il comando del mercantile. Al comandante di ciascun nucleo, al quale faceva capo la responsabilità esclusiva dell’attività di contrasto militare alla pirateria e al personale da esso dipendente, erano inoltre state attribuite, rispettivamente, le funzioni di ufficiale e di agente di polizia giudiziaria riguardo ai reati di pirateria di cui agli articoli 1135 e 1136 CN. Nello svolgimento dell’attività assegnatagli, il medesimo personale avrebbe beneficiato dell’applicazione della causa di giustificazione secondo cui «non è punibile il militare che, nel corso delle missioni…, in conformità alle direttive, alle regole di ingaggio, ovvero agli ordini legittimamente impartiti, fa uso ovvero ordina di fare uso delle armi, della forza o di altro mezzo di coazione fisica, per le necessità delle operazioni militari». La protezione delle navi battenti bandiera italiana era stabilita «nell’ambito delle attività internazionali di contrasto alla pirateria... nelle aree di acque internazionali a rischio». Tali spazi denominati piracy high risk area (HRA) erano stati definiti da un gruppo di coordinamento di associazioni marittime come la International Chamber of Commerce in relazione a episodi di pirateria avvenuti nei mari tra il Corno d’Africa e l’India. Al tempo, nel 2011, il loro limite orientale passava per la punta estrema del subconti128
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nente indiano, comprendendo quindi tutti gli spazi marittimi dell’India, incluso quello a 20,5 mn dalle coste del Kerala dove avvenne il 15 febbraio 2012 l’episodio della Enrica Lexie. Tenendo anche conto dei rapporti periodici dell’IMO e delle zone di operazione delle missioni anti pirateria EUNAVFOR «Atalanta» e NATO «Ocean Shield», successivamente i limiti della HRA sono stati arretrati rispetto all’India e al Mar Rosso. Al 2020 sono quelli della mappa sotto riportata. L’Italia ha disposto la cessazione dell’imbarco dei NMP nel 2015 a seguito di apposita modifica legislativa, dopo che erano state eseguite circa 300 missioni di protezione dei mercantili di bandiera nazionale. È invece ancora attiva la misura di autoprotezione delle Guardie giurate — rientrante, come detto, nella prassi internazionale dei PCASP — che è stata da ultimo disciplinata dal Decreto del ministero del-
Piracy high risk area del Corno d’Africa (Fonte: UKHS).
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l’Interno 139-2019. Il provvedimento stabilisce il loro impiego a bordo delle navi mercantili battenti bandiera italiana che transitano in acque internazionali a rischio pirateria, le modalità per l’acquisto, l’imbarco, lo sbarco, il porto, il trasporto e l’utilizzo delle armi (di difesa personale e di protezione della nave) e del relativo munizionamento, nonché le modalità operative di svolgimento dei servizi a bordo. Da notare che l’uso delle armi è consentito nei casi previsti dal codice penale e dalle leggi speciali in materia. Sono inoltre fatti salvi poteri e responsabilità esclusive del comandante secondo gli articoli 186 e 295 CN. L’art. 6, 2, b) del decreto dispone, infatti, che «per ogni nucleo di guardie giurate impiegato a bordo della nave deve essere nominato un responsabile (team leader), individuato nella guardia avente maggiore esperienza, cui è affidata l’organizzazione operativa del nucleo stesso, nel rispetto di quanto previsto dal regolamento di servizio e secondo le direttive del comandante della nave al quale lo stesso si deve sempre rapportare». (b) Normativa penale italiana Il Codice della navigazione del 1942 ha regolamentato il reato di pirateria punendolo con pena edittale superiore nel minimo a cinque anni. La punibilità è prevista, oltre che per i cittadini italiani, anche per gli stranieri implicati in atti di pirateria o «sospetta» pirateria. Non è stabilito alcun requisito territoriale relativamente al locus commissi delicti sicché è punibile, com’è proprio della pirateria juris gentium, il fatto commesso in alto mare. Da questo punto di vista l’azione penale può essere esercitata sulla base dell’articolo 7, n. 5 del Codice penale relativo ai reati commessi all’estero dal cittadino o dallo straniero per i quali speciali disposizioni di legge o convenzioni internazionali stabiliscono l’applicabilità della legge penale italiana (nel caso di specie l’art. 105 dell’UNCLOS). Le fattispecie penali contenute nel Codice della navigazione sono: — articolo 1135 - pirateria. «Il comandante o l’ufficiale di nave nazionale o straniera, che commette atti di depredazione in danno di una nave nazionale o straniera o del carico, ovvero a scopo di depredazione commette violenza in danno di persona imbarcata su una nave nazionale o straniera, è punito con la reclusione da dieci a venti anni. Per gli altri componenti dell’equipaggio la pena è diminuita in misura non eccedente un terzo; per gli estranei la pena è ridotta fino alla metà»; — articolo 1136 - nave sospetta di pirateria. «Il comandante o l’ufficiale di nave nazionale o straniera, fornita abusivamente di armi, che naviga senza essere munita delle carte di bordo, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni. Si applica il secondo comma dell’articolo precedente». Il regime penale del Codice della navigazione è stato in parte integrato e modificato dalle norme speciali emanate con specifico riguardo alle operazioni navali al largo del Corno d’Africa svolte sotto l’egida delle Nazioni unite. Il decreto legge 30 dicembre 2008, n. 209 convertito in legge dalla legge 24 febbraio 2009 n. 12, confermò tale regime generale, prevedendo all’art. 5 la competenza del tribunale di Roma. Una deroga fu poi disposta con il Decreto Legge 15 giugno 2009, n. 61 stabilendo da un lato che la giurisdizione italiana era limitata ai soli reati di pirateria commessi a danno dello Stato, dei cittadini e dei beni italiani, e dall’altro che, al di fuori di tali casi, si applicassero gli accordi per il trasferimento ai paesi (Kenya, Seychelles, Mauritius e Tanzania) che avessero stipulato accordi con la UE per la consegna di persone catturate nel corso di operazioni antipirateria. Da notare come la stessa normativa prevedesse «la detenzione a bordo del vettore militare delle persone che hanno commesso o che sono sospettate di aver commesso atti di pirateria, per il tempo strettamente necessario al trasferimento». PLACE OF REFUGE (LUOGO DI RIFUGIO) Vedi: Ricerca e soccorso in mare. PLACE OF SAFETY (LUOGO SICURO) Vedi: Traffico e trasporto illegale di migranti in mare. POLIZIA DELL’ALTO MARE 1. Concetto e presupposti giuridici Si definisce polizia dell’alto mare o, secondo la terminologia anglosassone, Maritime Law Enforcement (MLE), l’esercizio in alto mare (v.), da parte delle navi da guerra (v.) di poteri di imperio (constabulary powers) mediante inchiesta di bandiera (v.), fermo (stop), esercizio del diritto di visita (v.), assunzione di 130
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controllo (detention), dirottamento (divertion). La base legale della polizia dell’alto mare si rinviene principalmente nell’art. 110 dell’UNCLOS che, con riguardo al diritto di visita, autorizza le navi da guerra di tutte le nazioni a esercitare poteri autoritativi verso le navi mercantili non nazionali in caso di pirateria (v.), tratta degli schiavi (v.), navigazione senza nazionalità o con bandiera di convenienza (v. Nazionalità della nave), trasmissioni non autorizzate (v.). In aggiunta la cornice legale della polizia dell’alto mare è costituita: — dalla Convenzione di Parigi del 1884 concernente la protezione di cavi e condotte sottomarine (v.); — dall’art. 17 della Convenzione di Vienna del 1988 contro il traffico illecito di stupefacenti e dall’Accordo di Strasburgo del 1995 che a esso dà applicazione (v. Traffico di stupefacenti in mare); — dalla Convenzione di Roma del 1988 e dal Protocollo di Londra del 2005 (SUA Protocol) contro il terrorismo marittimo (v.); — dal Protocollo di Palermo del 2000 contro il traffico illegale di migranti in mare (v.); — dai principi della Carta delle NU che autorizzano l’adozione di misure di embargo navale (v.). 2. Genesi e sviluppo L’attualità della polizia dell’alto mare va ricercata nei nuovi scenari che caratterizzano l’attività delle Marine, ovvero la fine dei confronti militari propri della Guerra fredda e l’avvio di una rinnovata fiducia nella dimensione di sicurezza collettiva. In tale contesto, a una recessione delle minacce di natura militare, ha fatto riscontro una maggiore preoccupazione per la crescita della criminalità internazionale che, proprio nei mari aperti, ha trovato un terreno fertile e una via preferenziale di diffusione. La questione è stata avvertita da tempo anche al di fuori dello stretto ambito militare; basti pensare che negli anni Ottanta del secolo scorso a un grande studioso di strategia navale come sir James Cable (autore del celebre Gunboat Diplomacy) che, nell’osservare come lo sviluppo della pirateria nell’oceano Indiano e lungo le coste dell’Africa equatoriale avesse assunto proporzioni rilevanti, auspicava un ritorno al passato caratterizzato, soprattutto nell’Ottocento, da un’intensa ed efficace attività delle navi da guerra nella repressione del fenomeno. Ben consce di questo loro ruolo, le Marine occidentali hanno avviato una cooperazione in questo settore in modo da pervenire a una dottrina e una prassi addestrativa comune tale da portare al Multilateral Maritime Law Enforcement (MMLE). In definitiva, si tratta di far si che le navi da guerra ritornino a tenere in considerazione l’attività di sorveglianza sulla navigazione internazionale che, sin dai tempi delle Marine a vela, è stata una delle loro funzioni più tipiche. In questa ottica va vista l’esigenza che le Marine trovino, pur nei differenti vincoli derivanti dalle regolamentazioni nazionali, un terreno comune di applicazione delle pertinenti norme internazionali atto a facilitare la necessaria interoperabilità legale. Un tentativo è stato fatto dalla nostra Marina nel 2011 con l’ltalian Navy Non-Paper on the Identification of the Current Legal Gaps Preventing the Most Effective Use of Maritime Forces in Maritime Law Enforcement (MLE), in the Framework of Maritime Security Operations (MSo), denominato «Policing the High Sea». 3. Limiti all’uso della forza L’uso della forza nell’ambito dello svolgimento delle funzioni di polizia dell’alto mare è consentito secondo le modalità e i limiti previsti dal diritto internazionale. La principale norma positiva di riferimento è, come detto, l’art. 110 dell’UNCLOS. Rilevanti sono tuttavia i principi di diritto internazionale generalmente accettati, applicabili in tempo di pace all’enforcement navale, quali quelli di proporzionalità, necessità e ragionevolezza. A questo riguardo va ricordato il seguente dictum della sentenza del Tribunale arbitrale Guyana/Suriname del 2007: «The Tribunal accepts the argument that in international law force may be used in law enforcement activities provided that such force is unavoidable, reasonable and necessary (para 445)». In particolare: 1) il concetto di proporzionalità va riferito al bilanciamento tra il bene da proteggere (per esempio, la sicurezza dei traffici marittimi, e quello che sarebbe danneggiato dall’azione violenta, tenendo conto del fatto che la protezione dell’integrità fisica della persona è in ogni caso prioritaria e che la deadly force volta a uccidere l’avversario è ammissibile solo nell’ambito di un conflitto armato e non in situazioni diverse quali il contrasto della pirateria (v.) ricadenti sotto il regime dell’UNCLOS; dal punto di vista della proporzionalità vanno anche tenuti presenti gli aspetti relativi alle dimensioni della nave che interviene rispetto a quelle dell’imbarcazione da abbordare; 2) la ragionevolezza è connessa alla proporSupplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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zionalità nel senso che è ragionevole il livello di uso della forza commisurato alle specifiche circostanze al fine di minimizzare il danno a beni e persone; 3) la necessità implica il rispetto di tutte le salvaguardie operative previste oltre alla valutazione dell’opportunità di adottare tutte le possibili alternative all’uso della forza, inclusa la scelta di posporre l’azione. Circa le modalità dell’abbordaggio, l’art. 110 dell’UNCLOS non contiene alcuna prescrizione all’infuori di quella dell’«invio di una lancia al comando di un ufficiale» che si riferisce alla fase iniziale dell’attività ispettiva del team di abbordaggio. Quanto ai mezzi per costringere un’imbarcazione a fermarsi per essere sottoposta a visita è necessario, in assenza di regole codificate, rifarsi a decisioni di corti internazionali come quella — già citata a proposito delle modalità di esercizio del diritto di inseguimento (v.) — del caso giudicato dall’ITLOS con sentenza del 1999 relativo a Saint Vincent and Grenadines, M/V «Saiga» (n. 2) in cui si legge (para 153-159): «[T]he use of force must be avoided as far as possible and, where [...] unaivoídable, it must go beyond what ís reasonable and necessary in the circumstances [...] The normal practice [...] is first to give an auditory or visual signal to stop, using internationally recognized signals. Where this does not succeed, a variety of actions may be taken, including the firing of shots across the bows of the ship. It is only after the appropriate actions fail that the pursuing vessel may, as a last resort, use force. Even then, appropriate warnings must be issued [...] and all efforts should be made to ensure that Iife is not endangered (para 155)». Illuminante è in proposito, nella sua semplicità, il richiamo contenuto nell’art. 8 bis del Protocollo di Londra del 2005 (SUA Protocol) al fatto che le attività di abbordaggio «must take in due account the necessity nót to endanger the safety of life at sea». Connessa a tale obbligo di non porre in pericolo, durante lo svolgimento delle funzioni di polizia dell’alto mare, la sicurezza della vita umana in mare è la questione del rispetto letterale delle COLREGS 72 (v. Prevenzione attività pericolose in mare). Ulteriori limitazioni all’uso della forza in mare possono derivare dall’osservanza di leggi nazionali, regolamentazioni e direttive di comportamento emanate dalle competenti autorità della nave da guerra impegnata in compiti di MLE. Anche gli obblighi nel campo dei diritti umani (v. Diritti dell’uomo in mare) assunti dallo Stato di bandiera della stessa nave presentano specifico rilievo ai fini del rispetto della persona dei marittimi, di imbarcazioni oggetto di attività coercitive o di soggetti da essi trasportati (v. Traffico e trasporto illegale di migranti in mare). 4. Ruolo delle Marine nell’ambito della funzione di Guardia costiera Il problema della titolarità a svolgere funzioni di polizia dell’alto mare da parte di navi pubbliche presenta aspetti diversi a seconda della regolamentazione interna dei singoli Stati. In termini generali l’essenza della questione sta nel postulato secondo cui le navi da guerra sono titolari di diritti e responsabilità per la vigilanza sulla legalità dei traffici marittimi in alto mare (blue waters) mentre il naviglio delle Forze di Guardia costiera e di polizia limita generalmente le sue attività nelle acque territoriali e interne (brown and green waters). L’UNCLOS, in effetti, ha esteso (sia pur in via eccezionale) al «diritto di visita», il tradizionale potere di «diritto d’inseguimento» spettante in alto mare alle navi in servizio governativo non commerciale (v.) nel cui ambito vanno classificate parte delle unità che operano sul mare e al di fuori dell’ordinamento delle Marine da guerra. Un altro elemento da considerare da questo punto di vista, è che l’UNCLOS, all’articolo 29, ha ampliato la nozione di nave da guerra (v.) consentendo ai singoli Stati di considerare tali anche altre unità facenti parte delle Forze armate ma non delle Marine in senso stretto. Sulla base di tali premesse appare evidente come la competenza delle singole Marine in materia di polizia dell’alto mare, secondo l’ordinamento internazionale e le rispettive leggi nazionali, non escluda il concorso, nelle materie di loro competenza, delle Forze di Guardia costiera e di polizia nella vigilanza sulla legalità dei traffici marittimi internazionali. Per converso le Marine, per fronteggiare le nuove minacce alla sicurezza (v. Sicurezza marittima) dei mari che si presentano come un continuum dall’alto mare alle acque territoriali e interne, hanno sviluppato il loro ruolo di attori non militari nello svolgimento di compiti attribuiti alle Forze di Guardia costiera e di polizia. Si pensi alla prevenzione, controllo e contrasto del traffico illegale di migranti, alla protezione dell’ambiente marino (v.) o alla ricerca e soccorso in mare (v.).Tutto ciò ha trovato collocazione nel concetto di «funzione di guardia costiera» elaborato dall’Unione europea (v.) nell’ambito della sua Maritime Security Strategy (EUMSS) del 2014. È chiaro, comunque che, in senso stretto, il concetto di polizia dell’alto mare va riferito solo alle Marine. Per evitare ambiguità è dunque preferibile circoscrivere le competenze delle Forze di Guardia costiera e/o di polizia nell’ambito della specifica «polizia marittima» o anche, per usare altra terminologia, alla «sicurezza del mare». 132
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5. Disciplina ordinamento italiano 5.1 Polizia marittima La polizia marittima è appunto il termine con cui si indica il complesso delle funzioni di prevenzione e repressione devolute, quale autorità marittima (v.), al Corpo delle capitanerie di porto, per mezzo delle unità della Guardia costiera istituita con Decreto interministeriale (Marina mercantile-Difesa) dell’8 giugno 1989. Secondo questo decreto, le sue competenze riguardano i settori della sicurezza della navigazione, della ricerca e soccorso in mare (v.), della protezione dell’ambiente marino (v.) e della pesca (v.), con un campo di azione che può spingersi sino all’alto mare ma che è sostanzialmente limitato alla fascia costiera delle acque interne e delle acque territoriali oltre che alla zona contigua (v.) e alla Zona di protezione ecologica (v. la voce ZEE). La disciplina delle attività devolute al Corpo delle capitanerie di portoGuardia costiera è stata in anni recenti inserita nel Codice dell’Ordinamento Militare (COM), agli articoli 132-137. Tra di esse vi è il «pattugliamento e la sorveglianza della fascia costiera» (art. 132, 2, a), 2), funzione che comprende anche il controllo sul rispetto, da parte delle navi (mercantili e da guerra) straniere, delle condizioni che legittimano l’esercizio del transito inoffensivo (v.) e del soggiorno nelle acque di giurisdizione italiana (v. Transito e soggiorno nelle acque territoriali italiane). 5.2 Sicurezza del mare Al Corpo della guardia di finanza è invece devoluta la c.d. «sicurezza del mare». Le leggi succedutesi nel tempo hanno inizialmente stabilito (L. 23 aprile 1959, n. 189) che il Corpo debba «eseguire la vigilanza in mare per fini di polizia finanziaria e concorrere ai servizi di polizia marittima, di assistenza e di segnalazione»: il che comporta attribuzioni primarie nei settori del contrasto al contrabbando, e del traffico illecito di stupefacenti (v.) i quali possono esplicarsi in alto mare, ratione materiae nei casi in cui si verifichino i presupposti per l’esercizio del diritto di inseguimento (v.). Lo svolgimento in mare di questi compiti da parte del Corpo della guardia di finanza è regolamentato dal D.LGS. 19 marzo 2001, n. 68, che prevede funzioni esclusive di polizia economica e finanziaria in mare. Con D.LGS. 19 agosto 2016, n. 177, sulla razionalizzazione delle funzioni di polizia è stato inoltre disposto, all’art. 2, c., che è attribuita al Corpo della guardia di finanza la «sicurezza del mare»; concetto che va correlato alle specifiche attribuzioni nella materia dell’ordine e sicurezza pubblica in mare che il Corpo è delegato a svolgere per conto del ministero dell’Interno. 5.3 Polizia dell’alto mare La «polizia dell’alto mare» è, come detto, funzione precipua delle navi da guerra della Marina Militare. Il riconoscimento legislativo di questa attività istituzionale e dei suoi aspetti internazionali è stato attuato con la seguente regolamentazione dell’art. 111, lett. a) del Codice dell’Ordinamento Militare (COM): «Rientrano nelle competenze della Marina Militare, secondo quanto previsto dalla legislazione vigente: a) la vigilanza a tutela degli interessi nazionali e delle vie di comunicazione marittime al di là del limite esterno del mare territoriale e l’esercizio delle funzioni di polizia dell’alto mare demandate alle navi da guerra negli spazi marittimi internazionali dagli articoli 200 e 1235, primo comma, numero 4, del Codice della navigazione e dalla legge 2 dicembre 1994, n. 689, nonché di quelle relative alla salvaguardia dalle minacce agli spazi marittimi internazionali, ivi compreso il contrasto alla pirateria». Passando ad analizzare nel dettaglio tale articolo ne possiamo specificare le singole funzioni nel modo che segue: (a) funzione polizia dell’alto mare demandata alle navi da guerra. La norma delinea in modo compiuto le attività istituzionali e prioritarie di vigilanza negli spazi acquei extraterritoriali, vale a dire l’alto mare vero e proprio, nonché le ZEE a esso equiparate ai fini della libertà di navigazione. Le funzioni esercitate, aventi carattere permanente, sono militari nei mezzi impiegati, ma non militari quanto alle finalità e alle regole di comportamento (l’uso della forza è l’estrema ratio, ma essa deve essere non letale, a differenza di quella bellica). La stessa UNCLOS, citata dal COM facendo riferimento alla Legge di ratifica 689-1994, è dunque la fonte principale di legittimazione delle attività non militari svolte dalla Marina in alto mare compresa la «salvaguardia dalle minacce agli spazi marittimi internazionali, ivi compreso il contrasto alla pirateria». Si tratta, infatti, dell’esplicazione di un principio di competenza a carattere generale (non quindi per materia) nell’ambito spaziale dell’alto mare, basato appunto sulla fonte primaria dell’UNCLOS. Quanto al contrasto
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della pirateria, la norma ne afferma la natura istituzionale, non limitata a singole missioni come avvenuto nel passato. Seguendo un criterio di disciplina sistematica della materia, il COM, nel medesimo art. 111, inserisce inoltre due ulteriori funzioni. La prima è la polizia marittima sulle navi mercantili nazionali attribuita dall’art. 200 CN, in alto mare e nelle acque territoriali straniere, alle navi da guerra italiane, quali organi dello Stato incaricati di prevenire e reprimere eventuali illeciti sottoposti alla giurisdizione di bandiera. La seconda, relativa all’attività di polizia giudiziaria in mare, che l’art. 1235, n. 4 CN affida ai comandanti delle navi da guerra nazionali — qualificandoli appunto come «ufficiali di polizia giudiziaria per gli atti che compiono su richiesta dell’autorità consolare o, in caso di urgenza, di propria iniziativa». Per immaginare la casistica di riferimento si può pensare alle attività svolte in alto mare dai nostri comandanti, sotto la direzione funzionale dell’autorità giudiziaria, nel corso delle operazioni di contrasto della pirateria del Corno d’Africa. Ma anche all’accertamento delle violazioni alle norme sulla pesca o sulla protezione ambientale; (b) Vigilanza a tutela degli interessi nazionali. All’UNCLOS sono anche legati altri fondamentali compiti assegnati alla Marina e cioè quelli che l’art. 111, 1 del COM indica come «vigilanza a tutela degli interessi nazionali e delle vie di comunicazione marittime». Si tratta di due distinte funzioni che vanno perciò esaminate separatamente. Iniziando a trattare della vigilanza a tutela degli interessi nazionali deve osservarsi che non è semplice valutare la portata degli interessi marittimi italiani, stante la mancanza di una strategia marittima nazionale che li definisca. Tuttavia, la dimensione economica del cluster marittimo nazionale (circa 3% del PIL e quasi 500.000 occupati secondo le più recenti statistiche) emerge con forza in modo incontrovertibile. L’armamento italiano, con circa 17 milioni di tonnellate di naviglio di bandiera (considerando il genuine link tra società armatoriale/nave/bandiera) è il quarto nel mondo e il secondo in Europa. L’Italia dipende dal mare perché paese importatore di materie prime ed esportatore di prodotti manifatturieri: di qui l’esigenza di disporre di un’adeguata flotta mercantile. Altrettanto rilevante è il settore pesca (al secondo posto in Europa) con i suoi circa 12.000 pescherecci e 60.000 addetti che praticano parte della loro attività in zone di alto mare. Ben conosciuta è inoltre l’importanza dell’offshore energetico nelle aree di piattaforma continentale italiana in cui è autorizzata l’estrazione di idrocarburi liquidi e gassosi, attività di rilievo strategico per limitare la dipendenza energetica dall’estero. I nostri fabbisogni energetici viaggiano via mare sia su petroliere e gasiere, sia tramite gasdotti (v. Cavi e condotte). Quando si parla di protezione degli interessi marittimi nazionali affidata dal COM alla Marina, è dunque a tutto questo che bisogna pensare e cioè all’integrità dei nostri assetti marittimi e delle infrastrutture energetiche. Un ulteriore aspetto dell’interesse nazionale attiene alle aree della piattaforma continentale italiana non ancora delimitate da accordo con gli Stati frontisti su cui questi accampano pretese contrastanti. Basti pensare alla vasta zona del Mediterraneo che si estende verso est tra l’Italia, Malta, la Libia e la Grecia, oppure a quella tra noi e l’Algeria. Al riguardo, la convenzione del 2015 tra la Marina e il ministero dello Sviluppo economico prevede già che la Forza armata collabori relativamente a «sorveglianza e controllo degli impianti e delle aree marittime di possibile sfruttamento del sottosuolo di competenza nazionale, al fine di prevenire e rilevare lo svolgimento di attività non autorizzate». Proficuo è anche il supporto informativo che, in questo campo, viene fornito al ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, ai fini di eventuali azioni di protesta diplomatica; (c) Vigilanza vie di comunicazione marittime. Circa la funzione di vigilanza a tutela delle vie di comunicazione marittime che il COM (art. 110.1) esplicitamente indica, va notato preliminarmente che si tratta di un ruolo storico di primaria importanza svolto dalla nostra Marina al pari delle altre Marine. In Italia il legame tra Marina Militare e quella che un tempo veniva definita Marina mercantile è stato sempre ben saldo e cementato da una comunanza di intenti e tradizioni sotto l’unica bandiera navale nazionale. La libertà di navigazione del naviglio di bandiera italiana è condizione irrinunciabile per assicurare i traffici marittimi che, come abbiamo visto, sono la linfa vitale della nostra economia. Le minacce che possono insidiarla attengono sia alla tendenza di alcuni paesi a esercitare forme di giurisdizione esclusive non in linea con l’UNCLOS (v. Libertà dei mari), sia alla criminalità marittima. Ecco dunque che la navigazione commerciale lungo le principali vie di comunicazione (le SLOCs dall’acronimo di sea lines of communications) va costantemente vigilata dalle Forze navali. Le direttrici del traffico marittimo di interesse italiano si concentrano lungo le vie di transito di Gibilterra, Suez, Bab el-Mandeb e Hormuz. Ed è qui, in quell’area geostrategica che viene definita Mediterraneo allargato (v. Geopolitica del mare), che la nostra Marina esplica prevalentemente le sue attività di vigilanza; (d) Sorveglianza prevenzione inquinamenti. Una specifica funzione a connotazione civile attribuita alla 134
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Marina è la sorveglianza per la prevenzione degli inquinamenti nell’ambiente marino (cui è associato l’accertamento delle relative infrazioni) nelle acque della nostra ZPE (v. Protezione ambiente marinoMediterraneo). Dalla lettura del combinato-disposto delle lettere a) e b) del comma 1 dell’art. 115 dello stesso COM si traggono indicazioni per affermare l’attuale vigenza di questo importante compito di protezione ambientale, inizialmente previsto dalla Legge 31 dicembre 1982 n. 979 sulla Difesa del Mare cui si deve il finanziamento dei pattugliatori classe «Costellazioni». Le unità di questa classe avrebbero dovuto essere impiegate per la vigilanza nelle ZEE. Stante la temporanea rinuncia dell’Italia a istituirle, può dirsi che la funzione è attualmente limitata alla sorveglianza ambientale nella ZPE creata nel Mar Ligure e nel Tirreno, o in futuro in quelle potranno essere istituite. Non va dimenticato, peraltro, che il contrasto dell’inquinamento marino è elemento non secondario della sicurezza marittima (v.); (e) Vigilanza immigrazione irregolare via mare. Un discorso a parte va fatto per quelle che il Decreto del ministero dell’Interno 19 luglio 2003 (emanato di concerto con Difesa, Finanze e Trasporti) definisce come «attività di vigilanza, prevenzione e contrasto dell’immigrazione clandestina via mare». Il ruolo della Marina è disciplinato da questo decreto, sulla base del TU dell’immigrazione (D.LGS. 286-1998) come modificato dalla legge Fini-Bossi del 2002, in modo duplice: da un lato la Marina esplica funzioni concorsuali alle Forze di polizia nelle acque territoriali e nella zona contigua; dall’altro, la Forza armata ha competenza primaria per il contrasto del traffico di migranti negli spazi marittimi extraterritoriali, cui concorrono le Forze di polizia. Non c’è bisogno di dire, infine, che una cosa sono le attività di vigilanza antimmigrazione e un’altra quelle di soccorso di cui la Marina è tributaria, in forma concorsuale, nei confronti dell’autorità nazionale SAR competente, secondo il D.P.R. 662-1994. PORT STATE CONTROL Vedi: Sicurezza marittima. PORTI CHIUSI Vedi: Ricerca e soccorso in mare; Traffico e trasporto illegale di migranti in mare. PRESENZA COSTRUTTIVA Vedi: Diritto d’inseguimento. PREVENZIONE DELLE ATTIVITÀ PERICOLOSE IN MARE 1. Regolamentazione generale La materia rientra nell’ambito più vasto della sicurezza della navigazione (v. Sicurezza marittima) e in particolare di quello specifico settore disciplinato dal «regolamento internazionale per prevenire gli abbordi in mare» allegato alla convenzione di Londra del 20 ottobre 1972 (nota come COLREGS 72). Questa regolamentazione si applica in alto mare (v.), nella ZEE (v.), nella zona contigua (v.) e anche, a meno che lo Stato costiero abbia stabilito norme differenti, nelle acque territoriali (v.) e nelle acque interne (v.) «a tutte le navi» e quindi, in teoria, anche alle navi da guerra (v.). In realtà, c’è da chiedersi se l’applicabilità alle navi da guerra sia da intendersi limitata alla normale navigazione delle stesse navi (per trasferimento o esercitazione) e non all’attività di polizia dell’alto mare (v.) con speciale riguardo all’esercizio del diritto di visita (v.) o del diritto d’inseguimento (v.). 2. Peculiarità attività Maritime Law Enforcement Il problema è che le COLREGS prevedono particolari regole (articoli 6, 7 e 8) concernenti la velocità di sicurezza, il pericolo di collisione e le manovre anticollisione che, ove osservate alla lettera dalle navi da guerra, determinerebbero, di fatto, l’impossibilità di condurre a termine le attività di MLE. Resta fermo, ovviamente, che i principi regolatori delle stesse attività presuppongono la necessaria perizia marinaresca, tenendo conto del rispetto della vita umana e dei correlati criteri di necessità e proporzionalità. In proposito va peraltro considerato che le navi da guerra — ma il discorso vale anche per quelle in servizio governativo (v.) — sono diverse da quelle mercantili perché possiedono caratteristiche costruttive, in termini di velocità e capacità di manovra, che consente loro, in virtù dell’addestramento, di operare Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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in sicurezza in spazi ristretti e a distanze ravvicinate. Il problema va risolto, sulla base dell’analisi del testo dell’art. 110 UNCLOS condotta alla luce del brocardo ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit. Questo porta a ritenere che la stretta applicazione delle stesse regole nell’ambito della polizia dell’alto mare non solo non è formalmente prevista ma in qualche modo potrebbe contraddire gli scopi per cui queste funzioni vengono riconosciute ed esercitate da unità navali concepite e addestrate per manovrare in sicurezza. Indicazioni in senso contrario si traggono tuttavia dalla sentenza nel 2016 del tribunale arbitrale incaricato di decidere il caso China-Filippine (v. Isole). La Corte, con riguardo alle manovre di harassment effettuate da unità navali cinesi per contrastare la vigilanza di motovedette filippine nella pretesa ZEE cinese della secca di Scarborough, ha affermato che «China has, by virtue of the conduct of Chinese law enforcement vessels in the vicinity of Scarborough Shoal, created serious risk of collision and danger to Philippine vessels and personnel. The Tribunal finds China to have violated Rules 2, 6, 7, 8, 15, and 16 of the COLREGS and, as a consequence, to be in breach of Article 94 of the Convention» (para 1109 della sentenza). 3. Misure navali confidenza reciproca Lo specifico settore dei pericoli connessi alla sorveglianza reciproca tra flotte militari in zone marittime ravvicinate, al di fuori delle acque territoriali o interne, costituisce oggetto di specifici accordi stipulati dall’ex Unione Sovietica (v. Successione tra Stati) con gli Stati Uniti (è l’accordo di Mosca del 25 marzo 1972 noto come INCSEA 1972), la Gran Bretagna, la Francia, la Germania, la Spagna. Un accordo di questo tipo è anche quello tra Italia e Russia del 30 novembre 1990. Lo scenario di riferimento di simili intese è quello del periodo della Guerra fredda, quando le flotte dei paesi NATO e del patto di Varsavia usavano tallonarsi a vicenda controllando da vicino lo svolgimento delle operazioni navali della parte avversa e ostacolandole, a volte, con manovre deliberate di harassment, sì da creare effettivo pericolo per la navigazione. Il Memorandum of Understanding Stati Uniti-Cina del 2014 rientra egualmente nel genus delle confidence security building measures (CSBM) (v. Disarmo navale), in quanto contiene «Rules of behaviour for safety of military vessels and military aircraft of the two Sides when they encounter». L’intesa s’inquadra nell’ambito dei principi non vincolanti, sottoscritti nel 2014 tra i paesi partecipanti al Western Pacific Naval Symposium, delle regole di comportamento previste dal Code for Unplanned Encounters at Sea (CUES). Un particolare accordo ascrivibile alle stesse CSBM è l’intesa tecnica tra la Marina Militare italiana e la Marina Militare tunisina (Armèe de Mer Tunisienne) riguardante misure pratiche destinate a evitare gli incidenti in mare e a facilitare la cooperazione operativa, firmato a Roma il 10 novembre 1998. L’intesa era finalizzata a evitare i ricorrenti incidenti tra le rispettive unità impiegate in attività di sorveglianza della pesca nella zona del «Mammellone» (v.). Con esso le due Marine si sono impegnate a far sì che le rispettive unità di pattugliamento impiegate al di là delle acque territoriali in compiti di sorveglianza e protezione di diritti e interessi nazionali: 1) svolgano la loro attività, ivi compreso ove possibile, l’uso delle armi, nel rispetto dei principi e delle norme del diritto internazionale; 2) rispettino, in caso di incontro, la misura di sicurezza di adottare una velocità di 10 nodi non avvicinandosi a una distanza inferiore a 500 yards e segnalando le proprie intenzioni attraverso un codice di segnali speciali ad hoc; 3) si scambino informazioni via radio, sulla situazione in atto nell’area sorvegliata anche con riguardo a eventuali interventi su navi battenti bandiera dell’altra parte. In conformità con la prassi internazionale vigente, le esercitazioni al di fuori delle acque territoriali, le quali possano rappresentare un pericolo per la navigazione marittima o aerea, debbono comunque essere preannunciate con avviso ai naviganti o avviso agli aeronaviganti (NOTAM) (v. Zone pericolose per la navigazione e il sorvolo). PRINCIPIO PRECAUZIONALE Vedi: Pesca; Protezione dell’ambiente marino (Mediterraneo). PROLIFERATION SECURITY INITIATIVE (PSI) L’origine della proliferation security iniziative (PSI) avviata dagli Stati Uniti nel 2003, dopo il caso del 2002 della nave cambogiana So San (noleggiata dalla Corea del Nord per trasportare missili «Scud» destinati allo Yemen e abbordata in acque internazionali da Spagna e Stati Uniti) è da mettersi in relazione 136
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con il pericolo che armi di distruzione di massa, chimiche, batteriologiche o nucleari cadano in mano di terroristi. L’iniziativa, cui aderiscono vari paesi tra cui Australia, Canada, Danimarca, Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna, Italia, Norvegia, Olanda, Polonia, Portogallo, Singapore e Spagna, ha portato all’approvazione, il 5 settembre 2003, dello «Statement of Interdiction Principles» con cui, nel quadro della posizione espressa dalle NU, che considera la proliferazione di «weapons of mass destruction» (WMD) come una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale, è stato stabilito l’impegno ad adottare effettive misure per impedire il loro trasporto da/verso Stati interessati a svilupparle o ad acquisirle unitamente ai loro sistemi di lancio e ai relativi materiali. Tali misure, per quanto lo consenta il diritto interno dei paesi aderenti e i loro obblighi internazionali, dovrebbero consistere: 1) nel consentire l’abbordaggio e la visita, nelle proprie acque territoriali (v.) e in acque internazionali (v.), di mercantili di bandiera ragionevolmente sospettati di essere coinvolti nel traffico di WMD ovvero anche la loro cattura; 2) nello stabilire che l’ingresso nelle proprie acque territoriali di mercantili stranieri coinvolti negli stessi traffici sia sottoposto alla condizione che si possa richiedere il loro fermo o la loro cattura. È inoltre previsto che eguali misure si applichino nei confronti di aeromobili in transito nello spazio aereo (v.) nazionale. Il primo caso di applicazione della PSI si è avuto proprio in Italia. Nel settembre 2003 la nave (di bandiera Antigua e Barbuda noleggiata da armatore tedesco) BBC China diretta in Libia, trasportante migliaia di pezzi per centrifughe impiegate nel procedimento di arricchimento dell’uranio, ha ricevuto l’ordine dalle autorità tedesche, dopo l’uscita dal canale di Suez (v.), di cambiare la propria rotta verso il porto di Taranto ove è entrata con il consenso delle autorità italiane che hanno poi sequestrato il carico illegalmente trasportato. È evidente come la PSI sia espressione di linee guida di policy adottate dagli Stati aderenti, ma non costituisca di per sé una base giuridica giustificativa di attività di interferenza con la libertà di navigazione. Allo stato del diritto internazionale vigente la PSI, nel quadro dell’UNCLOS, si fonda unicamente, difatti, sul consenso dei paesi di bandiera e non può considerarsi rientrante, in senso stretto, nell’ambito delle misure di interdizione marittima (v.). Di rilievo è tuttavia, sul piano giuridico, il fatto che la Risoluzione del Consiglio di sicurezza 1540 (2004) apprestasse uno specifico quadro legale per le attività di prevenzione delle WMD, considerando la proliferazione delle WMD, sulla base del capitolo VII della Carta, come una minaccia globale per la sicurezza internazionale. Vedi anche: Terrorismo marittimo; Zona di identificazione marittima. PROTEZIONE DELL’AMBIENTE MARINO 1. Principi generali Gli Stati hanno l’obbligo di proteggere e preservare l’ambiente marino (UNCLOS, 192). A questo fine possono emanare norme per prevenire i vari tipi di inquinamento marino provenienti da terra, da attività svolte sui fondi marini soggetti alla giurisdizione nazionale o nell’area internazionale dei fondi marini (v.), da immersione, dall’atmosfera, o da navi. La competenza in materia di prevenzione e repressione dell’inquinamento marino derivante da navi spetta allo Stato costiero nell’ambito delle acque territoriali (v.) o della ZEE (v.). In questo quadro può essere stabilito che il rispetto di particolari requisiti antinquinamento sia una condizione per la navigazione di navi straniere nelle acque territoriali e nella ZEE. L’inosservanza di tali condizioni legittima l’esercizio di poteri di polizia da parte dello Stato costiero (UNCLOS, 220) che, ove esistano prove dell’illecito commesso, può sottoporre a fermo e sequestro la nave. Nel caso in cui il rilascio della nave fermata non avvenga prontamente lo Stato di bandiera può deferire (UNCLOS, 292,1) la questione della revoca del fermo a qualsiasi corte o tribunale designato di comune accordo con lo Stato costiero, ovvero, in mancanza di accordo, a un tribunale la cui giurisdizione sia stata preventivamente accettata dallo Stato che ha proceduto al fermo (UNCLOS 287) ovvero al tribunale internazionale per il diritto del mare (v.). Per ciò che concerne le navi a propulsione nucleare o trasportanti materiale nucleare è appositamente previsto (UNCLOS, 23), ai fini del transito inoffensivo (v.) nelle acque territoriali, il possesso di una specifica documentazione di sicurezza nonché il rispetto di particolari misure precauzionali stabilite dalla normativa internazionale, il cui testo fondamentale è la convenzione di Londra del 1974 sulla sicurezza della navigazione (v. Sicurezza marittima). Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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Allo Stato costiero spettano poteri di intervento anche al di fuori delle proprie acque territoriali per evitare che da un sinistro marittimo avvenuto in alto mare (v.) possano derivare danni da inquinamento di notevoli proporzioni alle proprie coste e alle aree marine adiacenti (UNCLOS 221). Lo Stato del porto in cui si trovi una nave che abbia causato un inquinamento in alto mare può inoltre instaurare un procedimento giudiziario nei confronti dell’unità sospettata di aver commesso il fatto (UNCLOS 218). Qualora l’inquinamento sia avvenuto in zone di mare soggette alla giurisdizione di un altro Stato è necessario che questi autorizzi l’esercizio dell’azione giudiziaria. L’assistenza reciproca tra gli Stati, per contrastare l’inquinamento marino, costituisce oggetto della International Convention on Oil Pollution Preparedness, Response and Cooperation, 1990 (OPRC). Gli Stati, attraverso le competenti organizzazioni internazionali possono stabilire regole e standard internazionali per prevenire, ridurre e controllare l’inquinamento proveniente da navi; a questo fine possono anche adottare sistemi di separazione del traffico in modo da minimizzare i pericoli di sinistri che possano causare danni all’ambiente marino (UNCLOS 221). Un altro provvedimento adottabile a questo fine, secondo UNCLOS 211, 6, è la creazione su autorizzazione dell’IMO di un’area marina particolarmente sensibile (v.) Le navi da guerra (v.) e le navi in servizio governativo (v), essendo dotate di immunità sovrana (v.), sono del tutto esentate dall’osservanza della normativa internazionale in materia di protezione ambientale (UNCLOS 236). Nessuna limitazione riguardante la materia può dunque essere loro imposta dallo Stato costiero per condizionarne il transito nelle zone di propria giurisdizione. Lo Stato di bandiera deve tuttavia fare in modo che sia assicurato egualmente il rispetto della normativa ambientale mediante l’adozione di appropriate misure che non ne diminuiscano la capacità operativa. Analoga esenzione è prevista dalla International Convention for the Prevention of Pollution from Ships, 1973 (MARPOL): la convenzione ha, a oggetto, il divieto di scaricare in mare sostanze inquinanti ed è corredata da allegati riguardanti la prevenzione dell’inquinamento causato da: idrocarburi (allegato I); sostanze liquide dannose trasportate alla rinfusa (allegato II); sostanze liquide trasportate in colli, contenitori, cisterne mobili ecc. (allegato III); acqua usata dalle navi (allegato IV) e rifiuti delle navi (allegato V). L’attuazione, nell’ordinamento italiano, del regime di prevenzione stabilito dalla MARPOL è avvenuta con la Legge 31 dicembre 1982 n. 979 sulla Difesa del Mare che vieta a tutte le navi di versare idrocarburi o altre sostanze nocive nelle acque territoriali o interne del nostro paese. La stessa legge impone anche alle navi nazionali di non scaricare in mare tali sostanze al di fuori delle acque territoriali italiane. Si propone finalità di protezione dell’ambiente marino (oltre che della sicurezza della navigazione) anche la convenzione di Nairobi del 18 maggio 2007 sulla rimozione del relitto (v.) di navi affondate, che attribuisce poteri di intervento allo Stato costiero nelle acque interne, nelle acque territoriali, nella ZEE o, se la ZEE non è stata ancora istituita, nella Zona convenzione Nairobi (v.). 2. Zona di protezione ecologica Si rinvia, in materia, alla trattazione contenuta nella voce, Protezione dell’ambiente marino (Mediterraneo). 3. Area marina protetta In termini generali, per area marina protetta (MPA dall’acronimo di maritime protected area) si intende una zona di mare circoscritta in cui lo Stato costiero istituisce un particolare regime di protezione idoneo a prevenire danni all’ambiente naturale e a realizzare obiettivi di gestione relativi alle risorse naturali viventi, stabilendo speciali prescrizioni sulle attività antropiche vietate. Simili zone possono ovviamente essere stabilite nelle acque interne (v.) e territoriali (v.) in cui lo Stato esercita sovranità, ma anche, a certe condizioni, al di là di esse. La prassi italiana in materia è indicata nell’apposito riquadro del presente Glossario dedicato a parchi e riserve marine. 4. Area marina particolarmente sensibile (PSSA) Gli Stati costieri possono istituire nella propria ZEE (v.) aree particolari, definite spazialmente, in cui adottare leggi e regolamenti atti a prevenire, ridurre e tenere sotto controllo l’inquinamento provocato da navi (UNCLOS 211,6). Condizione per l’istituzione di queste aree marine, denominate dall’IMO come «particularly sensitive sea area» (PSSA), è che sussistano evidenti ragioni tecniche correlate alle caratteristiche 138
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ecologiche e oceanografiche della zona e/o ai rischi derivanti dalla navigazione internazionale. Spetta all’IMO autorizzarne l’istituzione dopo consultazioni con gli Stati controinteressati. Linee guida in materia sono contenute nella IMO Resolution A.982 (24) «Revised guidelines for the Identification and Designation of Particularly Sensitive Sea Areas». Nel 1990, prima al mondo, l’Australia ha dichiarato PSSA la zona della barriera corallina. Altra iniziativa è stata assunta nel 2004 lungo le coste europee dell’Atlantico, dopo i noti disastri ecologici avvenuti al largo di Francia e Gran Bretagna. Nel 2011 Italia e Francia hanno istituito una PSSA nello stretto internazionale delle Bocche di Bonifacio (v.). Misure complementari rispetto alle PSSA sono le «special areas» che possono essere istituite, anche in alto mare, per la prevenzione dell’inquinamento da idrocarburi, in applicazione della Convenzione MARPOL (v. Protezione dell’ambiente marino). In queste aree sono stabiliti standard restrittivi per la prevenzione dell’inquinamento da idrocarburi e rifiuti solidi: esse sono già state create in mar Mediterraneo (v.) Mar Nero (v.) e Mar Rosso (v.). 5. Traffico e trasporto in mare di rifiuti pericolosi La materia costituisce oggetto della Convenzione di Basilea del 22 marzo 1989 sul controllo dei movimenti transfrontalieri dei rifiuti pericolosi e sulla loro eliminazione, ratificata dall’Italia con legge 18 agosto 1993, n. 340. L’accordo, concluso nell’ambito dello United Nations Enviromental Programme (UNEP), si propone di porre termine al fenomeno del traffico illecito di rifiuti tossici per terra e per mare. Esso mira in particolare a evitare il ripetersi dei casi di «navi dei veleni» che sino agli anni Novanta del secolo scorso versavano il loro carico (o addirittura venivano esse stesse affondate deliberatamente) nelle acque territoriali o nelle ZEE di Stati in via di sviluppo. Si pensi alla Somalia e alla diffusa contaminazione delle sue acque commessa illecitamente a danno dell’economia locale della pesca: il fenomeno è stato considerato dalle NU una concausa dell’insorgere della pirateria (v.) del Corno d’Africa, vista come reazione a tali ingiustizie. La convenzione stabilisce un sistema di notifiche e autorizzazioni tra Stati di esportazione e Stati di importazione volto a conseguire una piena tracciabilità dei movimenti di rifiuti tossici e a evitare un loro smaltimento illegale mediante la commissione di illeciti sanzionati penalmente. Il principio guida è quello del «consenso informato». Quanto ai diritti degli Stati terzi attraverso le cui acque di giurisdizione passino le navi trasportanti i rifiuti da smaltire, sussiste una differenza di vedute tra gli Stati aderenti alla convenzione che attiene ai principi del transito inoffensivo (v.) nelle acque territoriali e alla libertà di navigazione (v.) nelle ZEE. Nel firmare la convenzione nel 1990, l’Italia ha infatti dichiarato che «considers that no provision of this Convention should be interpreted as restricting navigational rights recognized by international law. Consequently, a State party is not obliged to notify any other State or obtain authorization from it for simple passage through the territorial sea or the exercise of freedom of navigation in the exclusive economic zone by a vessel showing its flag and carrying a cargo of hazardous wastes». Del tutto differente è invece la tesi espressa dall’Egitto nel 1995 secondo cui «foreign ships carrying hazardous or other wastes will be required to obtain prior permission from the Egyptian authorities for passage through its territorial sea. 2. Prior notification must be given of the movement of any hazardous wastes through areas under its national jurisdiction, in accordance with article 2, paragraph 9, of the Convention». Per ciò che riguarda in particolare l’applicazione della convenzione di Basilea in Mediterraneo si rinvia anche alla trattazione contenuta nella voce Protezione dell’ambiente marino (Mediterraneo) del presente Glossario. 6. Regime applicabile ai conflitti armati sul mare Il problema della protezione dell’ambiente marino nel corso dei conflitti armati sul mare (v. Diritto bellico marittimo) si è posto negli ultimi decenni in sede internazionale. La norma fondamentale in materia è contenuta nell’art. 35, n. 3 del I Protocollo di Ginevra del 1977 ratificato dall’Italia e dagli altri paesi NATO ma non dagli Stati Uniti, né dalla Francia e Turchia); questa disposizione vieta l’impiego di mezzi e metodi di guerra atti a provocare danni estesi, durevoli e gravi all’ambiente naturale. Principio analogo è contenuto, anche se in forma non cogente, nella convenzione delle NU del 10 dicembre 1976 sul divieto di utilizzare tecniche di modifica dell’ambiente naturale per scopi militari (denominata Enmod Convention), ratificata sia dall’Italia, con legge 962/80, sia dagli altri paesi NATO. Questa convenzione prevede, infatti, l’impegno degli Stati aderenti a non utilizzare, per scopi militari, tecniche di modifica dell’ambiente naturale aventi Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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effetti estesi, durevoli e gravi. Sulla base delle norme suindicate può concludersi che il principio della protezione dell’ambiente non costituisce di per sé un limite allo svolgimento di operazioni militari. Esso viene, in rilievo, nell’ambito del più generale principio di proporzionalità, nel caso in cui le attività militari possano provocare danni di notevole entità all’ambiente naturale. L’esigenza di rispettare tali principi sembra essere stata alla base della decisione della NATO, nel 1999, durante l’operazione Allied Forces contro l’ex Repubblica Federale di Iugoslavia (FRY), responsabile della violazione di diritti umani in Kosovo, di non bombardare il porto montenegrino di Bar per interrompere il flusso di rifornimenti petroliferi alla stessa FRY. Riserve nei confronti di Israele sono state invece espresse per il bombardamento nel luglio 2006 della centrale elettrica di Tiro, nel corso del conflitto con il Libano, che ha causato gravi danni ambientali a seguito di un esteso sversamento di idrocarburi. PROTEZIONE DELL’AMBIENTE MARINO (MEDITERRANEO) 1. Cooperazione regionale 1.1 Il «Barcelona system» La protezione del mar Mediterraneo (v.) dall’inquinamento (v.) è garantita dalla Convenzione di Barcellona del 16 febbraio 1976, adottata sotto l’egida del Consiglio intergovernativo del programma ambientale delle NU (UNEP) e allo scopo di fornire uno strumento giuridico per l’attuazione del piano di azione per il Mediterraneo (MAP), il quale si propone vari obiettivi, non limitati alla sola lotta antinquinamento, quali: una gestione durevole delle risorse naturali, marine e terrestri; la protezione dell’ambiente marino e delle zone costiere; la tutela della natura e la salvaguardia dei siti e dei paesaggi d’interesse ecologico o culturale. La convenzione, cui aderiscono tutti gli Stati del Mediterraneo, contiene il quadro programmatico in materia della lotta all’inquinamento e della protezione dell’ambiente marino della regione. Essa è stata emendata nel 1995 in relazione all’evoluzione della disciplina internazionale (prima fra tutti la Convenzione di Rio sulla diversità biologica del 1992). Le parti contraenti si sono in particolare impegnate a promuovere programmi di sviluppo sostenibile che applichino il principio precauzionale secondo cui, quando esistano minacce di danni gravi o irreversibili, la mancanza di certezza scientifica assoluta non dovrebbe essere invocata per rinviare le misure di prevenzione; altro principio rimarchevole è quello del «chi inquina paga», per il quale i costi delle misure per prevenire, combattere e ridurre l’inquinamento devono essere a carico di colui che inquina. Da ricordare infine che l’art. 3 bis (rinumerato 5) della convenzione è stato così modificato nel 1995: «Nulla nella presente convenzione e nei suoi protocolli pregiudica l’immunità di giurisdizione [v.] delle navi da guerra o di altre navi appartenenti a uno Stato, o da esso gestite, quando sono abilitate a un servizio pubblico non commerciale. Tuttavia ciascuna parte contraente deve accertarsi che le sue navi e aeromobili che godono dell’immunità sovrana secondo il diritto internazionale agiscano in maniera compatibile con il presente protocollo». Disposizioni volte alla sua applicazione sono contenute in protocolli aventi a oggetto materie relative alla protezione ambientale dall’inquinamento: — da scarichi provenienti da navi o aeromobili e incenerimento in mare (1978 Dumping Protocol); — di origine terrestre (1980 LBS Protocol); — da esplorazione e dallo sfruttamento della piattaforma continentale (1994 Offshore Protocol); — delle zone specialmente protette dedicate alla conservazione della biodiversità biologica (1995 SPA/BD Protocol, il quale prevede, tra l’altro, la possibilità — come si precisa più avanti — che gli Stati parte istituiscano un’area marina specialmente protetta, anche al di là delle acque territoriali. Nel quadro di questo protocollo si colloca l’accordo italo-franco-monegasco RAMOGE (così detto dalle iniziali delle località di Porto S. Raphael, Monaco e Genova) per la protezione dell’Alto Tirreno nel tratto prospiciente il litorale da Saint Hayes a Genova; — da movimenti transfrontalieri di rifiuti tossici e loro smaltimento (1996 Hazardous Wastes Protocol), applicativo della Convenzione di Basilea del 22 marzo 1989 di cui si è detto in precedenza, basato sul principio della «notificazione senza autorizzazione»; — delle zone costiere (2008 ICZM Protocol) il quale appresta gli strumenti per la loro gestione integrata. L’ISPRA ha dedicato alle buone pratiche di governance dei fragili ecosistemi costieri una propria pubblicazione. 140
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1.2 Area marina specialmente protetta (SPAMI) Gli Stati costieri, sulla base dello 1995 SPA/BD Protocol, possono istituire un’area marina specialmente protetta (SPAMI dall’acronimo inglese) per salvaguardare ecosistemi marini, habitat in pericolo di estinzione o necessari per la sopravvivenza delle specie animali e vegetali minacciate, siti di interesse scientifico, estetico, culturale o educativo. L’iniziativa si concretizza mediante l’inserimento dell’area nella «List of Specially Protected Areas of Mediterranean Importance» (SPAMI List). Le SPAMI possono essere istituite in qualsiasi zona di mare del Mediterraneo soggetta alla «sovranità o alla giurisdizione» degli Stati parte, comprese le ZEE (v.), e anche le aree adiacenti di «alto mare» (v.). In quest’ultimo caso la proposta deve essere avanzata, previe consultazioni, da due o più Stati interessati anche se non siano parti del protocollo. La decisione, adottata dagli Stati parti per consenso, si formalizza con l’inclusione nella SPAMI List. Gli Stati interessati possono adottare in esse misure quali la proibizione di scaricare in mare rifiuti, la regolazione del passaggio delle navi (ivi compresi la sosta e l’ancoraggio), il divieto di introdurre specie viventi non indigene, la regolazione delle attività di esplorazione del fondo o di ricerca scientifica. Particolare importanza, in considerazione della situazione della pesca nel Mediterraneo (v.), assume la misura di regolazione o proibizione della pesca. Appartiene alla categoria delle SPAMI il Santuario per la protezione dei mammiferi (v.). In relazione alla conformazione dei fondali del golfo di Taranto (v.) caratterizzato al centro da un enorme canyon sottomarino che sprofonda sino ai 2.000 metri collegandosi all’ancora più profonda fossa ellenica e che proprio per questo rappresenta un habitat ideale per delfini e capodogli, in tempi recenti è stata ipotizzata l’istituzione di una SPAMI al suo interno. Analoga proposta è stata avanzata per il canale di Sicilia.
SPAMI Mediterraneo (Fonte: UNEP).
2. RISERVE E PARCHI MARINI In via generale riserve e parchi marini rientrano nel genus delle aree marine. Secondo la terminologia della Legge 31 dicembre 1982, n. 979 sulla Difesa del Mare, (art. 25), per riserve naturali marine si intendono «ambienti marini dati dalle acque, dai fondali e dai tratti di costa prospicienti che presentano un rilevante interesse per le caratteristiche naturali, geomorfologiche, fisiche, biochimiche con particolare riguardo alla flora e alla fauna marina e costiera e per l’importanza scientifica, ecologica, culturale, educativa ed economica che rivestono». Le norme internazionali di riferimento in materia sono costituite da varie fonti e in particolare dalla convenzione di Ramsar del 1971 sulle zone umide, dalla convenzione 1992 sulla diversità biologica (1992 CBD) e dal citato . Iniziative in questo campo sono state assunte in Mediterraneo, tra cui quelle di Francia, con le riserve naturali delle Bocche di Bonifacio e Port Cros (Hyères); Spagna, con la riserva marina delle isole Columbretes; Grecia, con il Parco marino di Alonissos, nelle Sporadi settentrionali, composto da sette isole nelle cui acque vive la foca monaca. Sui parchi e le riserve marine italiane si rinvia all’apposito riquadro.
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I PARCHI E LE RISERVE MARINE ISTITUITI IN ITALIA La normativa quadro in materia di «aree protette» è costituita dalla Legge 6 dicembre 1991, n. 394, legge quadro che disciplina sia i parchi (nazionali e regionali) sia le riserve naturali di tipo terrestre o marino. Le «riserve marine» sono peraltro oggetto di specifica disciplina nella suindicata legge 979-1982 sulla difesa del mare. Competenze primarie in materia sono attribuite al ministero dell’Ambiente. Sono stati istituiti sinora: Parchi nazionali comprensivi di aree marine — arcipelago toscano (le aree marine comprendono una limitata fascia di acque attorno alle isole di Capraia, Giannutri, Montecristo e Gorgonia); — arcipelago della Maddalena. Nel 2010 è stata avviata, d’intesa con la Francia, la creazione del parco internazionale marino delle Bocche di Bonifacio (v.); — Golfo di Orosei e isola dell’Asinara (nel golfo di Orosei è stata anche creata una riserva marina per la protezione della foca monaca). Riserve marine — Isola di Ustica; — Miramare (Golfo di Trieste); — Isole Tremiti; — Isole dei Ciclopi (Aci Castello, Sicilia orientale); — Torre Guaceto (Brindisi); — Isola di Capo Rizzuto (Crotone); — Isole Egadi (Marittimo, Levanzo, Favignana); — Porto Cesareo; — Penisola del Sinis-Isola del Mal di Ventre (OriParchi e riserve marine istituiti stano); dall’Italia (Fonte: Minambiente). — Isole di Ventotene e di Santo Stefano; — Isola di Tavolara-Capo Coda Cavallo; — Punta Campanella (Penisola Sorrentina); — Cinque Terre (La Spezia); — Portofino; — Capo Carbonara; — Pantelleria; — Regno di Nettuno (Ischia). Un caso a parte è il Santuario per la protezione dei mammiferi (v.), altresì detto Pelagos, rientrante nella tipologia della SPAMI (v.). Si discute se possano essere istituite altre SPAMI per la protezione dei cetacei. Nell’ambito del Comitato scientifico dell’Agreement on the Conservation of Cetaceans of the Black Sea, Mediterranean Sea and contiguous Atlantic Area (ACCOBAMS) ne è stata proposta una per il canale di Sicilia. Episodicamente si è anche parlato, vista la rilevante presenza di delfini al suo interno, di creare una zona marina protetta in forma di SPAMI nel golfo di Taranto (v.).
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3. Zone di protezione ecologica 3.1 Inquadramento generale La giurisdizione in materia di protezione e conservazione dell’ambiente marino (UNCLOS 56, 1, (b) appartiene allo Stato costiero nell’ambito dei diritti relativi alla ZEE. A prescindere dalla proclamazione della ZEE l’esercizio di tale giurisdizione può essere attuata a seguito di istituzione di una Zona di protezione ecologica (ZPE). Benché la ZPE non sia espressamente prevista da norme positive, la prassi internazionale ne ammette l’istituzione quale zona sui generis derivata dalla ZEE, dedicata alla biodiversità e alla protezione dell’ambiente marino. In tal modo si ha in sostanza un parziale esercizio dei diritti propri della ZEE secondo il principio in plus stat minus. In caso di creazione di una ZPE si applica comunque, in via analogica, il regime della ZEE relativamente a estensione, delimitazione ed esercizio di poteri di enforcement. Superate le remore a istituire al di là delle acque territoriali zone di giurisdizione nazionale (v. ZEE (Mediterraneo) e diffusasi perciò la prassi di esercitare in zone sui generis parte dei diritti rientranti nella ZEE, senza tuttavia procedere alla loro proclamazione, alcuni Stati mediterranei hanno adottato le iniziative indicate di seguito. Esse costituiscono una scelta insindacabile e discrezionale degli Stati interessati e come tali non sono state concordate con gli Stati frontisti; tuttavia esse sono inopponibili agli stessi Stati per ciò che concerne il loro limite esterno stabilito unilateralmente: uno Stato non può, infatti, avanzare delle pretese che arrechino pregiudizio alle posizioni dello Stato frontista anche se questo non abbia ancora istituito una propria zona di giurisdizione. L’unica soluzione al problema sta nel raggiungere un accordo di delimitazione o, in alternativa, di deferire il caso a un organo di giurisdizione internazionale. 3.2 Prassi mediterranea (a) ZPE Francia Prima tra tutti gli Stati mediterranei, la Francia ha proclamato nel 2003 la «Zone de protection écologique». Il confine della zona in Mediterraneo, in attesa di accordi con l’Italia e la Spagna, era stato definito unilateralmente, con il Décret n. 2004-33 dell’8 gennaio 2004 il quale stabilisce la linea che si tiene al di qua dell’equidistanza con l’Italia nelle aree a occidente della Sardegna e della Corsica, a oriente delle Bocche di Bonifacio (v. Stretti e canali - Mediterraneo) e nel golfo di Genova. Parte della zona, nel golfo del Leone, è invece sovrapposta alle aree di giurisdizione spagnole determinando un contenzioso con Madrid. Il regime della ZPE è poi mutato in ZEE nel 2012, come si dirà più avanti.
ZPE francese, dal 2012 convertita in ZEE (Fonte: gouv.fr).
(b) ZERP Croazia La Croazia nel 2013 ha decretato l’istituzione di una zona di protezione ittica (v. Pesca Mediterraneo) che riguarda anche la tutela ecologica. Nel provvedimento è, infatti, dichiarato: «il contenuto della zona economica esclusiva che si riferisce (...) alla giurisdizione in merito alla ricerca scientifica nel mare e alla protezione e conservazione dell’ambiente marino». La decisione di istituire una siffatta Zona di protezione ecologica è stata motivata con il fatto che il mar Adriatico (v.) è un mare chiuso o semi chiuso (v.) e che per le sue ristrette dimensioni, le conseguenze di un eventuale inquinamento sarebbero molto più gravi che in altri mari. Quella croata è quindi una ZEE minus generis in cui si esercitano non in toto i diritti sovrani teoricamente spettanti secondo l’UNCLOS. Il confine delle due zone di protezione ittica ed ecologica (indicata in croato come ZERP, acronimo di Zašticìeni ekološko ribolovni pojas) è stato esteso a titolo provvisorio, sino alla stipula di apposito accordo di delimitazione con l’Italia, fino al limite della piattaforma conti-
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nentale stabilito dall’accordo italo-iugoslavo del 1968 (v. Piattaforma continentale - Mediterraneo). L’iniziativa croata è stata contestata dall’Italia, con nota verbale del 15 marzo 2006 (UN LOS Bulletin n. 60, p. 127) (v. le voci: Delimitazione; Protezione ambiente marino-Mediterraneo); ZEE). (c) ZPE Italia La genesi del provvedimento italiano di creazione della Zona di protezione ecologica risale alla richiesta della Francia, avanzata in un incontro bilaterale del maggio 2003, già prima dell’istituzione della propria «Zone de protection écologique», di intavolare trattative per una iniziativa parallela e concordata che portasse a definire il confine delle due zone. Perplessità sull’opportunità di modificare la tradizionale policy in favore del mantenimento dello status quo delle zone di alto mare del Mediterraneo (v. ZEE Mediterraneo), avevano tuttavia impedito al nostro paese di approvare l’iniziativa negli stessi tempi della Francia. Al momento della presentazione del provvedimento alle camere era stato comunque messo in chiaro come «particolarmente urgente appare, al largo delle coste italiane la creazione di una Zona di protezione ecologica, dato il rischio di scarichi involontari di sostanze inquinanti da parte di navi mercantili o di incidenti in navigazione». Pur avendo rinviato la decisione di istituire al di là delle proprie acque territoriali una ZEE, l’Italia ha quindi inteso stabilire una zona in cui esercitare soltanto parte delle competenze che spetterebbero nella stessa ZEE, relativamente alla protezione e alla preservazione dell’ambiente. Alla base dell’iniziativa italiana era anche la considerazione che in mancanza di un provvedimento analogo a quello francese «tutte le navi pericolose per l’ambiente, in particolare le navi battenti bandiera di comodo, sceglierebbero di navigare sul versante italiano, dove sarebbero immuni dall’esercizio della giurisdizione da parte dello Stato costiero, con grave pregiudizio per l’integrità ambientale del nostro paese». Come ulteriore motivo la relazione illustrativa indicava il fatto che: «I futuri negoziati bilaterali di delimitazione vedrebbero l’Italia in una posizione di debolezza, se alla misura francese non fosse contrapposta una corrispondente misura italiana. Analoghe considerazioni valgono riguardo ai negoziati di delimitazione che si prospettano con altri paesi le cui coste sono adiacenti o opposte a quelle italiane». L’approvazione parlamentare è intervenuta con la con Legge 8 febbraio 2006, n. 61, concernente appunto l’istituzione di ZPE oltre il limite esterno del mare territoriale in cui l’Italia esercita giurisdizione in materia di protezione: 1) dell’ambiente marino nonché prevenzione e repressione di tutti i tipi di inquinamento marino, ivi compresi l’inquinamento da navi e da acque di zavorra, l’inquinamento da immersione di rifiuti, l’inquinamento da attività di esplorazione e di sfruttamento dei fondi marini e l’inquinamento di origine atmosferica; 2) dei mammiferi (v. Santuario protezione mammiferi) e della biodiversità; 3) del patrimonio archeologico e storico (v. Protezione patrimonio culturale subacqueo). È esclusa invece l’applicazione della legge alle attività di pesca. L’iniziativa ha valore programmatico di legge-quadro in quanto rinvia a successivi provvedimenti la sua concreta attuazione. È, infatti, previsto che l’istituzione delle singole ZPE italiane sia attuata mediante decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, da notificare agli Stati interessati. La definizione dei confini di ciascuna ZPE avviene per accordo con gli Stati frontisti. Al riguardo, l’art. 1, n. 3 della legge, prevede tuttavia che: «Fino alla data di entrata in vigore di detti accordi, i limiti esterni delle Zone di protezione ecologica seguono il tracciato della linea mediana, ciascun punto della quale è equidistante dai punti più vicini delle linee di base del mare territoriale italiano e di quello dello Stato interessato». Tale procedura è stata adottata in occasione della prima istituzione di una ZPE italiana, attuata con il D.P.R. 27 ottobre 2011 n. 209, relativa al Mediterraneo nord-occidentale, al Mar Ligure e al mar Tirreno, con esclusione dello stretto di Sicilia. In attesa di pervenire a un accordo con la Francia, i limiti esterni sono stati provvisoriamente fissati al di qua della mediana con la Francia e a nord di quella con l’Algeria e del confine occidentale della piattaforma continentale con la Tunisia. La definizione consensuale di tali limiti è avvenuta mediante il già citato accordo italo-francese di Caen del 21 marzo 2015 (non ancora entrato in vigore al 2020). I controlli all’interno della ZPE italiana e l’applicazione delle sanzioni per la violazione delle norme ambientali applicabili sono affidati alle autorità competenti in conformità alle norme del nostro ordinamento. Attribuzioni primarie e concorsuali in materia sono rispettivamente attribuite dal Codice dell’Ordinamento Militare (COM), al Corpo delle capitanerie di porto-Guardia costiera, e alla Marina Militare (v. Polizia dell’alto mare). 144
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ZPE istituita dall’Italia nel 2011 (Fonte: IIM).
(d) ZPE Slovenia La Slovenia ha assunto un’iniziativa unilaterale istituendo, con legge del 4 ottobre 2005 (UN DOALOS Bulletin n. 60, una propria ZPE che, a partire dal punto T5 della linea di delimitazione del golfo di Trieste stabilita dagli accordi di Osimo del 1975 (v. Acque territoriali-Mediterraneo), si estende sino al parallelo 45°10’ sovrapponendosi alla ZPE croata. PROTEZIONE DELLA BIODIVERSITA’ MARINA Nel quadro delle azioni per rafforzare la governance dell’alto mare (v.), la comunità internazionale si è posto il problema del depauperamento delle risorse genetiche derivante dall’eccessivo sfruttamento delle risorse ittiche indotto dalla libertà di pesca (v.) e degli effetti dell’inquinamento dell’ambiente marino e dei cambiamenti climatici. Per rimediare al vuoto normativo esistente in materia è stato avviato, nell’ambito delle NU, un esercizio volto ad approvare una convenzione, applicativa dei principi dell’UNCLOS, dedicata alla conservazione e all’uso sostenibile delle risorse marine. Il testo (a fine 2020 ancora in fase di redazione) ha per oggetto le «risorse genetiche marine intese come qualsiasi materiale di flora e fauna marina, animale, microbico o di altra origine, [trovato in, o] proveniente da aree al di fuori della giurisdizione nazionale e contenente unità funzionali ereditarie con valore reale o potenziale delle loro proprietà genetiche e biochimiche». Per la loro protezione si prevede di regolamentare l’accesso e la ripartizione dei benefici che ne derivano, la valutazione sull’impatto ambientale di attività potenzialmente dannose, la possibilità di istituire aree marine protette (MPA), nonché il trasferimento di tecnologie e capacity building in favore degli Stati con risorse economiche limitate.
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Il nuovo accordo, quando entrerà in vigore, sarà vincolante solo tra gli Stati parte che si impegnano a esercitare giurisdizione verso le navi di bandiera; esso non potrà perciò stabilire obblighi valevoli per gli Stati terzi. Anche perché non vi sarà alcuna modifica ai principi dell’UNCLOS ma solo un loro completamento. Il problema riguarda principalmente lo svolgimento delle attività militari connesse all’esercizio della libertà di navigazione (v. Libertà dei mari) in eventuali MPA. Altra questione riguarda l’ipotetica creeping jurisdiction di determinati Stati costieri in zone adiacenti alle proprie aree di ZEE e piattaforma continentale proprio al fine di espandere surrettiziamente la propria giurisdizione in aree di alto mare. PROTEZIONE DEL PATRIMONIO CULTURALE SUBACQUEO 1. Principi generali Il principio che impone agli Stati l’obbligo di tutelare i beni di carattere storico-archeologico scoperti in mare e di cooperare a questo scopo è espressamente stabilito da UNCLOS 303, 1; la norma non fa distinzione tra le zone di mare in cui trova applicazione. Dato per scontato che lo Stato costiero abbia pieno diritto sui beni giacenti nelle sue acque interne (v.) e nelle sue acque territoriali (v.), UNCLOS 303, 2, prevede anzitutto che lo stesso Stato possa sottoporre ad autorizzazione la rimozione di oggetti archeologici e storici rinvenuti nella zona archeologica (v.). Una ulteriore regolamentazione è stabilita per i reperti storico-archeologici trovati nell’area internazionale dei fondi marini (v.) da UNCLOS 149. Essi devono essere conservati o ceduti «nell’interesse dell’intera umanità» tenendo tuttavia conto dei diritti preferenziali dello Stato di provenienza in senso stretto o di quello di origine culturale, storica o archeologica. Un’incertezza applicativa esiste invece per i beni giacenti sul fondo della piattaforma continentale (v.) al di là delle acque territoriali o, ove istituita, della ZEE (v.). In assenza di previsioni espresse che assimilino gli stessi beni alle «risorse naturali» (v.) per il cui sfruttamento sono attribuiti diritti sovrani allo Stato costiero, si è ritenuto che sia applicabile il regime della libertà dell’alto mare (v.). Secondo questa interpretazione lo scopritore di reperti giacenti sulla piattaforma continentale potrebbe appropriarsene senza alcuna autorizzazione dello Stato costiero. 2. Convenzione UNESCO 2001 Tale lacuna normativa è stata però parzialmente colmata dal regime convenzionale — valevole, come tale, soltanto per gli Stati parte — stabilito dalla Convenzione UNESCO di Parigi sulla protezione del patrimonio culturale sommerso, approvata nel 2001. Punti rilevanti della convenzione sono: 1) nozione di «patrimonio culturale subacqueo» come qualsiasi traccia di esistenza umana di carattere culturale, storico o archeologico che sia stata sott’acqua per almeno 100 anni, quale reperti archeologici, navi o imbarcazioni, oggetti preistorici; 2) fissazione del criterio prioritario della conservazione in situ dei beni culturali sommersi rispetto a qualsiasi altra attività e del divieto di sfruttarli commercialmente; 3) obbligo per gli Stati parte di stabilire uno specifico sistema di comunicazione, notifica e autorizzazione per le attività riguardanti il patrimonio subacqueo ubicato nella zona economica esclusiva, sulla piattaforma continentale o nell’area internazionale dei fondi marini; 4) esenzione per le navi da guerra (v.) e le altre navi in servizio governativo non commerciale (v.), impegnate in attività operativa, in forza della loro condizione di immunità di giurisdizione (v.) dall’osservanza delle prescrizioni di comunicare l’eventuale scoperta di beni archeologici. 3. Navi da guerra affondate Nella convenzione UNESCO non è stato accolto il principio secondo cui lo Stato di bandiera conserva indefinitivamente i propri diritti su navi da guerra e navi di Stato affondate in relazione alla loro immunità. Il problema si pone sia per i relitti giacenti da non lungo tempo (meno di 100 anni) in acque internazionali o nelle acque territoriali di un altro Stato, che per quelli di epoca più antica per i quali è difficile provare una continuità di dominio da parte dello Stato di bandiera. L’imprescrittibilità dei diritti dello Stato di bandiera di quella che al momento dell’affondamento era una nave da guerra o una nave usata per servizio non commerciale è stata comunque affermata, in via di principio, nel 2015 dalla risoluzione, emanata a Tallin, dell’Institut de Droit International i cui articoli 3 e 4 stabiliscono che: «Without prejudice to other provisions of this resolution, sunken State ships are immune from the jurisdiction of any State other than 146
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the flag State. Sunken State ships remain the property of the flag State, unless the flag State has clearly stated that it has abandoned the wreck or relinquished or transferred title to it». Un consenso internazionale sembra per ora essersi formato sul fatto che le navi da guerra e di Stato sono sacrari militari intangibili. Al riguardo, l’art. 2, 9 della convenzione si limita a stabilire genericamente che «appropriato rispetto è dovuto a tutti i resti umani giacenti in acque marittime» senza fare quindi alcuna distinzione tra le spoglie dei marinai di navi da guerra rispetto a quelle delle navi mercantili. La già citata risoluzione di Tallin riconosce esplicitamente la natura di war Graves dichiarando, all’art. 12, quanto segue: «Due respect shall be shown for the remains of any person in a sunken State ship. This obligation may be implemented through the establishment of the wreck as a war cemetery or other proper treatment of the remains of deceased persons and their burial when the wreck is recovered. States concerned should provide for the establishment of war cemeteries for wrecks». In relazione ai principi suindicati, l’Italia ha chiesto a Croazia e Albania di tener conto dei propri diritti sui relitti delle corazzate Re d’Italia (affondata nella battaglia di Lissa nel 1866) e Regina Margherita (affondata a Valona nel 1916 a seguito di urto con una mina). 4. Normativa italiana Norme per la tutela del patrimonio culturale subacqueo sono previste, dal D.LGS. 22 gennaio 2004, n. 42 «Codice dei beni culturali e del paesaggio», il quale stabilisce che appartengono allo Stato i beni mobili e immobili di interesse archeologico rinvenuti sui «fondali marini» delle acque interne e territoriali, e che gli oggetti archeologici e storici rinvenuti nei fondali della zona di mare estesa 12 mn dal limite esterno del mare territoriale sono tutelati ai sensi della convenzione UNESCO (v. Zona archeologica. La Legge 8 febbraio 2006, n. 61 sull’istituzione di zone di protezione ecologica (ZPE) oltre il limite esterno del mare territoriale (v. Protezione dell’ambiente marino - Mediterraneo) ha stabilito che l’Italia, al loro interno, esercita anche giurisdizione per la preservazione del patrimonio archeologico e storico in conformità all’UNCLOS e alla stessa convenzione di Parigi del 2001. Un ulteriore rafforzamento della tutela giuridica del patrimonio culturale subacqueo si è avuta con Legge 23 ottobre 2009, 157 di ratifica della Convenzione UNESCO del 2001 che ha definito le competenze delle Autorità cui indirizzare le notifiche da parte delle navi che abbiano rinvenuto reperti in tutte le zone di giurisdizione italiana ai sensi della Convenzione UNESCO (per ora limitate, come detto, alla zona archeologica e alla ZPE). QUARANTENA MARITTIMA (maritime quarantine) Vedi: Blocco navale. QATAR Vedi:
Delimitazione; Golfo Persico.
REGIONE PER LE INFORMAZIONI DI VOLO (flight information region) La regione per le informazioni di volo è un’area dello spazio aereo internazionale (v.) in cui, sulla base delle prescrizioni dell’Organizzazione internazionale dell’aviazione civile (ICAO), è previsto che gli aeromobili comunichino allo Stato costiero informazioni sul proprio piano di volo al fine di salvaguardare la sicurezza del traffico aereo. La terminologia usata dall’ICAO per indicare questo tipo di area è flight information region (FIR). L’obbligo di fornire informazioni di volo riguarda gli aeromobili civili. L’art. 3 a) della Convenzione di Chicago del 1944 (sulla base della quale sono state istituite le FIR) stabilisce, infatti, la non applicabilità della normativa ICAO agli aeromobili militari (v.). Gli stessi aeromobili non sono quindi tenuti a seguire queste prescrizioni quando compiono operazioni di volo da navi su cui siano imbarcati che si trovino in alto mare (v.) e che effettuino autonomamente il controllo dello spazio aereo. Da questo punto di vista, la non applicabilità del regime FIR agli aeromobili militari (che comunque devono tenere nel dovuto conto la sicurezza del traffico aereo civile) riguarda anche il caso in cui questi, pur provenendo da basi terrestri, si limitino al passaggio laterale nella FIR senza essere diretti verso il territorio dello Stato costiero. Un contenzioso sussiste tra Grecia e Turchia per la FIR. Si rinvia, al riguardo, alla trattazione contenuta nella voce relativa al mar Egeo (v.). Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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La definizione dei confini delle FIR avviene normalmente per accordo tra gli Stati interessati nell’ambito dell’ICAO. Eventuali dispute dovrebbero essere sottoposte al voto del Consiglio dell’ICAO e, come rimedio ulteriore, alla giurisdizione della Corte internazionale di giustizia. Circa la coincidenza dei limiti di zone FIR e zone SAR si veda la voce, Ricerca e soccorso in mare. Vedi anche: Zona di identificazione aerea.
Zone FIR del Mediterraneo (Fonte: ICAO).
RELITTO Secondo la convenzione di Nairobi del 2007 (v. Protezione ambiente marino) costituisce un relitto (wreck) una nave affondata o arenata a seguito di sinistro marittimo, ovvero una sua parte o un oggetto che era a bordo di essa, oppure qualsiasi oggetto che si perda in mare da una nave e che è arenato, affondato o alla deriva. I diritti del proprietario di un relitto identificabile come tale sono incondizionati, fatto salvo il compenso spettante a chi li recupera (UNCLOS 303). Un relitto, qualora sia rimasto in acqua per più di cent’anni, può assumere carattere culturale, storico o archeologico tale da farlo identificare come «underqater culturale heritage» soggetto al regime della protezione del patrimonio culturale sommerso (v.). L’ordinamento italiano disciplina nel Codice della Navigazione (articoli 501-510) sia il recupero sia il ritrovamento di relitti, stabilendo la misura del compenso spettante ai soggetti aventi titolo, a condizione che ne sia informata l’autorità marittima (v.). RICERCA E SOCCORSO IN MARE 1. Disciplina internazionale Ogni Stato deve obbligare i comandanti delle navi che battono la sua bandiera — sempre che ciò sia possibile «senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio o i passeggeri» — a prestare assistenza a naufraghi trovati in mare o a portarsi immediatamente in soccorso di persone in pericolo quando si abbia notizia del loro bisogno di aiuto (Ginevra II,12,1; UNCLOS 98,1). Tale obbligo prescinde dal regime giuridico della zona di mare in cui avviene il soccorso nel senso che può esplicarsi, al di fuori dell’alto mare (v.) in 148
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senso stretto, tanto nelle acque internazionali (v.) come nella zona economica esclusiva (v.) o nella zona contigua (v.) di uno Stato diverso da quello di bandiera. Il soccorso a persone o navi in pericolo è altresì possibile nelle acque territoriali (v.) straniere (UNCLOS 18, 2) se finalizzato ad assistere, in situazioni di necessità, persone in difficoltà. Questa attività costituisce una deroga al principio del «passaggio continuo e rapido» previsto dal regime del transito inoffensivo (v.), ma non intacca la competenza esclusiva dello Stato costiero sia per il coordinamento dell’operazione sia per l’intervento di mezzi, quali rimorchiatori, specificatamente adibiti a prestare assistenza a navi in difficoltà. Tutti gli Stati provvisti di litorale marittimo sono altresì tenuti a creare e mantenere un servizio di ricerca e salvataggio (indicato come SAR dall’acronimo di Search and Rescue). A questo fine essi possono far ricorso ad accordi regionali di mutua assistenza con gli Stati confinanti (Ginevra II,12,2; UNCLOS 98,2) basati sul principio che le autorità dello Stato costiero responsabili dei servizi di ricerca e salvataggio, qualora vengano informate dalle autorità di un altro Stato che vi sono persone in pericolo di vita nella zona SAR di propria competenza, sono tenute a intervenire «senza tener conto della nazionalità o della condizione giuridica» di dette persone. La cooperazione tra Stati quindi è uno dei pilastri fondanti del regime internazionale del SAR; l’altro è quello delle responsabilità ricadenti sui singoli paesi costieri all’interno delle aree di propria competenza. Non è tuttavia necessario, in teoria, che i servizi SAR siano assicurati in proprio dallo Stato che è responsabile della loro organizzazione. È noto, per esempio, che in certi paesi di tradizione anglosassone sussisteva una dimensione privatistica del soccorso, attività a scopo di lucro remunerata secondo i criteri stabiliti dalla convenzione Salvage del 1989 (v. successivo para 6). Quel che è certo è che tutti gli Stati provvisti di litorale marittimo sono tenuti a mantenere un servizio SAR: l’attuale prassi internazionale è nel senso che vengano impiegate per l’esigenza navi pubbliche specificatamente dedicate, senza escludere il concorso — su base occasionale e tenendo conto delle loro limitazioni funzionali di impiego — delle navi mercantili. In questo ambito si colloca, nel quadro dell’assistenza in mare ai migranti, il fenomeno delle navi delle ONG impiegate nel SAR in forma sussidiaria. Quelle che possiamo definire come navi umanitarie, da un lato assicurano, ove se ne presenti la necessità, il c.d. soccorso spontaneo che i paesi di bandiera sono tenuti a imporre ai comandanti delle proprie navi sulla base del principio del «genuine link» stabilito dall’art. 91 dell’UNCLOS; dall’altro, le stesse — come fatto dall’Italia negli anni tra il 2015 e il 2018 — possono essere impiegate dai servizi SAR nazionali competenti per area i quali siano informati della loro posizione in prossimità di un’imbarcazione in pericolo. Il ruolo sussidiario svolto dai privati è dunque uno dei pilastri del sistema internazionale del SAR; altro, come detto, è invece quello della cooperazione tra gli Stati. Prima dell’UNCLOS, la Convenzione sulla sicurezza della vita umana in mare (SOLAS 1974) aveva previsto che gli Stati parte organizzassero meccanismi di comunicazione e coordinamento in situazione di distress in mare nelle loro «rispettive aree di responsabilità» e per il salvataggio di persone in pericolo «intorno alle loro coste». In questo modo si era legittimata l’istituzione delle Zone SAR ora regolamentate dalla Convenzione di Amburgo del 27 aprile 1979 sulla ricerca e il salvataggio marittimo di cui si tratterà più avanti. 2. Concetto di «distress» Presupposto del SAR è il concetto di «distress» che la stessa SOLAS (annex, ch. 1, para. 1.3.11) definisce come «[a] situation wherein there is a reasonable certaint that a vessel or a person is threatened by grave and imminent danger and requires immediate assistance». Al riguardo, va ricordato che sussistono differenti vedute tra gli Stati sulla possibilità o meno che possa configurarsi distress anche nel caso di imbarcazioni sovraccariche che tuttavia appaiano seguire una ben precisa rotta in buone condizioni di navigabilità. Questo è l’approccio operativo seguito da Malta e Grecia in tutti quei casi in cui, in assenza di una richiesta di soccorso (distress call) da parte di singole imbarcazioni trasportanti migranti, si è scelto di lasciar loro proseguire il viaggio verso l’Italia. Diverso invece l’orientamento dell’Italia basato su una interpretazione non restrittiva del concetto di distress che porta a dichiarare una situazione SAR ogni qual volta si configuri una situazione di pericolo per imbarcazioni inadatte a navigare. Simili questioni assumono speciale valenza se rapportate ai problemi del salvataggio nelle zone SAR delle persone coinvolte nel traffico e trasporto illegale di migranti (v.). In questo ambito si colloca il concetto di place of safety (POS) che con il SAR è interfacciato, anche se ha una sua autonomia concettuale e giuridica. Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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3. Zona di ricerca e soccorso (Zona SAR) 3.1 Regime generale Le zone extraterritoriali di acque internazionali entro i cui limiti lo Stato costiero fornisce servizi di ricerca e di salvataggio sono le zone SAR (annesso Convenzione Amburgo, para 1,3,1). Si tratta di «aree di responsabilità» funzionale per il salvataggio di persone in pericolo «intorno alle coste»: al loro interno lo Stato costiero si impegna a istituire un centro e dei sotto centri di coordinamento, a designare delle unità costiere di soccorso, a disporre di strutture, mezzi navali e aerei, centri di telecomunicazione di soccorso e personale commisurato alle esigenze. La convenzione di Amburgo chiarisce, infatti, che un servizio SAR, per essere efficace, deve essere gestito e sostenuto adeguatamente, oltre che essere integrato in uno specifico contesto normativo, sulla base del principio che «le parti dovrebbero organizzare i loro servizi di ricerca e di salvataggio in modo da poter far fronte rapidamente agli appelli di soccorso» (annesso, para 2,1,8). I limiti delle zone SAR vanno definiti per accordo, anche se resta fermo che non si tratta di confini politici: la norma è, perciò, che questi limiti non coincidano mai con le frontiere marittime. La creazione di una zona SAR non è dunque un diritto ma un dovere intrinsecamente subordinato alla circostanza che lo Stato costiero interessato sia in grado di garantire l’operatività continua ed efficace dei servizi SAR nell’area di propria competenza. Da questo punto di vista destano perplessità le posizioni più volte espresse da alcuni Stati, come fatto da Malta, in difesa della intangibilità della propria zona SAR, quasi si trattasse di vero e proprio spazio territoriale. Le zone SAR non dovrebbero sovrapporsi l’una all’altra. Questo principio ammette deroghe dal momento che le parti, se non raggiungono un accordo sull’esatta delimitazione delle rispettive zone SAR, hanno il dovere di coordinarsi tra loro (annesso, 2, 1, 5). L’esigenza della certezza dei confini delle zone SAR deriva dal fatto che esse rientrano nella responsabilità dello Stato costiero e sottostanno quindi al suo controllo e al suo potere di intervento. La prassi internazionale contempla tuttavia casi di creazione di joint SAR zone, sorta di zone grigie di responsabilità congiunta, in cui gli Stati possano condurre operazioni cross border con poteri reciproci di intervento. Il principio che ispira simili iniziative è ovviamente quello della cooperazione per condividere, nell’interesse della comunità internazionale, oneri e responsabilità di una funzione che ha valore universale. Un caso di studio è l’Accordo del 2004 tra Australia e Indonesia su una zona di intervento comune che lascia impregiudicata la sovrapposizione delle rispettive aree SAR. A prescindere da questa iniziativa altri esempi di condivisione di responsabilità nel soccorso si hanno nell’accordo SAR per l’Artico tra Canada, Danimarca, Finlandia, Islanda, Federazione Russa, Regno Unito e Stati Uniti. Esiste anche un simile accordo per il Mar Nero tra Bulgaria, Georgia, Romania, Russia e Ucraina. 3.2. Prassi mediterranea La convenzione di Amburgo del 1979 prevede la stipula di accordi regionali per la delimitazione tra Stati frontisti o contigui delle zone SAR di competenza nazionale relative sia alle acque territoriali, sia alle acque internazionali adiacenti. La delimitazione di queste zone non è legata a quella delle frontiere marittime esistenti né pregiudica il regime giuridico delle acque secondo l’UNCLOS. L’Italia è stata il primo paese del Mediterraneo a prendere l’iniziativa di negoziare accordi di questo tipo con i paesi frontisti. Nel corso della conferenza di Ancona del 19 maggio 2000 (v. mare Adriatico) sono stati firmati specifici Memorandum of Understanding sulla cooperazione nelle operazioni di ricerca e soccorso tra l’Italia e la Slovenia, la Croazia, l’Albania e la Grecia. Un ulteriore Memorandum è stato siglato con l’Algeria il 14 novembre 2012.
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Zone SAR Mediterraneo centro-orientale (Fonte: Maricogecap).
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(a) Accordi SAR Italia I limiti delle zone SAR di rispettiva pertinenza dell’Italia e degli altri Stati definiti con tali Memorandum sono del tutto svincolati da quelli degli spazi marittimi di giurisdizione nazionale. Unica eccezione è il confine della zona SAR italo-slovena che ha dovuto coincidere ipso jure con la delimitazione delle acque territoriali dei due paesi nel golfo di Trieste stabilita dall’accordo di Osimo del 10 novembre 1975 (v. Acque territoriali-Mediterraneo). In assenza di specifici accordi di delimitazione, i limiti delle zone SAR stabiliti unilateralmente sono comunicati dagli Stati all’IMO che ne prende atto. Per quanto riguarda il mar Mediterraneo (v.) nel corso della conferenza IMO di Valencia del 1997 si è provveduto ad approvare un «General Agreement on a Provisional SAR Plan» in cui sono fissati consensualmente i limiti delle zone SAR mediterranee. Un caso di definizione unilaterale di zona SAR è quello di Malta. Secondo quel che risulta dal global SAR plan elaborato dall’IMO, con l’intento di dare informazioni sulle organizzazioni nazionali dei servizi responsabili in materia SAR, la SAR maltese ha un’estensione vastissima, pari a circa 250.000 kilometri quadrati che coincide con la «flight information region» (FIR) (v. Regione per le informazioni di volo) e che si prolunga dalle isole Pelagie sin sotto Creta, per non meno di 500 mn. La zona SAR di Valletta si sovrappone, nella parte a nord e a ovest con la corrispondente zona SAR italiana definita con il D.P.R. 664-1994, coprendo addirittura le acque territoriali di Lampedusa e Lampione. A ovest lambisce le acque territoriali della Tunisia impedendo a questo paese di svolgere in autonomia operazioni SAR a poche miglia dalle proprie coste. Queste anomalie della zona SAR maltese dovrebbero essere corAree di sovrapposizione tra zona SAR italiana e maltese rette a seguito di specifico accordo di deli(Fonte: Avvenire). mitazione con l’Italia e con la Tunisia. Va notato peraltro che al 2015 nessun accordo di cooperazione SAR risulta essere stato mai stipulato tra Malta e Italia, nonostante gli intensissimi rapporti di cooperazione militare e marittima tra i due paesi siano di lunga data, evidentemente proprio a motivo della questione dell’area di sovrapposizione. In realtà riserve sull’estensione della zona SAR di Malta, anche in rapporto alla limitata capacità maltese in termine di mezzi adibiti al soccorso, sono più volte state espresse dall’Italia nel corso delle ricorrenti ondate migratorie (v. Traffico e trasporto illegale di migranti in mare). Il fatto è che, in assenza di interventi di soccorso delle autorità di Malta o su loro richiesta, l’organizzazione SAR italiana si è sempre attivata nella zona di competenza maltese per dare assistenza a migranti in pericolo. Problemi sono sorti più volte sul porto di sbarco delle persone salvate (v. place of safety citato in precedenza nella presente voce) nella SAR maltese che Valletta sostiene essere non il suo territorio ma il posto più vicino al luogo di soccorso (che spesso è Lampedusa). (b) Disputa SAR greco-turco-cipriota Anche tra Grecia e Turchia è aperto da anni un contenzioso in materia di SAR. La Grecia ha, infatti, istituito una zona SAR di propria giurisdizione che comprende tutte le zone di acque internazionali dell’Egeo, oltre ovviamente alle acque territoriali greche. Il criterio seguito dalla Grecia è stato quello di far coincidere la zona del SAR marittimo con quella del SAR aereo ricadente nella propria FIR (v. Regione per le informazioni di volo). La Turchia, per parte sua, ritiene invece che la propria giurisdizione SAR si estenda sino alla metà dell’Egeo e alla parte di Cipro occupata (c.d. «Repubblica turca Cipro del nord»). Nel 1989 Ankara ha, infatti, istituito una zona SAR di questa estensione. È evidente che questa posizione è in linea con le altre pretese riguardanti la piattaforma continentale (v.) e la FIR. La questione della competenza in materia di SAR è stata all’origine del noto caso dell’isolotto di Imia/Kardak appartenente al Dodecanneso e rivendicato da Grecia e Turchia (v. mar Egeo). L’incidente
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che ha dato origine alla questione è stato, infatti, l’incaglio, avvenuto il 25 dicembre 1995, di un mercantile turco sulle coste dell’isolotto: l’intervento SAR delle autorità greche venne rifiutato assumendo che la competenza in materia spettava alla Turchia trattandosi di proprio territorio. La disputa SAR si è riaccesa nel 2014 quando Cipro ha concluso un accordo di delimitazione SAR con la Grecia che ignora la pretesa di Ankara a una propria zona SAR tra le coste anatoliche e la RTCN. 4. SAR e place of safety (POS) La disciplina del POS era stata delineata dall’IMO a seguito del caso, verificatosi nel 2001, del mercantile norvegese Tampa il quale, dopo aver salvato a sud dell’Indonesia centinaia di profughi afgani alla deriva su un’imbarcazione di fortuna, aveva cercato di trasportarli in Australia ma era stato respinto dalle autorità locali. Il fatto indusse l’IMO ad approvare Risoluzione A.920(22) sul «Treatment of Persons Rescued at Sea» che così definisce il POS: «A place of safety (as referred to in the annex to the 1979 SAR convention, paragraph 1.3.2) is a location where rescue operations are considered to terminate. It is also a place where the survivorsiì safety of life is no longer threatened and where their basic human needs (such as food, shelter and medical needs) can be met. Further, it is a place from which transportation arrangements can be made for the survivor’s next or final destinationª. Il contenuto di tale risoluzione è stato recepito nella parte V, reg. 33, della SOLAS stabilendo, tra l’altro, un obbligo di coordinamento e cooperazione tra gli Stati parte nell’assicurare che il comandante di un mercantile che abbia assistito i migranti raggiunga un POS. La regola afferma la primaria responsabilità dello Stato nella cui zona SAR i migranti siano stati salvati ai fini del loro sbarco in un POS, nei seguenti termini: «The Contrarcting Government responsible for the SAR region in which such assistance was rendered shall exercise primary responsibility … that survivors assisted are disembarked …and delivered to a place of safety». Questa chiara statuizione ha una sua logica alla luce dei principi di cooperazione che informano il sistema del SAR. Purtroppo essa non ha natura obbligatoria ma vincola solo gli Stati che hanno ratificato l’emendamento alla SOLAS: è questo il caso di Malta la quale sostiene, invece, che le persone salvate vadano trasportate nel luogo più vicino a quello ove è avvenuto il soccorso. La tesi maltese potrebbe avere una sua validità alla luce del criterio di ridurre al minimo — in termini di durata del viaggio — i disagi della nave che trasporta le persone soccorse e delle persone medesime, se non fosse che è mirata alla situazione dei salvataggi nel canale di Sicilia ove il POS più vicino, per chi parte dalla Tripolitania, non è Valletta ma Lampedusa. In realtà, la formula della SOLAS non stabilisce un criterio avente valore assoluto, ma prevede solo che il paese responsabile della zona SAR si attivi per individuare un POS sul suo territorio o in quello di un altro paese che, contattato, accetti lo sbarco. I problemi, per i paesi UE, nascono anche dalla difficoltà di conciliare il sistema del SAR con quello del c.d. «Regolamento di Dublino 3» che prevede la competenza, per l’esame della domanda di protezione internazionale presentata da un cittadino di un paese terzo entrato illegalmente, da parte del paese membro di primo ingresso. Pur in presenza di incertezze applicative sul regime internazionale del POS, la nostra Corte di Cassazione con sentenza del 2020, interpretando evolutivamente la normativa internazionale con riguardo al noto caso Rackete, ha stabilito che l’obbligo di soccorso non possa comunque prescindere dall’assicurare alle persone salvate un POS in cui siano valutate le loro istanze a protezione. 5. Chiusura dei porti Allo stato attuale del diritto internazionale non vi è alcuna norma che obblighi un paese costiero a consentire l’ingresso sul suo territorio di persone soccorse al di fuori della sua zona SAR. La questione è in parte connessa a quella della chiusura dei propri porti nei confronti di tali persone, anche se trasportati da navi di ONG che agli stessi porti siano dirette. Il caso si è a più riprese presentato in Italia in anni recenti quando i governi hanno interdetto a queste navi l’ingresso nelle nostre acque territoriali, allegando illeciti di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, e per conseguenza violazione dei principi dell’ordine e della sicurezza pubblica e più in particolare, se si fosse trattato di navi di bandiera straniera, dei principi del transito inoffensivo (v.). Norme in materia sono contenute nella Convenzione di Ginevra del 1923 sul regime internazionale dei porti marittimi che, pur affermando il principio che l’accesso ai porti è libero a condizioni di reciprocità, prevede all’art. 8 dello statuto, il diritto per ogni singolo paese di vietarne l’accesso. Altra questione è la violazione del transito inoffensivo (v.) che una nave non autorizzata a entrare, può compiere nel tragitto lungo le acque territoriali se impegnata in attività illecite come 152
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il favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. L’esigenza di prevenire questa forma di violazione è stata posta a base dall’Italia in alcuni provvedimenti di chiusura adottati nel 2019. Uno specifico provvedimento ad hoc è stato il Decreto del 7 aprile 2020 il quale ha disposto il divieto di sbarco delle persone salvate al di fuori dell’area SAR italiana, motivandolo con l’assenza di garanzie sanitarie per gli stessi migranti, prima ancora che per il rischio di contagio della nostra popolazione. Qualsiasi provvedimento di chiusura può essere ovviamente derogato, sulla base di considerazioni di umanità e necessità, qualora si presentino casi di imbarcazioni trasportanti migranti in condizioni sanitarie critiche. 6. Convezione internazionale del 1989 sul salvataggio La convenzione di Londra del 1989 sul salvataggio (Salvage Convention), ha sostituito la convenzione di Bruxelles del 1910 in materia di assistenza e salvataggio marittimi. Le innovazioni normative introdotte mirano principalmente a incentivare l’attività di assistenza e di salvataggio in mare, in particolare quella svolta dalle navi private destinate a svolgere, per fini di lucro, questa attività. Il suo ambito di applicazione comprende le operazioni di soccorso rese «per assistere una nave o ogni altro bene in pericolo». La convenzione disciplina da un lato i doveri del soccorritore, dall’altro quelli del comandante e del proprietario della nave soccorsa. Di particolare interesse sono le previsioni in materia dei diritti del soccorritore nei confronti dei vari interessati alla spedizione secondo criteri che, per incentivare l’attenzione da parte dei soccorritori alle esigenze di salvaguardia e tutela dell’ambiente marino, si basano anche sulla «cura e gli sforzi dei soccorritori nel prevenire o ridurre danni all’ambiente». Il compenso non può superare in ogni caso il valore dei beni salvati. Di rilievo, infine, le disposizioni secondo cui: 1) le operazioni di salvataggio che hanno avuto un risultato utile danno diritto a una remunerazione (un compenso speciale, in deroga al tradizionale principio no cure no pay è tuttavia stabilito per le operazioni di soccorso che abbiano consentito di prevenire o ridurre danni all’ambiente); 2) nessuna remunerazione è dovuta dalle persone che sono state tratte in salvo; 3) nessuna remunerazione possa essere pretesa qualora i servizi di salvataggio siano stati resi «malgrado il divieto espresso e ragionevole del proprietario e del capitano della nave»; 4) la disciplina non si applica alle navi da guerra (v.) e alle navi in servizio governativo non commerciale (v.) impiegate in attività di soccorso (ma esse sono tenute a corrispondere un compenso se soccorse, a loro volta, da mezzi privati). Per evitare situazioni verificatesi in anni passati con gli incidenti delle petroliere Erika e Prestige, l’art. 11 della convenzione stabilisce che gli Stati parte dovrebbero ammettere nei loro porti navi in difficoltà al fine di salvare vite e mezzi in pericolo e prevenire danni all’ambiente marino (v. Protezione dell’ambiente marino). Sulla base di questa norma l’IMO ha elaborato la nozione di luoghi rifugio (place of refuges) facendone oggetto della Risoluzione A.949 (23) Guidelines on places of refuge for ships in need of assistance approvata nel 2003. Questo documento (costituente semplice raccomandazione non obbligatoria) riconosce che, quando una nave è in difficoltà e non si profila un’attività SAR di assistenza alla vita umana, il miglior modo per evitare una catastrofe ecologica, è quello di trasferire il suo carico e il suo carburante, svolgendo l’operazione in un porto o in qualsiasi altro luogo di ancoraggio o ormeggio protetto appositamente individuati da uno Stato membro. Il recepimento nell’ordinamento italiano delle linee guida della risoluzione IMO A.949(23) è stato attuato con il D.LGS. 19 agosto 2005, 196: l’art. 20 di questo provvedimento demanda al capo del Compartimento marittimo le procedure per accogliere le navi in pericolo tenendo conto degli interessi ambientali e paesaggistici e delle caratteristiche delle navi coinvolte. 7. Regolamentazione interna italiana 7.1 Competenza primaria delle Capitanerie di porto L’ordinamento italiano assegna all’autorità marittima (v.) il compito istituzionale di prestare soccorso a navi in pericolo e a naufraghi, alla ricezione di notizie di sinistri (CN 69); nel caso di sinistri aeronautici il Codice della navigazione (art. 727, 2) prevede che: «Quando l’autorità aeronautica non può tempestivamente intervenire, i primi provvedimenti necessari sono presi .... da quella marittima se il sinistro è avvenuto in mare». Il Comando generale delle Capitanerie di porto (MARICOGECAP) è l’organismo nazionale che, nella veste di «Centro nazionale di coordinamento di soccorso marittimo» assicura l’organizzazione generale Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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dei servizi marittimi di ricerca e salvataggio nell’ambito delle zone SAR di giurisdizione italiana, tenendo i contatti con i centri di coordinamento del soccorso degli altri Stati. Queste funzioni sono state attribuite a MARICOGECAP dal D.P.R. 28 settembre 1994, n. 662, «Regolamento di attuazione della legge 3 aprile 1989, n, 147, concernente adesione alla convenzione internazionale sulla ricerca e salvataggio marittimo, adottata ad Amburgo il 27 aprile 1979». 7.2 Concorso della Marina Militare Il concorso della Marina Militare al servizio SAR, genericamente previsto dagli articoli 92, 2, b e 115, 1, a) del Codice dell’Ordinamento Militare (D.LGS. 66-2010) è regolamentato dall’art. 5 del succitato D.P.R. laddove si prevede che i centri nazionali e secondari di soccorso marittimo «richiedono agli alti comandi competenti della Marina Militare..., in caso di necessità, il concorso dei mezzi navali...» secondo le procedure e le modalità previste dal decreto del ministro della Marina mercantile 1° giugno 1978. Tale decreto del 1978 — il quale riguarda le «Norme interministeriali per il coordinamento delle operazioni di ricerca e soccorso della vita umana in mare tra i vari organi dello Stato che dispongono di mezzi navali, aerei e di telecomunicazioni» — contiene una dettagliata disciplina delle modalità di concorso della Marina Militare che fa riferimento a situazioni operative e ordinative in parte superate dopo l’entrata in vigore del D.P.R. 662/1994. Tra di esse vi è, per esempio, la previsione che la Marina Militare fosse di massima responsabile del soccorso nelle zone d’altura a una distanza dalla costa superiore alle 20 miglia: al tempo la Forza armata manteneva, infatti, presso ogni Alto comando periferico un turno di unità in SVH (acronimo usato per indicare il soccorso pubblico). Imponente e spesso ignorato è stato ed è l’apporto fornito dalla Marina Militare, con i propri mezzi aeronavali e senza alcuna risorsa aggiuntiva di bilancio, al servizio di ricerca e soccorso in mare rientrante nelle competenze del ministero dei Trasporti e delle infrastrutture che si avvale del Corpo delle capitanerie di porto-Guardia costiera. La Forza armata, per il SAR, opera quindi, per così dire, in posizione ancillare rispetto alla Guardia costiera che è invece responsabile istituzionale del servizio SAR. Prescinde da tali obblighi concorsuali il dovere che ai comandanti delle navi da guerra incombe — al pari di quelli delle navi mercantili — di intervenire in assistenza o salvataggio di un mercantile che sia «in pericolo di perdersi» qualora ne abbiano notizia in navigazione (articoli 489 e 490 CN). L’inosservanza di tale obbligo è sanzionata penalmente dal 1158 CN con la fattispecie del reato di «omissione di assistenza a navi o persone in pericolo», la cui configurazione è generica nel senso che, ad aversi una condotta penalmente sanzionata, non sono stabiliti requisiti spaziali. Quindi, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, il reato può essere commesso anche al di fuori Area SAR prevista dal D.P.R. 662-1994 e MRSC della zona SAR italiana come definita dal (Fonte: Maricogecap). D.P.R. 662-1994. 154
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7.3 Concorso della Guardia di Finanza Non secondario è anche l’apporto al servizio delle unità del Corpo della guardia di finanza che, al pari di quello della Marina Militare, è ancora prestato sulla base del citato decreto del 1978. L’attività SAR del Corpo in favore dei migranti è connessa alle attribuzioni a esso conferite dal Decreto interministeriale del 19 giugno 2003. 7.4 Limiti Zona SAR nazionale Quanto ai limiti della zona SAR italiana stabilita dal D.P.R. 662/1994, deve notarsi come essi siano ragionevolmente vicini alla costa con distanze che oscillano tra qualche decina di miglia da Lampedusa e da circa un centinaio di miglia dalle coste siciliane. Questa circostanza può ritenersi indice del fatto che il ministero dei Trasporti, nell’emanare il D.P.R. 662/1994, abbia voluto limitare l’ampiezza della SAR alle capacità medie di intervento dei mezzi di ricerca e soccorso. In sostanza l’estensione della SAR italiana consente ai mezzi pubblici di soccorso, nel caso pervenga una richiesta di assistenza da parte di un’imbarcazione trasportante migranti, le cui condizioni di navigabilità non siano conosciute, di intervenire in tempo per accertare la situazione. Qualora invece tale richiesta sia avanzata alle autorità italiane all’interno della SAR di un altro paese (per esempio Malta o Libia) si applicano i principi della convenzione di Amburgo secondo i quali scatta l’obbligo di cooperazione che può in teoria portare a intervenire in sostituzione dello Stato responsabile del SAR. 7.5 Principio «first distress call» Nel caso che questo non ne abbia le capacità, l’azione delle autorità italiane è stata sin qui orientata a ritenere sussistente un obbligo di soccorso con i propri mezzi o con mercantili coordinati, sino a che l’operazione non abbia termine in un place of safety. La base concettuale di un tale approccio fortemente umanitario indotto dalle lacune delle organizzazioni SAR libiche e, in parte da quelle maltesi, si ritrova nella IMO Resolution MSC 167 (78) del 2004 contenente le «Guidelines on the Treatment of Persons Rescued at Sea» che indica, al para 6.7, il seguente principio: «When appropriate, the first RCC contacted should immediately begin efforts to transfer the case to the RCC responsible for the region in which the assistance is being rendered. When the RCC responsible for the SAR region in which assistance is needed is informed about the situation, that RCC should immediately accept responsibility for coordinating the rescue efforts, since related responsibilities, including arrangements for a place of safety for survivors, fall primarily on the Government responsible for that region. The first RCC, however, is responsible for coordinating the case until the responsible RCC or other competent authority assumes responsibility». RICERCA SCIENTIFICA IN MARE Gli Stati costieri hanno il diritto esclusivo di condurre ricerche scientifiche nelle loro acque territoriali (v.); le navi straniere possono tuttavia essere autorizzate, previo consenso espresso (UNCLOS 21, 1 lett. g.), a compiere tali attività riguardanti anche le prospezioni idrografiche. Il principio del consenso esplicito dello Stato costiero è anche la regola per la ricerca che navi straniere intendano effettuare nella ZEE (v.) o nella piattaforma continentale (v.). Hanno una posizione preferenziale, a questo scopo, le ricerche condotte «a fini esclusivamente pacifici per accrescere le conoscenze scientifiche sull’ambiente marino a vantaggio dell’umanità intera» (UNCLOS 246, 3) in settori come la oceanografia, la biologia marina, l’esecuzione di prospezioni geologiche o geofisiche. La concessione del consenso è subordinata a varie condizioni, quali la partecipazione dello Stato costiero alla campagna di ricerca o la comunicazione dei risultati della stessa. Quanto alla ricerca scientifica per fini militari (che comprende sia l’esecuzione di prospezioni idrocartografiche sia la raccolta di dati oceanografici, chimici, biologici, acustici o di altra natura a fini non offensivi) vanno distinte le situazioni a seconda che venga condotta nelle acque territoriali straniere o al di fuori di esse. Tali attività, ove condotte in acque territoriali straniere senza il consenso esplicito dello Stato costiero, costituiscono indubbiamente una violazione dei principi del transito inoffensivo (v.) e siano perciò vietate (UNCLOS 19, 2, lett. j.). Eguale il regime per gli stretti internazionali (v.) (UNCLOS 40). Diverso il discorso per la loro esecuzione sulla piattaforma continentale o nella ZEE: in assenza di norme espresse di diritto positivo è da ritenersi che l’attività sia consentita facendo riferimento al libero e legittimo uso del mare e alle libertà associate alle attività operative (UNCLOS 58, 1; 78, 2; 87, 1). Tenuto
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conto, tuttavia, del fatto che in materia non esiste uniformità di prassi applicativa (alcuni Stati pretendono, per esempio, che l’esecuzione di campagne idrografiche sulla loro piattaforma continentale sia soggetta a preventiva notifica o autorizzazione) va sottolineato che la scelta da parte delle Marine di svolgere autonomamente ricerche militari o idrografiche in tali zone costituisce materia di rilievo politico-diplomatico che va preliminarmente definita ad appropriato livello di autorità nazionale, tenendo conto di possibili eventuali contenziosi. Vedi anche: Zona archeologica. RIFUGIO TEMPORANEO La prassi internazionale del passato riteneva applicabile alle navi da guerra (v.) e alle navi in servizio governativo (v.) il così detto «asilo marittimo» inteso come possibilità, durante la permanenza in un porto o in acque territoriali (v.) e interne (v.) estere, di concedere protezione a cittadini stranieri che fossero saliti a bordo: la casistica riguardava, per esempio, situazioni di tumulti o necessità di sfuggire a un pericolo grave e imminente alla propria persona perché perseguitati per motivi politici, religiosi o razziali (tra le persone da proteggere non erano in ogni caso comprese quelle ricercate per reati comuni). Tale prassi, che si inquadrava nell’ambito del più generale «asilo extraterritoriale», connesso alla condizione di immunità (v.) delle navi da guerra, non ha trovato riconoscimento in alcuna norma pattizia né ha assunto col tempo valore consuetudinario. Le riserve maggiori al formarsi di un siffatto principio venivano dalla constatazione che l’ammissione dell’esistenza di un «diritto di asilo» in favore di cittadini stranieri avrebbe significato una grave violazione della sovranità dello Stato del territorio. Questi, pur non potendo far ricorso alla forza per costringere la nave da guerra a consegnare le persone accolte a bordo, avrebbe comunque potuto adottare le tradizionali misure della protesta diplomatica e/o dell’intimazione alla nave da guerra di lasciare il porto e uscire dalle acque territoriali (v. transito inoffensivo delle navi da guerra). Peraltro, con l’approvazione della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 secondo cui «ognuno ha il diritto di chiedere e ottenere in un altro paese asilo per sfuggire a una persecuzione» si sono poste le condizioni per la creazione di un diritto che tuttavia non sembra avere carattere incondizionato, in quanto pur sempre subordinato alle decisioni sovrane dei competenti organi politici dello Stato concedente. È evidente che il comandante di una nave da guerra non sarebbe in grado di valutare gli elementi socio-politico-religiosi che giustificano l’attribuzione dello status. Attualmente la prassi internazionale è perciò orientata ad ammettere la concessione da parte di navi pubbliche dotate di immunità del rifugio temporaneo (sinché non termini la situazione di pericolo venutasi a creare), nei porti o nelle acque interne e territoriali di uno Stato straniero a: 1) connazionali la cui sicurezza sia minacciata da pericolo imminente, purché non si tratti di persone che, sulla base di informazioni ricevute dalle autorità diplomatiche e consolari italiane, risultino ricercate dalle competenti autorità locali per reati comuni o per crimini internazionali e debbano essere a queste consegnate; eguale protezione è estesa ai cittadini dell’Unione europea nei porti di paesi non membri della stessa; 2) cittadini stranieri (ivi compresi quelli dello Stato costiero) la cui vita sia in grave e imminente pericolo, anche in occasione di gravi sconvolgimenti politici, sempreché la missione della nave e gli ordini ricevuti lo permettano, valutando d’intesa con le autorità diplomatiche e consolari nazionali che non si tratti di persone ricercate per reati comuni. Vedi anche: Traffico e trasporto illegale di migranti in mare. RISORSE MARINE NATURALI L’UNCLOS adotta una terminologia generica nell’indicare le «risorse naturali, viventi e non viventi» della ZEE (v.) (art. 56, 1, a) o le «risorse minerali e altre risorse non viventi del fondo marino e del sottosuolo» della piattaforma continentale (v.) (art. 77, 4) su cui gli Stati costieri esercitano diritti sovrani. Non sono viceversa nominati gli idrocarburi liquidi e gassosi, benché il loro sfruttamento si sia storicamente affermato come l’oggetto principale delle pretese degli Stati costieri sulla propria piattaforma continentale sin dal Proclama Truman del 1945 in cui si richiamava esplicitamente il bisogno, per gli Stati Uniti di «new sources of petroleum and other minerals». Più esplicito è invece l’art. 133 dell’UNCLOS nell’indicare, 156
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come risorse minerali dell’area internazionale dei fondi marini (v.) «tutte le risorse minerali solide, liquide o gassose in siti che si trovano nell’area sui fondi marini o nel loro sottosuolo, compresi i noduli polimetallici». In sostanza, la normativa dell’UNCLOS sull’area è più chiara di quella a carattere generale relativa alla piattaforma continentale, nel riferirsi alla realtà delle risorse minerarie che è essenzialmente costituita da petrolio, gas e noduli polimetallici. Particolare attenzione è riservata a tali noduli dall’autorità internazionale dei fondi marini (v.), i cui regolamenti li definiscono come «una delle risorse dell’area consistente in qualsiasi deposito o concrezione di noduli contenenti manganese, nickel, cobalto e rame». Essi hanno un diametro di 5-15 cm e giacciono a profondità di 4-6.000 m. Il loro sfruttamento, benché sia stato preso in considerazione da tempo, è divenuto una realtà commerciale e industriale solo di recente. Tra le risorse amministrate dall’autorità rientrano anche i solfuri polimetallici e le croste di ferromanganese ricche di cobalto. I solfuri polimetallici sono depositi di solfuri misti a metalli pesanti presenti nella crosta terrestre, creati dalla fuoriuscita a pressione dai fondali oceanici di acqua calda a profondità di qualche migliaio di metri. Contengono vari metalli come rame, piombo, zinco, oro e argento nonché le così dette «terre rare» (rare earth metals) composte da minerali come scandio, ittrio e lantanoidi, utilizzati in applicazioni industriali. È bene chiarire comunque che sia i noduli polimetallici sia i solfuri, le croste e le terre rare si rinvengono anche, al di fuori dell’area, sulla piattaforma continentale e quindi, ove presenti, possono essere sfruttati liberamente dagli Stati costieri interessati. Tra le risorse dei fondi marini disponibili in aggiunta ai combustibili fossili come gas e petrolio — la cui tecnologia estrattiva è in continua evoluzione dato che le trivelle possono svolgere attività sino ad alcune miglia di metri (v. Sicurezza offshore) — vi sono i c.d. clatrati. Si tratta di gas (in prevalenza metano) idrogenato, solidificatosi in forma di blocchi di ghiaccio alle basse temperature e alle alte pressioni degli abissi marini. Periodicamente, come accaduto da ultimo in Giappone, che è intenzionato a impiegarli per colmare il proprio deficit energetico, se ne parla come di una risorsa enorme, cento volte superiore alle riserve stimate di metano. Il loro sfruttamento su scala industriale non è tuttavia ancora cominciato per problemi tecnici e di compatibilità ambientale. La presenza di clatrati è segnalata anche nelle profondità del Tirreno, oltre i 3.000 m sulla piattaforma continentale di Italia e Francia. Tra le risorse naturali non viventi vanno infine comprese quelle indicate dall’UNCLOS all’art. 56, riguardanti le attività che lo Stato costiero può svolgere nella propria ZEE nel campo delle energie rinnovabili. Si tratta di nuove fonti energetiche, ancora allo stadio sperimentale, come la produzione di elettricità sfruttando la differenza di temperature tra acque profonde e superficiali, o le correnti sottomarine e le maree. Ha invece già raggiunto un sufficiente grado di sviluppo il progetto di impiegare pale eoliche galleggianti raggruppate congiuntamente in modo da costituire una wind farm. Molto diffuse in Nord Europa (soprattutto in Gran Bretagna), le wind farm — a parere di taluni esperti — possono tuttavia avere effetti negativi sull’ecosistema marino. Tra le risorse naturali può comprendersi il patrimonio culturale sommerso (v. Protezione patrimonio culturale subacqueo) nonché le risorse marine genetiche (v. Protezione biodiversità marina). Quanto alle risorse ittiche si rinvia, nell’ambito del presente Glossario, alle voci Pesca e Pescherie sedentarie. ROMANIA Vedi: Cerimoniale navale; Delimitazione. RUSSIA Vedi:
Disarmo navale; Mare Artico; Mare di Azov; Mar Caspio; Mari chiusi; Mar Nero; Unione Sovietica (ex).
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SALVATAGGIO Vedi: Ricerca e soccorso in mare. SANTUARIO PER LA PROTEZIONE DEI MAMMIFERI È una Zona di protezione di tutte le specie dei mammiferi marini viventi tra Punta Escampobariou, nei pressi di Tolone e Capo Falcone (Sardegna), a ovest, e Capo Ferro (Sardegna) e la Foce del Chiarone a est, rientrante, quale SPAMI, nel genus delle aree marine specialmente protette (v.). Il Santuario (detto anche Pelagos o Thetis): — è stato istituito il 25 novembre 1999 con un accordo firmato da Francia, Monaco e Italia, nell’ambito del regime giuridico per la protezione dell’ambiente marino del Mediterraneo (v.), in applicazione dell’Agreement on the Conservation of Cetaceans of the Black Sea, Mediterranean Sea and contiguous Atlantic Area (ACCOBAMS); — comprende le acque interne (v.) e territoriali (v.) degli Stati interessati nonché aree di alto mare; — si propone di vietare la cattura dei mammiferi e la pesca con reti pelagiche derivanti, adottando tutte le misure appropriate per la conservazione dei mammiferi marini nel loro habitat ivi compresa la lotta a tutte le forme di inquinamento; — è sottoposto alla giurisdizione nazionale di ciascuno dei paesi aderenti, che la esercitano nei confronti delle navi di bandiera. Tale giurisdizione è divenuta, erga omnes, valevole verso le navi di qualsiasi bandiera, nel momento in cui sono state istituite in gran parte del Santuario sia la ZEE francese (v. ZEE-Mediterraneo) sia la ZPE italiana (v. Protezione dell’ambiente marino-Mediterraneo). Qualora entrasse in vigore l’accordo di Caen del 2015 sulle frontiere marittime italo-francesi, il Santuario sarebbe integralmente coperto dalle aree di giurisdizione naIl Santuario per i mammiferi marini Pelagos (Fonte: Accobams). zionale dei due Paesi; — non pone limitazioni al transito delle navi da guerra (v.) e delle navi in servizio governativo non commerciale (v.) facendo salva la loro immunità di giurisdizione (v.). Ciascuno Stato parte deve tuttavia adoperarsi perché le stesse navi operino in maniera compatibile con l’accordo. Vedi anche: Riserve e Parchi marini. SICUREZZA MARITTIMA 1. Profilo generale Sicurezza marittima era in passato un’espressione considerata sinonimo di sicurezza della navigazione (maritime safety nella terminologia anglosassone). La materia si era sviluppata in campo internazionale per evitare che accadessero altre tragedie come quella del Titanic del 1912. Essa riguardava perciò ben precise branche, quali: ausili alla navigazione, dotazioni ed equipaggiamento delle navi e del personale, regole per prevenire le collisioni in mare, procedure e requisiti di sicurezza, informazioni idrografiche, tenuta dei registri e dei documenti di navigazione, investigazione di incidenti marittimi, salvaguardia della vita umana in mare (v. Ricerca e soccorso in mare). Il concetto di maritime safety è rimasto immutato,
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anche se ha assunto con gli anni, in relazione al crescere delle minacce ai traffici marittimi, una dimensione dinamica evolvendo verso la maritime security. Questo è avvenuto grazie al ruolo svolto dall’Organizzazione marittima internazionale (v.) riconosciuta dall’UCLOS (annesso VIII, art. 2) come il legittimo forum internazionale per la sicurezza marittima, le cui regolamentazioni devono essere osservate da tutti gli Stati. Il banco di prova dell’IMO, che ha iniziato la sua attività nel 1958, è stata l’International Convention for the Safety of Life at Sea (SOLAS), Convenzione di Londra del 1974 sulla sicurezza della vita umana in mare (SOLAS 1974 il cui testo (inizialmente redatto nel 1914 dopo il già ricordato sinistro del Titanic) è entrato in vigore nel 1965 per poi essere oggetto di successivi emendamenti. L’attività dell’IMO ha avuto ulteriori sviluppi dopo il caso del disastro causato dalla M/C Torrey Canyon nel 1967 al largo della Cornovaglia, incidente che ha portato all’emanazione della Convenzione di Londra del 1973 sulla prevenzione dell’inquinamento da navi (MARPOL) (v. Protezione dell’ambiente marino). Ulteriori convenzioni, che evidenziano l’importantissima funzione svolta dall’IMO nel campo dei traffici marittimi, sono state emanate nel campo della prevenzione delle attività pericolose in mare (v.) e della Ricerca e soccorso in mare (v.). L’IMO ha iniziato a occuparsi di maritime security, materia aggiuntiva rispetto a quella tradizionale della sicurezza della navigazione, dopo l’episodio dell’Achille Lauro del 1988 che ha portato all’emanazione di strumenti dedicati al contrasto del terrorismo marittimo (v.). 2. Maritime safety La SOLAS è ancora il testo convenzionale di riferimento della safety che si applica alle navi che effettuano viaggi internazionali tra porti di diversi paesi, relativamente a caratteristiche costruttive, equipaggiamenti come mezzi di salvataggio e dotazioni nautiche, radiocomunicazioni, misure da adottare per effettuare il trasporto di merci pericolose. Materia di rilevante importanza in essa disciplinata è l’automatic identification system (AIS), sistema di identificazione automatica per il tracciamento delle navi passeggeri e di quelle da carico superiore a 300 tsl delle quali fornisce posizione, velocità, rotta, destinazione, stato navigazione, numero identificativo e codice radiotelegrafico. Nel cap. XI-1 della SOLAS è anche regolamentato il «port state control» (PSC), attività che consente ulteriori controlli a bordo dei mercantili — a completamento delle procedure di visita e rilascio di certificati di navigabilità delle autorità di bandiera (flag State) — durante la sosta in porti esteri qualora vi siano sospetti di violazione o inosservanza di procedure di sicurezza. Strumenti applicativi della normativa sul PSC — che in Italia rientra nelle competenze dell’autorità marittima (v.) — sono, a livello europeo, il 1982 Paris Memorandum of Understanding e la direttiva 2009/16/CE — recepita in Italia con il D. LGS. 24 marzo 2011, n. 53, n. 53 che impone agli Stati membri precisi obblighi ispettivi con priorità per quelli relativi alle navi sub standard che presentano un profilo di rischio più elevato. Il punto di svolta nel ruolo marittimo dell’IMO è rappresentato dalle misure adottate dopo l’11 settembre volte a introdurre, in aggiunta alle tradizionali norme di safety marittima, standard comuni di prevenzione della minaccia terroristica valevoli sia per le navi sia per gli impianti portuali. L’innovazione è stata realizzata nel 2004 con l’aggiunta nella SOLAS del capitolo XI-2 relativo appunto a special measures to enhance maritime security e al discendente International Ship and Port Facility Security Code (ISPS Code). In tal modo la maritime safety — che come detto era originariamente concepita in modo statico — ha assunto una dimensione dinamica evolvendo verso la maritime security. Alla tutela della sicurezza della navigazione in senso stretto — in cui è compresa la salvaguardia della vita umana in mare — si è aggiunta, infatti, quella della sicurezza del trasporto marittimo e di lavoratori marittimi, navi e impianti portuali, nonché dell’ambiente marino e costiero e delle risorse biologiche marine. Il nuovo comprehensive approach della sicurezza marittima è stato adottato dall’IMO, modificando la SOLAS, tenendo anche conto del fatto che è necessario proteggere l’ambiente marino, in quanto qualsiasi sinistro marittimo, sia esso accidentale sia causato da attività terroristica, coinvolge l’intero ecosistema del mare. 3. Maritime security La maritime security, intesa come attività di prevenzione e contrasto alle minacce intenzionali al libero uso del mare, è un concetto consolidato da tempo, anche se la sua teorizzazione è avvenuta nella SOLAS dopo l’attacco alle Torri Gemelle del 2001. Basti pensare alla nozione consuetudinaria della pirateria (v.) Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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come crimine internazionale che si è affermata nei secoli passati proprio per consentire a tutti gli Stati di combattere i «nemici del genere umano» che attentavano alla libertà di navigazione. D’altronde, già prima dell’11 settembre, l’IMO si era fatto promotore — a seguito del caso dell’Achille Lauro — della Convenzione di Roma del 1988 sul terrorismo marittimo (v.), poi emendata nel 2005. Non a caso la sorveglianza sulla legalità dei traffici marittimi è una funzione che sin dall’affermarsi nel Seicento dagli Stati-nazione, è riconosciuta dall’ordinamento internazionale come precipua delle navi da guerra di tutti gli Stati (v. Polizia dell’alto mare). Riferimenti alla responsabilità degli Stati in materia di mantenimento del buon ordine dei mari sono contenuti nell’art. 100 dell’UNCLOS relativo alla cooperazione nella repressione della pirateria, nonché nell’art. 108 riguardante il contrasto del traffico illecito di stupefacenti in mare (v.) e nell’art. 109 concernente la repressione delle trasmissioni non autorizzate (v.). Ma è l’art. 110 dell’UNCLOS (v. Diritto di visita) quello che, nel disciplinare il diritto delle navi da guerra e di Stato di interferire con la navigazione di navi di altra bandiera sospette di essere coinvolti in illeciti marittimi, meglio rappresenta lo scenario della maritime security. In definitiva, la maritime security può considerarsi come un concetto più ampio della maritime safety, la cui protezione è riservata agli Stati in funzione del loro monopolio dell’uso della forza e della loro eguaglianza negli spazi marittimi extraterritoriali. Tutti gli Stati possono difatti avvalersi, nel loro reciproco interesse, dei poteri di enforcement riconosciuti dal diritto internazionale in alto mare a condizione di rispettare i diritti degli altri Stati. Al di fuori dell’ordinario quadro giuridico disciplinato dall’UNCLOS e dalle convenzioni IMO, la maritime security presenta comunque aspetti attinenti anche la sicurezza nazionale dei singoli Stati: questi, qualora minacciati da un pericolo che attenti alla loro integrità territoriale e sovranità, potrebbero agire in legittima difesa per prevenire la messa in opera di azioni ostili. La dottrina della legittima difesa come diritto di fonte consuetudinaria preesistente alla Carta delle NU non è universalmente accettata, ma — a parere di chi la sostiene — essa potrebbe legittimare azioni coercitive contro mercantili impegnati in attività terroristiche. A tale forma di legittimazione deve necessariamente farsi ricorso per giustificare i casi di intervento in alto mare contro mercantili che siano coinvolti nel contrabbando di armi (v), trasportando carichi non riportati nei documenti di bordo. A meno che ciò sia autorizzato da un embargo navale (v.) decretato dalle NU come quello contro l’ex Jugoslavia del 1993 o la Libia a partire dal 2011, l’UNCLOS non consente — in caso di sospetto contrabbando di armi — di fermare, abbordare o sequestrare un mercantile di altra bandiera senza il consenso dello Stato di appartenenza. Proprio per questo, i casi di adozione unilaterale di misure coercitive verso mercantili sospetti di arms smuggling posti in atto in anni recenti da paesi come Israele possono trovare sistemazione giuridica solo nell’ambito della dottrina della legittima difesa. Vanno ricordati in proposito gli episodi della nave portacontainers Francop (2009, Mediterraneo, bandiera Antigua-Barbuda, armatore tedesco, sequestro di 320 t di armi pesanti destinate a milizie Hezbollah), Victoria (2011, Mediterraneo, bandiera Liberia, armatore tedesco, dirottamento porto israeliano Ashdod, sequestro missili e mortai destinate a milizie Gaza) e Klos-C (2014, Mar Rosso, bandiera Panama, dirottamento porto israeliano Eilat, sequestro 40 missili «M 302» destinati milizie Gaza). Attiene anche alla maritime security, relativamente ai suoi aspetti di interdizione marittima, la PSI (proliferation security iniziative) (v.) avviata dagli Stati Uniti nel 2003; il caso del 2002 della nave cambogiana So San noleggiata dalla Corea del Nord trasportante missili Scud per lo Yemen, abbordata in alto mare da Spagna e Stati Uniti. 4. Safety e security nell’ordinamento italiano 4.1 Attribuzioni Capitanerie di porto-Guardia costiera La maritime safety, nella sua accezione allargata che è riferita alla navigazione, ai marittimi e all’ambiente marino, rientra nella competenza primaria del ministero dei Trasporti e delle infrastrutture che si avvale del Corpo delle capitanerie di porto-Guardia costiera. La materia, se si escludono la cartografia nautica e il servizio dei fari e segnalamenti marittimi che il Codice dell’Ordinamento Militare (D.Lgs. 66-2010) affida in via esclusiva alla Marina Militare, è così disciplinata dall’art. 134,2, b) dello stesso COM: «[il Corpo]…è competente per l’esercizio delle funzioni di ricerca e salvataggio in mare, ai sensi degli articoli 69, 70 e 830 del Codice della navigazione, di disciplina, monitoraggio e controllo del traffico navale, di sicurezza della navigazione e del trasporto 160
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marittimo, nonché delle relative attività di vigilanza e controllo, ai sensi del Codice della navigazione, della legge 28 dicembre 1989, n. 422 e di disciplina, monitoraggio e controllo del traffico navale, di sicurezza della navigazione e del trasporto marittimo, nonché́ delle relative attività di vigilanza e controllo, ai sensi del Codice della navigazione, della legge 28 dicembre 1989, n. 422 e delle altre leggi speciali». Tali competenze sono state rafforzate dal D.M. 18 giugno 2004 con cui il ministro delle Infrastrutture e trasporti ha indicato il Corpo delle capitanerie come responsabile della security dei trasporti marittimi commerciali, limitatamente a quanto disposto dal cap. IX-2 della SOLAS e del regolamento CE 725/2004. Successivamente, con il D.LGS. 19 agosto 2005, n. 196, sull’«Attuazione della direttiva 2002/59/CE relativa all’istituzione di un sistema comunitario di monitoraggio e di informazione sul traffico navale» (costituito, tra l’altro, dai sistemi denominati vessel traffic service (VTS) e automatic identification system), è stata affidata al Corpo, nell’ambito delle proprie funzioni di «autorità marittima» (v.), la gestione degli stessi sistemi. Ulteriori funzioni del Corpo in materie affini sono, come detto in precedenza, quelle sul Port State control. 4.2 Funzioni Marina Militare Il corpus normativo sulle attribuzioni del Corpo delle capitanerie di porto, nel settore della vigilanza e controllo del trasporto marittimo, è integrato dalle disposizioni dello stesso COM sulle funzioni di sorveglianza marittima (art. 115, 1 b) affidate alla Marina Militare proprio in uno specifico e basilare settore della sicurezza marittima secondo il regolamento CE 725/2004, e cioè «la sorveglianza per la prevenzione degli inquinamenti delle acque marine da idrocarburi e dalle altre sostanze nocive nell’ambiente marino e l’accertamento delle infrazioni alle relative norme». Rilevante e assorbente è anche il concorso che la Marina Militare presta al servizio SAR in applicazione del D.P.R. 662-1994 (v. Ricerca e soccorso in mare). Questo è dimostrato dalle decine di migliaia di salvataggi effettuati negli anni, sia in favore del naviglio mercantile o da diporto, sia a beneficio di imbarcazioni trasportanti migranti. Peraltro, la Marina Militare è stata responsabile del servizio SAR oltre le 20 mn, sino all’emanazione di tale D.P.R., mantenendo attivo a questo fine un turno di unità navali pronte a intervenire costantemente in soccorsi d’altura. La Marina esplica dunque funzioni concorsuali in gran parte delle materie inquadrabili nella maritime safety (ma, come detto, ha attribuzioni primarie per cartografia nautica e fari e segnalamenti). Per ciò che concerne la maritime security la Forza armata è invece la referente principale negli spazi marittimi extraterritoriali sulla base delle proprie competenze istituzionali nella materia della polizia dell’alto mare (v.) disciplinata dall’art. 111, 1, a) del COM. 4.3 Funzioni Guardia di Finanza Quanto al Corpo della guardia di finanza, il coinvolgimento in funzioni di safety e security marittima è previsto da varie norme della legislazione vigente. Alla Guardia di Finanza è inoltre affidata la tutela dell’«ordine e della sicurezza pubblica sul mare» in applicazione della c.d. «direttiva Napolitano» del 25 marzo 1998, il cui testo merita di essere riportato per la sua chiarezza: «L’obiettivo da perseguire è il migliore impiego delle risorse disponibili per l’azione di polizia sul mare, sia sotto il profilo della razionalizzazione della spesa sia sotto quello del perfezionamento e potenziamento dei servizi, tenuto conto del rilievo delle condotte illecite sul mare (contrabbando, traffici di stupefacenti e di armi, emigrazione e immigrazione clandestina, reati finanziari, inquinamento, ecc.) e dell’accresciuta responsabilità dell’Italia a tutela della frontiera esterna comune dei paesi aderenti all’accordo di Schengen. Le esigenze di sicurezza sul mare vanno quindi considerate globalmente e non settorialmente, almeno per la parte rimessa all’azione delle Forze di polizia, pur dovendo riconoscere che, accanto ai compiti e impegni comuni, vanno altrettanto curati i compiti istituzionali specifici (quali, per esempio: la vigilanza in mare per fini di polizia finanziaria, la traduzione dei detenuti e internati in stabilimenti situati in isole, la conseguente vigilanza antievasione, la vigilanza a tutela della pesca e dell’ambiente marino, ecc.), senza trascurare la proiezione sul mare dei compiti istituzionali e di pubblica sicurezza esercitati sulla terraferma. A tal fine, il concorso della Guardia di Finanza nei servizi di ordine e sicurezza pubblica sul mare, per l’importante sviluppo aereo-navale del Corpo, per la natura stessa dei mezzi, idonei a un impiego multifunzionale, e per gli specifici compiti di vigilanza aereo-navale per fini di polizia assolti dal Corpo stesso». Le competenze del Corpo in tale settore, già disciplinate dal D.LGS. 19 marzo 2001, n. 68, sono state di recente riaffermate dalla normativa di delega sulla riorganizzazione delle Forze di polizia di cui all’art. 8, comma 1, lett. a) della legge 124/2015. Con D.LGS. 19 agosto 2016, n. 177, sulla razionalizzazione delle Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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funzioni di polizia, è stato, infatti, disposto, all’art. 2, c., che è attribuita al Corpo della guardia di finanza la «sicurezza del mare, in relazione ai compiti di polizia, attribuiti dal presente decreto, e alle altre funzioni già svolte, ai sensi della legislazione vigente e fatte salve le attribuzioni assegnate dalla legislazione vigente al Corpo delle capitanerie di porto-Guardia costiera». Vedi anche: Unione europea (Strategia Sicurezza Marittima). SICUREZZA OFFSHORE Vedi: Piattaforma continentale. SIRIA Vedi:
Acque territoriali (Mediterraneo); Transito inoffensivo delle navi da guerra; Zona contigua; Zona economica esclusiva (Mediterraneo).
SISTEMA DI IDENTIFICAZIONE AUTOMATICA (Automatic Identification System) Vedi: Sicurezza marittima; Transito e soggiorno nelle acque territoriali italiane; Zona di identificazione marittima. SISTEMA DI ASSISTENZA AL TRAFFICO MARITTIMO (Vessel Traffic Service) Vedi: Sicurezza marittima; T ransito e soggiorno nelle acque territoriali italiane. SLOVENIA Vedi: Acque territoriali (Mediterraneo); Baia di Pirano; Mare Adriatico; Pesca (Mediterraneo); Protezione dell’ambiente marino (Mediterraneo); Ricerca e soccorso; Successione tra Stati; Transito inoffensivo delle navi da guerra. SMILITARIZZAZIONE Vedi: Demilitarizzazione; Demilitarizzazione (Mediterraneo); Disarmo navale; Disarmo navale (Mediterraneo). SOCCORSO Vedi: Ricerca e soccorso in mare. SOMALIA Il problema degli spazi marittimi della Somalia ha giocato un ruolo nella vita del paese, per lo sviluppo della pirateria (v.) del Corno d’Africa in ragione della scarsa capacità di assicurare la loro sorveglianza. La governance somala sugli spazi marittimi del Corno d’Africa si è comunque rafforzata secondo gli auspici della comunità internazionale. La proclamazione di una ZEE, avvenuta nel 2014, rappresenta un rilevante fattore di stabilità dell’area e condizione imprescindibile per accrescere la sovranità somala ed evitare la pesca illegale e l’inquinamento. In questo quadro si colloca l’iniziativa della Somalia di deferire alla Corte internazionale di giustizia il contenzioso che la oppone al Kenya circa il confine laterale delle rispettive 162
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ZEE, incluse le aree di piattaforma continentale oltre le 200 miglia (v. Riquadro alla voce Piattaforma continentale para 2) Restano invece ancora da definire le frontiera marittime Somalia-Yemen e Somalia-Gibuti. SOMMERGIBILE Per sommergibile s’intende, in senso stretto, un mezzo subacqueo diverso dal sottomarino (submarine nella terminologia anglosassone), avendo essi caratteristiche tecniche diverse: il primo è destinato prevalentemente alla navigazione di superficie, mentre il secondo a quella in immersione. Tuttavia, poiché il loro status giuridico è identico, in questa sede si parla per semplicità solo del sommergibile. Esso è dunque, a tutti gli effetti, una nave da guerra (v.) il quale, nell’esercitare il transito inoffensivo (v.) in acque territoriali straniere (v.) è tenuto a rispettare la norma (UNCLOS 20) secondo cui: «In the territorial sea, submarines and other underwater vehicles are required to navigate on the surface and to show their flag». In proposito va notato che, mentre per le navi da guerra Ipotetici spazi marittimi della Somalia (Fonte: FAO). di superficie esistono dubbi da parte di alcuni Stati sulla titolarità del diritto a transitare senza preventiva notifica (v. Transito inoffensivo delle navi da guerra), non altrettanto è ipotizzabile per i sommergibili. La norma afferma chiaramente, infatti, la sussistenza di un tale diritto. Altro problema è quello delle misure adottabili nei confronti di un sommergibile che transiti in immersione nelle acque territoriali violando la prescrizione dell’UNCLOS. A parere di alcuni, la navigazione sottomarina non è di per sé offensiva potendo essere una semplice scelta di convenienza tecnica ai fini della navigazione. In relazione a ciò e alla condizione di immunità di giurisdizione (v.) di cui gode il sommergibile al pari delle altre navi da guerra, si può ipotizzare che l’unica misura adottabile da parte dello Stato costiero sia quella di richiedere al mezzo di identificarsi attraverso l’emersione, per poi intimargli di lasciare le acque territoriali in aderenza al principio stabilito dall’art. 30 dell’UNCLOS. Diverso il caso qualora il sommergibile violi la sovranità dello Stato costiero navigando in immersione nelle acque interne (v.). Il problema si presentò il 24 febbraio 1982 quando un sommergibile non identificato — ritenuto un classe «Victor» dell’ex Unione Sovietica — entrò nella baia storica del golfo di Taranto (v): l’unità venne allora intercettata e inseguita da Forze aeronavali italiane sino a che sfuggì al contatto (vedasi VIII Legislatura - Discussioni - seduta del 5 marzo 1982, p. 42079 ss. intervento del ministro della Difesa pro tempore). A parere di un’autorevole dottrina, sarebbe stato in teoria possibile, nella circostanza, costringere il sommergibile a emergere, con un uso graduale della forza, usando anche mezzi bellici per catturarlo. Quanto alla cattura possono manifestarsi tuttavia perplessità, trattandosi di una violazione dell’immunità sovrana (v.) del battello, tale poter essere considerato un casus belli. La storia delle relazioni marittime nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale presenta numerosi casi di intrusioni di sommergibili sovietici in acque interne straniere per evidenti scopi di intelligence non seguiti tuttavia da cattura. Un episodio accadde nel 1980 in acque svedesi, ma il battello, nonostante fosse stato bersagliato con bombe di profondità non riemerse. Ancora più grave l’incidente del sommergibile nucleare sovietico U-137 che nel 1981 fu scoperto vicino alla base svedese di Karskrona. La Svezia ottenne il consenso dall’Unione Sovietica a interrogare l’equipaggio rimorchiando il sommergibile — che Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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nel frattempo evidenziava avarie — nella base dove fu trattenuto per 10 giorni e poi scortato sino al limite delle acque territoriali. Simili fatti si sono verificati anche in anni recenti: oltre ai casi di violazioni delle acque giapponesi da parte di battelli cinesi, nel 2015 un sommergibile non identificato è stato intercettato in acque interne finlandesi venendo costretto ad allontanarsi dopo il lancio di bombe di profondità. Circa la prassi internazionale è interessante riportare la seguente decisione assunta dal governo nipponico il 24 dicembre 1996, che appare come la più adeguata all’attuale regime dell’UNCLOS: «The Prime minister may, when asked by the Director-general of the Defence agency.... for an approval of the issuance of an order to troops of the self-defence forces to demand that a foreign submarine navigating submerged in the japanese territorial sea and internal waters navigate on the surface and show its flag and that if the submarine fails to obey this order, it leave the japanese territorial sea, approve the request ...». Il problema dell’atipicità del sommergibile nell’osservanza delle regole del diritto internazionale si è posto anche per i conflitti armati (v. Diritto bellico marittimo). I dubbi esistenti prima della Seconda guerra mondiale sulle modalità di condotta della guerra sottomarina nei confronti delle navi mercantili furono risolti con il Processo Verbale del 1936 sulla guerra sottomarina il quale stabilisce che: «Nelle loro azioni rispetto alle navi mercantili, i sottomarini devono conformarsi alle norme di diritto internazionale a cui sono soggette le navi da guerra di superficie. 2. In modo particolare, eccettuato in caso di rifiuto reiterato di fermarsi dopo ingiunzione regolare o di resistenza attiva alla visita, una nave da guerra, sia essa di superficie o sottomarina, non può affondare o porre fuori navigazione una nave mercantile senza aver prima messo in salvo i passeggeri, l’equipaggio e i documenti di bordo...». Sulla prassi anteguerra riguardante i sommergibili che attaccavano le navi neutrali vedi la voce Pirateria. SPAGNA Vedi:
Acque territoriali (Mediterraneo); Pesca (Mediterraneo); Prevenzione attività pericolose in mare; Piattaforma continentale (Mediterraneo); Protezione dell’ambiente marino (Mediterraneo); Stretti e canali internazionali (stretto di Gibilterra); Traffico illecito di stupefacenti in mare; Traffico e trasporto illegale di migranti in mare; ZEE (Mediterraneo).
SPAMI (Specially Protected Areas of Maditerranean Importance) Vedi: Mammellone (Zona di pesca a sud-ovest di Lampedusa); Protezione ambiente marino (Mediterraneo); Santuario per la protezione dei mammiferi. SPAZIO AEREO INTERNAZIONALE È l’area, adiacente allo spazio aereo nazionale (v.) sovrastante la zona contigua (v.), la zona economica esclusiva (v.), l’alto mare (v.) e gli spazi marini non soggetti alla sovranità di alcuno Stato (come le zone costiere dell’Antartide) su cui gli aeromobili civili e militari di tutti gli Stati hanno piena libertà di sorvolo. Gli aeromobili militari (v.) possono, in particolare, svolgervi esercitazioni di qualsiasi genere con l’unico limite di dover rispettare i diritti corrispondenti delle altre nazioni e la sicurezza del traffico aereo e marittimo internazionale. Nello spazio aereo internazionale gli aeromobili militari (v.) non hanno in nessun caso, a differenza di quanto previsto per le navi da guerra (v), il diritto di interferire con la navigazione degli aeromobili civili di altra nazionalità, a meno di autorizzazione dello Stato di bandiera. Un’ulteriore eccezione potrebbe tuttavia ipotizzarsi nel caso di aeromobile che, a seguito di richiesta di identificazione, risulti privo di nazionalità, qualora lo Stato che interviene abbia interesse a dirottarlo nel proprio spazio aereo o in quello di altro Stato che a ciò acconsenta. Questi problemi sono stati affrontati nell’ambito della proliferation security iniziative (v.) per individuare le misure adottabili nei confronti di aeromobili civili sospetti di trasportare armi di distruzione di massa (WMD). Da ciò consegue che la nozione di intercettazione aerea (air intercep164
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tion) è più appropriata, rispetto a quella di interdizione aerea, per indicare le eventuali attività coercitive che gli aeromobili militari possono mettere in atto nello spazio aereo internazionale. Nello spazio aereo internazionale ricadono anche le regioni per le informazioni di volo (flight information region) (v.). Vedi anche: Mar Egeo; Zone pericolose per la navigazione e il sorvolo. SPAZIO AEREO NAZIONALE È l’area sovrastante le acque territoriali (v.) in cui lo Stato costiero esercita piena sovranità, analogamente a quanto previsto per il territorio nazionale, le acque interne (v.) e, ove esistenti, le acque arcipelagiche (v.) (UNCLOS 2 e Convenzione di Chicago del 1944, articoli 1 e 2). La giurisdizione relativa si esplica nel diritto di procedere all’identificazione degli aerei stranieri in volo e di regolamentarne del sorvolo, nonché nel potere di interdizione degli aeromobili non identificati o non autorizzati al sorvolo. Nello spazio aereo nazionale non è dunque previsto un regime di passaggio assimilabile al diritto di transito inoffensivo (v.) che vige nelle acque territoriali. Del tutto particolare è il regime dello spazio aereo greco che ha ampiezza di 10 mn, a fronte delle 6 mn delle sottostanti acque territoriali (v. mar Egeo). Al di là dello spazio aereo nazionale si estende lo spazio aereo internazionale (v.) in cui vige la libertà di sorvolo. STATI PRIVI DI ACCESSO AL MARE Vedi: Bandiera navale; Libertà dei mari; Nazionalità della nave. STATI UNITI D’AMERICA Vedi: Acque territoriali; Area internazionale dei fondi marini; Baie storiche; Baie storiche (Mediterraneo); Blocco navale; Diritto del mare (codificazione); Disarmo navale; Golfo Persico; Interdizione marittima; Libertà dei mari; Maritime Quarantine; Piattaforma continentale; Prevenzione delle attività pericolose in mare; Proliferation security iniziative (PSI); Stretti e canali internazionali; Canale di Panama; Stretto di Messina; Transito inoffensivo delle navi da guerra. STRETTI E CANALI INTERNAZIONALI 1. Concetto geografico Non si può prescindere, nel trattare del regime legale internazionale degli stretti, dall’individuazione della loro dimensione geografica che l’International Hydrographic Organitation (IHO) individua in «narrow passage between two land masses or islands or group of islands connecting two larger sea areas». A essa vengono anche associate quelle di «channel, passage, bouche» concettualmente simili ma relative a specifiche situazioni geografiche e maritime. Al riguardo, va ricordato che, a iniziativa della stessa IHO, in tempi recenti il toponimo di «canale di Sicilia» è stato modificato in quello di «stretto di Sicilia» (v.). Del tutto peculiare è la denominazione Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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di «Bocche» che la tradizione locale della Corsica e della Sardegna, avendo riguardo alla peculiarità dell’estuario della Maddalena, ha assegnato allo stretto che separa le due isole (v. Bocche di Bonifacio). Sta di fatto che la definizione geografica di stretto è dei relativi sinonimi è imprecisa nel senso che prescinde da parametri univoci e da riferimenti alla tipologia di navigazione che vi si pratica, che può essere sia internazionale sia di cabotaggio. Oltretutto, come si dirà più avanti, sono «stretti» dal punto di vista geografico anche quelli al cui interno esiste una porzione di acque internazionali, mentre la nozione giuridica di stretto è relativa solo ai passaggi interamente coperti dalle acque territoriali di uno o più Stati. 2. Stretti e geopolitica: i choke points Il termine choke points appartiene al vocabolario della geopolitica del mare (v.) e indica i punti di passaggio obbligati delle più importanti vie di comunicazioni marittime, canali compresi, quali gli stretti di Dover, Gibilterra (v.), Bab el-Mandeb (v.), Hormuz (v.), Malacca-Singapore, gli stretti danesi e quelli turchi (v.), i canali di Suez (v.) e Panama (v.). Se si pensa a come la nascita e l’affermazione dell’Impero britannico nel XIX secolo sia in parte dovuta a un’accorta politica di controllo dei punti di passaggio delle rotte verso il Mediterraneo, il Medio e l’Estremo Oriente, si ha una chiara idea della funzione dei choke points. Il relativo concetto, anche se affine a quello geografico degli stretti, è comunque autonomo nel senso che è basato su fattori specifici quali: 1) la necessità per la navigazione internazionale di transitarvi in mancanza di rotte alternative; 2) l’interesse vitale che alcuni Stati a forte connotazione marittima hanno di avvalersene per i loro traffici commerciali (si pensi all’economia dell’Italia dipendente per la gran parte dai trasporti marittimi) e per i movimenti delle loro flotte militari impegnate in funzioni di protezione degli stessi traffici o in attività collaterali di presenza e sorveglianza; 3) la possibilità per gli Stati costieri che li fronteggiano di sottoporli a sorveglianza; 4) il fatto che essi si prestino a essere oggetto di minacce terroristiche nei confronti di navi mercantili e da guerra in transito come avvenuto nello stretto di Bab el-Mandeb (1973) e di Gibilterra (2004). Stretti e choke points non sono dunque sinonimi anche perché ci sono importanti punti obbligati di passaggio costituiti da Sea lines of communications (SLOCs) dell’alto mare, vale a dire rotte marittime che passano al largo di estremità geografiche come il Capo di Buona Speranza nel Sud Africa o il Capo Guardafui in Somalia. La realtà di questo assunto è dimostrata dalla situazione creata dalla minaccia della pirateria (v.) al largo del Corno d’Africa che ha indotto il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite a emanare numerose risoluzioni volte a garantire l’uso delle commercial maritime routes off the coast of Somalia. 3. Regime legale I convenzione di Ginevra del 1958 Il regime di transito applicabile agli stretti è stato così disciplinato dalla Convenzione di Ginevra del 1958 (art. 16,4) secondo il principio che: «Non vi è sospensione del passaggio inoffensivo di navi straniere attraverso gli stretti che sono usati per la navigazione internazionale tra una parte dell’alto mare e un’altra parte dell’alto mare o del mare territoriale di uno stato straniero» (art. 16, 4). Tale disposizione riflette il preesistente diritto consuetudinario che garantiva alle navi di qualsiasi bandiera il transito nelle acque territoriali (v.) — al tempo di tre miglia — che ricoprivano uno stretto nell’ambito dei principi del passaggio inoffensivo (v.). La sua genesi risale alle tesi espresse dalla Corte internazionale di giustizia nell’ambito del caso dell’incidente occorso il 22 ottobre 1946 a navi da guerra britanniche incappate in un campo minato durante la navigazione nelle acque territoriali albanesi dello stretto di Corfù. Nella sua sentenza la Corte, nel riconoscere la validità delle opinioni britanniche sull’esistenza di un principio di libertà di transito nello stretto, affermò che «is, in the opinion of the Court, generally recognized and in accordance with international custom that States in time of peace have a right to send their warships through straits used for international navigation between two parts of the high seas without the previous authorization of a coastal State, provided that the passage is innocent». La decisione assurse così a fonte del principio del passaggio inoffensivo non sospendibile negli stretti internazionali (v. Transito inoffensivo) individuati secondo un criterio geografico-funzionale. La codificazione di tale principio fu attuata nella citata norma della convenzione di Ginevra con riferimento non solo agli stretti che sono usati per la navigazione internazionale tra una parte e l’altra dell’alto mare, ma anche a quelli colleganti l’alto mare al mare territoriale. Nel far ciò si volle garantire il libero transito di Israele nello stretto di Tiran (v.) per i collegamenti con il suo porto di Eilat situato nella parte settentrionale del golfo di Aqaba. 166
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4. Regime legale UNCLOS 4.1 Passaggio in transito Dopo l’approvazione della I convenzione di Ginevra ci fu, com’è noto, un’evoluzione della prassi sull’estensione delle acque territoriali che cominciò a consolidarsi fino al limite delle 12 mn dalle linee di base. In questo modo, per effetto del passaggio alle acque territoriali di precedenti porzioni di alto mare, venne a crearsi la questione del transito negli stretti con ampiezza pari o inferiore alle 24 mn coperte integralmente dalle acque territoriali degli Stati rivieraschi. I fautori del mantenimento dell’unico regime di passaggio inoffensivo previsto dall’articolo 16, 4 della I convenzione di Ginevra (tra i quali Indonesia, Malesia e Singapore) dovettero confrontarsi con quei paesi come Stati Uniti e Unione Sovietica che sostenevano l’esigenza della più completa libertà di navigazione delle loro Forze navali. Una mediazione tra i due opposti schieramenti dei paesi costieri e delle potenze marittime fu svolta dalla Gran Bretagna che presentò una proposta per introdurre la massima libertà di transito negli stretti usati per la navigazione internazionale mediante l’introduzione di un nuovo regime sui generis, poi definito come «passaggio in transito» da applicare anche nei corridoi di traffico destinati alla navigazione internazionale istituiti nelle acque arcipelagiche (v.). La proposta ottenne il consenso degli Stati partecipanti alla conferenza. Da parte di alcuni Stati fu tuttavia messo in risalto che tale regime non rispondeva a principi di diritto consuetudinario, ma era da considerarsi accettato dai soli Stati che, aderendo alla nuova convenzione, proprio per questo avrebbero acquisito il diritto di avvalersi del diritto del passaggio in transito nelle acque territoriali dei paesi che si affacciano sugli stretti internazionali. L’Iran sostiene tali tesi a supporto del proprio contenzioso sul transito attraverso lo stretto nei confronti di Stati Uniti e Israele (quali Stati che non sono ancora parti dell’UNCLOS). 4.2 Stretti con passaggio inoffensivo non sospendibile A fronte della creazione di questa nuova categoria di stretti, in sede di redazione dell’UNCLOS, si cercò comunque di circoscriverne l’ambito ai soli casi in cui le esigenze di navigazione internazionale giustificano realmente l’affievolimento dei poteri degli Stati costieri interessati. Su richiesta dell’ex Jugoslavia, che era intenzionata a non avere intralci nella navigazione nel canale d’Otranto e in prossimità dell’isola di Pelagosa (v.), si esclusero dal concetto giuridico di stretto internazionale quelli «nei quali esista una rotta, attraverso l’alto mare o una ZEE, che sia di convenienza comparabile dal punto di vista della navigazione e delle sue caratteristiche idrografiche…» (art. 35 UNCLOS), al cui interno vige quindi la più completa libertà di navigazione. Il problema di natura politica connesso al passaggio attraverso lo stretto di Tiran portò invece alla norma dell’art. 45, 2, b) dell’UNCLOS in forza della quale il semplice passaggio inoffensivo (ancorché non sospendibile) si applica agli stretti che «si trovano tra una parte di alto mare o una ZEE, e il mare territoriale di un altro Stato». Benché escluso dalla categoria degli stretti in cui Situazione acque territoriali italiane e croate antistanti le isole Pelagosa e vige il «passaggio in transito», Tiran rientrò Pianosa; al centro, lo spazio di acque internazionali (Fonte: Francalanci).
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tuttavia — in forza degli accordi di Camp David del 1975 — in quella il cui regime «totalmente o parzialmente regolamentato da convenzioni internazionali» (art. 35, lett. c) UNCLOS). L’esempio paradigmatico di applicazione di questa norma è dato dagli stretti dei Dardanelli, del Mar di Marmara e del Bosforo (v. Stretti turchi) il cui regime di passaggio è stabilito dalla convenzione di Montreux del 1936. Un’ulteriore deroga al regime generale fu prevista per gli stretti che separano un’isola di uno Stato dal suo territorio di terraferma se esiste al largo una rotta alternativa di convenienza similare attraverso una parte di alto mare o di ZEE. Una proposta in questo senso fu avanzata dalla delegazione italiana durante i lavori della III Conferenza del Diritto del mare avendo presente la situazione dello stretto di Messina (v.). Questa via d’acqua, benché sia uno stretto internazionale quanto a importanza del traffico, ha caratteristiche particolari sia per l’esistenza di una rotta alternativa al largo della Sicilia sia per il suo carattere nazionale, essendo interamente coperta dalle acque territoriali italiane. La nuova categoria di stretti (definita come «Messina Exception») fu così disciplinata dall’art. 38, 1 dell’UNCLOS. Stretto di Bab el-Mandeb (Fonte: Roach-Smith).
PRINCIPALI STRETTI INTERNAZIONALI TRA UNA ZONA DI ALTO MARE O DI ZEE E UN’ALTRA ZONA DI ALTO MARE O DI ZEE Stretto di Gibilterra Stretto di Bab el-Mandeb Bocche di Bonifacio Canale di Beagle Little Belt Stretto di Bering Passaggio tra Bahrein e Qatar Passaggio tra Bahrein e Arabia Saudita Passaggio di Guadalupe Canale di Bristol Stretto di Cook Passaggio di Calais Stretto di Corsica Stretto di Cerigo Stretto di Corfù Stretto di Dover Bocche del Dragone Stretto di Dominique 168
Stretto di Formosa Stretto di Hormuz Stretto di Juan de Fuca Canale di Kaiwi Stretto di Magellano Stretto di Malacca Stretto di Massaua Canale di Minorca Stretto di Ombai Stretto di Rosario Bocche del Serpente Stretto di Santa Lucia Stretto della Sonda Stretto di San Bernardino Stretto di Suriago Canale di San Giorgio Stretto di Scarpanto Stretto di Singapore
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4.3 Posizione ellenica su stretti internazionali L’UNCLOS, superando la genericità della I convenzione di Ginevra, ha dettagliatamente disciplinato tutte le possibili situazioni di navigazione negli stretti e nei corridoi di passaggio arcipelagico mediante la creazione di ben sei distinte categorie. Tale accuratezza di regolamentazione non è tuttavia scevra da dubbi e ambiguità potendosi chiedere, per esempio, come vengano designati gli stretti internazionali in cui si applica il regime di passaggio in transito, considerato che non c’è alcuna lista ufficialmente riconosciuta di tali stretti che in teoria ammontano a più di cento. Il problema è stato posto dalla Grecia che, con riferimento ai numerosi passaggi esistenti tra le proprie isole, ha depositato alle NU la seguente dichiarazione interpretiva: «In areas where there are numerous spread out islands that form a great number of alternative straits which serve in fact one and the same route of international navigation, it is the understanding of Greece, that the coastal state concerned has the responsibility to designate the route or routes, in the said alternative straits, through which ships and aircrafts of third countries could pass under transit passage régime…». Contraria a tale assunto è la posizione turca. Su questo problema esiste peraltro un contenzioso tra Stati Uniti e Canada per le nuove rotte polari del Passaggio a nord-ovest (v. mare Artico). Al riguardo va notato che, col tempo, uno stretto — per effetto di fattori climatici e commerciali — può mutare la sua importanza divenendo una via di navigazione internazionale. 4.4 Sintesi differenti categorie degli stretti Volendo riassumere il regime delineato in precedenza, possiamo dire che sono stabilite le seguenti quattro categorie di stretti: 1) che collegano una zona di alto mare o di ZEE con un’altra zona di alto mare o di ZEE, come gli stretti di Gibilterra, di Bab el-Mandeb o di Hormuz in cui si applica il passaggio in transito; 2) che separano un’isola di uno Stato dal suo territorio di terraferma come lo stretto di Messina, sempreché esista una rotta alternativa di convenienza comparabile o che «si trovano tra una parte di alto mare o una ZEE e il mare territoriale di un altro Stato»; in entrambi i casi si applica il passaggio inoffensivo non sospendibile (UNCLOS 38, 1 e 45); 3) nei quali «il passaggio è totalmente o parzialmente regolato da convenzioni internazionali che siano in vigore da lungo tempo» (UNCLOS 35, c), ed è il caso della convenzione di Montreux del 1936 relativa agli stretti turchi; 4) per i quali il regime di transito sia stabilito da un particolare accordo internazionale con regole compatibili con la convenzione sul Diritto del mare del 1982 (UNCLOS 311, 2), come avviene per lo stretto di Tiran. 5. Disciplina conflitti armati sul mare In caso di conflitto armato (si pensi alla guerra Iran-Iraq poi culminata nella crisi del 1987, durante la quale l’Italia aveva la posizione di paese neutrale) il regime di passaggio deve tener conto, da un lato dei diritti dei belligeranti di condurre ostilità negli stretti, dall’altro dei diritti dei neutrali a non subire limitazioni nel transito negli stessi. Secondo il Diritto internazionale la casistica giuridica dei conflitti armati sul mare (v. Diritto bellico marittimo) può sintetizzarsi nei seguenti principi: 1) in periodo di conflitto armato continua ad applicarsi, sia per i belligeranti sia per i neutrali, il diritto di passaggio in transito vigente in tempo di pace; 2) i paesi rivieraschi neutrali non possono quindi imporre limitazioni al transito anche perché la loro neutralità non è inficiata dal semplice passaggio di navi belligeranti; 3) queste navi devono a loro volta astenersi dall’uso della forza nei confronti dello Stato costiero, anche se, durante il transito, possono adottare misure difensive (quali: operazioni aeree, navigazione in formazione, sorveglianza acustica); 4) i paesi rivieraschi belligeranti possono adottare misure interdittive esclusivamente nei confronti di navi da guerra di altro paese belligerante; 5) essi possono in teoria collocare mine nelle proprie acque facenti parte di uno stretto, a condizione che in questo modo non si renda pericolosa la navigazione delle navi neutrali e purché esista una rotta alternativa di convenienza similare; 6) le navi mercantili e da guerra neutrali conservano il diritto di passaggio negli stretti le cui acque sono sotto la sovranità di Stati belligeranti, provvedendo, in forma precauzionale, a darne preavviso agli stessi; 7) le navi mercantili neutrali, durante il transito, possono avvalersi della protezione delle navi da guerra di bandiera navigando in convoglio (v.). Questo regime è stato adottato dell’Italia quando, a seguito dell’attacco del 3 settembre 1987 al mercantile Jolly Rubino, il nostro Governo inviò in zona un Gruppo navale della Marina Militare per proteggere il naviglio di bandiera. Se un conflitto armato riguardasse lo stretto
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di Bab el-Mandeb (la cui area è interessata da anni da forme di conflitto a bassa intensità) la soluzione andrebbe cercata tenendo conto dei principi — in parte consuetudinari — citati in precedenza contenuti nel Manuale di Sanremo applicabile ai conflitti armati internazionali sul mare. 6. Situazione specifici stretti e canali 6.1 Bocche di Bonifacio Lo stretto (o Bocche) di Bonifacio, largo in media 9 mn nei punti di entrata occidentale e orientale, misura appena 2,2 mn nella parte centrale. Quale stretto che mette in comunicazione due parti di alto mare, rientra nella categoria degli stretti internazionali. Come tale è sottoposto al regime del passaggio in transito (v. Transito negli stretti). Esso è interamente ricoperto dalle acque territoriali italiane e francesi delimitate dalla Convenzione di Parigi del 28 novembre 1986 tra Italia e Francia relativa alla delimitazione delle frontiere marittime nell’area (v. Acque territoriali (Mediterraneo). In considerazione della pericolosità della navigazione nello stretto, l’Organizzazione marittima internazionale, con la risoluzione IMO MSC 73 (69) approvata a Londra il 20 maggio 1998, ha adottato un sistema di istradamento del traffico e la procedura di rapportazione navale obbligatoria da parte delle navi in transito per prevenire il rischio di sinistri marittimi che possono coinvolgere navi petroliere, gasiere, chimichiere. Tale risoluzione — non applicabile alle navi da guerra — è stata recepita dall’Italia con Decreto del ministro dei Trasporti del 27 novembre 1998 che: 1) stabilisce un sistema di controllo (c.d. «rapportazione obbligatoria») del traffico denominato Bonifacio Traffic la cui gestione è affidata alla Capitaneria di porto di La Maddalena nella veste di autorità VTS delle Bocche di Bonifacio. La sua esecuzione da parte della Francia è avvenuta con Arrête Prefectoral n. 84/98.
Bocche di Bonifacio e arcipelago della Maddalena (Fonte: UN).
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Italia e Francia non hanno dunque, sinora, posto limiti alla libertà di navigazione pur avendo richiesto all’IMO (e ottenuto nel 2011) che lo stretto, in considerazione della sua pericolosità e vulnerabilità ambientale, sia designato «particularly sensitive sea area» (PSSA) e che al suo interno siano quindi adottate misure valevoli erga omnes di: 1) canalizzazioni obbligatorie mediante «traffic separation scheme» (TSS); 2) individuazione di aree da evitare; 3) istituzione di un «vessel traffic system» (VTS); 4) introduzione del pilotaggio obbligatorio per particolari categorie di navi trasportanti carichi pericolosi e tossici. Italia e Francia appaiono decisi a continuare a seguire il consolidato approccio improntato sia a una stretta cooperazione bilaterale «cross border», sia al coinvolgimento dell’IMO in tutti i provvedimenti di rilievo internazionale attinenti la sicurezza della navigazione e la protezione dell’ambiente. L’obiettivo comune è quello della creazione del Parco internazionale delle Bocche — la cui realizzazione è stata avviata nel 2010 da Italia e Francia a seguito di accordo — che dovrà evitare il passaggio di navi con sostanze a rischio nel fragile ecosistema dello stretto per la cui tutela e valorizzazione è stata anche presentata all’UNESCO la proposta di designarlo come patrimonio dell’umanità.
Area delle Bocche di Bonifacio interessata dalla proposta di parco internazionale (Fonte: OEC).
In tale contesto si colloca la proposta più volte avanzata di escludere dalle Bocche il traffico internazionale che tuttavia non ha sinora trovato accoglimento per le difficoltà giuridiche di disapplicare il regime previsto per gli stretti internazionali. Una riflessione in materia potrebbe essere condotta congiuntamente da Italia e Francia previo esame delle opzioni offerte dall’interpretazione del concetto di «stretto usato per la navigazione internazionale» (art. 34 UNCLOS) il quale presuppone l’accertamento tecnico della sua idoneità dal punto di vista della sicurezza della navigazione. O anche dall’applicazione di strumenti come il protocollo di Smirne sui traffici transfrontalieri di carichi pericolosi (v. Traffico e trasporto rifiuti pericolosi in mare) che consentirebbe a Italia e Francia di ottenere una notifica preventiva, da parte delle navi rientranti nella specifica disciplina, in modo da porre in essere adeguate misure di prevenzione. 6.2 Canale di Corsica È compreso tra Capo Corso e l’isola della Capraia e ha un’ampiezza, misurata dalle linee di base di Francia e Italia dalla linea di costa, inferiore alle 24 mn. In particolare, a nord (tra Capo Corso e l’isola di Capraia) le acque territoriali italo-francesi misurano circa 16 mn; mentre a sud mantengono una estensione inferiore alle 24 mn sino al punto di coordinate 42°11’42’’N - 009°54’30’’E in cui iniziano le acque Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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internazionali. In mancanza di un accordo di delimitazione, finché non entrerà in vigore l’accordo di Caen del 2015 sulle frontiere marittime tra Italia e Francia, si applica il principio dell’art. 15 dell’UNCLOS (v. Delimitazione) secondo cui «…nessuno dei due Stati ha il diritto, in assenza di accordi contrari, di estendere il proprio mare territoriale al di là della linea mediana di cui ciascun punto è equidistante dai punti più prossimi delle linee di base dalle quali si misura la larghezza del mare territoriale di ciascuno dei due Stati…». Al pari delle Bocche di Bonifacio, il canale di Corsica è interamente ricoperto dalle acque territoriali italiane e francesi e quindi, quale stretto che mette in comunicazione due parti di alto mare, rientra nella categoria degli stretti internazionali. Come tale è sottoposto al regime del passaggio in transito (v.). Esso è, infatti, percorso da cospicui flussi di traffico di qualsiasi bandiera (circa 20.000 transiti di navi l’anno) che ne fa escludere il carattere di semplice via marittima di cabotaggio.
Canale di Corsica, dispositivo di separazione del traffico (Fonte: omi.delegfrance).
6.3 Canale di Corinto Inaugurato nel 1893, questo canale — che mette in comunicazione le acque territoriali del golfo di Corinto con quelle del golfo di Salamina — risponde unicamente alla esigenza commerciale di ridurre i tempi di navigazione. In relazione a questa caratteristica deve essere considerato un canale interno, sottoposto quindi interamente alla sovranità della Grecia, e non uno stretto in cui vige il passaggio inoffensivo, né, a maggior ragione, una via d’acqua internazionale aperta al libero transito di tutti gli Stati. 6.4 Canale di Kiel Costruito nel 1896 per l’esigenza strategica di mettere in comunicazione il Mare del Nord con il mar Baltico, questo canale fu inizialmente sottoposto alla sovranità esclusiva della Germania. Successivamente, al termine della Prima guerra mondiale, con l’art. 380 del trattato di pace di Versailles del 28 giugno 1919, fu stabilito che il canale «e le sue vicinanze dovessero essere lasciate libere e aperte alle navi mercantili e da guerra di tutte le nazioni in pace con la Germania, a condizioni di completa parità». Tale regime di libertà di transito in tempo di pace fu riaffermato dalla Corte permanente di giustizia internazionale in relazione al caso, avvenuto nel 1921, di un mercantile britannico il cui transito era stato impedito dalla Germania, sulla base del principio per cui il canale aveva cessato di essere un canale navigabile interno per divenire una via d’acqua internazionale, aperta, in tempo di pace, a tutte le nazioni per l’accesso al mar Baltico. 172
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6.5 Canale di Panama Aperto al traffico il 14 agosto 1914, il canale di Panama era stato costruito sulla base del trattato di Hay-Bunau-Varilla del 18 novembre 1903 con cui Panama accordava la sovranità agli Stati Uniti sulla costruendo via d’acqua. Lungo complessivamente circa 80 km, il canale riduce di circa 8.000 mn la distanza tra New York e San Francisco via Capo Horn. Le dimensioni delle navi che possono transitarvi (tempo medio 9 ore) sono in funzione delle chiuse in cui devono essere immesse per superare i salti di quota. Il Trattato di Washington del 7 settembre 1977 tra Stati Uniti e Panama, formato da due distinti accordi, ha in parte modificato il regime del canale previsto dal precedente trattato del 1903. L’accordo iniziale, noto come Neutrality Treaty, riconosceva lo status di via d’acqua internazionale a carattere neutrale del canale di Panama prevedendo che esso, sia in tempo di pace sia in tempo di guerra, «rimanga sicuro e aperto al pacifico transito da parte delle navi di tutte le nazioni in termini di completa eguaglianza», in modo che «... le navi da guerra di tutte le nazioni avranno diritto in ogni momento di transitare per il canale... senza essere assoggettate a condizioni per il transito, a ispezioni, perquisizioni o sorveglianza». Agli Stati Uniti veniva riconosciuto il ruolo di garanti della libertà di transito nel canale e del suo status di neutralità. Con il secondo accordo è stato invece previsto il passaggio dagli Stati Uniti alla Panama Canal Authority del controllo sul canale, a decorrere dal 1° gennaio 2000. È stato completato nel 2016 il progetto di ampliamento del canale mediante la costruzione di nuove chiuse e allargamento della via d’acqua, in modo da permettere il passaggio di navi di maggiori dimensioni (le Post-Panamax: lunghezza circa 350 m, larghezza 50 m, immersione 15 m). 6.6 Canale di Suez (a) Inaugurazione Il corteo di navi che il 17 novembre 1869 celebrò l’inaugurazione del canale di Suez trasportava, oltre al chedivè d’Egitto Ismail, molte teste coronate, a cominciare dall’imperatrice Eugenia, moglie di Napoleone III, imbarcata sul panfilo Aigle, all’imperatore Francesco Giuseppe e al Principe di Galles. L’Italia, benché non rappresentata da membri della famiglia reale, aveva inviato ad Alessandria una nutrita formazione navale. Sul panfilo dell’imperatrice Eugenia vi era anche il progettista del canale, Ferdinand de Lesseps, a testimoniare l’orgoglio della Francia per la realizzazione di un’impresa fortemente voluta. In realtà, i meriti non erano solo di Lesseps, ma anche di tutti quelli, compresi alcuni italiani, che avevano creduto nella possibilità di realizzare il canale di Suez, non solo per motivi commerciali e politici, ma anche in nome di ideali universalistici. (b) La via d’acqua universale Il collegamento del Mediterraneo al Mar Rosso rappresenta, com’è noto, il punto di arrivo di un lungo processo che affonda le sue radici nella storia più antica dell’Egitto e nei progetti elaborati e/o realizzati nelle varie epoche dai faraoni, dai Persiani, dall’imperatore Traiano, dai califfi Abassidi. Si pensò allora a canali trasversali tra il ramo orientale del Nilo e i Laghi Amari, collegando questi con il Mar Rosso. All’inizio del Cinquecento, Venezia — per rimediare ai danni al suo commercio con Levante, derivanti della scoperta portoghese della Via delle Indie — immaginò di scavare un vero e proprio canale tra i due mari. L’idea veneziana, dopo che la spedizione di Napoleone in Egitto la riportò all’attenzione internazionale, divenne realtà grazie alla determinazione del diplomatico francese Ferdinand de Lesseps. Questi, ottenuta la necessaria concessione, nel 1859 dette avvio all’impresa avvalendosi delle capacità tecniche di Luigi Negrelli, ingegnere ferroviario di origine trentina e di nazionalità austriaca. Le finalità economico-politiche che animavano Lesseps non devono tuttavia far dimenticare che tra i paladini del canale vi era Prosper Enfantin, interprete del sansimonismo, movimento facente capo a Henri de Saint-Simon, il quale aveva inserito il taglio dell’istmo di Suez in un vasto programma di ”rigenerazione sociale” del mondo. Enfantin partecipò alla costituzione della Société d’études pour le canal de Suez, spinto, sulla scia del suo maestro, da una visione universale: l’opera venne immaginata come mezzo per realizzare un nuovo ordine internazionale in cui la vitalità dell’Oriente si sarebbe saldata con il razionalismo dell’Occidente, il mondo musulmano e quello cristiano. Così, quando nel 1854 Said Pashià rilasciò a Lesseps un firmano (decreto) per realizzare il canale, stabilì come condizione che l’opera sarebbe
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stata gestita da una compagnia a carattere «universale», e che il transito fosse aperto a tutti gli Stati, su una base di completa eguaglianza. Questa clausola fu ampliata nel secondo decreto del 1856 il quale stabilì che il canale dovesse essere un «passaggio neutrale». La successiva convenzione del 1866 tra il governo egiziano e la compagnia chiarì inoltre che il transito dovesse essere aperto ai bastimenti di tutte le nazioni, senza escludere le navi da guerra. Un ulteriore fatto che accelerò l’internazionalizzazione del canale fu, nel 1882, l’occupazione britannica della zona del canale (cui l’Italia, benché invitata, non volle partecipare), dopo la rivolta nazionalistica del colonnello egiziano Arabi. Il nostro paese aveva comunque assunto un ruolo attivo nel corso della conferenza internazionale convocata a Costantinopoli per concertare misure contro i rivoltosi, prima dell’occupazione britannica. Il rappresentante italiano propose che fosse riconosciuta l’urgente necessitaÌ di creare un’organizzazione internazionale, con il concorso della Turchia, a garanzia della libertaÌ di passaggio nel canale. L’iniziativa italiana, nonostante fosse stata giudicata favorevolmente, non ebbe seguito per le riserve manifestate da vari paesi. A riprova del ruolo ricoperto nell’affermazione della libertaÌ di transito nel canale, l’Italia fu invitata dal premier britannico Granville, nel 1885, a far parte della commissione incaricata di predisporre uno statuto internazionale. In questo modo, dopo che le Gran Bretagna ottenne garanzie sulla sua occupazione della zona del canale, si giunse alla sigla della Convenzione di Costantinopoli del 29 ottobre 1888 firmata da Italia, Austria-Ungheria, Francia, Germania, Gran Bretagna, Paesi Bassi, Russia, Spagna e Turchia. (c) La convenzione di Costantinopoli La convenzione, in linea con la genesi politica del progetto, si propone di stabilire — com’è detto nel suo preambolo — un «sistema definitivo destinato a garantire, in ogni tempo e a qualsiasi paese, il libero uso del canale». Fondamentale è il suo art. 1, il quale afferma un regime di transito improntato alla garanzia di libertà di navigazione ed eguaglianza di trattamento per le navi di qualsiasi bandiera, prevedendo che: «Il canale sarà sempre libero, in tempo di guerra come in tempo di pace, a ogni nave mercantile o da guerra, senza distinzione di bandiera». Connesso al diritto di transito delle navi da guerra straniere è il regime di demilitarizzazione (v.) del canale stabilito dall’art. 4 secondo cui il canale deve restare aperto anche in tempo di guerra alle navi militari dei belligeranti, ma nessun atto di ostilità volto a ostruirlo, può essere compiuto al suo interno. Tale regime potrebbe essere anche definito come neutralizzazione se non fosse che il termine rischia di creare equivoci. Il canale è sì neutralizzato nel senso che nessun atto di ostilità può essere compiuto al suo interno (compreso il movimento di truppe e armamenti o lo stazionamento di navi al suo interno), ma non lo è se si considera che nessuna limitazione è fissata per il caso in cui il transito di navi da guerra di belligeranti sia preordinato a compiere atti di ostilità all’esterno del canale. La demilitarizzazione fu in generale osservata nel corso delle due guerre mondiali, tranne che in alcuni episodi: navi tedesche che non avevano osservato le regole di transito rapido furono internate dalla Gran Bretagna e Forze turche tentarono nel 1915 di bloccarlo. Durante la crisi anglo-italiana del 1936, all’epoca dell’occupazione italiana dell’Etiopia, la Gran Bretagna rinunciò, inoltre, al progetto di inibire il transito delle navi italiane quale misura da adottare in applicazione delle sanzioni decretate dalla Società delle nazioni contro il nostro paese. Nel corso della Seconda guerra mondiale le acque del canale vennero bombardate dalle Forze dell’Asse e mine acustiche e magnetiche vennero lanciate al suo interno. (d) Il canale, l’Egitto e Israele Il controllo del canale da parte del Regno Unito ebbe fine gradualmente: prima, nel 1922, con la concessione dell’indipendenza all’Egitto e il termine del protettorato; poi, nel 1947 e nel 1954, con la partenza dall’Egitto e l’abbandono della zona del canale. Gli avvenimenti precipitarono, com’è noto, a seguito della nazionalizzazione della compagnia, operata il 26 luglio 1956 dal presidente Nasser, cui seguì il fallimento politico-diplomatico dell’occupazione della zona del canale tentata nell’ottobre 1956 da una Forza di intervento franco-inglese con il pretesto di interporsi nel conflitto tra Israele ed Egitto. Nel frattempo, il Consiglio di sicurezza delle NU aveva emanato la Risoluzione 118 (1956) che fissava le condizioni per la soluzione della crisi, indicando come precondizioni il mantenimento della libertà di transito (politica e tecnica) nel canale nonché il rispetto dell’indipendenza dell’Egitto. La compagnia del canale, per effetto del provvedimento di nazionalizzazione, venne sostituita dalla Suez Canal Authority, la quale è tuttora «a public and an independent authority of a juristic personality; SCA shall report to the Prime minister». 174
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Il canale, dopo la rimozione di alcuni relitti di navi affondate, venne riaperto il 10 aprile 1957. L’Egitto, al termine della crisi, s’impegnò con la dichiarazione del 24 aprile 1957 a «mantenere libero il canale e non interrompere la navigazione a favore di tutte le nazioni entro i limiti e in accordo con le previsioni della convenzione di Costantinopoli del 1888». L’impegno unilaterale dell’Egitto a rispettare lo status quo ante non impedì tuttavia di applicare il divieto di transito nei confronti delle navi di bandiera israeliana stabilito nel 1948. Il divieto fu successivamente esteso a qualsiasi carico diretto in Israele, a prescindere dalla bandiera della nave utilizzata per il trasporto con motivazioni di vario genere riconducibili — come dichiarato dal Primo ministro israeliano all’Assemblea generale delle NU nel 1959 — alla tesi che il Governo egiziano avesse il diritto, in ragione delle ostilità in atto, di adottare misure difensive nel canale. La situazione di ostilità tra i due paesi sfociò, come si ricorderà, nella «Guerra dei 6 giorni» del giugno 1967, durante la quale Israele occupò la penisola del Sinai sino alle rive del canale, mentre l’Egitto bloccò il transito della via d’acqua mediante l’affondamento di quindici navi. La chiusura del canale si prolungò per otto anni determinando gravissime conseguenze per l’economia dei paesi mediterranei. Si ebbe per conseguenza la spinta a sviluppare la navigazione lungo la rotta di Buona Speranza utilizzando superpetroliere di gigantesche dimensioni (sino a 400.000 t) e si ebbero elementi a favore della tesi, già espressa in passato al momento dell’avvio dell’impresa della compagnia, di chi considerava il canale un’entità di significato regionale, obsoleto dal punto di vista economico e strategico. Ciononostante, grazie all’impegno della comunità internazionale e in concomitanza con il miglioramento delle relazioni tra Egitto e Israele, il canale fu riaperto il 5 giugno 1975. Nell’art. V del Trattato di pace tra Israele ed Egitto del 26 marzo 1979 (v. stretto di Tiran) fu infatti richiamata l’applicazione della convenzione di Costantinopoli nei seguenti termini: «Ships of Israel, and cargoes destined for or coming from Israel, shall enjoy the right of free passage through the Suez canal and its approaches through the gulf of Suez and the Mediterranean sea on the basis of the Constantinople convention of 1888, applying to all nations, Israeli nationals, vessels and cargoes, as well as persons, vessels and cargoes destined for or coming from Israel, shall be accorded non-discriminatory treatment in all matters connected with usage of the canal». (e) La nuova vita del canale Dopo aver superato indenne numerose rivalità e crisi internazionali il canale è giunto, nel 2019, in piena salute, ai suoi centocinquant’anni. Certo, non è più la fondamentale via di comunicazione dell’Impero britannico come gli inglesi andavano ripetendo con fierezza, a sottolineare che il canale era sì una via d’acqua internazionale, ma pur sempre un’infrastruttura funzionale all’interesse di mantenere i collegamenti con i loro possedimenti. Alla scomparsa della Via delle Indie, concetto geopolitico che rimanda alla teoria dei choke points, si è tuttavia sostituito oggi qualcos’altro: il dominante imperialismo commerciale della Cina ha, difatti, elaborato la strategia della Via della Seta Marittima (Maritime Silk Road) che ha nel canale il suo punto di forza. Pechino ha quindi da tempo iniziato a interessarsi alle vie di accesso a Suez, Gibuti, Massaua e, soprattutto, alla Suez economic zone. Sta di fatto che il canale è risorto a nuova vita il l6 agosto 2015: al termine dei lavori di ampliamento (la profondità dello scavo è stata portata a 24 m) è stata inaugurata la nuova via d’acqua di 35 km, parallela al precedente tratto, Grandi Laghi Amari-Ismailia. In questo modo si sono ridotti i tempi di percorrenza (11 ore) e si è raddoppiato il Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
Canale di Suez, nuovo tracciato (Fonte: ENI, Oil, n. 31).
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numero delle navi da ammettere al transito (97 navi al giorno). Ma soprattutto si è eliminato ogni limite di dimensione (in precedenza 240.000 tsl) delle stesse navi, rendendo nuovamente competitiva la rotta del canale a beneficio dei porti mediterranei e dello stesso Egitto, che ha nei diritti di transito la fonte principale della sua economia. Nel 2018 i transiti sono aumentati, raggiungendo il record di 18.000 navi. Si è così scongiurato il rischio, corso dal Mediterraneo, di ridurre i suoi traffici durante il periodo più acuto della crisi della pirateria (v.) del Corno d’Africa, tra il 2008 e il 2014. Al tempo, le associazioni degli armatori e la stessa IMO raccomandarono, infatti, allo shipping di tenersi lontano dal Corno d’Africa e dal golfo di Aden seguendo la rotta, più lunga ma anche più sicura, del Capo di Buona Speranza. E si sono anche poste le condizioni per evitare che nel medio periodo le nuove rotte polari (v. mare Artico), risultando più competitive economicamente, possano marginalizzare ulteriormente il Mediterraneo. 6.7 Stretto di Bab el-Mandeb (a) Importanza strategica Lo Stretto di Bab el-Mandeb, avente un’ampiezza massima di 16 km nella parte centrale, mette in comunicazione l’oceano Indiano con il Mar Rosso (v.) e, attraverso il canale di Suez (v.), con il mar Mediterraneo (v.). Esso è qualificabile, dal punto di vista della rilevanza per la navigazione, come una via d’acqua internazionale; è coperto integralmente dalle acque territoriali di Gibuti e Yemen e appartiene, sulla base di quanto previsto dall’art. 37 dell’UNCLOS, alla categoria degli stretti che, mettendo in comunicazione una parte di alto mare o ZEE con altra parte di alto mare o ZEE, sono sottoposti al regime del «passaggio in transito» (v.). Notevole è l’importanza strategica di questo stretto, in quanto, come può facilmente intuirsi, un suo blocco determinerebbe l’interruzione dei collegamenti marittimi che transitano per il canale di Suez. Non va dimenticato, al riguardo, che nel 1972 un cacciatorpediniere francese fu bombardato dall’isola yemenita di Perim (posta al centro dello stretto) e che nel 1971 la petroliera liberiana Coral Sea, noleggiata da Israele per trasportare petrolio da Eilat, fu colpita da due missili. Nel quadro di questa situazione, , Stati Uniti e Israele stipularono nel 1975 un Memorandum dedicato all’impegno statunitense nella difesa della libertà di transito nello stretto, nei seguenti termini: «In accordance with the principle of freedom of navigation on the high seas and free and unimpeded passage through and over straits connecting international waters, the United States Government regards the straits of Bab el- Mandeb and the strait of Gibraltar as international waterways. It will support Israel's right to free and unimpeded pasStretto di Bab el-Mandeb (Fonte: US LIS, 112). sage through such straits…». (b) Regime passaggio Il regime dello stretto stabilito dall’UNCLOS è come detto di ampia portata e tale da mettere al riparo da qualsiasi illegittima limitazione al transito attuata in tempo di pace dagli Stati rivieraschi. Nel firmare l’UNCLOS nel 1982 lo Yemen ha tuttavia espresso un orientamento restrittivo sul transito delle unità militari con la seguente dichiarazione: «The Yemen Arab Republic adheres to the concept of general international law concerning free passage as applying exclusively to merchant ships and aircraft; nuclear-powered craft, as well as warships and warplanes in general, must obtain the prior agreement of the Yemen Arab Republic before passing through its territorial waters, in accordance with the established norm of general international law relating to national sovereignty». La posizione yemenità è stata contestata dagli Stati Uniti nel 1986 sostenendo che: «Transit passages is a right that may be exercised by ships of all nations, regardless of type or means of propulsion, as well as by aircraft, both state and civil». A più riprese il Governo di Sanaa, in anni non lontani, ha continuato a mantenere un simile approccio richiedendo alle navi da guerra in transito di non adottare misure di autodifesa, compreso il sorvolo da parte degli aeromobili imbarcati. I rischi del passaggio attraverso 176
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lo stretto sono tornati di attualità nell’ambito del conflitto che oppone Sanaa a Ryad. Nel 2016, barchini veloci presumibilmente condotti da ribelli yemeniti Houthi, hanno lanciato granate contro due mercantili sauditi. Nel febbraio 2017, per contrastare il possibile minamento dello stretto da parte di gruppi terroristici, gli Stati Uniti hanno dislocato in area proprie Forze navali: al 2020 ne è in atto il pattugliamento nell’ambito della Operation Sentinel cui partecipano unità di Emirati, Arabia Saudita, Kuwait, Qatar, Australia e UK, missione che sorveglia anche lo stretto di Hormuz. La minaccia ai due stretti è, infatti, vista come espressione di un unico disegno. Da aggiungere infine che Bab el-Mandeb fa parte della Piracy HRA, area ad alto rischio pirateria del Corno d’Africa e del golfo di Aden. 6.8 Stretto di Hormuz (a) Caratteristiche geografiche Via d’acqua di accesso al golfo Persico che prende nome dall’isola iraniana di Hormuz e che, prima ancora che stretto in senso geografico e giuridico, è un importantissimo choke point mondiale. Il mantenimento della libertà di navigazione al suo interno è, infatti, vitale per l’approvvigionamento energetico dei paesi occidentali: si calcola che circa il 25 % delle esportazioni mondiali di petrolio vi passi attraverso e che il Giappone riceva il 75% del proprio fabbisogno. Il transito giornaliero è stimato in 15 milioni di barili. Vie alternative di trasporto degli idrocarburi via mare sono tuttavia rappresentate dall’oleodotto che attraversa l’Arabia Saudita da Abqaiq a Yanbu in Mar Rosso (v.) o da quello che passando per l’Iraq raggiunge il Mar Nero (v.) a Ceyhan in Turchia. La sua ampiezza, nel punto più stretto che è interamente ricoperto dalle acque territoriali di Iran e Oman, è di 21 mn: al suo interno vi è uno schema di separazione del traffico costituito da due canali di traffico larghi ciascuno 1 miglio, ricadenti rispettivamente nelle acque territoriali dei due paesi, separati da una buffer zone di 2 mn posta a cavallo della mediana. In vicinanza della penisola omanita di Musandam, dove vi sono gli isolotti di Quain, i corridoi di entrata e di uscita sono posti integralmente nelle acque territoriali dell’Oman; dal lato iraniano la presenza delle isole di Hormuz, Qeshm e Larak rende i fondali non del tutto idonei alla navigazione; questi sono invece più profondi sul versante omanita. In prossimità dello stretto, all’interno del golfo Persico, vi è l’isola di Abu Musa che, pur essendo rivendicata dagli Emirati Arabi Uniti, è in possesso dell’Iran assieme ai vicini isolotti della Grande e della Piccola Tunb. In questa parte delle acque territoriali iraniane transita il traffico con direttrice nord-ovest. A seconda delle rotte seguite dallo shipping e per effetto degli schemi di separazione approvati dall’IMO, può dirsi, in sostanza, che il traffico marittimo dell’area è equamente distribuito nelle acque territoriali di Iran e Oman. (b) Libertà di transito Allo stretto di Hormuz si applica il regime del passaggio in transito (v. Transito negli stretti), quale stretto internazionale interamente coperto dalle acque territoriali di Iran e Oman (21 miglia di ampiezza minima tra le isole di Larak e Quain, separate da una linea di equidistanza stabilita nel 1974) che collega aree di alto mare e di ZEE. Il che vuol dire che sia le navi mercantili sia quelle da guerra di qualsiasi paese possono transitarvi senza preavviso a condizione di rispettare gli obblighi stabiliti dall’articolo 39 dell’UNCLOS. Esse devono quindi «refrain from any threat or use of force against the sovereignty, territorial integrity or political independence of States bordering the strait [and] from any activities other than those incident to their normal modes of continuous and expeditious transit». Il problema riguarda le modalità di passaggio in transito, contestandosi da parte iraniana (ma a volte anche omanita) che le navi da guerra, nel navigare nello stretto, possano adottare misure militari di self protection da rischi potenziali, tenendo in volo elicotteri vicino all’unità o adoperando dispositivi per la sorveglianza subacquea. Durante il passaggio le navi sono inoltre tenute a rispettare, in conformità con l’articolo 41 dell’UNCLOS, gli schemi di separazione del traffico prescritti da Iran e Oman e approvati dall’IMO. (c) Incidenti navali Incidenti sono più volte occorsi tra unità statunitensi in transito e imbarcazioni iraniane in pattugliamento. Nell’area di acque internazionali, che è all’imboccatura orientale dello stretto, il 6 gennaio 2008, tre navi da guerra statunitensi sfiorarono lo scontro armato con cinque motoscafi veloci dei pasdaran Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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iraniani. Incontri ravvicinati, ripetutisi a più riprese, hanno coinvolto nel 2020 il USCGC Maui ed altre Unità statunitensi della VI Flotta fatte oggetto di manovre di harassing da parte di motoscafi veloci in violazione delle COLREGS 72. Il contenzioso latente tra Stati Uniti e Iran si incentra sul fatto che l’Iran nega agli Stati Uniti — quale Stato che non è parte dell’UNCLOS — la titolarità dei diritti di libero transito garantiti dalla stessa UNCLOS; gli Stati Uniti affermano invece che la fonte di questi diritti prescinde dall’UNCLOS, in quanto è consuetudinaria. Altro problema è che gli Stati Uniti ritengono che il sistema di linee di base iraniane non sia conforme al diritto internazionale, considerando perciò acque internazionali quelle che per Teheran sono acque territoriali. Il mantenimento della libertà di transito nello stretto è l’obiettivo della European Maritime Awareness in the Strait of Hormuz (EMASOH), operazione multinazionale a guida francese cui aderisce l’Italia, lanciata nel 2020 con l’intento di proteggere il libero transito ed evitare possibili rischi a navi ed equipaggi in transito. La missione ha preso il via dopo che nel 2019 il mercantile britannico Stena Impero era stato sequestrato nello stretto dagli iraniani. La Gran Bretagna partecipa alla Operation Sentinel, di cui gli Stati Uniti sono leader, dedicata a fini analoghi a quelli di EMASOH, nell’area più vasta che include oltre al golfo e a Hormuz, il golfo di Oman e lo stretto di Bab el-Mandeb (v.), area che è ritenuta un unico security complex. (d) Scenari del passato È utile lo scenario in cui negli anni Ottanta del Novecento tutto il golfo Persico e Hormuz divennero teatro di eventi di grande rilevanza giuridico-strategica. Le modalità aggressive con cui le imbarcazioni di Pasdaran iraniani conducevano, nell’ambito dei diritti di belligeranza contro l’Iraq, la visita ai mercantili neutrali (v. Contrabbando di guerra), portarono allora i paesi occidentali a impiegare nell’area proprie navi da guerra, comprese unità cacciamine, la cui attività fu coordinata dall’allora Unione europea occidentale (UEO). L’Italia inviò un Gruppo navale della Marina Militare con il compito di proteggere i mercantili di bandiera dopo l’attacco alla portacontainer Jolly Rubino con colpi di bazooka avvenuto il 2 settembre 1987 al largo dell’isola di Farsi, ma mai rivendicato dall’Iran. Lo stesso fecero altri paesi quali la Gran Bretagna e gli Stati Uniti che si assunse anche la protezione di mercantili stranieri attribuendo loro la propria bandiera mediante reflagging. In questo contesto si colloca il provvedimento adottato dalla Marina italiana di scortare in convoglio (v.) i mercantili di bandiera durante il transito nello stretto. L’Iran aveva, infatti, disposto la sospensione del libero transito nella parte dello stretto rientrante nelle proprie acque territoriali dichiarandole «war zone» per la necessità di dover svolgere esercitazioni militari. (e) Illegittimità limitazioni passaggio La chiusura alla navigazione dello stretto, minacciata in anni passati a più riprese dall’Iran, sarebbe un provvedimento illegittimo sia in tempo di pace sia nel corso di un conflitto armato (v. Diritto bellico marittimo). Una tale chiusura non potrebbe nemmeno essere giustificata dalla necessità per l’Iran di difendere la propria sicurezza nazionale o di reagire ad attacchi al proprio territorio. Qualsiasi azione militare che avesse per effetto l’interdizione, anche parziale — come avverrebbe se restasse libero il solo passaggio attraverso le acque territoriali dell’Oman — del traffico attraverso Hormuz sarebbe perciò contraria al diritto internazionale e potrebbe essere contrastata con ogni mezzo, nel rispetto della Carta delle NU. D’altronde un attacco a navi mercantili e/o da guerra in transito nello stretto in tempo di pace — condotto con qualsiasi arma, mine comprese, per interdire il passaggio — configurerebbe un’aggressione verso lo Stato di bandiera, in accordo con la Risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni unite 3314 (XXIX); il Consiglio di sicurezza avrebbe così titolo a intervenire per ristabilire la pace e la sicurezza internazionale e le nazioni aggredite potrebbero, nel frattempo, usare la forza in legittima difesa ex articolo 51 della Carta delle Nazioni unite. Detto che non è possibile ipotizzare alcun provvedimento che abbia a oggetto, in modo diretto o indiretto, l’interdizione del traffico nello stretto di Hormuz, resta il problema dell’esercizio da parte dell’Iran di poteri di interferenza con la libertà di navigazione di mercantili in transito. In premessa va chiarito che la questione non riguarda il diritto di visita di cui all’articolo 110 dell’UNCLOS nei casi ivi previsti in quanto questi poteri possono essere usati in alto mare o nelle acque internazionali. Durante il transito in uno stretto internazionale non è dunque ipotizzabile un esercizio di poteri coercitivi da 178
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parte dello Stato costiero nei confronti dei mercantili di altra bandiera analoghi a quelli esercitabili dalle navi da guerra in alto mare (v. Polizia dell’alto mare). Il punto in esame concerne invece l’esercizio della giurisdizione da parte dello Stato costiero nei confronti di un mercantile che abbia violato le norme emanate dallo stesso Stato ai sensi dell’articolo 42 dell’UNCLOS. Norme, che le navi in transito sono tenute a osservare a condizione che esse abbiano avuto debita pubblicità. Riguardo alle misure applicabili in simili casi nulla è previsto dall’UNCLOS, tranne che la nave in transito abbia causato un inquinamento e lo Stato costiero intenda avvalersi della possibilità di ricorrere a misure appropriate (tra le quali potrebbe esStretto di Hormuz (Fonte: Roach-Smith). sere previsto anche il sequestro della nave) ai sensi dell’articolo 233 dell’UNCLOS. Sta di fatto che, per il sequestro della citata petroliera britannica Stena Impero, l’Iran ha formulato accuse di violazione di non ben precisate «international maritime rules». 6.9 Stretto di Gibilterra (a) Libertà di passaggio e sorvolo Largo 7,5 mn nella sua parte più stretta e interamente coperto dalle acque territoriali di Marocco e Spagna, rientra nella categoria degli stretti internazionali ove, secondo l’UNCLOS, vige il regime del passaggio in transito (v.) che prevede il diritto di navigazione (in immersione per le unità subacquee) e di sorvolo in favore di tutti gli Stati. Lo stretto prende il nome dalla rocca di Gibilterra che è ancora «territorio d’oltremare» della corona britannica. Il regime di libertà di transito è sancito anche dalla Dichiarazione di Londra dell’8 aprile 1904 tra Gran Bretagna e Francia (cui aderì successivamente la Spagna con la dichiarazione di Parigi del 3 ottobre 1904) che ha per oggetto la demilitarizzazione (v.) della costa marocchina dello stretto. La Spagna, nell’aderire all’UNCLOS, ha tuttavia espresso riserve interpretative dichiarando che: a) il regime di passaggio in transito stabilito nella parte III dell’UNCLOS è compatibile con il diritto della Stato costiero di stabilire in uno stretto internazionale le sue regolamentazioni; b) nell’art 39, 3 della stessa UNCLOS la parola «normalmente» (riferita all’obbligo per gli aeromobili di Stato in transito sullo stretto di rispettare le Regole dell’aria dell’ICAO e di tener conto della sicurezza della navigazione) va interpretata come «salvo forza maggiore o pericolo grave». Il punto di vista spagnolo è stato contestato dagli Stati Uniti i quali hanno sostenuto che la pretesa spagnola non è conforme al Diritto internazionale, soprattutto per ciò che riguarda la possibilità di porre vincoli al diritto di sorvolo degli aeromobili militari. Le differenti vedute sul sorvolo dello stretto hanno costretto gli Stati Uniti a pianificare il raid conStretto di Gibilterra (Fonte: Francalanci-Scovazzi). tro la Libia del 1986 con rotte alternative. Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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(b) Disputa territoriale Il dominio britannico su Gibilterra risale al Settecento, quando la rocca, dopo essere stata occupata dalla Gran Bretagna nel 1704, fu ceduta, al termine della Guerra di successione spagnola, con il Trattato di pace di Utrecht del 13 luglio 1713 la cui clausola X attribuisce a Londra «la piena e integrale proprietà della città e della rocca di Gibilterra, assieme al porto, alle fortificazioni e ai forti a essi relativi, da mantenere e utilizzare senza limitazioni con ogni genere di diritti, per sempre, senza giurisdizione territoriale e senza aperta comunicazione via terra con il territorio circostante…», salvo la prelazione della Spagna in caso di alienazione del possedimento. Un contenzioso esiste tuttora tra i due paesi sia per quanto riguarda la restituzione del possedimento sia per la pretesa britannica di attribuire a esso uno spazio di acque territoriali (v. Acque territoriali (Mediterraneo). Al riguardo la Spagna, nella citata adesione all’UNCLOS, ha dichiarato che «this act cannot be interpreted as recognition of any rights or situations relating to the maritime spaces of Gibraltar which are not included in article 10 of the treaty of Utrecht of 13 July 1713 between the Spanish and British Crowns». Più volte si sono verificati incidenti diplomatici tra unità navali per via della pretesa spagnola di interferire con l’attività di navi inglesi; tra di essi vi sono incontri ravvicinati messi in atto con finalità provocatorie che hanno anche riguardato sommergibili nucleari. A margine di questi fatti la Spagna ha proposto una cogestione degli spazi marittimi antistanti la rocca. Con la Brexit sono sorti ulteriori problemi riguardanti sia i movimenti transfrontalieri, sia il dominio britannico sulla penisola della linea che circonda la baia, sia l’operatività dell’aeroporto ivi esistente. STRETTO DI KERCH Vedi: Mare di Azov. 6.10 Stretto di Messina (a) Regolamentazione italiana Quale stretto che mette in collegamento due parti di alto mare, che è formato da un’isola e dalla costa del continente (l’ampiezza minima è di 3,1 km) e il cui transito può essere sostituito da una rotta alternativa di convenienza similare, è sottoposto al regime del transito inoffensivo non sospendibile (v.). Il passaggio nello stretto di Messina, a seguito del sinistro tra due petroliere avvenuto nella zona il 21 marzo 1985, è stato specificatamente regolamentato con il D.M. 8 maggio 1985 che ha interdetto, ai fini della salvaguardia dell’ambiente, il transito alle petroliere e alle navi con carichi nocivi di stazza lorda pari o superiore Sistema VTS dello stretto di Messina (Fonte: Guardia costiera). alle 50.000 t, stabilendo nel contempo, per la sicurezza della navigazione, il pilotaggio obbligatorio per particolari categorie di navi. L’Italia, per fronteggiare i pericoli derivanti dal crescente traffico attraverso lo stretto, con l’articolo 8, comma 7, del D.LGS. 1° ottobre 2007, n. 159 (convertito nella legge 222-2007) ha istituto «l’Area di sicurezza della navigazione dello stretto di Messina» affidandone la gestione a una specifica autorità le cui funzioni sono state disciplinate dal D.M. 23 giugno 2008, n. 128, provvedimento che ha anche regolamentato un nuovo schema di separazione del traffico. Il D.M. 760/2017, per garantire una gestione unitaria della navigazione nell’area dello stretto, ha poi affidato le competenze alla «Capitaneria di porto di Messina-Autorità marittima dello stretto».
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(b) Riserve Stati Uniti Gli Stati Uniti hanno espresso riserve nei confronti dell’iniziativa italiana basate sulla considerazione che lo stretto abbia carattere internazionale (gli Stati Uniti non sono parte dell’UNCLOS che disciplina invece, come eccezione al regime generale, gli stretti geograficamente simili a Messina) con la seguente Nota Verbale del 5 aprile 1985: «As the Government of the United States understands it, this decree is not intended to apply to warships or other governmental ships on non-commercial service exercising the right of innocent passage. It is the understanding... that this prohibition on navigation through the strait of Messina by specified vessels, and this requirement of pilotage for others, is intended to give the Government of Italy time in which to formulate proposals for the regulation of maritime traffic in the strait. ...The strait of Messina is a strait used for international navigation, to which... the regime of non-suspendable innocent passage applies. The regime of innocent passage is one that may be exercised by vessels of all States, re-gardless of type of cargo. By purporting to prohibit navigation through the strait of Messina by vessels of specified size carrying specified cargo, the Government of Italy appears to be attempting to suspend the right of innocent passage for such vessels, in contravention of longsettled customary and conventional international law... Furthermore, the Government of the United States must express its objection to the requirement, in the decree, that certain other vessels require pilots in order to exercise the right of innocent passage...[t]his requirement is inconsistent with the regime of non suspendable innocent passage that applies in the strait of Messina». 6.11 Stretto di Sicilia La denominazione di stretto di Sicilia è stata introdotta dall’autorità cartografica nazionale, in adempimento di una raccomandazione del Bureau Hydrographic International (BHI) volta a uniformare i toponimi marini. Il termine indica il tratto di mare tra la Tunisia e la Sicilia, in passato genericamente definito come canale di Sicilia, compreso tra Capo Bon e Capo Lilibeo. Dal punto di vista giuridico quello di Messina non è uno stretto internazionale, in quanto esiste, nella sua parte centrale, una zona di acque internazionali (v.) compresa tra le acque territoriali di Italia e Tunisia (v. acque territoriali (Mediterraneo), larga circa 50 miglia, nella quale è pacifica l’esistenza della libertà di transito e di sorvolo. 6.12 Stretto di Tiran (a) Status internazionale Il regime di tale stretto, collocato all’imboccatura del golfo di Aqaba (v. Mar Rosso) in cui ci sono le isolette saudite di Tiran e Sanafir (v. Isole), è sancito dall’art. V del Trattato di Pace tra Israele ed Egitto del 26 marzo 1979 (con gli Stati Uniti nel ruolo di garanti) che così stabilisce: «The parties consider the strait of Tiran and the gulf of Aqaba to be international waterways open to all nations for unimpeded and non-suspendable freedom of navigation and overflight. The parties will respect each other’s right to navigation and overflight for access to either country through the strait of Tiran and the gulf of Aqaba». Sulla base dell’UNCLOS (art. 311, 2) lo stretto di Tiran è dunque uno stretto per il quale il regime di transito è stabilito da un particolare accordo internazionale con regole compatibili con la stessa convenzione. Questo è avvenuto per impedire limitazioni all’accesso al porto israeliano di Eilat nel golfo di Aqaba. La Multinational Force and Observers (MFO) è l’organizzazione internazionale — che ha sede a Roma — creata da Israele, Egitto e Stati Uniti con l’accordo di pace suindicato per vigilare sulla libertà di passaggio. La MFO è l’unica organizzazione che, al di fuori delle NU, è incaricata di una missione internazionale: al tempo, difficoltà politiche, impedirono, infatti, l’intervento delle NU. (b Ruolo dell’Italia L’Italia è il quarto paese contributore della MFO, in termini di personale. La Marina Militare fornisce il proprio supporto, con tre pattugliatori classe «Esploratore» che costituiscono la Coastal Patrol Unit della MFO, sulla base di uno specifico accordo mediante scambio di note più volte rinnovato dopo la prima ratifica con legge 29 dicembre 1982, n. 967 . L’annesso II a tale accordo stabilisce, in particolare, che: «Il Governo italiano fornirà alla MFO un Contingente navale che avrà una responsabilità primaria nell’effettuare pattugliamenti navali nello stretto di Tiran e nelle sue vicinanze, come parte della missione della MFO per assicurare la libertà di navigazione attraverso tale stretto, conformemente all’articolo V del trattato di pace. Tale compito sarà
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svolto effettuando pattugliamenti navali intermittenti attraverso tale via d’acqua internazionale e nelle immediate vicinanze, osservando e riferendo palesi interferenze nella navigazione». La semplice formulazione di questo testo spiega meglio di qualsiasi altro l’essenza della missione di peace-keeping navale (v.) svolta in modo impeccabile dalla nostra Marina a beneficio di Egitto e Israele per garantire il libero transito internazionale nello stretto di Tiran e per consentire a Israele i collegamenti marittimi con il proprio porto di Eilat, posto alla sommità del golfo di Aqaba. Direttamente interessata è anche la Giordania, il cui porto di Aqaba è contiguo a Eilat, e l’Arabia Saudita quale paese rivierasco dello stretto sul versante orientale. In aggiunta, le unità italiane cooperano con l’Egitto per le attività SAR nelle acque di giurisdizione. 6.13 Stretti (turchi) (a) Status giuridico-politico Il regime applicabile al passaggio e alla navigazione nello stretto dei Dardanelli, nel Mar di Marmara e nel Bosforo è previsto dalla Convenzione adottata a Montreux il 20 luglio 1936. Il problema del transito di tali Stretti presenta rilevanti aspetti di natura storico-diplomatica sì da essere comunemente indicato come «Questione degli Stretti»: al riguardo si rinvia alla trattazione contenuta nella voce Mar Nero del presente Glossario. Paesi firmatari furono Turchia, Francia, Grecia, Bulgaria, Giappone e Unione Sovietica (l’Italia, pur non avendo preso parte alla conferenza preparatoria, aderì successivamente, nel 1938). Il principio guida in essa stabilito è quello fissato nell’art. 23 del Trattato di Pace di Losanna del 1923 stipulato tra la Turchia e le potenze alleate al termine della Prima guerra mondiale, secondo cui: «The High Contracting Parties are agreed to recognise and declare the principle of freedom of transit and of navigation, by sea and by air, in time of peace as in time of war, in the strait of the Dardanelles, the Sea of Marmora and the Bosphorus, as prescribed in the separate Convention signed this Stretti turchi (Fonte: Eia). day, regarding the regime of the Straits». Preliminarmente va notato che la parola «stretti» viene adoperata sia dal trattato di Losanna sia dalla convenzione di Montreux per indicare complessivamente Dardanelli, Mar di Marmmara e Bosforo. Il termine viene adottato generalmente sotto la forma «stretti turchi». Questa espressione presenta tuttavia una valenza di geopolitica del mare (v.) in quanto è contestata a seconda del punto di vista con cui alcuni paesi guardano al Mar Nero e al ruolo che la convenzione di Montreux assegna alla Turchia. Ecco quindi che da parte di alcuni si preferisce riferirsi a «stretti del Mar Nero» o anche a «stretti dei Dardanelli e del Bosforo», mentre altri usano il solo termine «stretti». Sta di fatto che la questione è divenuta a volte occasione di dispute lessicali nell’ambito delle attività navali tra i paesi aderenti alla NATO. (b) Convenzione Montreux La Convenzione, nel quadro della sicurezza della Turchia e degli Stati rivieraschi del Mar Nero, prevede che: — in tempo di pace, sia di giorno sia di notte, senza alcuna formalità, a meno di disposizioni sanitarie, la completa libertà di transito in favore delle navi mercantili di qualsiasi bandiera; — in tempo di guerra, qualora la Turchia non sia belligerante, il medesimo regime di transito alle navi mercantili di qualsiasi bandiera; — in tempo di guerra, qualora la Turchia sia belligerante, la libertà di passaggio e navigazione in favore dei mercantili appartenenti a paesi non in conflitto con la Turchia, a condizione che essi non assistano il nemico, e transitino di giorno rispettando rotte obbligate. 182
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Il diritto di passaggio è altresì riconosciuto alle navi da guerra sia pure con particolari restrizioni e con l’obbligo di informare il Governo turco, otto giorni prima del transito, per le: — navi di dislocamento superiore alle 15.000 t (il diritto di passaggio è previsto per le sole navi delle potenze rivierasche del Mar Nero, purché esse passino singolarmente); — navi di dislocamento inferiore alle 15.000 t (il diritto di transito è riconosciuto alle unità di qualsiasi bandiera a condizione che il passaggio avvenga di giorno, che il tonnellaggio globale di una Forza in transito non superi le 15.000 t e che la stessa non sia composta da più di 9 unità); — unità subacquee a condizione che si tratti di battelli di potenze rivierasche del Mar Nero costruiti e acquistati all’estero (al di fuori di questa ipotesi il passaggio delle unità subacquee è proibito). (c) Problema portaerei La convenzione non contiene alcuna disposizione che autorizzi espressamente il transito delle navi portaerei pur dando, nell’annesso II, una loro definizione come «bastimenti da guerra di superficie che, quale che sia il loro dislocamento, sono costruiti o predisposti principalmente per trasportare e far operare aeromobili in mare». All’art. 15 viene inoltre stabilito che «le unità da guerra in transito non possono in nessun caso utilizzare gli aerei imbarcati». Questa formula viene generalmente intesa come indice del fatto che, se è proibito il transito delle navi portaerei in senso stretto corrispondenti alla suindicata definizione dell’annesso II, è da ritenersi invece consentito quello delle navi portaelicotteri. Tale interpretazione è stata adottata per superare il problema dell’ex Unione Sovietica di costruire una portaerei in Mar Nero e di farla transitare attraverso gli stretti. Nel 1967 fu trovato un accomodamento tra Turchia e Unione Sovietica nell’ammettere il transito della nuova classe di unità «Moskva» designate come «aviation cruisers» (con un largo ponte di volo poppiero e 18 elicotteri pesanti) e, dieci anni dopo, dei due «large antisubmarine cruiser» classe «Kiev» trasportanti 12 aerei a decollo verticale Yak-38 STOL, aventi caratteristiche simili a una «aircraft carrier». Quando poi nel 1985 l’ex Unione Sovietica si decise a costruire una vera e propria portaerei di 60.000 t e lunga 300 m, l’iniziativa non fu mai portata a termine. D’altronde non è un caso che l’Unione Sovietica avrebbe potuto denunciare la convenzione nel 1956, allo scadere del periodo di venti anni dalla sua entrata in vigore, avvalendosi della facoltà concessa alle parti contraenti dall’articolo 28 della convenzione, e tuttavia non lo ha fatto. Né ha mai spinto Romania e Bulgaria, quando erano suoi alleati, a richiederne la modifica. (d) Posizione statunitense All’estremo opposto rispetto alla Russia si colloca la posizione degli Stati Uniti che com’è noto sono stati fautori, sin dalla loro nascita, della più completa libertà dei mari (v.). La contrarietà di principio di Washington al regime vincolato degli stretti è provata dal fatto che durante la conferenza di pace del 1919, il presidente Wilson, nell’ambito dei suoi famosi «quattordici punti», sostenne la completa liberalizzazione del transito. Gli Stati Uniti non sono perciò parte della convenzione di Montreux. Tuttavia, nei suoi ottant’anni di applicazione, non ne hanno messo in discussione la regolamentazione. Nessuna portaerei dell’US Navy ha comunque mai preteso di entrare in Mar Nero. L’unico episodio controverso di cui si ha notizia è quanto accaduto nel 2008: durante la crisi georgiana; la Turchia non autorizzò l’acceso al Mar Nero di due unità statunitensi, le navi ospedale Mercy e Comfort, che avrebbero dovuto trasportare aiuti umanitari in Georgia (oggetto di blocco navale (v.) da parte russa): il loro tonnellaggio globale (circa 140.000 t) avrebbe, infatti, ecceduto i limiti stabiliti dalla convenzione di Montreux per le navi da guerra straniere operanti in Mar Nero (al massimo 45.000 t complessive). Al riguardo va notato che la convenzione di Montreux pare comunque ammettere, all’articolo 18, una procedura derogatoria nel caso di Forze navali dislocate per scopi umanitari. (e) Regolamentazione tutela ambientale Il regime generale di transito stabilito nella convenzione, anche se non è cambiato nei suoi fondamentali aspetti politico-militari, ha subito modifiche per effetto di emergenze ambientali causate da sinistri di navi trasportanti carichi inquinanti. Al fine di limitare il transito negli stretti di grosse petroliere, la Turchia ha emanato nel 1994, a seguito di approvazione dell’IMO (v.), le «Maritime Traffic Regulations for the Turkish Straits and the Marmara Region» che prevedono forme di preventiva comunicazione del transito e suo temporaneo fermo in varie situazioni operative. È stato anche installato un sistema di controllo del traffico (VTS). Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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Come base giuridica del proprio provvedimento, da parte della Turchia è stata espressa la tesi che il regime del transito negli stretti è un tipo sui generis di passaggio inoffensivo (v.); di qui la conseguenza che sarebbe lecito adottare misure per la sicurezza della navigazione e la protezione dell’ambiente marino. La Russia espresse forti riserve eccependo la contrarietà delle regulations alla convenzione di Montreux, soprattutto per la mancanza di consultazione con gli Stati parte. Il punto è che la Turchia sostiene di avere piena autorità per la regolazione e gestione del transito per aver ereditato le funzioni della preesistente Commissione internazionale per gli stretti. A seguito delle riserve russe, la Turchia, ha modificato il provvedimento eliminando le parti delle precedenti disposizioni relative alla sospensione e autorizzazione del transito che più erano risultate controverse. Per evitare rischi ambientali e decongestionare il traffico, la Turchia ha elaborato un progetto di costruzione di un canale di transito artificiale a nord-ovest di Istanbul (lungo 50 km, largo 150 m, profondo 25 m). L’opera, che sarebbe denominata «Kanal Istanbul», consentirebbe il passaggio di navi e petroliere di grosso tonnellaggio. Il transito sarebbe tuttavia a pagamento, a differenza di quanto oggi avviene negli stretti. SUCCESSIONE TRA STATI La disciplina della successione tra Stati nei diritti sovrani su un territorio, nel caso in cui uno o più Stati subentrino a un altro nel loro esercizio, è contenuta nella Convenzione di Vienna del 23 agosto 1978 a ciò dedicata. La convenzione, entrata in vigore nel 1996, è basata sul principio, considerato corrispondente al diritto internazionale consuetudinario, secondo cui lo Stato successore è vincolato ipso iure al rispetto dei trattati riguardanti il possesso del territorio e la definizione delle frontiere conclusi dal predecessore. Gli accordi di tal natura continuano dunque a essere vincolanti per lo Stato successore, alla data della successione, a meno di dichiarazione contraria. Tale principio è perciò da ritenersi in particolare applicabile per ciò che concerne l’osservanza dei trattati relativi alla delimitazione (v.) delle frontiere marittime da parte delle repubbliche componenti la Federazione Russa, succeduta all’Unione Sovietica a seguito della sua dissoluzione nel dicembre 1991 (v. Mar Nero). Quanto ai paesi che hanno proclamato la loro indipendenza dall’ex Iugoslavia, in Adriatico (v.) sono suoi Stati successori: — la Slovenia e la Croazia, per quel che concerne la delimitazione del golfo di Trieste (v. Acque territoriali (Mediterraneo) stabilita dagli accordi di Osimo del 10 novembre 1975: la Slovenia ha notificato all’Italia di essere subentrata all’ex Iugoslavia in tali accordi con nota del 31 luglio 1992; la questione della loro titolarità dei rispettivi tratti di frontiera marittima è ancora incerta, stante, al 2020, la mancata soluzione della disputa sulla baia di Pirano (v.); — la Croazia, riguardo al trattato di Roma dell’8 gennaio 1968 sulla delimitazione della piattaforma continentale (v. Piattaforma continentale (Mediterraneo), relativamente al tratto di sua competenza. Il Montenegro — che a seguito di referendum del 15 maggio 2006 ha acquisito l’indipendenza dalla Repubblica di Serbia — non si è dichiarato successore rispetto al medesimo trattato di delimitazione della piattaforma continentale. La certezza dei confini si avrebbe se Italia, Croazia e Montenegro definissero congiuntamente un punto triplo. SVIZZERA Vedi: Bandiera navale. THALWEG Vedi: Delimitazione; Golfo di Trieste (Acque territoriali-Mediterraneo);Golfo Persico. TERRORISMO MARITTIMO 1. Convenzione di Roma del 1988 Rientrano in questo concetto tutti i casi di violenza commessi per finalità politiche o terroristiche a bordo di una nave privata i quali, difettando dei requisiti dell’aggressione di una nave ai danni dell’altra e del fine privato, non possono essere considerati come pirateria (v.). La materia costituisce oggetto della 184
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Convenzione di Roma del 1988 per la repressione dei reati diretti contro la sicurezza della navigazione marittima (SUA Convention) la quale è stata conclusa sotto gli auspici dell’IMO (v.) per porre rimedio alle lacune della normativa internazionale messe in evidenza nel caso dell’Achille Lauro (v. Pirateria). Le ipotesi criminose previste sono: 1) atti di violenza e minaccia per impadronirsi di una nave o causare danno a una persona imbarcata; 2) distruzione di una nave o danni al carico o installazioni di bordo; 3) comunicazione dolosa di informazioni marittime erronee. La convenzione si applica nel caso in cui le azioni suindicate — che debbono essere commesse con il fine di mettere in pericolo la maritime safety (v. Sicurezza marittima) — vengano compiute quando la nave è in acque site «al di là dei limiti esterni del mare territoriale di un solo Stato» o, in base alla sua rotta, stia per navigare in tali acque o provenga dalle stesse. Le parti contraenti nel cui territorio si trovi l’autore del reato hanno l’obbligo di perseguirlo penalmente e di estradarlo. Il comandante di una nave di uno Stato parte, a bordo della quale siano avvenuti fatti di terrorismo marittimo ha altresì la facoltà di consegnare il colpevole alle autorità di ogni altro Stato parte (cosiddetto «Stato destinatario») perché agisca nei modi previsti dalla Convenzione. La convenzione si applica anche, in base a uno specifico protocollo aggiuntivo, alle attività criminose commesse sulle piattaforme fisse in permanenza sul fondo del mare ai fini dell’esplorazione e dello sfruttamento della piattaforma continentale (v.). Non è disciplinato l’esercizio di poteri di intervento in alto mare da parte di una nave da guerra (v.) di un paese che abbia interesse a reprimere fatti di terrorismo marittimo: perciò vi sono dubbi sulla possibilità di usare la forza verso mercantili di bandiera straniera controllati da terroristi. In proposito, vanno distinte le ipotesi in cui l’intervento avvenga con il consenso o quanto meno l’acquiescenza dello Stato di bandiera, da quelle in cui lo Stato di bandiera lo neghi perché connivente con i terroristi. In questo caso l’intervento della nave da guerra potrebbe costituire una forma di autotutela inquadrabile nell’ambito delle misure di interdizione marittima (v.). 2. Il protocollo di Londra del 2005 Per fronteggiare le nuove minacce alla sicurezza marittima (intesa come security), l’IMO si è attivata, all’indomani dell’11 settembre 2001, con l’obiettivo di rendere la convenzione di Roma più adeguata alle nuove realtà del terrorismo marittimo. A questo fine è stato redatto un protocollo di modifica che, unitamente a un ulteriore protocollo dedicato agli atti illeciti contro la sicurezza delle piattaforme fisse, è stato approvato a Londra il 14 ottobre 2005 (London SUA Protocol). Punti rilevanti dello strumento sono: — richiamo nel preambolo alla UNSCR 1540 (2004) che stabilisce la necessità di adottare misure per contrastare la proliferazione di armi nucleari, chimiche e biologiche di distruzione di massa (WMD), nonché al vigente diritto del mare; — fattispecie di illecito quali: a) usare una nave in modo da causare massicce distruzioni di luoghi pubblici; b) trasportare su una nave armi di distruzioni di massa e materiali relativi con finalità di terrorismo; c) scaricare da una nave sostanze pericolose o nocive in quantità tale che possa causare lesioni mortali o estesi danni ambientali; — responsabilità per la commissione dolosa di tali illeciti o per il trasporto intenzionale di persone implicate nella loro commissione; — procedure per la cooperazione tra le parti contraenti nell’esecuzione in acque internazionali, da parte di proprie navi da guerra (v.) o navi in servizio governativo non commerciale (v.), di controlli nei confronti di mercantili sospetti di essere implicati nelle attività vietate, secondo i seguenti criteri disciplinati nell’art. 8 bis: a) obbligo di acquisire l’autorizzazione dello Stato di bandiera, a seguito di espressa richiesta, come condizione per l’esecuzione di misure di «stopping, boarding and searching the ship, its cargo and persons on board»; b) clausola di «opting in» con cui le parti dichiarano che è da considerare concessa l’autorizzazione ad abbordare e ispezionare una nave di propria bandiera se non vi è stata risposta entro quattro ore dalla richiesta di autorizzazione; c) stringenti misure di salvaguardia per la tutela dell’integrità fisica, dei diritti umani e della dignità delle persone trasportate e della sicurezza dei mezzi e del carico, tenendo conto che i pericoli connessi all’esecuzione di abbordaggi in mare possono consigliarne la loro esecuzione in porto; d) responsabilità dello Stato che interviene per eventuali danni patrimoniali; e) giurisdizione preferenziale dello Stato di bandiera. In definitiva il SUA Protocol non ha modificato il regime della precedente convenzione di Roma del Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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1988 che non identifica il terrorismo marittimo come un crimine internazionale equiparato alla pirateria, tale quindi da autorizzare il ricorso a misure di enforcement erga omnes. Il nuovo strumento stabilisce ulteriori forme di cooperazione operativa tra gli Stati per facilitare l’abbordaggio di navi sospette, ma nello stesso tempo prevede all’art. 8 bis, 3 un caveat volto ad ammonire sui pericoli per la vita umana connessi ai boarding coercitivi (v. Diritti umani in mare). Comunque, va valutato positivamente il risultato di aver accresciuto l’attenzione della comunità internazionale sui nuovi rischi che attentano al libero uso del mare, consentendo agli Stati e alle loro Marine di collaborare assieme per contrastare il fenomeno. Tra i risultati più significativi dell’iniziativa va segnalato anche quello di aver dato veste giuridica pattizia ai principi della Proliferation security iniziative (PSI) (v.). TRAFFICO E TRASPORTO RIFIUTI PERICOLOSI IN MARE Vedi: Protezione dell’ambiente marino. TRAFFICO DI STUPEFACENTI IN MARE 1. Regime internazionale L’illecito consiste nel detenere a bordo di una nave mercantile (tra cui rientrano ovviamente le imbarcazioni da diporto) sostanze stupefacenti o psicotrope al fine di fabbricarle, distribuirle, trasportarle, trasbordarle o venderle. Esso è, come naturale, perseguibile nelle acque interne (v.), nelle acque territoriali (v.) e nella zona contigua (v.) secondo la legislazione nazionale dello Stato costiero; la sua commissione in queste zone giustifica anche l’esercizio del diritto di inseguimento (v.). In alto mare (v.) tale illecito non costituisce viceversa, allo stato attuale del diritto internazionale, un illecito internazionale (crimen juris gentium) con la conseguenza che non è perseguibile né dalle navi da guerra (v.), né dalle navi in servizio governativo (v.), né dagli aeromobili militari (v.) aventi bandiera diversa della nave che effettua il traffico di droga. Poteri di intervento in alto mare, in presenza di casi del genere, sono invece riconosciuti alle unità militari, soltanto ove ciò: — sia previsto da un apposito accordo bilaterale; — sia stato autorizzato dallo Stato di bandiera della nave dedita all’attività illecita, nell’ambito di una richiesta di collaborazione rivolta agli altri Stati (UNCLOS 108); — sia stato concesso dallo Stato di bandiera della nave incriminata, su esplicita richiesta dello Stato che intende far intervenire proprie unità militari per stroncare il traffico illecito. La normativa di riferimento per questo caso è costituita dall’art. 17 Convenzione di Vienna del 1988 contro il traffico illecito di stupefacenti; — derivi dal fatto che la nave sospetta di attività illecite, a seguito di accertamenti svolti presso lo Stato cui dichiara di appartenere, risulti non autorizzata a battere bandiera e, quindi, debba considerarsi priva di nazionalità. Un’iniziativa concreta intesa a rafforzare gli sforzi della comunità internazionale per contrastare il traffico di droga in mare è stata assunta dal Consiglio d’Europa (organizzazione garante della sicurezza democratica basata sul primato del diritto, che è distinto dall’Unione europea ma di cui fanno tuttavia parte tutti i paesi che compongono l’Unione) con l’Accordo di Strasburgo del 1995 «… on illicit traffic by sea, implementing article 17 of the United Nations Convention against illicit traffic in narcotic drugs and psychotropic bubstances». Questa intesa, applica la convenzione di Vienna del 1988, senza introdurre sostanziali varianti al regime consensuale del diritto di visita (v.) codificato nell’UNCLOS, limitandosi a introdurre misure per facilitare la cooperazione tra i paesi aderenti al Consiglio d’Europa. Tra queste misure vi è la possibilità per gli Stati parte di: 1) intervenire in alto mare nei confronti di mercantili senza bandiera (v. Nazionalità della nave) sospetti di essere coinvolti nel traffico di droga; 2) esercitare giurisdizione verso tali navi «stateless»; 3) usare la forza «minima necessaria» durante le azioni di fermo e abbordaggio tenendo conto che: «The use of firearms against, or on, the vessel shall be reported as soon as possible to the flag State» (v. Polizia dell’alto mare); 4) richiedere l’assistenza di altri Stati parte, con il consenso dello Stato di bandiera, per il dirottamento di navi che, a seguito di visita in mare, risultino implicate nell’illecito. Un ulteriore esempio di cooperazione regionale è quello adottato dai paesi caraibici (Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e Olanda compresi) con l’«Agreement concernine cooperation in suppressing illicit maritime and air trafficking in narcotic drugs and psychotropic substances in the caribbean area of 10 april 2003» (così detto Aruba Agreement). 186
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2. Normativa italiana La legislazione italiana sulla disciplina degli stupefacenti (D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 99) stabilisce in materia, nel quadro dei suindicati principi di diritto internazionale, che: — la nave italiana da guerra o in servizio di polizia, che incontri nel mare territoriale o in alto mare una nave nazionale, anche da diporto, che si sospetta essere adibita al trasporto di sostanze stupefacenti o psicotrope, può fermarla, sottoporla a visita e a perquisizioni del carico, catturarla e condurla in un porto dello Stato o nel porto estero più vicino, in cui risieda un’autorità consolare; — gli stessi poteri possono esplicarsi su navi non nazionali nelle acque territoriali e, al di fuori di queste, nei limiti previsti dalle norme dell’ordinamento internazionale quando ricorrano i presupposti per l’esercizio del diritto di inseguimento; — le disposizioni su menzionate si applicano, in quanto compatibili, anche agli aeromobili militari. Competenze primarie sono attribuite, nel settore, al Corpo della guardia di finanza quale referente dell’«Ordine e della sicurezza pubblica in mare» (v. Polizia dell’alto mare). Secondo l’art. 111, 1, c) del Codice dell’Ordinamento Militare (D.LGS. 66-2010) rientra tra le attribuzioni istituzionali della Marina Militare «il concorso al contrasto al traffico di sostanze stupefacenti, ai sensi dell’articolo 99 del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309». Vedi anche: Diritto d’inseguimento. TRAFFICO E TRASPORTO ILLEGALE DI MIGRANTI IN MARE 1. Principi generali È contraria ai principi del transito inoffensivo (v.), ed è perciò vietata, la presenza nelle acque territoriali (v.) di una nave straniera che trasporti clandestinamente persone per favorirne l’ingresso sul territorio in violazione delle leggi nazionali sull’immigrazione. È egualmente vietata tale attività quando sia svolta nell’ambito della zona contigua (v.) dello Stato costiero. Le navi da guerra (v.) e le navi di Stato (v.) sono autorizzate a esercitare il diritto di inseguimento (v.), in alto mare (v.), nei confronti di una nave che sia sospetta di agevolare l’immigrazione illegale. Altro problema è quello se lo Stato costiero possa o debba intervenire nei confronti di una nave o un’imbarcazione in transito nelle proprie acque territoriali che trasporti migranti clandestini e che sia tuttavia diretta verso un altro Stato. La prassi non evidenzia, al di fuori di vere e proprie ipotesi di pericolo alla vita umana (v. Ricerca e soccorso in mare), azioni dello Stato costiero. In alcuni casi le imbarcazioni in transito sono state anzi rifornite di viveri e combustibile sì da far sorgere dubbi su un possibile «favoreggiamento». Nel caso di Malta, riserve sono state espresse più volte dall’Italia per il fatto che questo paese, adottando un’interpretazione restrittiva del concetto di «distress», omettesse di intervenire nella propria zona SAR nei confronti di natanti in navigazione verso l’Italia. Il presupposto di una tal posizione sta anche, secondo l’opinione maltese, nell’applicazione del principio stabilito dalla Risoluzione MSC.167 (78) secondo cui dovrebbe essere agevolato il raggiungimento, da parte delle persone salvate, della destinazione che si proponevano di raggiungere (cioè, nella gran parte dei casi, l’Italia). Nessuna norma di diritto internazionale, né consuetudinaria né pattizia, qualifica come illecito internazionale (crimen juris gentium) il traffico e trasporto illegale di migranti da uno Stato a un altro. In via teorica potrebbe ipotizzarsi l’inquadramento di tale attività nell’ambito della tratta degli schiavi (v.). In realtà questa interpretazione non è corretta in quanto la nozione di schiavitù secondo la Convenzione di Ginevra del 1956 (stato o condizione di un individuo sul quale si esercitano le prerogative del diritto di proprietà) postula una condizione nella quale il soggetto passivo sia privato della sua capacità giuridica e del suo stato di libertà. Queste condizioni non si rinvengono in sostanza nell’attuale fenomeno del traffico e trasporto di migranti che è invece caratterizzato da situazioni di disagio, di inferiorità e di sfruttamento delle condizioni di bisogno di soggetti trasportati che scelgono volontariamente la via dell’immigrazione illegale per cercare condizioni di vita migliori di quelle del paese d’origine. Diverso il caso qualora venga adibita al traffico dei clandestini una nave priva di nazionalità o con bandiera di convenienza (v. Nazionalità della nave), ovvero un’imbarcazione di fortuna priva, oltre che di bandiera, dei requisiti di navigabilità e di sicurezza. In ipotesi del genere una nave da guerra che voglia compiere accertamenti preliminari può avvalersi del diritto di visita (v.) procedendo, ove il merSupplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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cantile risulti effettivamente privo di nazionalità (stateless) a seguito di esame delle carte di bordo, al suo accompagnamento in un porto nazionale per ulteriori accertamenti, qualora sussista un interesse ad adottare eventuali provvedimenti giudiziari. Strettamente connesso al fenomeno del traffico e trasporto di migranti illegali in mare è il problema della sicurezza della vita umana in mare e della navigazione. Questo aspetto della questione è stato affrontato dall’IMO MSC/Circ.896/Rev.1 12 June 2001 Interim Measures for Combating Unsafe Practices Associated with the trafficking or Transport of Migrants by Sea che: 1) individua uno degli aspetti più rilevanti del fenomeno migratorio nel fatto che i migranti sono spesso trasportati su navi che non sono adeguatamente gestite o equipaggiate per trasportare passeggeri in viaggi internazionali; 2) precisa il fondamentale principio — recepito nel sotto indicato protocollo di Palermo — che «se è adottata una misura contro una nave sospetta di trasporto illegale di migranti, lo Stato che interviene dovrebbe prendere in considerazione la necessità di non porre in pericolo la sicurezza della vita umana in mare e la sicurezza della nave e del carico e di non pregiudicare gli interessi legali o commerciali dello Stato di bandiera o di qualsiasi altro Stato interessato». 2. Il protocollo di Palermo del 2000 Il problema del carattere non vincolante (giuridicamente, una semplice raccomandazione) della circolare IMO 896 è stato superato nel momento in cui è stato firmato a Palermo, il 15 dicembre 2000, il Protocol against the Smuggling of Migrants by Land, Sea and Air, supplementing the United Nations Convention against Transnational Organized Crime. Lo strumento è entrato in vigore il 28 gennaio 2004 ed è stato ratificato dall’Italia con legge 16 marzo 2006, n. 146. L’iniziativa della sua emanazione era stata assunta da Italia e Austria. Il testo inizialmente proposto provvedeva a qualificare l’illecito come crimine internazionale (crimen juris gentium) al pari della pirateria, prefigurando per gli Stati parte la possibilità di mettere in atto, nei confronti delle navi dedite al trasporto illegale di migranti, provvedimenti coercitivi di tipo particolare come il dirottamento verso il porto di partenza. Esclusa ogni modifica al vigente regime dell’art. 110 dell’UNCLOS, la soluzione adottata è stata quella di prendere a modello il principio di cooperazione stabilito dall’art. 17, n. 1 della convenzione di Vienna delle NU del 1988 contro il traffico illecito di sostanze stupefacenti (v. traffico di stupefacenti in mare). In esso non è stata quindi prevista la qualificazione dell’illecito come crimine internazionale. Punti rilevanti dell’accordo sono: — concetto di smuggling of migrants come l’azione di procurare l’ingresso clandestino in uno Stato parte di una persona che non ne sia cittadino o residente al fine di ottenere, direttamente o indirettamente, un beneficio finanziario o di altro genere; — definizione di «nave» (v.) come imbarcazione di qualsiasi tipo, incluse quelle plananti sull’acqua, usate come mezzi di trasporto sull’acqua, eccettuati navi da guerra, navi militari ausiliarie e altre navi governative adibite a servizio non commerciale; — cooperazione tra gli Stati parte per prevenire e reprimere, in accordo con il diritto internazionale del mare, il traffico di migranti anche a mezzo della conclusione di accordi regionali; — introduzione negli ordinamenti nazionali di adeguate figure di reato relative al trasporto di migranti (è però espressamente stabilito che i migranti, come tali, non possano essere penalmente responsabili); — possibilità per uno Stato parte che abbia sospetti nei confronti di una nave di propria bandiera, senza bandiera o con falsa bandiera straniera (ma in realtà di propria nazionalità) di richiedere l’assistenza degli altri Stati per impedire l’attività illecita di questa nave; — facoltà per uno Stato parte che abbia sospetti nei confronti di una nave di bandiera straniera che eserciti la libertà di navigazione secondo il diritto internazionale di chiedere allo Stato di bandiera conferma della nazionalità ovvero autorizzazione ad adottare, tramite proprie navi da guerra, aeromobili militari o navi in servizio governativo non commerciale, le misure di abbordaggio, visita e ispezione o, nel caso in cui i sospetti si rivelino fondati, altri provvedimenti da concordare con lo Stato interessato (anche senza tale autorizzazione è però possibile prendere le misure necessarie a salvare persone in imminente pericolo di vita); — designazione da parte dei paesi aderenti di una o più autorità competenti a ricevere da altri Stati richieste di assistenza o di autorizzazione anzidette; 188
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— obbligo, per lo Stato che adotti le misure suindicate, di assicurare la sicurezza e il rispetto dei diritti umani delle persone trasportate, tenendo nel dovuto conto, nello stesso tempo, delle esigenze di tutela ambientale e della necessità di non mettere in pericolo la sicurezza della nave e del suo carico e di non pregiudicare gli interessi commerciali dello Stato di bandiera o di altri Stati interessati; — non interferenza del protocollo con le altre fonti di diritto internazionale compreso il diritto umanitario internazionale, i diritti umani e la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati che prevedono diritti e obblighi per gli Stati parte. 3. Principio di «non respingimento» (non refoulement) Il principio cardine in materia di trattamento delle persone aventi titolo a protezione internazionale è stabilito dall’art. 33 della succitata convenzione di Ginevra secondo cui: «Nessuno Stato contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche». La valenza marittima di tale principio di «non respingimento» è stata affermata dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo, organo giurisdizionale competente in materia di applicazione della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) del 1950 cui aderiscono 47 membri del Consiglio d’Europa, Italia inclusa. La Corte EDU si è pronunciata con la decisione della Grand Chamber nel caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia del 23 febbraio 2012. Questa sentenza ha condannato l’Italia per le attività di respingimento in mare verso la Libia considerata dalla Corte come non sicuro ai fini del rispetto dei diritti umani, anche se in realtà abbiamo formalmente escluso Tripoli da una lista di «paesi di origine sicuri», soltanto con il 4 ottobre 2019; al tempo dell’episodio giudicato dalla Corte cooperavamo, infatti, con Tripoli nella «lotta all’immigrazione clandestina» in applicazione dell’art. 19 del Trattato di amicizia di Bengasi del 2008 ratificato con Legge 7-2009. Il caso riguardava il salvataggio di un gruppo di migranti intercettati in alto mare, il loro imbarco su nostre unità della Guardia costiera e del Corpo della guardia di finanza, e il successivo riaccompagnamento a Tripoli, pur in assenza di una valutazione sulla titolarità di diritti di protezione internazionale e di una preventiva informazione sulla destinazione. A parere della Corte, «in virtù delle disposizioni pertinenti del diritto del mare, una nave che navighi in alto mare è soggetta alla giurisdizione esclusiva dello Stato di cui batte bandiera». Questo principio di diritto internazionale ha portato la Corte a riconoscere, nelle cause riguardanti azioni compiute a bordo di navi battenti bandiera di uno Stato, casi di esercizio extraterritoriale della giurisdizione di quello Stato: dal momento che vi è controllo su altri, si tratta di un controllo de jure, esercitato dallo Stato in questione sugli individui imbarcati. Di qui la conseguenza che il nostro paese, esercitando giurisdizione sulle persone salvate, avrebbe dovuto osservare i principi della CEDU relativamente al divieto di trattamenti inumani (sostanziatisi nei coattivi dalle navi militari) (art. 3) o di «espulsioni collettive» derivanti da indiscriminati riaccompagnamenti. La Corte, rilevato che «l’Italia non può sottrarsi alla sua giurisdizione ai sensi della convenzione definendo i fatti controversi un’operazione di salvataggio in alto mare» (§ 72), ha inoltre stabilito che «... gli allontanamenti di stranieri eseguiti nell’ambito di intercettazioni in alto mare da parte delle autorità di uno Stato e nell’esercizio dei pubblici poteri, e che producono l’effetto di impedire ai migranti di raggiungere le frontiere dello Stato, o addirittura di respingerli verso un altro Stato, costituiscono un esercizio della loro giurisdizione ai sensi dell’articolo 1 della convenzione, che impegna la responsabilità dello Stato in questione sul piano dell’articolo 4 del Protocollo n. 4». Tale articolo stabilisce che: «Le espulsioni collettive di stranieri sono vietate» (§ 159). La decisione della Corte CEDU è criticata da chi fa notare come essa ha messo in relazione norme aventi diversa efficacia e diversa funzione. 4. Normativa italiana La Legge 30 luglio 2002, n. 189 (c.d. legge «Fini-Bossi») ha disciplinato le competenze delle Forze operanti in mare per il controllo del traffico dei migranti secondo un modello di cooperazione interagenzia che è oramai consolidato e sperimentato, anche se il modus operandi non prevede più forme di respingimento verso i porti di partenza, ma al limite interventi per l’arresto degli scafisti in base alle Direttive della Direzione nazionale antimafia del 2014. Nello stabilire le attribuzioni delle «navi in servizio di polizia» (v. Navi in servizio governativo non commerciale) e di quelle della Marina Militare, il provvediSupplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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mento si è ispirato a criteri spaziali e funzionali riconoscendo: a) alle navi in servizio di polizia all’interno delle acque territoriali e della zona contigua, poteri di fermo, ispezione e sequestro di natanti sospetti di essere coinvolti nel traffico di migranti; b) alle navi della Marina Militare analoghi poteri, in forma concorsuale, nelle acque territoriali e nella zona contigua; c) a entrambe le categorie di navi, in forma paritetica, negli spazi extraterritoriali poteri similari «nei limiti consentiti dalla legge, dal diritto internazionale o da accordi bilaterali o multilaterali, se la nave batte la bandiera nazionale o anche quella di altro Stato, ovvero si tratti di una nave senza bandiera o con bandiera di convenienza». Il raccordo tra le attività svolte dai due dispositivi è stato demandato al Decreto interministeriale del 19 giugno 2003 contenente misure sull’attività di contrasto dell’immigrazione illegale via mare che individua nel ministero dell’Interno l’autorità responsabile degli interventi operativi in mare tra i mezzi della Marina Militare, delle Forze di Polizia (Polizia di Stato, Guardia di Finanza, Carabinieri) e delle Capitanerie di porto, attribuendo alle unità navali in servizio di polizia la responsabilità del controllo dell’immigrazione clandestina nelle acque territoriali italiane. Le unità della Marina Militare esplicano nelle stesse acque territoriali funzioni di concorso, mentre al di là delle 24 mn la Forza armata assume il coordinamento di tutti i mezzi aeronavali presenti sulla scena d’azione «per le specifiche caratteristiche e capacità dei mezzi di comunicazione di cui dispongono». La «Direzione centrale dell’immigrazione» del ministero degli Interni è l’organo competente a dare direttive ai mezzi di tutte le amministrazioni operanti, per esercitare il diritto di visita in acque internazionali nei confronti di navi sospette di essere coinvolte nel traffico dei migranti, previa acquisizione del consenso dello Stato di bandiera ovvero nel caso in cui si tratti di natanti privi di bandiera (v. Nazionalità della nave). È inoltre previsto che «ove si renda necessario l’uso della forza, l’intensità, la durata e l’estensione della risposta devono essere proporzionate all’intensità dell’offesa, all’attualità e all’effettività della minaccia». L’eventuale concessione dello status di rifugiato ai migranti non rientra nelle competenze delle navi militari operanti in mare. L’attribuzione della protezione internazionale spetta alla «Commissione centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato». Nell’ambito di tale protezione rientra anche la concessione dell’asilo territoriale (politico) previsto dall’art. 10, n. 3 della Costituzione italiana che ha una portata più ampia rispetto allo status di rifugiato, poiché attiene all’esercizio delle libertà democratiche garantite dall’ordinamento della Repubblica Italiana. 5. Operazioni marittime UE La sentenza relativa al caso Hirsi è stata tenuta presente dall’UE nell’emanare il Regolamento 656/2014 sulla sorveglianza delle frontiere esterne coordinata da FRONTEX; a differenza del passato, il provvedimento considera, infatti, le azioni di respingimento dei migranti verso i porti di origine come una delle opzioni possibili dando per la prima volta rilievo, nell’ambito della missione assegnata a FRONTEX, alle funzioni SAR, valutata anche l’applicabilità dei principi dell’UNCLOS sulla libertà di navigazione in alto mare (v.). Tale regolamentazione è stata posta a base della FRONTEX Joint Operation Triton lanciata nel 2015 dall’UE a sud dell’Italia, nel momento in cui è terminata l’operazione umanitaria Mare nostrum della Marina Militare condotta in via unilaterale dall’Italia avanti alle coste libiche dopo che un naufragio avvenuto il 3 ottobre 2013 in prossimità di Lampedusa aveva causato la morte di 366 migranti. Nel periodo di attività della stessa Mare nostrum — svolta in prevalenza nella SAR libica e in parte nella SAR maltese — vennero salvate e accompagnate in Italia circa 150.000 persone; per questo l’operazione è stata definita da politici inglesi come un «pull factor». Per ovviare a parte dei problemi palesatisi durante lo svolgimento di Triton, nel 2018 FRONTEX (nel frattempo divenuta «European Border and Coast Guard Agency»), sostituì Triton con l’operazione che, pur includendo il SAR tra le sue funzioni, era concentrata sul contrasto del traffico illecito di persone, e sulla protezione ravvicinata della frontiera marittima italiana. Da notare che l’Italia, durante lo svolgimento di Themis aveva richiesto senza successo forme di condivisione, tra gli altri paesi europei, dell’onere di essere Place of safety (v.). La crisi migratoria di allora aveva già evidenziato i limiti delle nostre capacità ricettive, facendo balenare la chiusura dei porti e condizionando la collaborazione con le ONG al Codice di condotta dell’Interno. Il fatto è che il nostro MRCC di Roma continuava a rispondere alle chiamate di soccorso e, di fronte al rifiuto o all’impossibilità di far intervenire Malta o la Libia, esercitava il coordinamento disponendo, di concerto con l’Interno, lo sbarco in Italia. Questo è avvenuto fino a che, nel giu190
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gno 2018, il ministero dei Trasporti dispose l’arretramento del dispositivo della nostra Guardia costiera verso la zona SAR italiana. In parallelo con le missioni di FRONTEX, nel 2015 l’UE — nel quadro della propria politica europea di sicurezza comune (PESC) lanciò, con la Decisione del Consiglio 2015/472 l’operazione Eunavfor Med Sophia dedicata a smantellare le reti del traffico di migranti e della tratta di esseri umani provvedendo a individuare, fermare e mettere fuori uso imbarcazioni e mezzi usati da scafisti o trafficanti, in conformità al diritto internazionale applicabile, inclusa l’UNCLOS e le pertinenti risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite. L’operazione, dopo l’avvio della «fase 1» di sorveglianza in acque internazionali, avrebbe dovuto articolarsi in ulteriori fasi «2» e «3» nelle acque territoriali e sul suolo libico per interdire la logistica del traffico di migranti. Di fatto questo non è mai avvenuto in mancanza del consenso delle autorità Libiche. Rilevante è stato comunque il ruolo di Sophia nel salvare circa 50.000 persone (sbarcate sempre in Italia), nell’addestrare la Guardia costiera libica, nell’assicurare il fermo di scafisti da mettere a disposizione della nostra magistratura. La missione EUNAVFOR-MED tra l’altro, fu legittimata, sul piano internazionale, dalla UNSC Resolution 2240 (2015). Al termine di Sophia, nel marzo 2020 l’UE ha approvato, con la decisione del Consiglio 2020/472, l’operazione EUNAVFOR-MED Irini, il cui compito principale è «il contributo all’attuazione dell’embargo sulle armi imposto dall’ONU nei confronti della Libia con mezzi aerei, satellitari e marittimi»; esso è basato sulle pertinenti risoluzioni delle NU: tra queste è rilevante la 2292 (2016) discendente dalla 1970 (2011) a suo tempo emanata per far cessare le violazioni dei diritti umani da parte del regime di Gheddafi. Sulle modalità di questa specifica missione v. la voce Embargo navale. Il mandato prevede ulteriori funzioni quali la sorveglianza sulle esportazioni illecite di petrolio dalla Libia nonché il contributo alla formazione della Guardia costiera e della Marina libica e allo smantellamento del modello di attività delle reti di traffico e tratta di esseri umani. Nulla si dice circa il SAR, nel presupposto che si tratti di un obbligo ineludibile e non di un compito secondario e nulla si prevede quindi circa l’eventuale porto di sbarco dei migranti salvati nell’area di operazioni antistante la Cirenaica. Al riguardo, l’Alto rappresentante, Josep Borrell, rispondendo al quesito concernente l’assenso della Grecia a sbarcare in propri porti i migranti salvati dalle unità partecipanti all’operazione, ha precisato che «This is also something that is part of the confidential documentation of the mission. But this agreement exists and we know how to proceed and the navy commander will know what to do in this case, if this happens. Because the mission is not devoted to look for people and to rescue them, but if this happens we will know how to proceed». Da aggiungere, infine, che nella suindicata decisione del Consiglio si dice, a riprova di come il SAR sia un’attività politicamente sensibile che: «L’autorizzazione dell’operazione dovrebbe essere riconfermata ogni quattro mesi …a meno che lo schieramento dei mezzi marittimi dell’operazione non produca sulla migrazione un effetto di attrazione sulla base di prove fondate raccolte conformemente ai criteri stabiliti nel piano operativo». Vedi anche: Blocco navale. TRANSITO INOFFENSIVO 1. Principi generali È il diritto di passaggio di cui godono le navi di tutti gli Stati attraverso il mare territoriale (v.) straniero per attraversarlo senza entrare nelle acque interne (v.) o per proseguire verso una rada (v.) o un porto situati nelle acque interne. Il passaggio deve essere continuo e rapido. È ammessa la sosta e l’ancoraggio nei casi di forza maggiore o pericolo, o per fornire assistenza a persone, imbarcazioni o aerei in difficoltà (Ginevra I, 14; UNCLOS 17 e 18). Il transito è qualificato inoffensivo se «non è pregiudizievole alla pace, al buon ordine o alla sicurezza dello Stato costiero» (Ginevra I, 14, 4; UNCLOS 19, 1). A prescindere dai principi di carattere generale contenuti nell’anzidetta formula, per qualificare come offensivo il transito di una nave è sufficiente che questa sia impegnata in una qualsiasi attività non avente rapporto diretto con il passaggio, oppure, più specificatamente, in una delle seguenti attività (UNCLOS 19, 2): — minaccia o uso della forza contro la sovranità, l’integrità territoriale o l’indipendenza politica dello Stato costiero, nonché esercitazioni con armi di qualsiasi tipo e operazioni di volo; — propaganda ostile volta a pregiudicare la difesa o la sicurezza dello Stato costiero ovvero attività di disturbo delle comunicazioni; Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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— svolgimento di attività di ricerca scientifica (v.) o di rilevamento idrografico; — esercizio della pesca (v.) o grave inquinamento doloso; — imbarco e sbarco di persone o merci in violazione di norme interne dello Stato. Restrizioni al diritto di passaggio inoffensivo possono stabilirsi dallo Stato costiero, per la sicurezza della navigazione o per la protezione dell’ambiente marino (v.) purché non si tratti di misure che risultino chiaramente discriminatorie verso le navi di una determinata bandiera. In questo ambito rientra l’adozione di rotte marine e di schemi di separazione del traffico. In linea con questi principi le navi a propulsione nucleare o che trasportano materiale nucleare possono essere obbligate a transitare in tali spazi. Eguali misure potrebbero essere stabilite per le navi che trasportano rifiuti pericolosi in accordo con il regime stabilito dalla Convenzione di Basilea del 22 marzo 1989 (v. Protezione ambiente marino). Il transito è in ogni caso condizionato al rispetto delle speciali misure precauzionali stabilite dalla normativa che regola la loro attività (UNCLOS 22, 2 e 3). Temporanee restrizioni possono inoltre essere decretate in specifiche aree del mare territoriale quando ciò sia necessario per la sicurezza dello Stato costiero o per lo svolgimento di esercitazioni con armi. Si tratta delle zone interdette alla navigazione (v.) che devono essere adeguatamente pubblicizzate. Vedi anche: Acque arcipelagiche; Acque interne; Ricerca e soccorso in mare. 2. Transito inoffensivo delle navi da guerra 2.1 Principi generali La regolamentazione prevista in generale per il transito inoffensivo si applica integralmente alle navi da guerra e a quelle in servizio governativo non commerciale. Condizione perché tali navi esercitino il diritto di passaggio inoffensivo è che si conformino alle norme internazionali o alla regolamentazione dello Stato costiero astenendosi dal compiere ogni genere di attività non avente diretta attinenza con la semplice navigazione di trasferimento. Da questo punto di vista sono espressamente considerate «offensive», e perciò vietate (UNCLOS, 19, 2): — qualsiasi esercitazione o pratica con armi di ogni genere, ivi compreso il dragaggio e l’uso del radar del tiro (è invece da ritenersi consentito l’impiego del radar nautico); — la raccolta di informazioni in pregiudizio della difesa o della sicurezza dello Stato costiero, come l’esecuzione di rilievi fotografici o elettronici; — il decollo o l’appontaggio di aeromobili e, quindi, il sorvolo del mare territoriale, il lancio, lo sbarco o l’imbarco di congegni militare quali missili, siluri, o boe idrofoniche. L’esecuzione da parte di una nave da guerra di una attività vietata del tipo suindicato comporta che lo Stato costiero può intimarle di lasciare immediatamente le acque territoriali (Ginevra I, 23; UNCLOS 30). Tra le attività vietate non sembra che possano includersi i casi di inquinamento grave (UNCLOS 19, 2, (h), in quanto le navi da guerra, pur dovendo fare ogni sforzo per rispettare la normativa antinquinamento, sono espressamente dispensate dall’osservanza delle disposizioni in materia di protezione e conservazione dell’ambiente marino (UNCLOS 236). Qualora accada accidentalmente un simile inquinamento, lo Stato costiero potrebbe in ogni caso chiedere chiarimenti, per via diplomatica, allo Stato di bandiera. Alle stesse condizioni previste per le navi da guerra è soggetto il transito dei sommergibili (v). Unico requisito particolare è che essi devono navigare in emersione mostrando la bandiera (nel caso di transito negli stretti ove vige il «passaggio in transito» (v.) è però ammessa la navigazione in immersione). 2.2 Interpretazione russo-statunitense Le unità militari, qualunque sia il loro armamento o il loro mezzo di propulsione (e questo vale quindi anche per le navi a propulsione nucleare (v.), hanno perciò il diritto di navigare nelle acque territoriali straniere senza dover notificare il passaggio o essere autorizzate dallo Stato costiero. Tale principio è stato riaffermato nell’ambito della 1989 Usa-Ussr Joint Statement On The Uniform Interpretation Of Rules Of International Law Governing Innocent Passage, la quale ha posto fine a una pluriennale disputa esistente in materia tra i due paesi. Punti chiave affermati nel documento — inquadrabile nell’ambito delle misure di confidenza reciproca navali — sono: 1) tutte le navi, incluse quelle da guerra, a prescin192
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dere da carico, armamenti o mezzi di propulsione, godono del diritto di transito inoffensivo, senza preventiva notifica o autorizzazione; 2) uno Stato costiero che addebiti a una nave la violazione dei principi del transito inoffensivo deve invitarla preliminarmente a chiarire le sue intenzioni; 3) a tale nave, in caso di violazione, può essere solo richiesto di allontanarsi: essa deve adempiere immediatamente secondo l’art. 30 dell’UNCLOS. Durante la Guerra fredda l’ex Unione Sovietica aveva ostacolato il transito nelle proprie acque territoriali da parte di navi da guerra statunitensi, ammettendo unicamente il passaggio di unità militari straniere in limitate zone del Baltico, del Mare di Okhotsk e del Mar del Giappone. Per riaffermare la libertà di passaggio, gli Stati Uniti avevano dato corso — nell’ambito del Freedom of Navigation programme (V. Libertà dei mari), — ad azioni navali di protesta in acque territoriali sovietiche, l’ultima delle quali era stata la missione delle navi Caron e Yorktown, messa in atto il 12 febbraio 1988, le quali, nel transitare in Mar Nero (v.) a circa 10 miglia dalla penisola di Crimea, a sud-est di Sebastopoli, furono speronate da unità sovietiche. 2.3 Prassi internazionale Nella prassi internazionale, nonostante il mutamento dell’approccio russo, permangono tuttavia posizioni divergenti da parte di quei paesi che continuano a prevedere nella loro legislazione la previa notifica del transito di navi da guerra (come Albania, Croazia, Egitto, India, Libia, Malta e Siria) o la preventiva autorizzazione al transito (come Albania, Algeria, Croazia Iran, Polonia, Romania, Somalia, Slovenia, Sudan e Yemen e, per le navi a pro-pulsione nucleare, l’Egitto). La prassi di questi Stati non è accettata dall’Italia. L’Italia, al momento di depositare, il 13 gennaio 1995, l’atto di ratifica della convenzione del Diritto del mare del 1982, ha, infatti, formulato la seguente dichiarazione già fatta in occasione della firma della stessa convenzione: «Nessuna delle disposizioni della convenzione, che corrispondono in questa materia al diritto consuetudinario internazionale, può essere considerata come autorizzante lo Stato costiero a far dipendere il passaggio inoffensivo di particolari categorie di navi straniere dalla preventiva notifica o consenso». A prescindere da tali questioni di principio, resta fermo tuttavia che la comunicazione del transito di una nave da guerra in acque territoriali straniere può rappresentare, se attuata in modo occasionale, non tanto un adempimento di un obbligo quanto una semplice forma di cortesia navale o una sorta di misura di confidenza reciproca. 3. Transito negli stretti 3.1 Passaggio in transito negli «stretti internazionali» Per effetto della creazione della nuova categoria di stretti internazionali previsti dall’UNCLOS (v. Stretti e canali internazionali), all’unico regime del transito inoffensivo non sospendibile si è ora affiancato quello del «passaggio in transito» (transit passage). In questo modo, nel bilanciamento degli interessi nazionali degli Stati rivieraschi dei più importanti stretti coperti da acque territoriali, si è data prevalenza alla libertà di navigazione esercitata dalle navi di qualsiasi bandiera senza alcuna preventiva autorizzazione o notifica. L’art. 38 dell’UNCLOS è chiaro nel definire il nuovo regime come «…l’esercizio della libertà di navigazione e di sorvolo, ai soli fini del passaggio continuo e rapido attraverso lo stretto, tra una parte di alto mare o zona economica esclusiva e un’altra parte di alto mare o zona economica esclusiva…». A fronte di un così ampio riconoscimento del diritto di transito degli Stati terzi, l’UNCLOS all’art. 39 provvede tuttavia a prescrivere agli stessi — oltre che di attenersi ai corridoi di traffico e alle leggi e regolamenti emanati in specifiche materie dallo Stato costiero — stringenti obblighi di astenersi «da qualsiasi minaccia o uso della forza contro la sovranità, l’integrità territoriale o l’indipendenza politica degli Stati rivieraschi…» oltre che «da qualsiasi attività che non sia inerente alle loro normali modalità di transito continuo e rapido…». Ulteriori limitazioni possono venire da una interpretazione restrittiva della nozione di normali modalità di transito (normal mode of transit) prevista dall’UNCLOS ma non adeguatamente definita. Il problema riguarda l’orientamento espresso da alcuni Stati rivieraschi nell’interpretare restrittivamente tale nozione con riguardo sia alle modalità di transito di navi da guerra straniere durante operazioni multinazionali, sia all’adozione da parte di singole navi di misure di self protection. A questa stregua le navi da guerra, pur potendo passare in formazione, dovrebbero transitare come se fossero dei mercantili per quegli stretti e in cui maggiore è la loro vulnerabilità; inoltre, non potrebbero esercitare né l’autodifesa di fronte a un Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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attacco o una minaccia di attacco, né mettere in volo (ancorché in hovering) gli aeromobili imbarcati, né attivare sensori radar, sonar o remotely operated vehicles (ROVs). Tali questioni si sono poste per lo stretto di Bab el-Mandeb (v.); esse sono alla base di alcuni incidenti occorsi in passato nello stretto di Hormuz (v.) in cui sono state coinvolte unità statunitensi e iraniane. È evidente che alla base di simili riserve vi è un’esigenza di protezione dell’integrità territoriale dello Stato costiero. Tuttavia l’UNCLOS provvede già a imporre alle navi in transito di rispettare la sovranità e l’integrità territoriale dello Stato costiero al quale non è consentito imporre ulteriori restrizioni, nemmeno qualora sia in corso un conflitto armato (v. Diritto bellico marittimo). 3.2 Passaggio inoffensivo non sospendibile negli «stretti nazionali». Il semplice transito inoffensivo (v.), sia pur non sospendibile, è invece stato mantenuto negli stretti rientranti nella «Messina Exception» (v. Stretto di Messina) per i quali esiste una rotta alternativa di convenienza similare e in quelli che — come in teoria sarebbe per lo stretto di Tiran (v.) — mettono in comunicazione una parte di alto mare o ZEE e il mare territoriale di un altro Stato (art. 45, 1. b dell’UNCLOS). Il termine di riferimento giuridico per questo regime è dunque da rinvenirsi nella disciplina più generale del transito inoffensivo che è improntato al principio di salvaguardia della «pace, buon ordine e sicurezza dello Stato costiero» e che non consente né il sorvolo degli aeromobili né la navigazione in immersione dei sommergibili. Come dimostra il caso dello stretto di Messina, lo Stato rivierasco di uno stretto di carattere nazionale ha maggiori possibilità di fissare limitazioni volte a proteggere i suoi interessi rispetto a quello che fronteggia uno stretto internazionale: quest’ultimo, oltre a dover garantire sia diritto di sorvolo degli aeromobili che il passaggio in immersione da parte dei sommergibili, è vincolato al rispetto dei diritti di transito degli Stati terzi avendo solo la possibilità di stabilire corridoi di traffico nonché regolamentazioni relative a specifiche materie; esso può inoltre protestare per via diplomatica nel caso che le navi in transito contravvengano agli obblighi previsti dall’art. 39 dell’UNCLOS. 4. Transito e soggiorno nelle acque territoriali italiane Il passaggio e la sosta di navi straniere nelle acque territoriali italiane è improntato al regime vigente per il transito inoffensivo (v.). Il nostro paese ha, infatti, ratificato l’UNCLOS con la Legge del 2 dicembre 1994, n. 689 recependone integralmente la normativa nel proprio ordinamento, salvo specifici adattamenti. Vale quindi per le acque territoriali italiane, il principio secondo cui le «navi di tutti gli Stati», siano esse mercantili che da guerra, «godono del diritto di transito inoffensivo» (UNCLOS, 17) a condizione di rispettare le condizioni fissate dalla stessa UNCLOS perché il passaggio sia considerato inoffensivo. In passato la Legge 16 giugno 1912, n. 612 (abrogata nel 2010) sul transito e soggiorno delle navi mercantili, prevedeva che limitazioni al passaggio e alla sosta in determinate zone del mare territoriale potessero essere stabilite, nell’interesse della difesa nazionale con decreto: questo era stato fatto, con Regio Decreto in data 16 settembre 1939, per le acque adiacenti l’isola di Pantelleria, la base di Augusta e l’Arcipelago della Maddalena. L’adozione di simili misure in tempo di pace ora trova la sua base normativa nell’art. 25, 3 dell’UNCLOS. D’altronde l’art. 83 del CN attribuisce al ministro dei Trasporti il potere di «limitare o vietare il transito e la sosta di navi mercantili nel mare territoriale, per motivi di ordine pubblico, di sicurezza della navigazione e, di concerto con il ministro dell’Ambiente, per motivi di protezione dell’ambiente marino, determinando le zone alle quali il divieto si estende». Quella che è venuta meno è la previsione degli articoli 6 e 7 della citata legge 612-1912 secondo cui: «Qualora una nave mercantile si accinga a transitare in uno specchio d’acqua escluso dal libero transito... la nave da guerra più vicina deve intimare a essa di allontanarsi. L’intimazione è fatta mediante un colpo di cannone a polvere…nel caso che la nave mercantile, pur dopo la seconda intimazione, non si arresti, può essere usata la forza contro di essa, facendo anche uso delle artiglierie». Tali misure sono qui citate solo a fini esemplificativi essendo evidente che esse andrebbero ora reinterpretate alla luce dell’attuale stadio del Diritto internazionale che impone un uso limitato e proporzionale della forza commisurato alla minaccia, tenendo conto che secondo l’art. 25, 1 dell’UNCLOS: «Ogni Stato può adottare le misure necessarie per impedire nel suo mare territoriale ogni passaggio che non sia inoffensivo». Quanto al transito inoffensivo delle navi da guerra straniere esso è ammesso nelle acque territoriali italiane. Ciò può dedursi dal fatto che l’Italia si è pronunciata a suo favore quando, al momento della 194
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firma dell’UNCLOS, ha formulato la dichiarazione in precedenza richiamata. Stante l’integrale recepimento dell’UNCLOS nell’ordinamento italiano, il nostro paese è vincolato al rispetto della regola dell’art. 30 dell’UNCLOS, peraltro rispondente a un principio consuetudinario. Secondo questa norma, in caso di violazione del transito inoffensivo da parte di una nave da guerra straniera, con riguardo alla sua condizione di immunità sovrana (v.), «lo Stato costiero può solo pretendere che essa abbandoni immediatamente il mare territoriale». Analoghi principi si applicano anche a navi da guerra straniere in sosta in porti italiani. Anche se non è più in vigore, essendo stato abrogato, va ricordato che il R.D. 24 agosto 1933, n. 2423 per l’accesso e soggiorno di navi da guerra straniere in tempo di pace, stabiliva limitazioni alla sosta nei porti italiani sia per ciò che riguardava il numero delle navi autorizzate al soggiorno, sia per la durata della sosta, prevedendo il divieto di eseguire specifiche attività militari incompatibili con il carattere inoffensivo della loro presenza. 5. Controllo degli spazi marittimi di interesse nazionale (VTS) L’Italia si è dotata della tecnologia per il controllo della navigazione nelle proprie acque territoriali con il «sistema di assistenza al traffico marittimo» (vessel traffic service - VTS), la cui gestione è stata affidata dal ministero delle Infrastrutture e trasporti al Corpo delle capitanerie di porto-Guardia costiera, con il D.LGS. 19 agosto 2005, n. 196 attinente all’«Attuazione della direttiva 2002/59/CE relativa all’istituzione di un sistema comunitario di monitoraggio e di informazione sul traffico navale». Il VTS è un sistema, previsto dalla Legge 7 marzo 2001, n. 51 dedicato al «controllo degli spazi marittimi di interesse nazionale». Esso si propone di incrementare il livello di sicurezza (v. Sicurezza marittima) della navigazione marittima ed evitare il rischio di collisioni attraverso una rete di sensori e sistemi di comunicazione (radar, radiogoniometri, apparati satellitari, ricetrasmettitori radio, telecamere a circuito chiuso) opportunamente dislocati lungo le coste e collegati con le strutture delle Capitanerie di porto. In effetti, le potenzialità del VTS vanno oltre la tutela della safety. Il sistema è, infatti, del tutto adeguato a verificare, attraverso il controllo del traffico marittimo, che il transito nelle acque territoriali italiane sia realmente inoffensivo. Tale funzione potrà essere espletata anche nella Zona di protezione ecologica italiana (v. Protezione dell’ambiente marino (Mediterraneo). Un ulteriore strumento per il monitoraggio dei mercantili in navigazione in acque italiane è costituito dall’«automatic identification sistem» (AIS) — in gestione operativa al Comando generale del Corpo delle capitanerie di porto — che, mediante un ricetrasmettitore automatico in grado di «dialogare» con le stazioni a terra, consente la trasmissione di tutti i dati relativi alla nave e al viaggio in corso. Tali dati, secondo quanto previsto dall’art. 9, n. 3 del suindicato D.LGS. 196/2005 sono resi disponibili, rationae materiae, «(…) agli organi preposti alla difesa nazionale, alla sicurezza pubblica, alla difesa civile e al soccorso pubblico (…)» assieme a quelli derivati dagli altri sistemi di rapportazione navale. Da notare che il medesimo provvedimento stabilisce l’obbligo, per tutti i mercantili diretti in un porto italiano, di comunicare con almeno 24 ore di anticipo, i propri dati identificativi e quelli relativi al viaggio. TRASMISSIONI NON AUTORIZZATE Le trasmissioni radio o televisive non autorizzate effettuate da una nave o installazione fissa in alto mare (v.) e destinate alla ricezione del pubblico sono vietate (UNCLOS 109, 2). Hanno giurisdizione nei confronti di queste attività illecite lo Stato di bandiera della nave o dell’installazione e qualsiasi Stato in cui le trasmissioni possano essere ricevute o causare interferenze alle comunicazioni. Le navi da guerra (v.) dello Stato avente giurisdizione nel modo suindicato possono esercitare il diritto di visita (v.) verso la nave sospetta di essere dedita a trasmissioni non autorizzate, adottando, in caso di comprovato illecito, provvedimenti coercitivi (UNCLOS 109, 4). TRATTA DEGLI SCHIAVI Benché quasi certamente estinta, l’attività criminosa della tratta degli schiavi continua a essere prevista (Ginevra II, 22; UNCLOS 110) come situazione in cui è lecito l’esercizio del diritto di visita (v.) da parte di una nave da guerra (v.). Nel caso in cui, a seguito del fermo e della visita, venga accertata la commissione dell’illecito, la nave da guerra può procedere a cattura del mercantile qualora abbia la propria bandiera (CN 202). Nell’ipotesi di mercantile straniero dedito alla tratta, la nave da guerra può soltanto Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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raccogliere le prove dell’attività criminosa trasmettendo un dettagliato rapporto alle autorità nazionali per l’inoltro allo Stato di bandiera della nave. Qualora uno schiavo, nel corso del fermo e della visita, riesca a trovare rifugio sull’unità militare, è ipso facto libero (Ginevra II,14; UNCLOS 99). La nozione di schiavitù è prevista dalla Convenzione di Ginevra del 7 settembre 1956 sull’abolizione della schiavitù e della tratta degli schiavi come uno stato o condizione di un individuo sul quale si esercitano le prerogative del diritto di proprietà o alcune di esse. Tale nozione postula evidentemente una condizione nella quale il soggetto passivo sia privato della sua capacità giuridica e del suo stato di libertà. Queste condizioni ben difficilmente si rinvengono nell’attuale fenomeno del traffico e trasporto di migranti (v.) che è sì caratterizzato da situazioni di disagio, di inferiorità e di sfruttamento delle condizioni di bisogno di soggetti trasportati, ma che rappresenta anche la scelta volontaria di individui che scelgono la via dell’immigrazione illegale per cercare condizioni di vita migliori di quelle del paese d’origine. TRIBUNALE INTERNAZIONALE DEL DIRITTO DEL MARE Il Tribunale internazionale per il Diritto del mare (ITLOS, dall’acronimo inglese) è uno dei mezzi per la soluzione delle controversie relative all’applicazione dell’UNCLOS che ogni Stato parte della convenzione può scegliere secondo il suo art. 287; gli altri sono: 1) la Corte internazionale di giustizia; 2) un tribunale arbitrale ad hoc; 3) un tribunale arbitrale speciale costituito da esperti, iscritti in appositi elenchi tenuti da organismi internazionali competenti, nelle materie della pesca (v.), della protezione e conservazione dell’ambiente marino (v.), della ricerca scientifica in mare (v.), della navigazione, incluso inquinamento da navi e da immissioni. L’ITLOS è stato costituito nel 1996 ad Amburgo. Esso è composto da 21 membri, di riconosciuta e indiscussa imparzialità e competenza nel diritto del mare, eletti per un periodo di nove anni dagli Stati parte della convenzione (UNCLOS, allegato VI) che giudicano applicando le disposizioni della convenzione e «le altre norme del diritto internazionale non incompatibili» con la convenzione medesima o, se le parti concordano, ex aequo et bono (UNCLOS 293). La competenza dell’ITLOS, subordinatamente all’accettazione preventiva della sua giurisdizione da parte degli Stati aderenti alla convenzione (UNCLOS 287, 1), verte su: — qualsiasi controversia relativa all’interpretazione o all’applicazione della convenzione; — dispute relative alle attività condotte nell’area internazionale dei fondi marini (v.) la cui soluzione è demandata a una speciale Camera (UNCLOS 187; allegato VI, 14); — procedura di immediato rilascio, trascorsi 10 giorni dal momento del fermo (o prima se v’è uno specifico accordo delle parti sulla competenza del tribunale) di una nave sottoposta a procedure coattive (UNCLOS 73, 2; 220, 6) perché accusata di aver pescato nella zona economica esclusiva (v.) o di aver violato, nella medesima ZEE o nelle acque territoriali norme in materia di protezione dell’ambiente marino (v.). Questa procedura non può tuttavia essere esperita per le navi fermate per violazioni alle regole del passaggio inoffensivo (v.), al regime della zona contigua (v.), o perché sospette di pirateria (v.). Il ricorso alla giurisdizione dell’ITLOS viene auspicato dall’Unione europea (v.) come clausola di carattere generale da inserire in specifici accordi marittimi. TUNISIA Vedi:
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Acque territoriali (Mediterraneo); Baie storiche (Mediterraneo); Cavi e condotte sottomarine (Mediterraneo); Geopolitica del mare; Linee di base (Mediterraneo); Pesca (Mediterraneo); Piattaforma continentale (Mediterraneo); Protezione dell’ambiente marino (Mediterraneo); Prevenzione delle attività pericolose in mare; Zona archeologica; Zona contigua; Zona economica esclusiva (Mediterraneo). Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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TURCHIA Vedi:
Acque territoriali (Mediterraneo); Demilitarizzazione (Mediterraneo); Diritto del mare (codificazione); Geopolitica del Mare; Isole (Regime delle); Mar Egeo; Mar Nero; Piattaforma continentale (Mediterraneo); Regione per le informazione di volo; Ricerca e Soccorso in mare; Stretti e canali internazionali; Zone Economiche Esclusive.
TURKMENISTAN Vedi: Mar Caspio. UCRAINA Vedi:
Mare di Azov; Mar Nero.
UNIONE EUROPEA 1. Competenza in materie marittime L’Unione europea (al tempo Comunità europea) è divenuta parte dell’UNCLOS con firma in data 7 dicembre 1984 e successiva conferma formale in data 1° aprile 1998. Al momento della firma la Comunità ha dichiarato che «la convenzione costituisce, nell’ambito del Diritto del mare, il maggior sforzo nella codificazione e progressivo sviluppo del diritto internazionale» nelle materie in cui la competenza è stata trasferita alla Comunità dagli Stati membri. Queste materie sono esclusive nei settori della conservazione e della gestione delle risorse di pesca (v. Pesca (Regime comunitario) e concorrenti con gli Stati membri in quelli della protezione dell’ambiente marino (v.) e della sicurezza (safety) della navigazione. Le relative attribuzioni sono conferite, nell’ambito della Commissione, alla Direzione generale affari marittimi e pesca (DG Mare). Nessuna competenza è stata viceversa trasferita alla Comunità in materia di delimitazione (v.) dei confini degli spazi marittimi degli Stati membri, sia che essi riguardino Stati extra comunitari, sia che definiscano frontiere all’interno dello «spazio marittimo comune dell’Unione europea». Quale aderente all’UNCLOS l’UE partecipa ai meeting degli Stati parte effettuando un preventivo coordinamento con gli Stati membri nell’ambito del Committee on maritime affairs (COMAR). Le valutazioni effettuate dai paesi partecipanti al COMAR sono alla base delle proteste avanzate nel periodo 2005-07 dall’Unione nei confronti della Libia per la creazione della zona di protezione della pesca (v. Pesca Mediterraneo) dopo che nel 1985 l’allora Comunità europea aveva contestato la chiusura del golfo della Sirte (v.). Ulteriori organismi unionali responsabili di funzioni marittime sono l’Agenzia europea per la sicurezza marittima (EMSA) competente per la maritime safety (v. Sicurezza marittima) e l’Agenzia europea per la difesa (EDA) che ha attribuzioni nella sorveglianza marittima (v. Polizia alto mare). 2. Pianificazione marittima spaziale Il Maritime Spatial Planning (MSP) è un esercizio condotto dalla DG Mare nel quadro della politica marittima integrata. Suo scopo è — tenuto conto del fatto che la gestione degli spazi marittimi sotto giurisdizione nazionale rientra nelle competenze dei singoli Stati — unicamente quello di indicare criteri perché i paesi membri armonizzino le loro scelte nella gestione degli spazi marittimi in modo da: 1) ridurre i conflitti tra i settori e creare sinergie tra i vari usi economici del mare come la pesca, la navigazione, il turismo nautico e l’acquacultura sì da sviluppare l’economia del mare; 2) rafforzare lo sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili e reti, stabilire Aree marine protette (v.), e agevolare gli investimenti in petrolio e gas; 3) accresce il coordinamento tra le amministrazioni in ogni paese, attraverso l’utilizzo
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di un unico strumento per bilanciare lo sviluppo di una serie di attività marittime; 4) intensificare la cooperazione transfrontaliera — tra i paesi UE — su cavi, condutture, rotte di navigazione, impianti eolici, ecc.; 5) proteggere l’ambiente valutando l’impatto sugli ecosistemi delle singole attività marittime. Il MSP può considerarsi privo di valenza giuridica essendo uno strumento di soft law. Come recita la Direttiva 2014/89/UE: «Al fine di garantire coerenza e chiarezza giuridica, è opportuno che l’ambito geografico della pianificazione dello spazio marittimo sia definito in conformità degli strumenti legislativi dell’Unione già esistenti e del diritto marittimo internazionale, in particolare dell’UNCLOS». Il MSP non inficia quindi i diritti sovrani e la giurisdizione degli Stati membri sulle acque marine che derivano dal pertinente diritto internazionale, in particolare dall’UNCLOS, e non interferisce con la definizione delle frontiere marittime che rientra nella loro esclusiva competenza. Inoltre, il MSP non si applica alle attività il cui unico fine è la difesa o la sicurezza nazionale. L’Italia ha recepito il MSP con il D.LGS. 17 ottobre 2016, n. 201 il cui art. 5 stabilisce che essa è «attuata attraverso l’elaborazione di piani di gestione, che…possono includere: a) zone di acquacoltura; b) zone di pesca; c) impianti e infrastrutture per la prospezione, lo sfruttamento e l’estrazione di petrolio, gas e altre risorse energetiche, di minerali e aggregati e la produzione di energia da fonti rinnovabili; d) rotte di trasporto marittimo e flussi di traffico; e) zone di addestramento militare; f) siti di conservazione della natura e di specie naturali e zone protette; g) zone di estrazione di materie prime; h) ricerca scientifica; i) tracciati per cavi e condutture sottomarine; l) turismo; m) patrimonio culturale sottomarino». Da sottolineare come nelle linee guida allegate al provvedimento si dica che: «La pianificazione dello spazio marittimo deve presupporre il concetto di “Sistema mare” quale organico governo delle istanze e delle esigenze, in un’ottica di sviluppo sostenibile, derivanti dalle molteplici attività umane che interessano gli spazi marini e del loro riverbero nelle relazioni dell’Italia con il Mediterraneo e nelle relazioni dell’Italia, come attore leader del Mediterraneo, con il resto del mondo». 3. Strategia sicurezza marittima (EUMSS) Con una metafora potrebbe dirsi che l’Europa ha finalmente scoperto il mare nella sua più vasta dimensione geopolitica (v. Geopolitica del mare) adottando la Strategia europea per la sicurezza marittima (EUMSS) del 24 giugno 2014. Il documento, approvato dal Consiglio, delinea un quadro comune che garantisca ai paesi membri uno sviluppo delle loro politiche marittime e una risposta alle minacce e ai rischi in campo marittimo secondo principi di approccio intersettoriale, integrità funzionale, multilateralismo marittimo e rispetto del diritto internazionale. L’EUMSS individua come fondamentali interessi marittimi strategici dell’UE, nei mari che la bagnano e in quelli adiacenti, la prevenzione dei conflitti, il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, la protezione delle infrastrutture marittime primarie come porti e installazioni offshore (v. Cavi e condotte sottomarine; Piattaforma continentale), il controllo delle frontiere marittime esterne (v. Acque territoriali; Zona contigua) per prevenire attività illegali, la sicurezza energetica (v. Risorse naturali) e la libertà di navigazione, il contrasto delle attività di pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata (Pesca IUU dall’acronimo inglese di Illegal, unreported and unregulated). L’interesse prioritario è considerato la protezione dell’UE dai rischi marittimi che la minacciano tra i quali vi sono le controversie marittime territoriali riguardanti la delimitazione degli spazi marittimi secondo i principi dell’UNCLOS (v. Delimitazione), la proliferazione delle armi di distruzione di massa (WMD) (v. Proliferation security initiative), la pirateria (v.), il terrorismo marittimo (v.), il traffico in mare di armi (v.) e di stupefacenti (v.), il traffico e trasporto illegale di migranti (v.), l’inquinamento marino (v. Protezione dell’ambiente marino). Rilevante è il fatto che l’EUMSS individui come attore marittimo il cluster funzione Guardia costiera (v.) nel quale vi sono sia gli organismi civili sia militari dei paesi membri che svolgono compiti di polizia marittima (v.) come strumento interagenzia per la tutela dei propri interessi e per la protezione dai rischi. Evidente quindi che la Marina Militare italiana, all’interno di questo cluster, ricopra un ruolo per lo meno paritario rispetto alle altre componenti marittime della Guardia costiera e della Guardia di Finanza. L’EUMSS è corredata da un Action Plan approvato il 16 dicembre 2014. UNIONE SOVIETICA (EX) Vedi: Baie storiche; Demilitarizzazione (Mediterraneo); Disarmo navale; 198
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Mare chiuso; Prevenzione attività pericolose in mare; Sommergibile; Successione tra Stati; Transito inoffensivo. ZONA ARCHEOLOGICA In aggiunta ai poteri di prevenzione e repressione spettanti allo Stato costiero nell’ambito della zona contigua (v.) è a esso riconosciuto il diritto di vietare la rimozione dal fondo del mare di oggetti di valore archeologico e storico rinvenuti in aree adiacenti le proprie acque territoriali (v.). La zona in cui può essere esercitata questa forma di giurisdizione finalizzata al controllo del traffico di tali oggetti è detta zona archeologica. Essa coincide con la zona contigua (v.), la cui estensione massima può essere di 24 mn dalle linee di base, e non può essere proclamata se non dopo che sia stata istituita la zona contigua medesima. L’asportazione di reperti storico-archeologici senza il consenso dello Stato costiero costituisce una violazione delle leggi e regolamenti vigenti sul proprio territorio e nelle proprie acque territoriali (v.) (UNCLOS 303, 2) e, quindi, può essere oggetto di sanzioni. La legislazione italiana di riferimento per la protezione dei beni archeologici in mare è costituita dal D.LGS. 22 gennaio 2004, n. 42 «Codice dei beni culturali e del paesaggio» Questa normativa, oltre a stabilire che appartengono allo Stato i beni mobili e immobili di interesse archeologico rinvenuti sui «fondali marini» delle acque interne e territoriali, all’art. 94 prevede che: «Gli oggetti archeologici e storici rinvenuti nei fondali della zona di mare estesa dodici miglia marine a partire dal limite esterno del mare territoriale sono tutelati ai sensi delle regole relative agli interventi sul patrimonio culturale subacqueo allegate alla convenzione UNESCO sulla protezione del patrimonio culturale subacqueo adottata a Parigi il 2 novembre 2001» (v. Protezione del patrimonio culturale subacqueo). In aggiunta, l’art. 3 della Legge 23 ottobre 2009, n. 157 di ratifica della Convenzione UNESCO stabilisce, in materia di estensione e delimitazione (v.) della zona archeologica, che: «Quando la zona ... si sovrappone con un’analoga zona di un altro Stato e non è ancora intervenuto un accordo di delimitazione, le competenze esercitate dall’Italia non si estendono oltre la linea mediana di cui all’articolo 1, comma 3, della legge 8 febbraio 2006, n. 61». I ministeri Difesa e Beni culturali hanno stipulato nel 1998, una convenzione per ricerca archeologica in mare che prevede la collaborazione della Marina Militare nella ricerca, localizzazione ed eventuale recupero in fondali superiori ai 40 m, di beni storico-archeologici, mediante l’impiego di unità navali munite di idonee attrezzature; nonché vigilanza per la prevenzione e la repressione degli illeciti concernenti i beni di interesse archeologico rinvenuti sul fondo marino. Periodicamente, Marina e Beni culturali svolgono attività congiunte per la protezione del patrimonio archeologico sommerso. ZONA COMUNE DI PESCA Vedi: Pesca (Mediterraneo). ZONA CONTIGUA 1. Profili generali Al di là delle acque territoriali (v.) può essere istituita la zona contigua che è la zona a esse adiacente in cui uno Stato può esercitare i controlli necessari a prevenire e reprimere le violazioni alle leggi di polizia doganale, fiscale, sanitaria o d’immigrazione, vigenti sul suo territorio o nelle sue acque territoriali (UNCLOS art. 33,1). Non è in linea con l’UNCLOS ed è perciò contestata, la pretesa di alcuni paesi di esercitare anche, nella zona contigua, giurisdizione ai fini della sicurezza nazionale. L’istituto della zona contigua, come regolamentato dall’UNCLOS e come oramai consolidato nel diritto consuetudinario, rappresenta il punto di arrivo di un processo evolutivo sviluppatosi a partire dal Settecento quando la Gran Bretagna emanò una serie di provvedimenti (i c.d. Hovering Acts del 1718) per estendere la propria giurisdizione domestica in materia doganale e fiscale entro una zona di 5 mn adiacente alle coste. La Gran Bretagna mutò poi il suo orientamento sostenendo che tale estensione di giurisdizione non fosse legittima in mancanza del consenso degli Stati di bandiera dei mercantili fermati. Tuttavia la prassi inglese continuò a essere adottata negli Stati Uniti che nel 1922 crearono una zona doSupplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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ganale di 12 mn in cui applicavano il divieto di trasportare alcolici in analogia alla normativa proibizionista vigente sul territorio. Tale legislazione fu poi abrogata nel 1933 ma, nel frattempo, alcuni paesi europei come la stessa Italia emanarono norme per il controllo doganale extraterritoriale. Fu così che nella I convenzione di Ginevra del 1958, anche grazie alle proposte formulate dall’Italia, si adottò una disciplina che prevedeva misure preventive e repressive nelle materie doganali, fiscali, sanitarie e di immigrazione entro le 12 mn dalle linee di base. Di fatto ogni Stato poteva fissare l’estensione massima della sua zona contigua in rapporto a quella delle acque territoriali il cui limite non era definito dalla convenzione: l’estensione complessiva di acque territoriali e zona contigua sarebbe dovuta essere di 12 mn. La questione della zona contigua si ripropose durante i lavori preparatori dell’UNCLOS essendosi espresse riserve da parte di alcuni paesi sulla sua utilità in relazione all’istituzione di ZEE (v.). Alla fine prevalse l’orientamento di quei paesi come l’India che, al di là delle effettive esigenze di contrasto e prevenzione di specifiche materie, vedevano nella zona contigua un’area di potere marittimo. Tanto è vero che nella legislazione indiana (act 80-1976) è ancora stabilito che la zona contigua vale anche per la «security of India». La zona contigua, che per esistere deve essere formalmente proclamata, costituisce una porzione delle acque internazionali (v.). Da ciò deriva che, all’interno di essa le navi e gli aeromobili di tutte le nazioni, godano delle libertà dell’alto mare (v.) in analogia a quanto espressamente stabilito per la zona economica esclusiva (v.) (UNCLOS 58). I battelli stranieri vi possono esercitare la pesca a meno che lo Stato costiero non abbia proclamato la zona economica esclusiva o la zona riservata di pesca. Le navi da guerra (v.) possono, in particolare, svolgere attività operative e addestrative, ivi compreso il contrasto alla pirateria, che prevedano anche l’uso di armi, senza che lo Stato costiero possa pretendere di imporre limitazioni. Resta fermo tuttavia che lo stesso Stato ha il diritto di applicare la propria legislazione in materia doganale, fiscale, sanitaria o d’immigrazione, nei confronti dei mercantili di qualsiasi bandiera, pur in presenza di navi da guerra della stessa nazionalità. Queste potrebbero comunque intervenire a protezione dei propri connazionali in presenza di un uso sproporzionato della forza. 2. Limiti spaziali L’estensione massima della zona contigua è stabilita dall’art. 33,2 dell’UNCLOS in 12 mn dal limite esterno delle acque territoriali (24 mn dalle linee di base) (UNCLOS art. 33,2). Nel caso in cui due Stati si fronteggino a una distanza inferiore alle 48 mn, ciascuno di essi, secondo la I convenzione di Ginevra del 1958, non ha il diritto di estendere la propria zona contigua al di là della linea mediana. L’UNCLOS non ha riprodotto questa disposizione. A parere di alcuni, da ciò deriverebbe che le zone contigue di due Stati frontisti, il cui limite esterno delle acque territoriali disti meno di 24 mn, potrebbero in teoria sovrapporsi; questo comporterebbe però problemi di interferenza reciproca tra Stati confinanti ai fini dell’esercizio di giurisdizione e di poteri di polizia. Per evitare simili complicazioni può ritenersi plausibile l’interpretazione di chi ritiene che, in casi analoghi, il principio della mediana sia ancora applicabile quale regola consuetudinaria (v. Delimitazione). Hanno istituito zone contigue di 24 mn, in Mediterraneo, Algeria, Cipro, Egitto, Francia, Marocco, Malta, Spagna, Siria e Tunisia. Del tutto peculiare è la zona contigua dell’Italia che risulta esistente nella legislazione pur mancando di normativa attuativa. 3. Prassi italiana L’Italia ha decretato l’esistenza della zona contigua con l’art. 11 sexies della legge 30 luglio 2002, n. 189 (v. Traffico e trasporto illegale di migranti) che ha modificato l’art. 12 del D.LGS. 286/1998 nel seguente modo: «La nave italiana in servizio di polizia, che incontri nel mare territoriale o nella zona contigua, una nave, di cui si ha fondato motivo di ritenere che sia adibita o coinvolta nel trasporto illecito di migranti, può fermarla, sottoporla a ispezione e, se vengono rinvenuti elementi che confermino il coinvolgimento della nave in un traffico di migranti, sequestrarla conducendo la stessa in un porto dello Stato». Sembrerebbe dunque che il nostro ordinamento contempli la zona contigua ratione materiae nel senso che la preveda ai soli fini dell’immigrazione e non anche a quelli di polizia doganale, fiscale e sanitaria, come invece era stabilito dalla legge 25 settembre 1940, n. 1424 che aveva a suo tipo fissato in 12 mn il limite della zona di vigilanza doganale. Peraltro la zona contigua è citata indirettamente anche dal D.LGS. 22 gennaio 2004, n. 42 «Codice dei beni culturali e del paesaggio» la cui sezione II si intitola «Ricerche e rinvenimenti fortuiti nella zona contigua al mare territoriale» (v. Zona archeologica). Il problema dell’indeterminatezza 200
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normativa della zona contigua italiana è stato posto dalla Corte di Cassazione (Sez. I penale, 5 maggio 2010 n. 32960) in un procedimento a carico di scafisti turchi fermati a 23 mn dalla costa calabrese su un gommone battente bandiera turca. Nell’occasione la Cassazione, pur confermando la teorica giurisdizione italiana sulla fascia di mare tra le 12 e le 24 mn, ha affermato il difetto di giurisdizione. La tesi sostenuta dalla Cassazione è stata che il provvedimento italiano di istituzione della zona contigua (individuato nell’art. 12, comma 9 bis del TU sull’immigrazione) non sia opponibile alla Turchia quale paese che non ha ratificato l’UNCLOS. In merito a questa pronuncia è stato acutamente osservato come la Cassazione abbia dimenticato che «la zona contigua e la sua estensione hanno oramai acquisito lo status di diritto consuetudinario». Per porre termine a tale situazione di incertezza normativa sarebbe necessaria l’emanazione di un decreto interministeriale che dia attuazione alla legge di ratifica dell’UNCLOS e alle altre norme citate e fissi i suoi limiti spaziali lungo le acque territoriali italiane nelle zone in cui non ci sia spazio per un’estensione sino alla distanza massima consentita (si pensi alla situazione delle isole Pelagie). Utile sarebbe anche che siano specificati i poteri esercitabili e le Forze — tra cui non potrebbe non esserci la Marina — cui essi sono attribuiti. Ovviamente, l’interesse a un simile provvedimento è prioritariamente del Corpo della guardia di finanza nell’ambito delle sue attribuzioni d’istituto. ZONA «CONVENZIONE NAIROBI» È un’area esterna e adiacente al mare territoriale (v.) di uno Stato, determinata in conformità del diritto internazionale e tale da estendersi non oltre le 200 miglia nautiche dalle linee di base dalle quali si misura l’ampiezza del mare territoriale in cui si applica la Convenzione di Nairobi del 2007 sulla rimozione dei relitti. Essa è prevista, nel caso in cui non sia stata ancora istituita la ZEE (v.), come zona di giurisdizione ai fini della rimozione del relitto di navi affondate, ai fini della sicurezza marittima (v.) e della protezione dell’ambiente marino (v.). L’art. 9, 7 della stessa convenzione (entrata in vigore nel 2015) stabilisce in particolare che se l’armatore della nave affondata «non rimuove il relitto entro il termine fissato... lo Stato interessato può rimuovere il relitto con il mezzo più pratico e rapido disponibile, coerentemente con le considerazioni di sicurezza e di protezione dell’ambiente marino. Lo Stato interessato può esercitare tali poteri nei confronti dei relitti delle navi, anche se registrate in Stati che non siano parti della convenzione». ZONA ECONOMICA ESCLUSIVA (ZEE) 1. Genesi storica Negli anni Settanta del Novecento si sviluppò nel Sud America e nel Centro Africa il movimento per la protezione delle risorse di pesca (v.) nella fascia delle 200 mn. Le premesse erano state poste dalla Dichiarazione di Santiago del 18 agosto 1952 in cui si affermava che: « ...the Governments of Chile, Ecuador and Peru proclaim as a norm of their international maritime policy that they each possess exclusive sovereignty and jurisdiction over the sea along the coasts of their respective countries to a minimum distance of 200 nautical miles from these coasts. The exclusive jurisdiction and sovereignty over this maritime zone shall also encompass exclusive sovereignty and jurisdiction over the seabed and the subsoil thereof... ». Apparve allora chiaro che la posta in gioco era l’erosione della libertà dei mari (v.) al di là delle acque territoriali. A quegli anni risalgono anche alcune iniziative di estensione delle acque territoriali sino al limite delle 200 mn adottate da Stati come Brasile, Argentina e Somalia. Il conflitto tra paesi «territorialisti» e paesi «liberisti» (tra i quali c’erano ovviamente le potenze marittime come Stati Uniti, Gran Bretagna e l’allora Unione Sovietica) fu risolto dalle Nazioni unite nel corso dei lavori della III conferenza del Diritto del mare (v. Diritto del mare-Codificazione). Nel frattempo il regime della ZEE aveva raggiunto un sufficiente grado di accettazione nella comunità internazionale tanto da assumere valore consuetudinario come riconosciuto dalla Corte internazionale di giustizia nei casi Tunisia/Libia (1982) e del Golfo del Maine (1984). 2. Regime generale Sulla base di tale situazione fu concordato l’attuale regime dell’UNCLOS che rappresenta il quadro legale per risolvere i conflitti di interesse tra Stati sviluppati e non: il risultato è un bilanciamento tra i diritti degli Stati costieri allo sfruttamento delle loro risorse e alla tutela dell’ambiente marino e quelli dei paesi terzi aventi titolo al tradizionale libero uso del mare. Insomma un regime sui generis, la cui ambiguità (volutamente improntata a un approccio costruttivo) si riflette nell’UNCLOS (art. 58): nelle ZEE Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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straniere gli Stati terzi possono esercitare specifici usi legittimi del mare come «quelli correlati con le operazioni delle navi» o la posa di cavi e condotte sottomarine (UNCLOS 58,1), a condizione di non intaccare i diritti dello Stato costiero e di osservare le norme da questi emanate nelle materie di propria competenza. È tuttavia esclusa (UNCLOS, 86) la fruizione di tutte le libertà dell’alto mare (v.) Per questo motivo si fa ricorso alla categoria più generale delle acque internazionali (v.) che comprende la zona contigua (v.) e, appunto, la ZEE, mentre si usa il termine alto mare (v.) per indicare gli spazi marini al di là della ZEE.
IL PROBLEMA DEL TRANSITO DELLE FORZE NAVALI NELLE ZEE: LA POSIZIONE ITALIANA 1. Al di fuori dei poteri, esplicitamente previsti e regolati dall’UNCLOS, lo Stato costiero non ha il diritto di sottoporre a vincoli, all’interno della propria ZEE, né il traffico marittimo internazionale, né il sorvolo, né «altri usi legittimi del mare come quelli correlati con le operazioni delle navi o la posa di cavi e condotte sottomarine» (UNCLOS 58,1). Per quanto il testo della convenzione non contenga alcuna norma che legittimi l’adozione di misure che limitino l’uso delle acque della ZEE da parte di navi da guerra di Stati terzi, da più parti è stato avanzato il dubbio che gli Stati costieri, estendendo in modo strisciante la propria giurisdizione sulla ZEE (fenomeno della creeping jurisdiction), finiscano per dare carattere territorialistico ai propri poteri assimilando, di fatto, la ZEE alle acque territoriali. Da questo punto di vista potrebbero essere ipotizzabili le seguenti restrizioni agli usi militari delle acque delle ZEE: — interdire la ZEE a Forze navali operanti; — consentire lo svolgimento di esercitazioni militari previa notifica o autorizzazione; — introdurre, sotto la specie di provvedimenti a difesa della fauna ittica, limitazioni all’addestramento delle Forze navali con armi attive; — vietare il transito delle navi da guerra in aree ove sono poste isole artificiali, istallazioni o strutture destinate all’esplorazione, sfruttamento e gestione delle risorse naturali. 2. Tali questioni sono state concettualizzate nell’ambito del problema della così detta Mobilità delle flotte che è stato al centro dell’attenzione politica negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso quando alcuni Stati hanno preso — in funzione nazionalistica e anti-occidentale — ad avanzare pretese di preventive notifiche o autorizzazione dell’attività svolta da navi da guerra straniere nelle loro ZEE. Espressione eloquente di tale tendenza è la posizione assunta dal Brasile (uno degli Stati più attivi nel processo di codificazione del nuovo diritto del mare) quando, nell’aderire all’UNCLOS, ha dichiarato che: «the convention do not authorize other States to carry out in the exclusive economic zone military exercises or manoeuvres, in particular those that imply the use of weapons or explosives, without the consent of the coastal State». Identico, nel considerare il libero transito di unità militari nelle ZEE come pregiudizievole per la sicurezza nazionale, è l’orientamento dell’India che nel 1995, al momento della ratifica della convenzione, ha così argomentato: «The Government of the Republic of India understands that the provisions of the convention do not authorize other States to carry out in the exclusive economic zone and on the continental shelf military exercises or manoeuvres, in particular those involving the use of weapons or explosives without the consent of the coastal State». Sostanzialmente allineate con tali posizioni restrittive sono le Guidelines for Navigation and Overflight in the Exclusive Economic Zone (EEZ Group 21), studio non-binding elaborato dalla Nippon Foudation nel 2005. 3. L’Italia è invece uno dei pochi paesi, assieme a Germania e Olanda, ad aver preso ufficialmente posizione su tale illegittimo regime di limitazioni al transito delle Forze navali operanti nelle ZEE, avendo depositato alle NU in sede di firma e ratifica dell’UNCLOS la seguente dichiarazione: «Lo Stato costiero non gode, secondo la convenzione, di diritti residuali nella zona economica esclusiva. In particolare, i diritti e la giurisdizione dello Stato costiero in tale zona non includono il diritto di ottenere la notifica di esercitazioni o manovre militari o di autorizzarle».
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La ZEE è in definitiva un’area esterna e adiacente alle acque territoriali (v.) in cui lo Stato costiero ha la titolarità di diritti sovrani (UNCLOS 56, 1, (a) sulla massa d’acqua sovrastante il fondo marino ai fini dell’esplorazione, sfruttamento, conservazione e gestione delle risorse naturali, viventi o non viventi, compresa la produzione di energia dalle acque, dalle correnti o dai venti. Esso ha anche giurisdizione (UNCLOS 56, 1, (b) in materia di installazione e uso di isole artificiali o strutture fisse, ricerca scientifica in mare (v.) e, soprattutto, di «protezione e conservazione dell’ambiente marino» (v.). La ZEE costituisce inoltre la zona in cui lo Stato costiero gode di diritti per la rimozione dei relitti (v.) sommersi costituenti pericolo per la navigazione e l’ambiente marino (v. Zona «Convenzione Nairobi»). I diritti sovrani di esplorazione, sfruttamento e conservazione delle risorse naturali spettanti a uno Stato nella propria ZEE si esplicano principalmente nel diritto esclusivo di pesca. Le uniche limitazioni a questa incondizionata posizione di preminenza riguardano l’onere di ammettere altri Stati alla cattura della quantità di pesce disponibile in eccedenza rispetto alle proprie capacità di pesca, dando preferenza, su basi eque, agli Stati senza litorale o «geograficamente svantaggiati» (UNCLOS 62, 69 e 70). Lo Stato costiero, nel concedere a Stati terzi l’accesso alla propria ZEE, deve inoltre prendere in considerazione la possibilità che cittadini di questi Stati abbiano esercitato abitualmente la pesca in aree della ZEE, prima della sua istituzione (UNCLOS 62, 3). Come precisato nelle voci relative a Pesca e Protezione dell’ambiente marino del presente Glossario, lo Stato costiero può decidere di avvalersi solo in parte dei diritti esercitabili a titolo di ZEE: di qui il fenomeno delle zone minus generis di protezione ittica o di protezione ecologica. 3. Pronto rilascio battelli Per preservare i propri diritti sovrani sulle risorse naturali della ZEE, il paese che ne è titolare ha facoltà di adottare misure preventive e repressive, quali il fermo, l’ispezione e il sequestro di navi straniere in transito (UNCLOS 73). Le sanzioni per la violazione delle norme sulla pesca non possono tuttavia prevedere la carcerazione o altre forme di pene corporali (UNCLOS 73, 2). Lo Stato che procede al fermo o al sequestro di navi straniere deve prontamente notificare allo Stato di bandiera le azioni intraprese (UNCLOS 73,4). Il rilascio è previsto dietro pagamento di cauzione o prestazione di garanzia. Nel caso in cui il rilascio della nave fermata non avvenga prontamente, lo Stato di bandiera può deferire (UNCLOS 292,1) la questione della revoca del fermo: a) a qualsiasi corte o tribunale designato di comune accordo con lo Stato costiero; b) in mancanza di accordo, a una corte o un tribunale la cui giurisdizione sia stata preventivamente accettata dallo Stato che ha proceduto al fermo (UNCLOS 287) ovvero al tribunale internazionale per il diritto del mare (v.). È bene ricordare che in ogni caso non è legittimo, nell’ambito delle attività di polizia che lo Stato costiero può svolgere nella sua ZEE, un uso della forza sproporzionato e non necessario nei confronti di pescatori stranieri. Per quanto riguarda specificatamente la polizia della pesca, oltre ai principi generali elaborati dalla giurisprudenza internazionale (v. Polizia del mare), va tenuto anche conto dei seguenti due principi stabiliti dagli articoli 21 e 22 della Convenzione di New York del 1995 sulle specie ittiche migratorie, relativamente alle attività di sorveglianza della pesca: 1) «boarding and inspection is not conducted in a manner that would constitute harassment of any fishing vessel»; 2) «The degree of force used shall not exceed that reasonably required in the circumstances». 4. Limiti spaziali e delimitazione UNCLOS 74,1 stabilisce che la delimitazione (v.) delle ZEE tra Stati con coste adiacenti o opposte deve farsi per accordo in modo da raggiungere una soluzione equitativa. Lo stesso articolo, al para 3, prevede che gli Stati interessati, in attesa di tale accordo, possano addivenire a «intese provvisorie di natura pratica» (provisional understandings). Un esempio in materia è costituito dall’Accordo tra Algeria e Tunisia dell’11 febbraio 2002, di delimitazione laterale relativa sia agli spazi di acque territoriali che a quelli di piattaforma continentale e ZEE (v. Acque territoriali (Mediterraneo). Non esiste nessun obbligo di far coincidere ZEE e piattaforma continentale: gli Stati, nel corso di un negoziato solo liberi di stabilire frontiere diverse per spazi marittimi distinti. È comunque sempre possibile che la delimitazione del fondo marino diverga da quella della colonna d’acqua sovrastante di cui lo stesso Stato ha la titolarità nell’ambito della ZEE. Tra l’altro, tale divergenza può essere connessa alla Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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sfasatura temporale tra un accordo di delimitazione e il successivo, nel senso che le condizioni di fatto e di diritto, poste a base della delimitazione della piattaforma continentale (stipulata, quando l’istituto della ZEE non era ancora contemplato dal diritto internazionale), possono non valere successivamente per quello della ZEE. Al riguardo, un problema di divergenza si pone per il confine della ZERP croata; la questione, come già detto in altre parti del presente Glossario (v. Delimitazione; Pesca-Mediterraneo), è stata sollevata dall’Italia con nota di protesta inviata alla Croazia (in UN LOS Bulletin n. 60, p. 127). La prassi internazionale presenta tuttavia numerosi casi di confine unico (single maritime boundary) adottato dagli Stati: nel mar Mediterraneo, Cipro ha stipulato accordi di questo tipo con Egitto (2003), Libano (2007) e Israele (2010); anche l’Italia ha adottato lo stesso metodo nell’accordo sulle frontiere marittime con la Francia del 2015 (al 2020 non ancora ratificato dall’Italia). ZONA ECONOMICA ESCLUSIVA (MEDITERRANEO) 1. Avvio territorializzazione Il mar Mediterraneo (v.) era caratterizzato, sino a qualche decina di anni fa, da estese aree di alto mare (v.). Nessun paese aveva, infatti, proclamato zone economiche esclusive, pur avendone il diritto, mentre esistevano limitate zone riservate di pesca come il «Mammellone» e quella maltese di 25 miglia (v. Pesca (Mediterraneo). La ragione di ciò stava indubbiamente nella sua configurazione geografica, dato che le coste non distano in nessun punto 400 o più miglia dalle coste opposte di un altro Stato. Di qui l’impossibilità, connessa anche al particolare regime giuridico di «mare chiuso» (v.), che qualche Stato potesse proclamare unilateralmente una ZEE dell’ampiezza di 200 miglia. Ma il motivo principale andava ricercato nella necessità di preservare le esigenze di libertà di navigazione delle Forze navali NATO che sarebbero state altrimenti minacciate dalla possibile territorializzazione di proprie ZEE da parte di paesi non facenti parte dell’Alleanza. Proprio per questo l’Italia aveva assunto una precisa posizione formulando uno statement cautelativo al momento della firma della convenzione del 1982 (v. riquadro al para 2. della voce dedicata al problema del transito delle Forze navali nelle ZEE). Non secondaria era inoltre la preoccupazione che si innescassero dinamiche che potessero turbare lo status quo del mar Egeo (v.) caratterizzato da varie dispute tra Grecia e Turchia su estensione delle acque territoriali, delimitazione della piattaforma continentale e regime dello spazio aereo sovrastante l’alto mare. Il fronte contrario all’istituzione di ZEE in Mediterraneo cominciò a incrinarsi con la creazione di zone sui generis in cui gli Stati costieri si avvalevano di parte dei diritti esercitabili nella ZEE relativamente alla protezione della pesca e dell’ambiente marino (v.). Le iniziative in questo senso, come specificato nelle pertinenti voci del presente Glossario (v. Protezione della pesca-Mediterraneo; Protezione dell’ambiente marino-Mediterraneo), sono iniziate con la ZRP dell’Algeria (1994) e la ZPP della Spagna (1997) per poi proseguire con la ZPE della Francia (2003), la ZERP Croazia (2003), la ZPP libica (2005), e infine la ZPE italiana (2006). Un impulso al processo di creazione di zone di giurisdizione funzionale è venuto dalla politica di gestione delle risorse marine dell’Unione europea (v.) volta a contrastare il proliferare della pesca illegale (IUU Fishing) praticata in molti casi da pescherecci di paesi asiatici, che trovò riconoscimento nella Conferenza ministeriale di Venezia del 2003 seguente a quella di Creta del 2002, durante le quali gli Stati mediterranei si confrontarono sulla necessità di dichiarare specifiche zone di giurisdizione. Di qui, il passo successivo furono ulteriori ZPP come quella libica del 2005 e l’avvio di proclamazioni di ZEE come si indica di seguito. 2. ZEE già istituite 2.1 Algeria Con un’improvvisa decisione assunta con Decreto Presidenziale del 20 marzo 2018, l’Algeria ha proclamato una ZEE che si estende sino nord-ovest del golfo di Oristano, lambendo le acque territoriali di Sant’Antioco, Carloforte, Portovesme, Oristano, Bosa e Alghero, con una cuspide (punto di coordinate 40°21’31’’N - 06°50’35’’E) distante circa 60 miglia dalla costa della Sardegna e almeno 195 miglia da quella algerina. Essa si sovrappone in parte anche alla ZEE della Spagna. Il suo confine riguarda anche la sottostante piattaforma continentale. 204
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Pretesa ZEE Algeria a confronto con ZEE Spagna e Francia e con Piattaforma continentale italiana (Fonte: Limes, Il Mare è l'Italia, 10/2020, 216).
Le acque di giurisdizione di Algeria e Italia si fronteggiavano in passato senza entrare in contatto, essendo separate da una larga fascia di alto mare: da un lato la ZRP algerina del 1994 (v. Pesca-Mediterraneo); dall’altro la ZPE italiana del 2011 che si tiene ben al di qua dell’ipotetica linea di equidistanza tra Sardegna e Algeria. Non risulta che i due paesi fossero mai entrati in trattative, anche se in qualche occasione entrambi avevano convenuto sulla necessità di definire la propria frontiera marittima comune, non foss’altro per gli eccellenti rapporti politico-commerciali, risalenti al tempo dell’indipendenza algerina e cementati dal gasdotto TransMed terminato nel 1994 (v. Cavi e condotte-Mediterraneo). L’iniziativa algerina è stata contestata dall’Italia con NV del 28 novembre 2018 in cui si afferma che «[...] il Governo italiano esprime la sua opposizione alla delimitazione della ZEE Algerina [...] poiché essa si sovrappone indebitamente a zone di legittimo ed esclusivo interesse italiano». Anche la Spagna nel 2018 ha eccepito che la pretesa algerina è «sproporzionata». In risposta alla presa di posizione italiana, l’Algeria con NV del 20 giugno 2019, si è dichiarata disponibile a ricercare «une solution équitable et mutuellement acceptable sur les limites extérieures de la zone économique exclusive de l’Algérie et de l’espace maritime de l’Italie, conformément, l’article 74 de la convention des Nations unies sur le droit de la mer». Da notare che in questa NV, oltre a rivendicare il carattere equitativo della delimitazione, si fa riferimento al fatto che alla ZEE algerina si contrappongono non ben precisati «spazi marittimi dell’Italia». Al riguardo, è bene invece precisare che tali spazi marittimi italiani sono ben definiti, essendo costituiti sia dalla piattaforma continentale delimitata con la Spagna nel 1974, sia dalla succitata ZPE. Al limite, può dirsi che la scelta italiana di autolimitarsi nel fissare il limite sud della stessa ZPE, non è stata apprezzata dall’Algeria nel suo corretto valore cautelativo. In futuro sarebbe perciò opportuno estenderlo — in attesa di un confine fissato per accordo — fino all’ipotetica linea di equidistanza. Una presa di posizione ufficiale italiana è anche quella espressa nel corso di un question time in risposta a un’interrogazione: il 5 febbraio il rappresentante del Governo ha dichiarato che l’Algeria «ha disatteso l’articolo 74 della convenzione ONU sul Diritto del mare che richiede agli Stati, nelle more di un accordo di delimitazione, di cooperare
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in buona fede con gli Stati vicini e di non compromettere o ostacolare il raggiungimento dell’accordo finale con comportamenti lesivi degli interessi degli altri Stati». In definitiva, in attesa che si pervenga a un tale accordo (o, in alternativa, ci si avvalga) devono comunque notarsi vari aspetti, e cioè: 1) l’asserito carattere equitativo del confine stabilito dall’Algeria è una valutazione di merito che non può avere carattere unilaterale, ma deve essere condiviso dalle parti; 2) l’inefficacia verso i terzi delle proclamazioni unilaterali, in quanto, come affermato dalla CIG nel Fisheries Case (United Kingdom v. Norway) del 1951 (p. 20): «Although it is true that the act of delimitation is necessarily a unilateral act, because only the coastal State is competent to undertake it, the validity of the delimitation with regard to other States depends upon international law»; 3) la scelta di fissare unilateralmente il punto estremo settentrionale della ZEE a così grande distanza dalla costa algerina può essere interpretata come una provocazione, ma riflette anche le tesi espresse dalla Francia nel 1974 sull’esigenza che si avviasse un negoziato di delimitazione tra Italia, Francia, Spagna e Algeria incentrato sulla definizione di un punto quadruplo al centro del Tirreno cui corrispondesse una «zona di cooperazione comune»; 4) la Sardegna, essendo la più grande isola del Mediterraneo, con uno sviluppo costiero non inferiore a quello algerino, deve avere pieno effetto nella definizione della mediana con l’Italia. Oltre all’Italia, l’iniziativa, come si dirà più avanti, è oggetto di proteste avanzate dalla Spagna. Da aggiungere infine che la nuova ZEE algerina ingloba la precedente ZRP del 1994 (v. Pesca-Mediterraneo). 2.2 Cipro Circa la Repubblica di Cipro va notato che: — ha stipulato un Accordo nel 2003 con l’Egitto per la delimitazione delle rispettive ZEE il cui confine è anche valevole per la piattaforma continentale (v.) e che, come si dirà più avanti, è perciò contestato dalla Turchia che reclama di essere lo Stato frontista dell’Egitto; — analoga iniziativa è stata adottata con il Libano nel 2007: come si dirà più avanti l’accordo non è stato tuttavia ratificato dal Parlamento libanese per questioni attinenti il punto triplo con Israele; — nel 2010 ha concordato un confine unico per ZEE e piattaforma continentale con Israele; — rivendica come propria la ZEE che circonda l’autoproclamata Repubblica turca di Cipro del Nord (RTCN) cui nega ogni soggettività internazionale; — l’attivismo nelle delimitazioni delle ZEE si è accompagnato a una dinamica politica commerciale di concessione di licenze di esplorazione dei ricchi giacimenti di idrocarburi, anche se ricadenti a occidente, in zone pretese dalla Turchia, o a sud, in zone per le quali la stessa Turchia reclama ritorni economici in favore della popolazione della RTCN. Nei blocks offshore istituiti da Cipro al largo delle proprie coste — spesso teatro di azioni dimostrative turche condotte nel 2018 anche contro la nave di ricerca SAIPEM 12000 — è compreso il ricco giacimento Aphrodite. 2.3 Egitto L’Egitto, al momento della firma dell’UNCLOS, si era già detto favorevole all’istituzione della ZEE dichiarando che era sua intenzione farlo in futuro. Con il già citato accordo del 2003 ha poi proceduto alla delimitazione delle rispettive ZEE con Cipro, costituita dalla «linea mediana ciascun punto della quale è equidistante dal punto più vicino delle linee di base». Tale linea delimita anche il sottostante fondale della piattaforma continentale; come anticipato e come si dirà più avanti, essa non è riconosciuta dalla Turchia la quale ritiene di aver un proprio diritto a definire un differente confine con l’Egitto che dia effetto allo sviluppo costiero dell’Anatolia. Da parte sua l’Egitto contesta sia l’accordo turco-libico sulla ZEE del 2019 ritenuto invalido sia, quanto ai confini, la proclamazione palestinese di proprie zone di giurisdizione marittima, contestata da Israele (contestata da Israele in quanto non considera la Palestina un’entità statuale). Il grande giacimento Zohr scoperto dall’ENI nel 2015 è compreso interamente nella ZEE egiziana e non è reclamato da altri Stati. Grecia ed Egitto hanno stabilito il confine delle rispettive ZEE con accordo del 4 agosto 2020, mediante una delimitazione che riconosce pieno effetto alle isole di Rodi, Karpatos (Scarpanto) e Creta sovrapponendosi alla ZEE turco-libica. Tale delimitazione è parziale, nel senso che si ferma al meridiano 28, senza continuare — come la Grecia auspicava — al punto triplo con Cipro. 206
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ZEE Cipro (Fonte: UN Doalos).
2.4 Francia La legge n. 346-2003 aveva istituito la ZPE (v. Protezione ambiente marino-Mediterraneo) avanti alle coste del golfo del Leone e della Corsica. Il confine della zona è stato definito unilateralmente con decreto del 2004 secondo un tracciato che si sovrappone alla ZPP spagnola nella parte antistante Capo Creus nel golfo del Leone, mantenendosi invece al di qua dell’ipotetica linea di equidistanza con l’Italia. Tale confine è stato successivamente confermato quando la ZPE è stata trasformata in ZEE istituita mediante il Décret n. 2012-1148 du 12 octobre 2012 portant création d’une zone économique exclusive au large des côtes du territoire de la République en Méditerranée. Con nota verbale n. 31661 (2012) la Spagna ha espresso riserve verso i limiti della ZEE nella parte che si sovrappone alla sua ZEE, sostenendo che la linea di equidistanza geometrica «would be the most just and equitable solution». La Francia sostiene invece (v. DOALOS Bulletin n. 38, p. 54) che una soluzione equitativa non possa essere definita unilateralmente, in quanto un tal risultato può essere solo raggiunto per accordo. Come già anticipato in altre voci del presente Glossario, nel 2015 Italia e Francia hanno concluso a Caen nel 2015 un Accordo di delimitazione delle frontiere marittime relativo ad acque territoriali, piattaforma continentale e ZEE, adottando un confine unico valevole per fondale e massa d’acqua. Nel preambolo dell’intesa si dice che si è seguito — per gli spazi marittimi diversi dalle acque territoriali — il principio equitativo, a significare il superamento dell’equidistanza geometrica che è stata evidentemente corretta da circostanze rilevanti come la presenza delle isole dell’Elba e della Gorgona cui è stato attribuito un effetto parziale sulla delimitazione. Come noto l’intesa non è stata ancora ratificata dall’Italia, al 2020, per varie questioni venutesi a creare nel nostro paese. A futura memoria è bene comunque ricordare che il 12 febbraio 2016, in sede di risposta a interpellanze parlamentari presentate alla Camera, il Governo ha fornito chiarimenti sulla genesi dell’accordo e sui criteri giuridici cui esso è improntato.
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Frontiere marittime accordo di Caen del 2015, non ancora ratificato dall’Italia (Fonte: France Gov).
2.5 Grecia La Grecia non prevede ancora nella propria legislazione la possibilità di istituire ZEE: Atene ha tuttavia ratificato l’UNCLOS a differenza della Turchia che non ne è ancora parte, sicché può a pieno titolo avvalersi dei diritti relativi. Sino a qualche tempo fa poteva pensarsi che Atene, per non turbare lo status quo, apparisse cauta nell’ipotizzare la creazione di ZEE, anche se a più riprese venivano affermate posizioni tese a considerare la piccola isola di Kastelorizo (altrimenti denominata Castelrosso o Megisti) distante meno di 1 miglio dalla costa turca come un punto di riferimento cui dare pieno effetto per il tracciamento di confini nel Mediterraneo orientale. Si è già detto della prudenza greca relativa alla questione della piattaforma continentale dell’Egeo (v. apposito riquadro al para 2.b della voce Piattaforma continentale (Mediterraneo)) cui fa riscontro un analogo atteggiamento turco. Al contrario, si sono intensificate le prese di posizione greche in favore della proclamazione della ZEE nello Ionio, a sud di Creta, a nord dell’Egitto e a est di Cipro. L’attivismo greco ha portato alla stipula di un accordo di delimitazione delle rispettive ZEE con l’Italia siglato il 9 giugno 2020. Dato che ne la Grecia ne l’Italia hanno, al momento, istituito ZEE (noi, come noto, abbiamo solo una ZPE) l’accordo ha una valenza pro futuro nel senso che, quando entrambi i paesi vi provvederanno, il confine sarà quello già stabilito, che coincide con la delimitazione concordata per la Piattaforma continentale nel 1977 (v. Piattaforma continetale Mediterraneo). Valenza futura ha anche l’impegno di Atene, assunto a margine dell’intesa, a concedere a 68 nostre barche da pesca, sulla base del regolamento UE 1380/2013, l’accesso alle proprie acque territoriali nella fascia tra le 6 e le 12 mn (al momento in cui la loro ampiezza sarà estesa); il beneficio costituisce un riconoscimento della tradizionale presenza italiana in antiche aree di pesca prospicenti la Grecia. Nella cartina che segue è riportata l’ipotetica ZEE greca: si noti come la ZEE turca risulti interclusa a nord in un ristretto spazio adiacente la costa e come quella greca dovrebbe invece confinare con le ZEE cipriote ed egiziane, oltre che, a ovest, con l’Italia e la Libia. Per quanto riguarda il confine con la Libia si rinvia a quanto detto alla voce Pesca-Mediterraneo con riguardo alla ZPP libica. Precisazioni sono anche contenute più avanti relativamente alla ZEE libica. 208
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Ipotetica ZEE Grecia (Fonte: ICG).
Delimitazione ZEE Grecia-Egitto; sulla sinistra la delimitazione della ZEE Libia-Turchia. La cartina riporta anche le coste rilevanti prese a base dei due accordi (Fonte: skai.gr/sites). Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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2.6 Israele Con il già citato Accordo del 2010 Israele ha delimitato la sua ZEE con Cipro fissandolo mediante una linea mediana valevole anche per il fondo e sottofondo della piattaforma continentale all’interno della quale vi sono gli estesi giacimenti di gas denominati Leviathan e Tamar.
Blocks offshore ZEE Israele (Fonte: UN Doalos).
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A margine di questo accordo, Tel Aviv potrebbe stipulare con Nicosia un unitization agreement dedicato allo sfruttamento congiunto dei giacimenti ricadenti a cavallo del confine in prossimità di quello cipriota di Aphrodite. I problemi di delimitazione laterale con il Libano (v.) hanno generato un contenzioso tra i due paesi che, al novembre 2020, pare in via di risoluzione. Il problema riguarda il confine laterale delle rispettive ZEE nel quale è compresa un’area di circa 850 km2: Israele ha fissato un limite perpendicolare alla costa, mentre il Libano identifica il confine nel prolungamento a mare della Blue line del 2000. Da tempo, inoltre, è noto che al largo della striscia di Gaza vi sono riserve di gas nel giacimento Gaza Marine il cui sfruttamento pare fosse stato concesso nel 1999, dall’autorità nazionale palestinese (ANP), a una compagnia britannica. Con Dichiarazione del 24 settembre 2019 la Palestina ha proclamato, al largo delle coste, vari spazi marittimi tra cui una ZEE con l’evidente intenzione di legittimare i propri diritti di sfruttamento. Da parte di Israele, potenza occupante della striscia, è stata negata ogni validità alla proclamazione, affermando che solo gli Stati sovrani hanno diritto a zone marittime. Israele riconosce invece la maritime activity zone (MAZ) creata al largo di Gaza dagli accordi di Oslo (v. Palestina). 2.7 Libano Vi è disaccordo tra il Libano e Cipro per il confine — definito da sei punti — stabilito nel 2007, circa la collocazione del punto 1 della linea di delimitazione. Questo ricade a 9 mn a nord-est del punto terminale (il 23) della frontiera marittima tra Cipro e Israele. La circostanza è emersa quando nel 2011 il Libano ha depositato alle NU una lettera in cui si afferma che lo stesso punto 1 non è vincolante per il Libano, non avendo valore di punto triplo con Israele e Cipro. L’area in contestazione è di circa 850 kilometri quadrati.
ZEE Libano (Fonte: UN).
Per ovviare a quella che considera una situazione per sé pregiudizievole, il Libano ha ridefinito unilateralmente i limiti della propria ZEE con decreto 6433-2011. Questo decreto è stato tuttavia contestato dalla Siria nel 2014.
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2.8 Libia Dopo aver proclamato nel 2005 una Zona di protezione dalla pesca che si estende per 62 mn a partire dal limite esterno delle acque territoriali, inclusa la linea di chiusura del golfo della Sirte (v. Pesca-Mediterraneo), la Libia ha anche istituito la ZEE con dichiarazione del 27 maggio 2009 (in UN DOALOS Bulletin n. 72, p. 78) nella quale: «To declare an exclusive economic zone of the great socialist people’s libyan arab jamahiriya adjacent to and extending as far beyond its territorial waters as permitted under international law. If necessary, the outer limits of this zone shall be established together with neighbouring States in accordance with instruments concluded on the basis of international law». La successiva general people’s committee decision n. 260 of 31 May 2009 ha confermato tale dichiarazione, usando gli stessi termini lessicali. Sull’accordo di delimitazione della ZEE stipulato nel 2019 con la Turchia si rinvia alla trattazione relativa a questo paese. Al riguardo, circa le posizioni libiche, va considerato con attenzione quanto dichiarato da Tripoli nella Explanatory Note depositata alle NU circa la genesi dell’iniziativa, il suo fondamento legale e le trattative condotte infruttuosamente con la Grecia dal 2004 mirate a negoziare un confine della ZEE a sud di Creta. 2.9 Siria La Siria, con la Legge n. 28 del 19 novembre 2003, nel ridurre l’estensione delle acque territoriali da 35 a 12 miglia (v. Acque territoriali-Mediterraneo), ha egualmente istituito la ZEE che si estende «al di là delle acque territoriali e include l’intera zona contigua, in direzione dell’alto mare per una distanza di non più di 200 miglia misurata dalle linee di base, secondo le norme del diritto internazionale». 2.10 Spagna La Spagna, con decreto reale del 1o agosto 1997, emanato senza alcuna preventiva concertazione con gli altri Stati membri dell’Unione, aveva istituito una Zona di protezione della pesca (ZPP) nel mar Mediterraneo. L’iniziativa spagnola era stata contestata dalla Francia con NV del 1998 (in UN DOALOS Bulletin n. 38, p. 54) del seguente tenore: «The french Government wishes to protest against the part of this declaration that relates to the line delimiting the edge of the spanish fisheries zone facing the french coasts… The french Government recalls on this occasion that under international public law, the delimitation of a boundary must take place by agreement moreover, in this specific case of a maritime boundary, such delimitation must result in an equitable solution, thus ruling out in this instance use of the equidistant line employed by the spanish side». L’area della ZPP spagnola eÌ stata convertita in ZEE nel 2013 con decreto reale 236/2013, de 5 de abril, por el que se establece la Zona Econoìmica Exclusiva de España en el Mediterraìneo nordoccidental. I confini esterni sono eguali a quelli in precedenza stabiliti per la ZPP nel 2000 (Nota Verbale n. 256 del 13 aprile 2000), sicché la precedente posizione contraria della Francia deve ritenersi riferibile anche alla ZEE. La ZEE dichiarata dall’Algeria nel 2018 si sovrappone a quella spagnola ed è perciò contestata da Madrid assumendo che i suoi limiti siano «… clearly disproportionate in relation to the equidistant median line between the Algerian and Spanish coasts». Aree di sovrapposizione ZEE di Francia e Spagna (Fonte: UE).
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2.11 Turchia La Turchia non aveva mai istituito in Mediterraneo alcuna ZEE a differenza del Mar Nero ove i relativi confini erano stati definiti per accordo con Georgia (1986), Russia (1987) e Ucraina (1987), giustificando l’incoerenza della sua mancata adesione all’UNCLOS con il fatto che l’istituto della ZEE fa parte del diritto internazionale consuetudinario. D’altronde, la disputa con la Grecia nell’Egeo (v. apposito riquadro al para 2.b della voce Piattaforma continentale (Mediterraneo)) ha sempre riguardato sinora la sola piattaforma continentale. E un accordo relativo alla piattaforma continentale è quello tra Ankara e l’autoproclamata RTCN che Cipro considera invalido per manDelimitazione ZEE Turchia-RTCN (Fonte: UN Doalos). canza di soggettività internazionale della stessa Repubblica. L’esistenza di una ZEE turca nel Mediterraneo pare ora essere il presupposto del Memorandum di delimitazione del 27 novembre 2019 con cui si stabilisce, sulla base dell’equidistanza, il confine con Tripoli di una zona che dalla costa turca prospiciente le isole greche di Kastelorizo e Rodi va sino a quella della Cirenaica tra Derna e il confine egiziano.
Delimitazione ZEE Turchia-Libia (Fonte: UN Doalos).
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L’accordo non tiene adeguato conto delle isole greche suindicate (oltre a Scarpanto), né dà effetto alle coste orientali di Creta. Esso è stato contestato duramente, quali Stati terzi controinteressati, da Grecia, Cipro ed Egitto, che lo considerano nullo e privo di effetti. La posizione di Tripoli in difesa dello stesso accordo è stata ufficializzata nella Explanatory Note depositata alle NU. Ankara ha fornito ulteriori precisazioni in una Lettera alle NU in cui, nell’indicare le coordinate dei punti «F» ed «E» del confine con la Libia, precisa che il Memorandum Confine tra Kastelorizo e Turchia stabilito con accordo italo-turco del 1932 è basato sui seguenti principi: (Fonte: SVG Maps). «(a) islands cannot have a cut-off effect on the coastal projection of Turkey, the country with the longest continental coastline in Eastern Mediterranean; (b) the islands which lie on the wrong side of the median line between two mainlands cannot create maritime jurisdiction areas beyond their territorial waters; and (c) the length and direction of the coasts should be taken into account in delineating maritime jurisdiction areas». Da notare che l’Egitto si era opposto alla pubblicazione del Memorandum da parte delle NU e alla diffusione delle coordinate della linea di confine. L’intesa turco-libica si inserisce comunque in un quadro più vasto di rivendicazioni relative a tutti gli spazi marittimi del Mediterraneo orientale e del Mar di Levante. In estrema sintesi Ankara, come risulta da vari documenti depositati alle NU ritiene — in rapporto all’estensione delle coste dell’Anatolia meridionale — di essere lo Stato frontista dell’Egitto e della Libia: si nega così validità all’accordo di delimitazione cipro-egiziano del 2003 e si ignorano le pretese greche basate sulla rigida applicazione dell’equidistanza tra le proprie isole e le coste di Libia, Egitto e Cipro. Le pretese turche, come si legge in vari documenti diplomatici iniziano a occidente del meridiano 32°16’18’’E: esse dovrebbero formalizzarsi per accordo tra gli Stati interessati in modo da raggiungere risultati equitativi. L’accordo greco-egiziano del 4 agosto 2020 costituisce, in ogni caso, un nuovo elemento di cui la Turchia dovrà tener conto nel defiIpotetica ZEE Turchia (Fonte: UN Doalos). nire le proprie pretese. 214
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2.12 Tunisia Con la legge n. 2005-50 del 27 giugno 2005 (UN DOALOS Bulletin n. 58, p. 19) la Tunisia ha istituito la ZEE nella quale esercita «diritti sovrani ai fini dello sfruttamento, esplorazione, conservazione, gestione e protezione delle risorse naturali biologiche o non biologiche delle acque sovrastanti, del fondo e del sottofondo del mare». È prevista l’emanazione di successivi decreti di applicazione i quali, a questo fine, potranno creare zone di pesca protetta o riservata o zone di protezione ecologica, fatto salvo tuttavia l’attuale regime di zona riservata di pesca del «Mammellone» (v.), secondo Confronto tra le ipotetiche ZEE di Grecia, Turchia, Cipro ed Egitto (Fonte: ICG). una strategia, non ancora attuata, di frazionamento in singole zone sui generis dei diritti teoricamente esercitabili a titolo di ZEE.
Ipotetica equidistanza Italia-Tunisia non accolta nell’accordo del 1971 ma rilevante ai fini del futuro confine delle rispettive ZEE (Fonte: Francalanci).
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Quanto ai limiti esterni si stabilisce che la ZEE «may extend to the boundaries provided for in international law», salvo accordi di delimitazione con gli Stati interessati «where necessary», con una formula che lascia perplessi: sembrerebbe, infatti, che, sia pur provvisoriamente, la Tunisia consideri come confine esterno della sua ZEE quello concordato con l’Italia per la piattaforma continentale nel 1971 (v. Piattaforma continentale-Mediterraneo). Una tal soluzione — su cui non vi sono tuttavia riscontri ufficiali — è chiaramente in contrasto col diritto internazionale ed è, infatti, stata oggetto di proteste dell’Italia verso la Croazia che l’ha adottata nel 2003 per la sua ZERP (v. Delimitazione). Per il futuro, se venissero portati avanti negoziati di delimitazione per la ZEE, sarà perciò necessario che l’Italia proponga un confine diverso da quello della piattaforma continentale visto che: 1) questo è frutto di un negoziato politico condotto al tempo senza considerare i principi ora applicabili; 2) è necessario tener conto degli interessi dell’Italia sul «Mammellone» — magari anche a una gestione comune come area SPAMI (v.) — attestati da lungo uso e da notorie forme di giurisdizione nazionale. Degno di nota è che la Tunisia, nella legge suindicata garantisce agli Stati terzi, nella sua ZEE, la libertà di transito e l’esercizio degli altri diritti previsti dall’UNCLOS, secondo un giusto approccio contrario alla c.d. territorializzazione. ZONA IDENTIFICAZIONE AEREA È la zona di spazio aereo internazionale (v.) adiacente lo spazio aereo nazionale (v.) sovrastante le acque territoriali in cui alcuni Stati (Stati Uniti, Canada, Francia) prescrivono agli aeromobili diretti verso il proprio territorio di fornire alle autorità nazionali informazioni sul volo. Tali disposizioni sono stabilite, al di fuori delle procedure ICAO delle regioni per le informazioni di volo (FIR) (v.), per esigenze di sicurezza militare. È stata contestata, perché applicabile anche agli aeromobili militari in semplice transito laterale, la air defence identification zone (ADIZ) istituita nel novembre 2013 dalla Cina al largo delle proprie coste orientali nella parte sovrastante le isole Senkaku controllate dal Giappone. Gli Stati Uniti hanno analizzato la prassi internazionale delle ADIZ formulando il seguente Statement nel 2013: «Freedom of overflight and other internationally lawful uses of sea and airspace are essential to prosperity, stability, and security in the Pacific. We don’t support efforts by any State to apply its ADIZ procedures to foreign aircraft not intending to enter its national airspace. The United States does not apply its ADIZ procedures to foreign aircraft not intending to enter U.S. national airspace. We urge China not to implement its threat to take action against aircraft that do not identify themselves or obey orders from Beijing». In periodo di crisi internazionale o di conflitto armato (v. Diritto bellico marittimo) una zona di identificazione aerea potrebbe essere legittimamente istituita come misura di difesa legittima preventiva fermo restando l’esigenza che non sia penalizzata la libera navigazione aerea internazionale. Da questo punto di vista, la legittimità di una zona di identificazione aerea va verificata anche dal punto di vista della proporzionalità, nel senso che la sua estensione non deve essere irragionevole. ZONA IDENTIFICAZIONE MARITTIMA Nel 2005 l’Australia aveva preannunciato l’intenzione di creare una sorta di frontiera marittima avanzata, in alto mare (v.), per scongiurare l’esecuzione di attacchi terroristici contro il proprio territorio, prevedendo che i mercantili comunicassero informazioni su dati identificativi, equipaggio, carico, destinazione, velocità ecc.: 1) a 1.000 mn (o a 48 ore di navigazione) dalle coste se diretti verso un porto australiano; 2) a 500 miglia (o a 24 ore di navigazione) dalle coste, su base volontaria, se non diretti verso un porto australiano ma intenzionati a transitare nella zona economica esclusiva (v.) o nelle acque territoriali (v.) australiane; 3) all’interno della ZEE (v.), come obbligo. Il progetto australiano di una maritime identification zone (MIZ) si inseriva nell’ambito delle attività per contrastare il terrorismo marittimo (v.) o adottate dai paesi aderenti alla Proliferation security iniziative (v.), ma la sua attuazione fu ritenuta illegittima dall’IMO perché contraria alla libertà di navigazione. A seguito della posizione assunta dall’IMO, l’Australia modificò l’iniziale regime dalla MIZ riformulandola sotto la specie di Australian Maritime Idendentification System (AMIS) caratterizzata da adesione volontaria della regolamentazione da parte di singole navi in transito o da specifici paesi firmatari di accordi regionali. In merito alla notifica preventiva per l’ingresso nei porti nazionali, regolamentazioni sono state stabilite da vari paesi: gli Stati Uniti, per esigenze di homeland security, hanno previsto sino al 216
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2006 un sistema di informazioni di arrivi e partenze con anticipo di 96 ore. Per i mercantili diretti verso porti italiani prescrizioni sono contenute nel D.LGS. 19 agosto 2005, n. 196 (v. Transito inoffensivo). ZONA INTERDETTA ALLA NAVIGAZIONE 1. Regime generale Temporanee restrizioni al transito inoffensivo (v.) delle navi straniere nelle acque territoriali (v.) possono essere stabilite in via eccezionale dallo Stato costiero per esigenze di sicurezza o per consentire lo svolgimento di esercitazioni con armi (UNCLOS, 25, 3). L’interdizione può riguardare a fortiori il passaggio nelle acque interne (v.). Il divieto di navigazione in queste zone deve essere adeguatamente pubblicizzato in anticipo. Esso non deve inoltre essere discriminatorio verso specifici paesi di bandiera delle navi in transito. Non vanno confuse con le zone interdette alla navigazione le zone pericolose per la navigazione e il sorvolo (v.): queste ultime ricadono, infatti, in alto mare (v.) e non comportano la sospensione della navigazione. 2. Disciplina ordinamento italiano Il transito può essere interdetto per motivi di ordine pubblico, di sicurezza della navigazione e di protezione dell’ambiente marino come correttamente stabilisce l’art. 83 del nostro CN che affida il potere relativo al ministro dei Trasporti e della navigazione. Temporanee limitazioni possono essere stabilite in particolari aree (già designate a questo scopo) per esercitazioni navali o aeree. Al riguardo, negli Avvisi ai Naviganti di carattere generale editi dall’Istituto Idrografico della Marina Militare si dispone che: «Lungo le coste italiane esistono alcune zone di mare nelle quali sono saltuariamente eseguite esercitazioni navali di unità di superficie e di sommergibili, di tiro, di bombardamento, di dragaggio e anfibie. Dette zone sono pertanto soggette a particolari tipi di regolamentazioni dei quali viene data notizia a mezzo di apposito avviso ai naviganti… I tipi di regolamentazione che possono essere istituiti sono: interdizione alla navigazione o avvisi di pericolosità all’interno delle acque territoriali; avvisi di pericolosità nelle acque extraterritoriali… Le navi che si trovano a transitare in prossimità delle zone suddette dovranno attenersi alle disposizioni contenute nell’avviso ai naviganti che dà notizia di una esercitazione in corso o in programma…». L’interdizione a navigazione, sosta, pesca e «qualsiasi altra attività marinara, anche subacquea, estranea alle esercitazioni presenti in zona» è resa esecutiva con ordinanza della competente Capitaneria di porto. Il problema più generale del divieto di ingresso nelle nostre acque territoriali, relativamente alle norme sull’immigrazione si è posto in anni recenti. Un caso è rappresentato dal D.L. 14 giugno 2019 contenente disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica che affida al ministro dell’Interno, di concerto con quello dei Trasporti, il potere di emanare i relativi provvedimenti (v. anche Porti chiusi). ZONA MARITTIMA DENUCLEARIZZATA Vedi: Demilitarizzazione. ZONA PERICOLOSA PER LA NAVIGAZIONE E IL SORVOLO 1. Regime generale Limitazioni alla libertà di navigazione e di sorvolo dell’alto mare (v.) non possono essere poste da alcuna nazione (UNCLOS 89). Ogni Stato può tuttavia eseguire esercitazioni con navi da guerra (v.) e aeromobili militari (v.) che prevedano l’esecuzione di tiri di artiglieria, lancio di missili o altri ordigni esplosivi e impediscano, quindi, gli usi pacifici dell’alto mare e dello spazio aereo internazionale (v.). Anche l’utilizzo delle ZEE (v.) per lo svolgimento di esercitazioni militari è implicitamente ammesso dall’art. 58, 1 dell’UNCLOS che ammette gli usi «…legittimi del mare come quelli correlati con le operazioni delle navi…». Queste attività devono essere effettuate in zone predeterminate la cui pericolosità, ai fini della sicurezza della navigazione, sia stata annunciata in anticipo con avviso ai naviganti o avviso agli aeronaviganti (NOTAM e NOTMAR dall’acronimo inglese di notice to airmen e notice to mariners). Navi o aerei di altre nazioni hanno naturalmente la facoltà di accedere, a loro rischio e pericolo nelle zone, a condizione che si astengano dal turbare lo svolgimento delle esercitazioni (UNCLOS 58,1). Anche se egualmente rientrante nella sicurezza marittima (v.), la materia della prevenzione delle attività pericolose in mare (v.) ha una sua autonomia concettuale, potendo essere inquadrata nel campo delle misure navali Supplemento alla Rivista Marittima - Novembre 2020
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di confidenza reciproca. Per quanto riguarda l’Italia, indicazioni specifiche sulla diffusione delle informazioni relative alla sicurezza della navigazione nell’area mediterranea mediante le stazioni costiere e i servizi NAVAREA e NAVTEX (il Comando generale delle Capitanerie di porto-Guardia costiera è responsabile nazionale e coordinatore di quest’ultimo servizio) sono contenute negli Avvisi ai Naviganti di carattere generale editi dall’Istituto Idrografico della Marina. 2. Jettison areas Va collocato nell’ambito degli usi militari dell’alto mare il problema delle jettison areas vale a dire delle zone di alto mare destinate ad aree di sgancio di ordigni da parte di aeromobili militari in caso di necessità. La questione si pose nel 1999 in occasione del conflitto della NATO con l’ex Repubblica Federale di Iugoslavia (FRY) quando, di ritorno da operazioni aeree contro la FRY, i velivoli partecipanti all’operazione Allied Force, erano autorizzati a sganciare materiale esplosivo in aree di alto mare del mar Adriatico ricadenti sulla piattaforma continentale (v.) italiana. In merito alla liceità di tali misure operative va considerato che lo sgancio di ordigni esplosivi in mare in situazioni di emergenza è un fatto che può trovare la sua giustificazione nelle tradizionali cause di esclusione dell’illecito dello «stato di necessità» (state of necessity), della «forza maggiore e del caso fortuito» (force majore and fortuitous event) o della situazione di pericolo (distress) previste nel progetto di responsibility of States for internationally wrongful acts. Precondizione per il ricorso a tali misure è ovviamente la loro pubblicità sia mediante la definizione preventiva come aree potenzialmente pericolose, sia la loro effettiva attivazione con idonei avvisi internazionali. Qualora jettison areas fossero poste nella ZEE di uno Stato, con il suo consenso, si porrebbe il problema, da valutare preventivamente magari nel quadro della Pianificazione marittima spaziale (v. Unione europea), della loro compatibilità con la protezione delle risorse naturali della stessa ZEE. Vedi anche: Zone interdette alla navigazione. ZONA DI PESCA A SUD OVEST DI LAMPEDUSA «MAMMELLONE» Vedi: Pesca (Mediterraneo); Zona economica esclusiva (Mediterraneo). ZONA DI PROTEZIONE DELLA PESCA (ZPP) Vedi: Pesca (Mediterraneo). ZONA DI PROTEZIONE ECOLOGICA (ZPE) Vedi: Protezione dell’ambiente marino (Mediterraneo). ZONA DI RICERCA E SOCCORSO (ZONA SAR) Vedi: Ricerca e soccorso in mare. ZONA RISERVATA DI PESCA (ZRP) Vedi: Pesca (Mediterraneo). YEMEN Vedi:
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Delimitazione; Isole; Mar Rosso; Stretto di Bab el-Mandeb.
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Glossario di Diritto del Mare
NOTA CONCLUSIVA
1. Il presente Glossario è frutto di un lavoro di ricerca iniziato in anni lontani, a metà degli anni Ottanta del secolo scorso, nell’ambito e in parallelo con la propria attività lavorativa svolta nell’Ufficio affari giuridici internazionali dello Stato Maggiore della Marina. Al tempo, l’attenzione per i temi marittimi era nel nostro paese più spiccata di ora, sia per il quotidiano confronto in mare con Libia, Tunisia e Unione Sovietica (per sorveglianza della pesca e operazioni navali), sia per l’esistenza del ministero della Marina mercantile come punto di riferimento unitario di tutto il cluster marittimo civile, sia, infine, per l’eco suscitata dalla conclusione della III conferenza del Diritto del mare e dall’apertura alla firma dell’UNCLOS nel 1982. L’idea di esporre i principi del diritto del mare in forma di Glossario composto da «voci» fu mutuata, sin dalla prima edizione nel 1993, dai testi di P. Verri (Dizionario di Diritto dei Conflitti Armati, Roma, 1984) e A. Maresca, (Dizionario Giuridico Diplomatico, Milano, 1991) impostati secondo criteri didascalici. Rilevante anche l’influsso del testo The Commander’s Handbook on the Law of Naval Operations, August 2017 (United States Government US Navy). 2. Spunti per l’approfondimento di molte questioni qui trattate sono giunti sia, come detto, dagli avvenimenti della cronaca quotidiana che interessavano la Marina, che dallo studio di determinate opere a carattere generale sul diritto marittimo, anche «antiche», disponibili con gli anni. Tra queste, si vogliono ricordare alcuni articoli, monografie e manuali che maggiormente hanno contribuito a tale formazione: G. Andreone, Immigrazione clandestina, zona contigua e Cassazione italiana: il mistero si infittisce, in Diritti umani e diritto internazionale, 2011, 183; G. Andreone and oth., Insecurity at Sea: Piracy and other risks to Navigation, Napoli, 2013; D. Attard, The Exclusive Economic Zone in International Law, OUP, 1990; G. Bernardi, Il Disarmo Navale fra le due Guerre Mondiali, Roma, 1975; I. Caracciolo, F. Graziani, Il caso dell’Enrica Lexie alla luce del diritto internazionale, Napoli, 2013; L. Caracciolo, Il mare non bagna l’Italia, Mediterranei, Limes 6/2017, 10; Cataldi, G., Il passaggio delle navi straniere nel mare territoriale, Milano, 1990; R. R. Churchill-A. Lowe, The Law of the Sea, Manchester, 2009; C.J. Colombos, Diritto Internazionale Marittimo, Edizioni dell’Ateneo, Roma, 1953; B. Conforti, Il regime giuridico dei mari, Napoli, 1957; A. de Guttry, Lo status delle navi da guerra italiane in tempo di pace ed in situazione di crisi, Roma, 1994; A. Del Vecchio, Pesca, Enciclopedia Giuridica Treccani, 1991; M. Fornari, Il regime giuridico degli stretti utilizzati per la navigazione internazionale, Milano, 2010; M. Gestri, La gestione delle risorse naturali d’interesse generale per la comunità internazionale, Torino, 1996; F. Graziani, Il contrasto alla pirateria marittima nel diritto internazionale, Napoli, 2011; D. Guilfoyle, Shipping Interdiction and the Law of the Sea, Cambridge, 2012; D.P. O’ Connell, The International Law of the Sea, Oxford, 1984; I. Papanicolopulu, Il Confine marino: unitaÌ o pluralità, Milano, 2005; I. Irini Papanicolopulu-E. Milano, State Responsibility in Disputed Areas on Land and at Sea, HJIL, 2011, 71,587; J.P. Pierini-V. Eboli, The Enrica Lexie Case and the limits of the extraterritorial Jurisdiction of India, in I Quaderni europei, 2012; D.P. Prescott, Confini Politici del mare, Milano, 1990; A. Roasch-R. Smith, Excessive Maritime Claims, The Hague, 2012; H.B. Robertson (ed.), Law of Naval Operation, NXC, 1991; R. Rothwell & oth. (eds.), The Oxford Handbook of the Law of the Sea, Oxford, 2015; San Remo Manual on International Law Applicable to Armed Conflicts at Sea, IIHL, Cambridge, 1995; T. Scovazzi, La pesca nell’evoluzione del Diritto del Mare, Giuffrè, Milano, 1979; Id. voce «Pesca (diritto internazionale)», Enciclopedia del Diritto, Giuffrè, Milano, 1983, vol. XXXIII, 589; Id. La linea di base del mare territoriale, Milano, 1986; Id. Marine Specially Protecte Area: The General Aspects and the Mediterranean Regional System, The Hague, 1999; Elementi di diritto internazionale del mare, III ed., Milano, 2002; Id. La protezione del patrimonio culturale sottomarino nel Mar Mediterraneo, Milano, 2004; T. Treves, Il diritto del mare e l’Italia, Milano, 1995; S. Trevisanut, Immigrazione irregolare via mare: diritto internazionale e diritto dell’Unione europea, Napoli, 2012; B. Vukas, Essays on the New Law of the sea 2, Zagreb, 1990.
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Glossario di Diritto del Mare
3. Una citazione a parte viene fatta per i seguenti autori le cui opere hanno lasciato traccia indelebile nel presente Glossario: a) prof. R. Sandiford (prima ufficiale della Regia Marina del Corpo di commissariato e poi professore di Storia e politica navale all’Università di Roma): Diritto Marittimo di Guerra, Roma, 1940; Id. Lezioni di Storia e Politica Navale, Roma, 1953; Id. Diritto Marittimo, Milano, 1960; b) dr. G.P. Francalanci (geologo, esperto cartografico, collaboratore IIM): Storia dei trattati e dei negoziati per la delimitazione della piattaforma continentale e del mare territoriale tra l’Italia e i paesi del Mediterraneo 1966-1992, IIM, 2000; Id.-T. Scovazzi, Lines in the Sea, Dordrecht, 1994; c) prof. U. Leanza (docente emerito di Diritto internazionale, a lungo capo del Servizio per gli affari giuridici, del contenzioso diplomatico e dei trattati del MAECI): Il nuovo Diritto del Mare e la sua applicazione nel Mediterraneo, Torino, 1993; Id., L’Italia e la scelta di rafforzare la tutela dell’ambiente marino: l’istituzione delle Zone di protezione ecologica, RDI, 2006, 309; Id.-F. Graziani, Poteri di enforcement e di jurisdiction in materia di traffico di migranti via mare: aspetti operativi nell’attività di contrasto, La Comunità Internazionale, 2, 2014, 163; Id-I. Caracciolo, Il diritto internazionale. Diritto per gli Stati e diritto per gli individui, parte generale, Torino, 2012; d) prof. N. Ronzitti (docente emerito di Diritto internazionale): Pirateria (diritto vigente), in Enc. dir., XXXIII, 1983, 912 ss; Id., Sommergibili non identificati, pretese baie storiche e contromisure dello stato costiero, Rivista di Diritto Internazionale, I, 1983, 10; Id. Is the Gulf of Taranto an Historic bay?, SJILC, II, 1984, 275; Id (ed.), The Law of Naval Warfare. A Collection of Agreement and Documents with Commentaries, Dordrecht, 1988; Id., Diritto Internazionale per Ufficiali della Marina Militare, Supplemento Rivista Marittima, 7, 1996; Id., Le zone di pesca nel Mediterraneo e la tutela degli interessi italiani, Supplemento Rivista Marittima, 6, 1999; Id (a cura di), I rapporti di vicinato dell’Italia con Croazia, Serbia-Montenegro e Slovenia, Roma, 2005; Id., The Law of the Sea and Mediterranean Security, GMF-IAI, 2010; Id, Diritto Internazionale dei Conflitti Armati, Torino, V ed., 2014; Id., Introduzione al diritto internazionale, VI ed., Torino, 2018. 4. Oltre al presente Glossario, chi scrive ha anche redatto Immigrazione clandestina via mare, supplemento Rivista Marittima, 10, 2003 e ha curato con M. Annati, Pirati di ieri e di oggi, supplemento Rivista Marittima, 12, 2009; ha contribuito con propri lavori a studi collettanei e ha scritto numerosi articoli (in gran parte pubblicati sulla Rivista Marittima) riguardanti temi trattati nel presente Glossario, oltre a contributi per la rivista online Affarinternazionali. 5. Principali siti web consultati: http://www.un.org/Depts/los/index.htm; http://www.un.org/law/ilc; http://treaties.un.org; http://www.unoceans.org; http://www.imo.org; http://www.unep.org; http://www.icj-cij.org; http://www.itlos.org; https://pca-cpa.org/en/cases; http://www.fao.org/fishery/en; http://www.gfcm.org/gfcm/en.
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Glossario di Diritto del Mare
POSTFAZIONE
Chi, come noi e non solo in estate, ama il mare e desidera — per lavoro o per passione — approfondire le tante sfaccettature del diritto internazionale marittimo ha da tempo a disposizione una preziosa «cassetta degli attrezzi», un vocabolario vivo, a tratti … un’ancora di salvataggio. È il Glossario di Diritto del mare — da anni curato con amore e competenza dall’ammiraglio Fabio Caffio — che oggi giunge alla sua V edizione. Un’attesa e rinnovata stesura non tanto di un volume da aggiungere alla nostra biblioteca quanto piuttosto di un compagno della nostra scrivania, di uno strumento e un ausilio indispensabile ogni qual volta si voglia o si debba approfondire una qualsiasi questione legata al mare e agli spazi marittimi. Il Glossario di Diritto del mare — collettore delle riflessioni mercantili e militari, geopolitiche ed economiche, nazionali e internazionali — è certamente destinato a una VI edizione, se non a un futuro editoriale ancor più «formale», soprattutto se il nostro paese saprà tornare a considerarsi marittimo valorizzando la sua naturale — e più importante — risorsa per il nostro comune futuro. Ma anche per il presente: basti pensare all’attesa istituzione della Zona Economica Esclusiva (ZEE) italiana, proprio mentre scriviamo finalmente in discussione in Parlamento. Uno strumento quindi che si presta a quello che potremmo definire un «dual use»: puntuale volume per dettagliare correttamente le questioni e gli spazi marittimi e, al tempo stesso, fonte di ispirazione per il risveglio della cultura e della specialità marittima del paese. Luca Sisto
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GLOSSARIO DI DIRITTO DEL MARE
Fabio CAFFIO
Supplemento alla Rivista Marittima Novembre 2020
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GLOSSARIO DI DIRITTO DEL MARE Diritto e Geopolitica del Mediterraneo allargato
V Edizione RIVISTA MARITTIMA 2020