GIUGNO 2022 - Anno CLV
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GIUGNO 2022
RIVISTA
MARITTIMA MENSILE DELLA MARINA MILITARE DAL 1868
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Sommario IL SUPPLEMENTO PER GLI ABBONATI Compendio SICUREZZA E DIFESA MARITTIMA
PANORAMICA TECNICO-PROFESSIONALE
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Soccorso ai sottomarini sinistrati: il S.A.V.E.R. italiano Gennaro Vitagliano
a cura di Daniele Panebianco
QUESTO MESE CON LA RIVISTA MARITTIMA
PRIMO PIANO
8 Ocean Decade: dieci anni per salvare l’oceano e la vita sulla terra
Paola Giorgia Ascani
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I modelli di neutralità del Belgio, dell’Austria e della Finlandia Rodolfo Bastianelli
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La crisi ucraina sotto il profilo delle sanzioni economiche UE Daniele Antonio Tunno
64 Il terrorismo internazionale nel corso del XX secolo parte II
Laura Quadarella Sanfelice di Monteforte
STORIA E CULTURA MILITARE
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Lo ship recycling, verso una rotta «circolare». Problematiche, criticità e opportunità
72 Cadorna e la Marina Andrea Tirondola
Enrico Maria Mosconi - Emilio Errigo
30 Blue Economy e la minaccia del crimine organizzato transnazionale
Renato Caputo
Rivista Marittima Giugno 2022
RUBRICHE
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Focus diplomatico Osservatorio internazionale Marine Militari Scienza e Tecnica Che cosa scrivono gli altri Recensioni e segnalazioni
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RIVISTA
MARITTIMA
MENSILE DELLA MARINA MILITARE DAL 1868
PROPRIETARIO
EDITORE DIFESA SERVIZI SPA UFFICIO PUBBLICA INFORMAZIONE E COMUNICAZIONE DIREZIONE E REDAZIONE Via Taormina, 4 - 00135 Roma Tel. +39 06 36807248-54 Fax +39 06 36807249 rivistamarittima@marina.difesa.it www.marina.difesa.it/media-cultura/editoria/marivista/Pagine/Rivista_Home.aspx
DIRETTORE RESPONSABILE Capitano di vascello Daniele Sapienza
CAPO REDATTORE Capitano di fregata Gino Lanzara
REDAZIONE Capitano di corvetta Danilo Ceccarelli Morolli Sottotenente di vascello Margherita D’Ambrosio Guardiamarina Giorgio Carosella Sottocapo di prima classe scelto Luigi Di Russo Tel. + 39 06 36807254
SEGRETERIA DI REDAZIONE Primo luogotenente Riccardo Gonizzi Addetto amministrativo Gaetano Lanzo
UFFICIO ABBONAMENTI E SERVIZIO CLIENTI Primo luogotenente Carmelo Sciortino Tel. + 39 06 36807251/12 rivista.abbonamenti@marina.difesa.it
IN
COPERTINA: Nave VESPUCCI e il particolare raffigurante il vessillo “U.N. Decade of Ocean Science” dell’UNESCO, issato “a riva”.
GIUGNO 2022 - anno CLIV HANNO COLLABORATO: Avvocato Paola Giorgia Ascani
SEGRETERIA AMMINISTRATIVA
Professor Enrico Maria Mosconi
Tel. + 39 06 36807257
Professor Gen B (aus) Emilio Errigo
REGISTRAZIONE TRIBUNALE CIVILE DI ROMA
Professor Renato Caputo
N. 267 - 31 luglio 1948
Capitano di fregata Gennaro Vitagliano
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Dottor Rodolfo Bastianelli
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COMITATO SCIENTIFICO DELLA RIVISTA MARITTIMA Prof. Antonello BIAGINI, Ambasciatore Paolo CASARDI Prof. Danilo CECCARELLI MOROLLI, Prof. Piero CIMBOLLI SPAGNESI Prof. Massimo DE LEONARDIS, Prof. Mariano GABRIELE Prof. Marco GEMIGNANI, A.S. (ris) Ferdinando SANFELICE DI MONTEFORTE
Dottor Daniele Antonio Tunno Professoressa Laura Quadarella Sanfelice di Monteforte Dottor Andrea Tirondola Ambasciatore Gabriele Checchia, Circolo di Studi Diplomatici Dottor Enrico Magnani Contrammiraglio (ris) Michele Cosentino Ammiraglio ispettore (aus) Claudio Boccalatte Contrammiraglio (ris) Ezio Ferrante
COMITATO EDITORIALE DELLA RIVISTA MARITTIMA
Dottor Enrico Cernuschi
C.A. (aus) Gianluca BUCCILLI, Prof. Avv. Simone BUDELLI, A.S. (ris) Roberto CAMERINI, C.A. (ris) Francesco CHIAPPETTA, C.A. (ris) Michele COSENTINO, C.V. (ris) Sergio MURA,
Dottoressa Elisa Ugolini Dottoressa Mita Ferraro
Prof.ssa Fiammetta SALMONI, Prof.ssa Margherita SCOGNAMIGLIO, Prof. Tommaso VALENTINI, Prof. Avv. Alessandro ZAMPONE Gli articoli sono soggetti a peer review double blind
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E ditoriale
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io disse: «Le acque che sono sotto il cielo, si raccolgano in un solo luogo e appaia l’asciutto». E così avvenne. Dio chiamò l’asciutto terra e la massa delle acque mare. E Dio vide che era cosa buona. (Genesi: 1,9-10). Con queste parole la Bibbia descrive la creazione. Il Libro dei libri riconosce nella propria prima pagina la specificità del nostro pianeta azzurro, all’interno del sistema solare, chiamando per nome la massa delle acque: il mare. Se la Genesi non manca di ispirarci ancora oggi, sul piano della storia del pensiero filosofico occorre ricordare che sono trascorsi 413 anni, da quando Ugo Grozio pubblicava il suo Mare Liberum (1609), e di mare continuiamo ancora oggi a dibattere, non solo sul piano geopolitico o geoeconomico ma anche su quello giuridico. Mare Liberum è un caposaldo del pensiero politico e l’incipit di ciò che oggi denominiamo come diritto internazionale poiché sostiene per la prima volta il fondamento giuridico della libertà dei mari. Da allora, questo concetto non ha cessato di alimentare, nel corso dei secoli, attriti e accesi confronti tra le nazioni, fino ai giorni nostri dove i problemi della contemporaneità pongono, inevitabilmente, nuove sfide sullo sfondo di altrettanti incerti orizzonti. Un altro importantissimo pilastro giuridico e concettuale è offerto dalla celebre Convenzione internazionale di Montego Bay delle Nazioni unite del 1982 (nota con l’acronimo UNCLOS). La Convenzione, non solo ha affermato una volta di più il fatto che le acque internazionali sono un spazio libero ma ha anche sviluppato un ulteriore progresso giuridico precisando il diritto che regola la Zona Economica Esclusiva (ZEE). La ZEE è definibile come l’area esterna e adiacente alle acque territoriali nel cui ambito lo Stato costiero ha la titolarità dei propri diritti sovrani (sovereign rights) di esplorazione, sfruttamento e conservazione delle risorse naturali, viventi e non, sulla massa d’acqua sovrastante il fondo marino, sul fondo e nel relativo sottosuolo, compresa la produzione di energia dalle acque, dalle correnti, dai venti, installazione e utilizzo di isole artificiali o di strutture fisse a partire dalla ricerca scientifica e dalla tutela dell’ambiente marino. La ZEE non può estenSEGUE A PAGINA 4
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dersi oltre le 200 miglia dalle linee di base dalle quali sono misurate le acque territoriali di uno Stato. Nel Mediterraneo, diversi Stati si fronteggiano e, non potendo esercitare congiuntamente il diritto alle 200 miglia nautiche di cui sopra, la delimitazione della ZEE tra Stati adiacenti, o che sono posti dalla natura e dalla storia uno di fronte all’altro, dovrà essere regolata a parte mediante accordi redatti sulla base del Diritto internazionale. Di fatto, ciò ha comportato per le Marine di tutto il mondo non solo la necessità di difendere la «libertà dell’alto mare» ma anche quella di dover «gestire» congiuntamente le proprie ZEE. Le riflessioni giuridiche sul mare hanno prodotto, nel tempo, una serie di ricadute sulle popolazioni rivierasche (e non solo) facendo del mare uno «spazio» d’interessi a volte tra loro in conflitto. Tutto ciò ci porta all’odierno Blue Century, ovvero a un secolo legato indissolubilmente al mare dove la Blue Economy (1) è l’architrave portante della finanza e del «sistema» cosmopolita mondiale. Per l’Italia, la centralità dell’economia marittima, la Blue Economy, garantisce e alimenta l’economia nazionale di trasformazione. L’Italia è un paese marittimo dove la spesa annuale per acquisti di beni e servizi nei settori legati al mare è pari a 34 miliardi di euro, dove per ogni miliardo di euro prodotto dalla Blue Economy si attivano sul resto dell’economia altri 2,28 miliardi di euro. Tutto ciò significa che l’economia del mare dà lavoro a 530.000 addetti, i quali salgono a 1.489.000 con l’indotto. Da qui l’esigenza per la Marina Militare di assicurare la difesa e la sicurezza sul mare, dal mare e sotto i mari e gli oceani. Data questa premessa, sempre più spesso, a livello internazionale, si è avvertita forte l’esigenza di garantire la sostenibilità di un ecosistema come quello marino, il quale è, per sua natura, molto sensibile e delicato. Ormai tutti comprendiamo come la salute e il benessere umano, che comprendono uno sviluppo economico equo e sostenibile, dipendano dalla salute e dalla sicurezza dei mari del mondo. Il mare fornisce cibo e offre il sostentamento per oltre 3 miliardi di persone. Il mare, inoltre, è un alleato essenziale nella lotta ai cambiamenti climatici. Date tali premesse, e in conformità con la risoluzione 72/73 dell’Assemblea Generale delle Nazioni unite (UNGA), la Commissione Oceanografica Intergovernativa dell’UNESCO (COI) ha guidato la preparazione del Piano di attuazione per il «Decennio delle Nazioni unite delle Scienze del Mare per lo Sviluppo Sostenibile» (2021-30). Il Piano di attuazione è stato presentato alla 75ª sessione dell’UNGA in conformità con la Risoluzione 74/19. Tale piano intende fornire, all’inizio del terzo millennio, e partendo da una conoscenza degli oceani già largamente competente nel diagnosticare quelli che sono gli attuali problemi, soluzioni di diretta rilevanza, affinché sia garantito uno sviluppo sostenibile degli oceani attraverso un processo massivamente innovativo. Ciò significa sviluppare una campagna su vasta scala, adeguatamente sostenuta e alimentata, tesa a innovare e trasformare la scienza degli oceani attraverso il coinvolgimento di tutti gli attori e portatori d’interessi coinvolti. Dovranno essere utilizzate e coinvolte le diverse discipline scientifiche in tutte le zone geografiche interessate, coinvolgendo parimenti tutte le generazioni di individui di ogni ceto.
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Tutto ciò dovrà avere un’adeguata durata temporale, in modo tale da assicurare una trasformazione durevole. Si tratta di un documento non necessariamente prescrittivo e che si evolverà nel tempo al fine di riflettere nuove possibilità, opportunità e sfide. Il Decennio marittimo dell’ONU favorirà lo scambio di dati, informazioni e conoscenze in vista del passaggio, piuttosto ambizioso in verità, da «un oceano che abbiamo» a «un oceano che vogliamo». In particolare, sono sette le priorità fissate come obiettivi al termine di questo periodo. Primo: oceani puliti dove le sorgenti di inquinamento siano identificate, ridotte o rimosse. Secondo: oceani sani e resilienti dove gli ecosistemi marini siano conosciuti, protetti, restaurati e gestiti. Terzo: oceani produttivi che supportino una catena alimentare sostenibile e una correlata economia degli oceani. Quarto: oceani predicibili dove le società comprendano e rispondano al cambiamento degli oceani stessi. Quinto: un oceano sicuro dove la vita e gli esseri che vi abitano siano protetti dai pericoli. Sesto: oceani accessibili dove l’accessibilità sia aperta ed equamente distribuita in materia di dati, informazioni, tecnologia e innovazione. Settimo: oceani che attirino e inspirino in modo che la società comprenda il valore di essi in relazione al benessere del genere umano e per uno sviluppo sostenibile. In sostanza, si tratta di passare dal «semplice» sfruttamento dei mari a una consapevolezza maggiore che avverta la necessità di uno sviluppo sostenibile di tutto l’ecosistema marino. Se è concesso un paragone nello spirito, millenario, dell’apertura di queste pagine, si tratta del medesimo salto evolutivo che tutti noi abbiamo studiato: il passaggio dall’uomo cacciatore e che raccoglieva i frutti dei boschi alla rivoluzione agricola del Neolitico che segnò la fine della preistoria. Ci sono voluti millenni ma ne è valsa sicuramente la pena. Non più in futuro la terra contrapposta al mare, ma terra e mare insieme, nel massimo rispetto di entrambi, perché sono «cosa buona». Per concludere si comprende, senza difficoltà, come la tutela del mare comporti, in maniera diretta e proporzionale, la tutela del benessere di tutti noi, nessuno escluso. La Marina Militare italiana da sempre è parte attiva e fattore decisivo nella tutela e salvaguardia dell’ambiente marino e dei suoi problemi. Questo è il tema dell’attuale numero della Rivista Marittima. Buona lettura, e confidiamo con i nostri autori, buone riflessioni.
NOTE (1) Blue Economy, idea lanciata dall’imprenditore belga Gunter Pauli. Gunter Pauli, Blue Economy: 10 anni, 100 innovazioni, 100 milioni di posti di lavoro, Edizioni Ambiente, 2010-14.
DANIELE SAPIENZA Direttore della Rivista Marittima
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PRIMO PIANO
Ocean Decade: dieci anni per salvare l’oceano e la vita sulla terra Paola Giorgia Ascani
«Viviamo intorno a un mare come rane intorno a uno stagno» (Socrate)
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a consapevolezza socratica della connessione tra vita marina e terrestre dev’essersi persa nel corso dei decenni se oggi sussiste l’urgenza di istituire una decade dedicata agli oceani con lo scopo di comprendere e raccogliere dati sulla loro essenzialità per la sopravvivenza dell’intero ecosistema. L’Ocean Decade, formula breve per il Decennio delle scienze oceaniche per lo sviluppo sostenibile (Decade of Ocean Science for Sustainable Development) (1) impegnerà tutti gli Stati del mondo, dal 2021 al 2030 in un programma di conoscenza e sviluppo di strategie a tutela
Avvocato del Foro di Roma dal 2006, esercita prevalentemente in campo penale e tutela dei diritti umani. Patrocinante dinanzi la Suprema Corte di Cassazione e giurisdizioni superiori. È stata membro della Commissione diritto e procedura penale del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Roma, ha pubblicato con la casa editrice Giuffrè contributi sulla disciplina dei contratti, brevetti e marchi e proprietà intellettuale. È stata tutor e membro del direttivo della Camera penale di Roma e del Centro studi Alberto Pisani. Ha curato, sotto il profilo giuridico e legale, progetti foto-editoriali in materia umanitaria e internazionale. È consulente giuridico e forense del Circolo del ministero degli Affari esteri.
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dell’ambiente oceanico e marino, anche in funzione dei rimedi alle problematiche legate al Climate Change e allo Sviluppo Sostenibile. Proclamata nel 2017 dall’ONU, su iniziativa della Commissione Oceanografica Intergovernativa (IOC) dell’UNESCO, contempla un piano articolato e interdisciplinare dedicato alle scienze del mare che va dalla protezione degli oceani alla predisposizione di un piano di sviluppo socio-economico rispettoso e armonico con l’ambiente marino (2).
Il percorso verso l’Ocean Decade Plastica nei mari tropicali (oceandecade.org).
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La decisione di dedicare un decennio intero alla conoscenza, studio e comprensione dei meccanismi di funzionamento oceanici così da poterne utilizzare le risorse in modo non esaustivo parte da lontano, nell’ambito delle politiche internazionali dedicate allo studio dei cambiamenti climatici. Nel 2015, al Summit ONU sullo Sviluppo Sostenibile (in seno alla 70° Assemblea generale delle Nazioni unite) svoltosi a New York, è stata adottata l’Agenda 2030 ONU per lo sviluppo sostenibile (3). Comprensiva di 17 obiettivi (SDGs - Sustainable Development Goals) e 169 traguardi accessori da raggiungere, l’Agenda 2030 prevede la realizzazione dei suoi obiettivi tramite progetti che intersecano le azioni comprese nei tre pilastri del Sustainable Development: 1) economia, 2) società, 3) ambiente. La connessione dei tre pilastri acclara la centralità degli oceani per lo sviluppo sostenibile, una realtà con cui il mondo deve a tutti i costi confrontarsi in modo oramai improcrastinabile. Attraverso le svariate attività che si svolgono in mare e le numerose risorse che mette a disposizione, le nazioni hanno potuto migliorare l’occupazione e le condizioni medico-sanitarie, arginando in molte aree anche problematiche come povertà, malnutrizione e inquinamento. È un dato di fatto che tutte le economie che si fondano sugli oceani hanno maggiori possibilità anche di realizzare la parità di genere, posto che offrono più occasioni di emancipazione e occupazione femminile nell’indotto produttivo legato al settore marittimo (4). Ma un altro dato di fatto, questa volta molto allarmante, è che senza una adeguata politica e strategia che prenda in considerazione con sistematicità le problematiche legate al clima e le ricadute sugli oceani, questa popolazione da essi sostenuta,
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Ocean Decade: dieci anni per salvare l’oceano e la vita sulla terra
stimata tra i 50 e i 200 milioni di persone nel mondo, sarà drammaticamente coinvolta da eventi disastrosi dovuti proprio alla modificazione del clima entro il 2050. Per questo, l’Agenda, nella pianificazione post 2015, dedica, per la prima volta, un obiettivo specifico al mare: SDG 14 - Vita sottomarina (Life below water) (5). È con l’Agenda, quindi, che si inizia a parlare con toni istituzionali dell’importanza di conservare e utilizzare, in modo durevole, gli oceani, i mari e le risorse marine, come componenti fondamentali dello sviluppo sostenibile. In precedenza, il sistema marino-oceanicofluviale era considerato solo come una questione ambientale, trascurandone le ricadute economiche e sociali. La consapevolezza e presa di coscienza di quanto siano invece rilevanti per quei contesti e come la vita e la salute del sistema legato alle acque terrestri sia basilare al sistema globale terrestre si è concretizzata grazie all’attività del Global Ocean Forum, in una all’impegno del Pacific Small Island Developing States che, insieme, hanno portato all’esame delle Nazioni unite le istanze per avviare un c.d. «processo aperto» (6) conclusosi, appunto, con l’adozione dell’Obiettivo 14 (SDG 14).
L’SDG 14 - Vita Sottomarina, presupposto per l’Ocean Decade Molta strada è stata percorsa da quando dieci anni fa nel 2012, l’allora vice-coordinatrice esecutiva per la Conferenza di Rio+20, Elizabeth Thomson, in occasione della Giornata mondiale degli Oceani che si celebra il 16 giugno, proclamò l’importanza degli oceani come «punto in cui si uniscono sul pianeta, le persone e la prosperità», sancendo che «è di questo che tratta lo sviluppo sostenibile». Thomson evidenziò il legame, prima per nulla evidente, tra «abitanti della Terra coinvolti, consapevoli di agire per la nostra responsabilità verso il pianeta, i popoli e gli oceani». Da allora, è ormai acclarata la circostanza che gli oceani, coprendo tre quarti della superficie terrestre, sono la componente principale del nostro pianeta, nonché la sua principale fonte di vita, posto che assorbono il 30% dell’anidride carbonica mondiale e grazie al fitoplancton marino producono il 50% dell’ossigeno necessario alla nostra sopravvivenza. Dunque gli oceani
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svolgono un ruolo chiave per la regolazione climatica, riequilibrando la temperatura in modo che la Terra sia idonea allo sviluppo e al mantenimento di ogni forma di vita esistente. La centralità degli oceani si esplica anche sotto il profilo del benessere economico globale. Il valore delle attività economiche legate agli oceani si aggira introno ai 3/6 mila miliardi di dollari. Basti pensare che il 90% del commercio mondiale si svolge via mare, i cavi della c.d. Undernet, permettono, posati sui fondali marini, il 95% di tutte le telecomunicazioni mondiali, e solo da pesca e acquacoltura arriva il 15% del consumo annuale di proteine animali. Sul fronte energetico, oltre il 30% delle risorse fossili sono estratte in mare; maree, onde, correnti ed energia eolica in alto mare costituiscono le risorse energetiche offshore più performanti sotto il profilo dell’energia a bassa emissione di carbonio e 13 su 20 megalopoli del mondo sorgono su zone costiere così come più del 40% della popolazione del mondo vive in zone entro i 100 km dall’oceano e dal mare (7). Senza contare la mole di guadagni legati al turismo costiero, o alla produzione perfino galenica ottenuta grazie alla biodiversità ma-
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Ocean Decade: dieci anni per salvare l’oceano e la vita sulla terra
Lago Inla, pescatori al tramonto nello Stato di Shan, Myanmar (Birmania) (R.M. Nunes/Alamy Foto Stock).
rina. Oggi, l’Obiettivo 14 contiene in sé anche disposizioni di tipo attuativo per essere conseguito; in esso è confluito il materiale elaborato in seno a diverse sessioni di lavori nella Conferenza delle Nazioni unite sull’ambiente e lo sviluppo del 1992, nel Summit mondiale sullo sviluppo sostenibile, del 2002, nella Conferenza delle Nazioni unite sullo sviluppo sostenibile Rio+20 del 2012 e nella Convenzione delle Nazioni unite sul diritto del mare (UNCLOS) in vigore dal 1994. In buona sostanza, proprio questa estrema elaborazione e completezza del SGD 14, lo rende, a oggi, uno strumento già completo per generare frutti risolutivi nel campo della politica oceanica, tanto che è considerato un corpus difficilmente perfettibile. L’SDG14 si declina, infatti, in 7 più 3 traguardi divisi per tappe cronologiche con cui portare avanti la sua realizzazione. Il 14.1 appronta soluzioni nella riduzione dell’inquinamento terrestre e marittimo; 14.2 contiene indicazioni per la prevenzione e la ricerca di soluzioni per la corretta gestione degli ecosistemi che sopportano i maggiori fattori di stress, come le aree costiere; 14.3 prevede azioni per ridurre al minimo gli effetti dell’aci-
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dificazione degli oceani; 14.4 regolamenta la pesca in modo che diventi sostenibile, con piani orientati per il futuro, ma anche ripristinando, nel presente, le riserve ittiche; 14.5 preserva, in ossequio al diritto internazionale marittimo, almeno il 10% delle aree costiere; 14.6 contiene indicazioni per agire sotto il profilo ittico-economico, ritirando i sussidi a tutte le attività di pesca illegali e non conformi alle regole; 14.7 implementa i benefici economici dei piccoli Stati insulari in via di sviluppo quali basi per la fruizione di un mare più sicuro; 14.a punta sulla conoscenza scientifica, sulla ricerca e condivisione dei dati secondo le linee guida della Commissione Oceanografica Intergovernativa sul trasferimento di tecnologia marina allo scopo di migliorare e curare la salute dell’oceano e tutelare la biodiversità marina; 14.b garantisce accesso dei pescatori artigianali alle risorse e ai mercati marini; 14.c garantisce e sollecita l’uso sostenibile degli oceani e delle risorse, applicando il diritto internazionale ai sensi dell’UNCLOS. Fra i tanti meriti della creazione dell’elaborazione di questo obiettivo, vi è l’organizzazione dello strumento istituzionale quadro (framework) che lo contiene e che ormai rappresenta la cornice internazionale stabile dei lavori che riguardano gli obiettivi di sostenibilità relativi all’oceano. La messa a punto dell’SDG14 ha sollecitato la prima riunione, nel 2017, della Conferenza sull’oceano delle Nazioni unite su mandato dell’Assemblea generale ONU e dunque ispirato l’Ocean Decade.
La Conferenza sull’oceano delle Nazioni unite del 2017, culla dell’Ocean Decade La prima Conferenza internazionale per l’attuazione dell’obiettivo 14 di sviluppo sostenibile ha avuto sede a New York nel giugno del 2017 con lo scopo di predisporre un piano strategico fattivo per la conservazione e l’utilizzo sostenibile dell’oceano e delle risorse marine. In questa sede, il neonato SDG14 ha esplicato tutta la sua forza come fulcro dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile e ha ispirato una serie di proposte e soluzioni presupposti per l’attuale Ocean Decade. Nella Conferenza, l’UNESCO, per voce dell’allora direttore generale Irina Bokova, richiese l’istituzione della Decade Oceanica al fine di salvaguardare le aree
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Ocean Decade: dieci anni per salvare l’oceano e la vita sulla terra
Oceani come fonte di approvvigionamento e impiego globale (Erik Lukas).
marine del mondo, anche a seguito della presentazione del Rapporto globale di Scienze oceaniche della Commissione Oceanografica Intergovernativa (IOC) e gettò le basi per la stesura di un impegno giuridicamente vincolante a livello internazionale nell’ambito dell’UNCLOS per la conservazione della diversità biologica marina, poi innestato nella Convenzione sulla diversità biologica redatta già nel 1992 dagli Stati ONU. L’Ocean Decade non sarebbe mai stata possibile senza la costituzione dell’SDG14 come autonomo obiettivo di sviluppo sostenibile unito all’impegno costante dell’Intergovernmental Oceanographic Commission (IOC) dell’UNESCO nell’agevolare una cooperazione internazionale in materia di scienze oceaniche. Entrambi sono stati fondamentali per avviare uno strumento di pianificazione adeguato a contenere i rischi marini e migliorare le risorse di oceani e zone costiere. La prossima Conferenza delle Nazioni unite sull’oceano è prevista per il 25 giugno - 1 luglio dell’anno corrente, in Portogallo, e sarà un’opportunità fondamentale per aumentare i finanziamenti e per consolidare l’attuazione degli strumenti adottati fin qui e costruire nuovi partenariati.
L’Ocean Decade: ispirazione e caratteristiche «Di gran lunga, la più grande minaccia per l’oceano, nonché per noi stessi, è l’ignoranza». A sostenerlo è Sylvia Earle (8) e se dovessimo riassumere, in una parola chiave, le ragioni e gli obiettivi alla base dell’Ocean Decade, essa sarebbe: conoscenza. La maggior parte della popolazione mondiale non è consapevole dell’influenza dell’oceano sulla vita di tutti i giorni
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sotto il profilo politico-sociale, economico, medico e ambientale. Gli studiosi parlano in proposito di «cecità oceanica» cui, tramite l’Ocean Decade, l’ONU ha intenzione di porre rimedio, diffondendo piuttosto un’educazione all’oceano (9). Per educazione all’oceano si intende la conoscenza e comprensione dell’influenza che l’oceano esercita su di noi e, reciprocamente, l’influenza che noi esercitiamo sull’oceano. Diffondere la consapevolezza di questa interazione inscindibile è il passo fondamentale per vivere e agire in modo sostenibile (10). L’approvazione dell’SDG14 necessitava di uno strumento ulteriore che permettesse la diffusione di questo concetto e l’Ocean Decade è la programmazione che renderà possibile questa conoscenza. Nell’arco di un decennio le scienze dell’oceano e la loro rilevanza avranno il tempo per essere veicolate in modo capillare, spiegando l’importanza marina nella conservazione della vita sul pianeta. Occorreva un periodo discretamente lungo che potesse non solo seminare, ma anche vedere germogliare i frutti di una vera e propria cultura oceanica stabile. La mission della Decade Oceanica è proprio quella di capire, e far capire, gli oceani, conoscerli al fine di prendersene cura in modo adeguato e consapevole. Più dell’80% degli oceani non è ancora neppure stato mappato né esplorato, secondo la NASA. Al servizio dell’Ocean Decade sotto questo profilo, c’è anche il progetto SEABED 2030. Fu creato nel 2017, allo scopo di mappare ad alta risoluzione il 100% dei fondali entro il 2030, suddividendo gli oceani in 4 quadranti, ciascuno dei quali sotto la responsabilità di autorevoli istituti di ricerca. Tutte le singole mappature confluiranno in
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Ocean Decade: dieci anni per salvare l’oceano e la vita sulla terra
Oceani, fonte di vasta biodiversità (Hannes Klostermann).
un’unica mappa a consultazione libera sotto la supervisione del British Oceanographic data center. Nell’anno di avvio, era stato mappato solo il 6% dei fondali, stando agli ultimi dati disponibili del 2020, si è arrivati al 19%. La convinzione dell’ONU è che solo tramite conoscenze scientifiche adeguate si potrà giungere all’elaborazione di strumenti e soluzioni efficaci per fronteggiare i cambiamenti in atto nei nostri oceani e quindi salvarli dalla distruzione. Sarà possibile giungervi soltanto tramite una strategia interforze, la creazione di sinergie e il rafforzamento della cooperazione internazionale. L’Ocean Decade aprirà a nuove partnership e darà slancio alla ricerca scientifica - innovazione tecnologica affinché l’SDG14 possa diventare una effettiva realtà di sviluppo sostenibile. Nell’Agenda dell’ONU per l’Ocean Decade, figurano sette priorità da realizzare per il 2030: 1) un atlante digitale degli oceani, 2) un sistema completo di osservazione degli oceani da tutti i bacini principali, 3) conoscenza degli ecosistemi oceanici e loro dinamiche, 4) la creazione di un portale con dati e informazioni sugli oceani, 5) un sistema di allerta integrato per le differenti situazioni di rischio, 6) l’inclusione degli oceani nelle attività di studio terrestri, 7) lo sviluppo di competenze e tecnologie per la diffusione e lo scambio di educazione e cultura degli oceani. La decade prevede eventi a ritmo serrato, posto che la situazione in cui versa l’ambiente marino non è delle migliori (11). Si stima che per il 40% i mari soffrono a causa dello scioglimento dei ghiacciai che ne innalzano il livello delle acque, il processo di acidificazione procede a ritmi febbrili a causa delle concentrazioni, ormai fuori controllo, di anidride carbonica nell’atmosfera, la
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pesca, secondo la FAO, si svolge al di fuori di canoni biologicamente sostenibili, e la cifra vertiginosa di 8 milioni di tonnellate di plastica finisce nel mare ogni anno, danneggiando specie marine e mettendo in pericolo anche la vita umana. Tornano quindi in ballo i tre pilastri dello sviluppo sostenibile dettati dall’Agenda 2030 applicabili anche all’SDG14 per riequilibrare la salute degli oceani e, a cascata, quella dell’uomo sulla Terra. Questi dieci anni, in cui saranno condivisi e diffusi dati e risultati delle scienze marine, permetteranno di arrivare alla realizzazione degli obiettivi dell’Agenda 2030 sullo sviluppo sostenibile, armonizzando lo sviluppo economico con gli equilibri ambientali e modernizzando, in modo sostenibile, i settori della pesca, dei trasporti marittimi, del turismo, della produzione energetica, esplorazione delle risorse che, nell’assetto attuale, sono fonte di enorme stress per gli ambienti marini. Veicolare nella cultura di massa che l’impoverimento e la distruzione degli oceani significa l’automatica, e inevitabile, sofferenza degli equilibri fisiologici sulla terraferma e dell’economia globale, è l’unica via con cui salvare il pianeta, per questo l’Ocean Decade non è rivolto solo alla comunità scientifica, bensì coinvolge diversi settori in modo trasversale: da quelli politico e industriale alla società civile. Attraverso la comprensione dello stato attuale degli oceani, l’Ocean Decade consentirà di rendersi conto più in fretta, se non addirittura di prevedere, i possibili mutamenti e il loro impatto sul genere umano. Si pensi, per esempio, all’inquinamento o alla pesca fuori controllo dei quali sarà possibile ridurre gli impatti negativi, preservando un buon livello di sicurezza e produttività all’oceano a lunga scadenza.
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Ocean Decade: un complice essenziale dello sviluppo sostenibile La consapevolezza che il mare è essenziale allo sviluppo economico e che quest’ultimo deve invertire la rotta, divenendo sempre più sostenibile, è il corollario della scelta di avviare un decennio per «trattare» il mare in modo sostenibile e metterlo al centro di uno sviluppo armonico con le esigenze del clima e del pianeta. Il sostentamento di 3 miliardi di persone dipende in via esclusiva dal mare, la deossigenazione ha portato il prolificare di alghe dannose, alla riduzione della capacità di rigenerazione delle barriere coralline e dunque sta abbattendo la biodiversità ma-
alla base dell’Ocean Decade, che permetterà di diffondere su larga scala conoscenze e fare rete sulle soluzioni in un tempo adeguatamente lungo per vedere i risultati delle azioni messe in campo. La Commissione Oceanografica Intergovernativa dell’UNESCO, nel 2016, facendosi carico della campagna propulsiva della Decade Oceanica, è riuscita a portarla alla proclamazione, come detto, nella 72° Assemblea delle Nazioni unite. Purtroppo, nel mezzo dei lavori preparatori all’avvio del Decennio del Mare, il mondo è stato coinvolto, e stravolto, dalla pandemia che ha evidenziato ancor di più il ruolo centrale della scienza e della conoscenza nei processi decisionali
Oceani (Francesco Ungaro).
rina che, negli ultimi 150 anni, si è dimezzata. I fattori produttivi di stress, che pure rappresentano risorse ineguagliabili per un’inversione di rotta nell’impatto umano sull’equilibrio ambientale, sono rappresentati delle fonti di energia che provengono dalle acque terrestri — sistemi off-shore di produzione energetica provenienti dalle onde, dal vento in alto mare — che, se non correttamente gestite come avviene oggi, possono diventare letali alla residua sopravvivenza marina. Le scienze del mare, sono adeguate alla gestione delle problematiche oceaniche, ma devono essere aggiornate per offrire soluzioni davvero efficaci. È questa un’altra delle ragioni
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governativi e politici, raggrumando le sorti del mondo, ancor più che la precedente globalizzazione. Il contesto ha evidenziato anche quanto il mare sarà centrale per la ripresa, al punto che l’High Level Panel for a Sustainable Ocean Economy ha avviato uno studio che dimostra come gli investimenti sostenibili in campo marittimo possono avere ricadute, in termini di benefici, cinque volte maggiori rispetto ai costi di realizzazione. In questo mutato contesto, pertanto, il Decennio del Mare ha accresciuto la sua importanza e ha segnato un cambio di passo anche nella progettazione delle iniziative in seno all’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile.
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Ocean Decade: la missione Se l’ottica che distingue lo sguardo del Decennio del Mare è quella di una «scienza di cui abbiamo bisogno per l’oceano che vogliamo», la missione del più grande impegno collettivo mondiale della storia in favore della sopravvivenza sul pianeta attraverso il mare, è catalizzare soluzioni scientifiche, avvicinando le persone al nostro oceano. La formazione di dati e conoscenze che sarà generata dalle attività che si svolgeranno nell’arco del Decennio del Mare, e nell’ambito dell’UNCLOS, formeranno un patrimonio unico che permetterà di passare «dall’oceano che abbiamo a quello che vogliamo». L’oceano di cui l’umanità ha bisogno è caratterizzato
vita e il sostentamento; 6) oceano accessibile: con una disponibilità libera per tutti di dati, informazioni e tecnologie sarà possibile approntare strategie più efficaci a livello globale e comune; 7) oceano che ispira e coinvolge: se la società comprende il valore del mare, può valorizzarlo costantemente come fonte di benessere e sviluppo sostenibile. Anche sotto questo aspetto è evidente che il fine ultimo del Decennio del Mare è implementare la capacità scientifica e generare conoscenze che confluiranno nella realizzazione dello sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030, così sostenendo il conseguimento anche dell’SDG17, che si prefigge di rafforzare partnership globali quali strumenti per ottenerli.
Foto vincitrice del Contest fotografico per la giornata degli Oceani 2021 (UN.ORG, copyright Michael Gallagher).
da sette punti, che costituiscono anche il manifesto di azione dell’Ocean Decade, e sono: 1) oceano pulito: attraverso l’identificazione delle fonti di inquinamento, la riduzione o rimozione; 2) oceano sano e resiliente: attraverso la comprensione degli ecosistemi marini e quindi la loro protezione, il ripristino e la gestione corretta; 3) oceano produttivo: un oceano con caratteristiche fisiologiche diventa una fonte di approvvigionamento alimentare sostenibile, molto più di quello terrestre; 4) oceano predicibile: se la comunità conosce il ciclo vitale del mare è in grado di predirne anche i comportamenti rischiosi; 5) oceano sicuro: è una ricaduta dei punti precedenti che rende il mare tutelabile dai pericoli per la
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Ocean Decade, parola d’ordine: collettività Il sottopancia dell’Ocean Decade è «l’unione fa la forza». La presa di coscienza che ereditiamo dalla pandemia è sicuramente che nessuno si salva da solo. Il fattore chiave del successo della decade oceanica sarà pertanto la capacità di mettere a sistema e gestire collettivamente scoperte e metodi come via elettiva per giungere a soluzioni davvero efficaci e in grado di produrre la trasformazione di cui abbiamo bisogno nell’affrontare le sfide legate alla conservazione della vita sul pianeta e del genere umano. Digitalizzazione, accesso libero, utilizzo comune sono la base per una progettazione e costruzione di una rete collettiva che distribui-
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sca le conoscenze che si acquisiranno via, via a formare il c.d. ecosistema digitale, nel quale le condizioni attuali e passate del mare serviranno a ipotizzare modelli con cui prevedere le condizioni marine future. L’ecosistema digitale permetterà una raccolta da più fonti (governative, società civile, organizzazioni scientifiche, enti ONU, scienziati, industria, comunità), creando la formazione di buone pratiche mai vista prima in campo presieduta da una c.d. unità di coordinamento del decennio.
Ocean Decade: educazione all’oceano Si è rilevato poc’anzi l’essenzialità di una conoscenza che varchi le sedi dei laboratori scientifici e raggiunga la popolazione mondiale al fine di responsabilizzarla nella gestione del proprio rapporto col mare. Una delle principali motivazioni del Decennio Oceanico è proprio quella di diffondere una cultura partecipata del mare attraverso la veicolazione di 7 principi essenziali sviluppati per ottenere il consenso delle comunità sociali. La necessità di una c.d. alfabetizzazione oceanica ha condotto all’inserimento nei materiali didattici di alcuni concetti base relativi a oceani e mari, in primis negli Stati Uniti, ma che poi si sono espansi in altre regioni del mondo. I principi essenziali di cui si tratta sono stati studiati con un approccio integrato in modo da esprimere più di un principio base, cosicché i fruitori possano immediatamente comprendere come i temi legati all’oceano, al clima e alla conservazione dell’habitat sulla Terra siano una materia multidisciplinare. L’Ocean Literacy, parte integrante delle strategie adottate nell’Ocean Decade, significa migliorare la comprensione pubblica circa l’importanza dell’oceano. Più i cittadini del mondo conoscono, e sono educati sin dalla prima età alle dinamiche che coinvolgono l’oceano e maggiormente saranno disposti a sostenere le politiche per mantenerlo in salute. Il progetto di alfabetizzazione oceanica è dunque un progetto destinato a concludersi nelle scuole ai vari gradi di insegnamento che realizzi una comprensione piena delle dinamiche di interazione uomo - oceani che formerà individui in grado di prendere decisioni informate e responsabili per quanto riguarda l’oceano e le sue risorse. Solo l’inserimento di contenuti relativi all’oceano nei programmi didattici statali di educazione
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scientifica, nei materiali e nelle valutazioni può avere un impatto significativo. Come si vede, l’aspirazione internazionale in materia è altissima, anche considerata la posta in gioco.
Decade Action Framework, unità di coordinamento, metodi di finanziamento In aggiunta all’accurata e dettagliata elencazione dell’SDG14, che permette agli attori internazionali di orientarsi in modo efficace, senza dispersione di azioni inutili nel conseguimento di una maggiore comprensione del nesso oceano-clima, la Decade Action Framework costituisce il quadro di riferimento delle azioni per il Decennio che guiderà nella progettazione e nell’attuazione delle iniziative da perseguire tutti gli attori coinvolti. Anche il quadro di riferimento mira al coinvolgimento su scala collettiva come via elettiva per raggiungere gli obiettivi dell’Agenda 2030 e del Decennio del Mare, individuando tre fasi: 1) selezionare il tipo di conoscenza necessaria allo sviluppo sostenibile; 2) generare i dati ottenuti per essere condivisi; 3) utilizzo dei dati per attuare soluzioni di sviluppo sostenibile. Ogni attore che seguirà questa strategia in tre fasi, convoglierà i propri risultati verso la struttura creata per il coordinamento del Decennio che ha sede presso il segretario della Commissione Intergovernativa Oceanica, con il ruolo di hub centrale verso cui ciascun Ufficio per il coordinamento del Decennio, istituito presso i singoli Governi, farà confluire le azioni messe in campo a livello regionale. Qui, le strutture decentralizzate, i Centri collaborativi del Decennio, coadiuvano il coordinamento delle singole iniziative locali e il collegamento tra partner. Il Comitato consultivo del Decennio (COI - Decade Advisory Board), formato da enti delle Nazioni unite, si occupa di dare consulenza sull’attuazione delle strategie del Decennio del Mare. Gli organi direttivi del COI riferiscono, alla fine, all’Assemblea generale delle Nazioni unite risultati e azioni, complessivamente raccolti. Ultimi, ma come sempre non meno importanti, sono i metodi previsti per il finanziamento del Decennio. La formazione istituzionale della Decade non possiede un meccanismo autonomo ben definito, piuttosto contempla dei meccanismi per aumentare i finanziamenti disponibili e reperire i forni-
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Syliva Earle, oceanografa ed explorer residente per National Geographic nell’isola di Bonaire. Ha trascorso più di 7000 ore nelle profondità marine e scoperto svariate specie acquatiche, 2017 (David Doubilet).
tori eventuali. Le risorse provengono da una serie di soggetti, su base volontaria, che provvedono a una mobilitazione delle risorse tramite la c.d. Alleanza per il Decennio del Mare (Ocean Decade Alliance).
L’UE e le iniziative per l’oceano Fin dal Summit 2015, sono state numerose le ulteriori iniziative internazionali affianco alle Conferenze ONU sull’oceano prima fra tutte è la Conferenza Our Oceans, Our People, Our Prosperity (12), quest’anno giunta alla settima edizione. L’ultima in ordine di tempo si è svolta lo scorso aprile nel piccolo Stato insulare di Palau e ha riunito rappresentanti governativi, società civile, esponenti del settore produttivo privato, organizzazioni senza scopo di lucro per ribadire l’importanza delle soluzioni per il clima basate sugli oceani e dimostrare il forte legame tra salute oceanica e quella delle comunità globali e locali. L’UE ha stanziato 1 miliardo di euro spalmato su 44 impegni da realizzare nel 2022. Questi ultimi si concentrano in sei aree tematiche già esposte nella Conferenza del 2015 ed è degna di rilievo, fra tutte, la proposta europea di realizzare una governance internazionale degli oceani. L’evento Our Ocean, a cadenza annuale, è la prima piattaforma creata per raccogliere finanche i finanziamenti necessari a sostenere le azioni più urgenti sugli oceani. Si
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tratta, per così dire, della madre di tutte le sedi ove i Governi del mondo prendono impegni globali, anche economici, per la salute degli oceani. Perciò è in questa sede che l’Europa esplica il proprio impegno per una forte strategia di affermazione da leader nella lotta agli effetti del cambiamento climatico e nella tutela dei mari. Sono infatti molti i risultati conseguiti in seno alla Our Ocean, basti pensare ai ben 1800 impegni presi per un valore di 108 miliardi di dollari che nei 7 anni di vita della Conferenza hanno permesso di tutelare 13 milioni di chilometri quadrati in più di oceano (13). Gli ambiti di azione sono diversi e spaziano dalla lotta al cambiamento climatico, alla promozione di un’industria ittica sostenibile, la creazione di economie marine altrettanto sostenibili, l’espansione delle aree marine protette e l’approccio fattivo all’inquinamento marino. Una strategia a tutto tondo, dunque, che ha importato subito una visione olistica per salvaguardia e tutela degli oceani quale parte necessaria del cambiamento climatico. In questo quadro, l’UE ha assunto un ruolo protagonista anche dovuto dalla presenza del mar Mediterraneo. Mai come l’anno appena trascorso, il più caldo finora registrato per l’oceano, dimostra che l’approccio di Our Ocean sia improcrastinabile parte integrante del percorso di soluzioni per la gestione dell’intera crisi climatica. L’altra iniziativa figlia del-
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Logo della Conferenza oceanica e sul clima.
l’istituzione del SDG 14 nel 2015 è il One Ocean Summit, che si è svolto nello scorso febbraio in Francia, a Brest, anche grazie alla collaborazione della Commissione Intergovernativa Oceanografica dell’UNESCO, per fare il punto europeo sulla questione. Sono intervenuti anche la direttrice generale dell’ONU, il segretario generale, e il segretario generale dell’Organizzazione Marittima Internazionale (OMI). La Commissione europea ha messo in campo una serie di iniziative volte a rendere gli oceani più puliti, sani e sicuri. Basandosi sui risultati dello studio ONU, che ha evidenziato come i grandi pesci sono in via d’estinzione e il 50% delle barriere coralline è già stata distrutta compromettendo la capacità rigenerativa degli oceani, l’UE, nell’ambito dell’One Ocean Summit, ha puntato l’attenzione sulla necessità di un collegamento responsabile tra l’Ocean Decade e la blue economy, affinché quest’ultima sia sostenibile e quindi più realisticamente fonte di progresso economico rispettoso della situazione climatica. L’UE ha tra i suoi confini il più grande spazio marittimo del mondo, vanta il più grande mercato ittico e ha quindi un ruolo centrale nella sfida che riguarda gli oceani. Perciò gli sforzi UE in materia sono parte integrante del green deal europeo per la costruzione di un’economia neutra entro il 2050, proprio a tutela della biodiversità. Per quest’ultimo tema, l’UE ha dichiarato al One Ocean Summit tre nuove proposte europee: a) la realizzazione di una coalizione internazionale per la tutela della biodiversità in lato mare, b) un progetto di calcolo che consenta in fase di ricerca di simulare digitalmente gli oceani del mondo, e c) la ricerca UE per ripristinare
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oceani e acque entro il 2030. Proprio sotto quest’ultimo profilo, ci sono due progetti già in campo per l’UE: la Missione Restore our Ocean and Waters, nell’ambito di Horizon Europe e il progetto Copernicus (14). La prima è volta a realizzare un nuovo approccio sistemico nella realizzazione di una neutralità climatica a salvaguarda della natura. La protezione del 30% della superficie marittima europea, sia marina che dolce, i 25.000 km di fiumi, la biodiversità, il ripristino e la protezione di ecosistemi marini e habitat degradati, la prevenzione ed eliminazione dell’inquinamento, grazie alla eliminazione totale dei rifiuti di plastica in mare, il dimezzamento dell’uso di sostanze chimiche e pesticidi. Soprattutto, il progetto si ripropone di rendere anche l’economia blu circolare e climaticamente neutra, portandola a zero emissioni di carbonio. Questa è l’ambizione europea di sostenibilità per far fronte ai cambiamenti climatici. Il sistema Copernicus Marine Services invece fornisce dati, informazioni e modelli relativi all’osservazione delle variabili marine biogeochimiche, allo stato fisico dell’oceano e del ghiaccio marino, un monitoraggio complessivo della salute oceanica e dei parametri vitali connessi e fondamentali per la salute terrestre. Sotto il profilo normativo, pertanto, l’UE si sta impegnando fortemente a favore della realizzazione di una governance internazionale degli oceani, tramite le proposte contenute nei 44 impegni cui ha destinato lo stanziamento di 1 miliardi di euro, cui si è già accennato. La seconda Conferenza delle Nazioni unite sull’oceano, dopo New York del 2015, sarà l’ulteriore occasione in cui l’UE, che ha già elaborato un piano imperniato su ricerca, sviluppo e innovazione,
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Il Libro blu di Copernicus Marine per un oceano sostenibile 2019 (sito ufficiale).
potrà investire in progetti mirati al monitoraggio e alla protezione dei bacini oceanici da esaminare.
Un oceano plastic free Fra i molti obiettivi che riceveranno una spinta propulsiva eccezionale grazie all’Ocean Decade, il più rilevante è sicuramente quello di liberare l’oceano dalla plastica. L’ONU persegue rigidamente il conseguimento di questo fine ineludibile anche con il raggiungimento dello Sviluppo Sostenibile ai sensi dell’Agenda 2030, tramite una politica diffusa di comunicazione, al grido di #BeatPlasticPollution. L’80% dell’inquinamento marino è causato da rifiuti in plastica; secondo uno studio della Commonwealth Industrial and Scientific Organization (CSIRO (15)), giace sul fondo oceanico la cifra iperbolica di 14,4 milioni di tonnellate di microplastiche. Il National Oceanography Center (NOC) ha calcolato in uno studio che la
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quantità di particelle di plastica presenti nei primi 200 mt di superficie marina è pari a una cifra di 12-21 milioni di tonnellate (16). Siamo ignari, inoltre, che il mar Mediterraneo, fa parte delle aree più critiche circa l’inquinamento da plastica posto che l’International Union for Conservation of Nature and Natural Resources (IUCN) (17) vi ha stimato un accumulo di plastica che supera un milione di tonnellate, solo per quanto concerne quella galleggiante. E purtroppo, l’Italia compare tra i tre paesi al mondo che contribuiscono maggiormente alla dispersione delle 229 mila tonnellate di plastica in mare assieme a Turchia ed Egitto. Non proprio un primato di cui andare fieri. Cifre vertiginose e sconcertanti che lasciano inquieti sulle sorti dei nostri mari, anche stando a uno studio italiano che ha dimostrato la presenza di microplastiche nella placenta umana (18). L’UE, anche considerato che si affaccia in modo consistente proprio sul mar Mediterraneo, ha intrapreso
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Detriti marini, plastica, carta, legno, metalli, manifattura di scarto sulle spiagge e sulla profondità dell’oceano (Laura Quinones).
molteplici iniziative in seno all’ONU. L’ultima, in ordine di tempo, è anche la più rilevante. Il 3 marzo scorso, l’Assemblea delle Nazioni unite sull’Ambiente (UNEA-5, United Nations Environment Assembly), tenutasi a Nairobi, ha approvato una risoluzione storica (19). Entro il 2024 il mondo avrà infatti un trattato giuridicamente vincolante: il primo trattato internazionale sulla plastica per il contrasto all’inquinamento (20). Un importante passo avanti che cerca di invertire la tendenza evidenziata dal rapporto dell’Organizzatore per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) secondo cui la produzione di plastica è raddoppiata negli ultimi 20 anni, ma soprattutto ne è derivato un raddoppio dei relativi rifiuti passati da una produzione annuale maggiore di 350 milioni di tonnellate nel mondo, dei quali solo il 9% è riciclato, mentre il 19% è incenerito e il 50% va in discarica, cosicché il 22% finisce nell’ambiente o in zone non identificate e nei fiumi e quindi scaricate, nel tempo, anche indirettamente, in mare (21). Sono state istituite Commissioni che tra il 2022 e il 2024 redigeranno la bozza di trattato con la consulenza di scienziati, al fine di sancire norme concrete per la gestione del ciclo vitale della plastica dalla produzione allo smaltimento. Anche la risoluzione UNEA evidenzia come alla base del problema dell’inquinamento da plastica ci sia una eccessiva ignoranza delle conseguenze e degli effetti su clima e ambiente, per questo è molto importante partire dall’informazione dei cittadini primi utilizzatori della plastica e poi concentrarsi sulla diffusione di know-how e buone pratiche
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circa la produzione per condurre i produttori a progettare materiali più sostenibili che possano entrare in un ciclo virtuoso di produzione e smaltimento. E qui, si innesta di nuovo, l’importanza dell’istituzione dell’Ocean Decade. Il lavoro dell’UE parte da lontano rispetto a questo risultato, considerato che aveva adottato (nel 2019) la Direttiva sulla plastica monouso (Single Use Plastics o SUP), in vigore già dal 2021, per l’eliminazione graduale della maggior parte degli oggetti in plastica che sono rinvenuti in mare (22).
Conclusioni Possiamo quindi affermare che l’Ocean Decade, sia la più immensa macchina di solidarietà e progettazione collettiva mai messa in moto per la salvaguardia, non solo dell’oceano, ma della nostra stessa sopravvivenza sulla Terra. Come ha affermato il Segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres all’One Ocean Summit di Brest dello scorso febbraio, licenziando l’adozione conclusiva della dichiarazione Brest Commitments for the Oceans, «il pianeta sta affrontando la tripla crisi dello sconvolgimento climatico, perdita di biodiversità e inquinamento», di fronte alla quale «dobbiamo cambiare rotta». È auspicabile pertanto, che grazie ai numerosi strumenti di cui disponiamo in termini scientifici, finalmente il genere umano si ponga in continuità e non in contrasto con il naturale ritmo bioecologico naturale e soprattutto accetti di essere parte della natura, e non signore della natura. Un salvifico passo indietro da parte dell’uomo nel governare e utilizzare
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Plastica a largo di Panama, aprile 2021 (Louis Acosta).
l’ambiente che lo circonda, accettando di essere solo una delle tante specie di biodiversità, permetterà di consegnare alle generazioni future non solo il mondo che meritano e di cui hanno bisogno per sopravvivere sotto il profilo ambientale, ma anche un mondo più giu-
sto, dove non viga il principio dell’accaparramento feroce e guerrigliero delle risorse l’uno a scapito dell’altro, bensì un utilizzo armonico delle stesse che radichi una condizione di pace in un mondo sostenibile, anche sotto il profilo sociale. 8
NOTE (1) https://en.unesco.org/ocean-decade. (2) https://ioc.unesco.org; per SDG14 https://www.oceandecade-conference.com/en/index.html (3) https://marine.copernicus.eu/it/servizi/politiche-pubbliche/sostegno-cooperazione-internazionale. (4) Dati in https://www.onuitalia.it/sdg/14. (5) Così Elizabeth Thompson, vice coordinatore esecutivo per la Conferenza Rio+20, in occasione della Giornata Mondiale degli Oceani a Rio+20, 16 giugno 2012, disponibile in https://www.onuitalia.it/sdg/14-la-vita-sottacqua/; altri dati su SDG14 disponibili in https://www.globalcompactnetwork.org/it/il-global-compact-ita/sdgs/business-sdgs/1373-sdg-14-conservare-e-utilizzare-in-modo-durevole-gli-oceani-i-mari-e-le-risorse-marine-per-uno-sviluppo-sostenibile.html. (6) Così Biliana Cicin-Sain, presidente del Global Ocean Forum, professoressa e direttrice del Centro Gerard J. Mangone per la Politica marittima, College of Earth, Ocean and Environment (CEOE), Università di Delaware, Stati Uniti, in B. Cicin-Sain, La Vita Sott’Acqua, https://www.onuitalia.it/sdg/14-la-vita-sottacqua. (7) B., Cicin-Sain, La vita sott’acqua, in www.onuitalia.it/sdg/14-la-vita-sottacqua. (8) Così Sylvia Earle, presidente di Mission Blue, organizzazione che promuove la comunicazione scientifica e l’estensione delle aree protette dell’oceano; è stata anche la prima donna a capo della National Oceanic and Atmospheric Administration degli Stati Uniti in UNESCO, Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura, L’educazione all’Oceano per tutti, Kit pratico, Manuali e Guide COI, 80, versione italiana a cura di Ufficio Regionale per la Scienza e la Cultura in Europa, Commissione Oceanografica Intergovernativa, Obiettivi Sviluppo Sostenibile, disponibile in https://www.miur.gov.it/documents/20182/ 4394634/16.%20Educazione%20allOceano%20per%20Tutti.pdf. (9) Santoro, F., Santin, S., Scowcroft, G., Fauville, G., Tuddenham, P., Educazione all’ Oceano per tutti: Kit pratico, Santoro, F., Santin, S., Scowcroft, G., Fauville, G., Tuddenham, P., UNESCO Office Venice and Regional Bureau for Science and Culture in Europe (Italy), Intergovernmental Oceanographic Commission (COI), in https://unesdoc.unesco.org. (10) https://oceanliteracy.unesco.org/resource/ocean-literacy-the-essential-principles-and-fundamental-concepts-of-ocean-sciences-for-learners-of-all-ages-2020. (11) L. Valdés et al., (eds), UNESCO, 2017, Global Ocean Science Report -The current status of oceanscience around the world, L. Valdés et al. (eds), UNESCO Publishing, Paris, http://unesdoc.unesco.org. (12) President de la Republique Francais, Brest Commitments for the Oceans, https://www.elysee.fr/admin/upload/default/0001/12/b5d45e25d5cdfd3180 c5b274c437bb351302cff7.pdf, dati disponibili anche in One Ocean Summit: nuove iniziative europee per preservare gli oceani, in est.360.it/enviromental/one-oceansummit-nuove-iniziative-europee-per-preservare-gli-oceani. (13) C., Cowan, https://news.mongabay.com/2022/04/oceans-conference-comes-up-with-16b-in-pledges-to-saveguard-marine-health, trad. Silvia Martinelli. (14) Horizon 2020 Programme, https://ec.europa.eu/programmes/horizon2020. (15) www.csiro.au/en/research/natural-environment/oceans. (16) Pabortsava, K., Lampitt, R.S., High concentrations of plastic hidden beneath the surface of the Atlantic Ocean. Nat Commun 11, 4073(2020), dati di High concentrations of plastic hidden beneath the surface of the Atlantic Ocean, in Nature Communications, disponibile in . (17) Dati nel report The Mediterranean: Mare Plasticum, Boucher, J., Billard, G., a cura dell’omonimo istituto, IUCN, Global Marine and Polar Programme, IUCN, 2020. (18) AA.VV., «Plasticenta: First evidence of microplastics in human placenta», in Enviromental International, vol. 146, January 2021, 106274, disponibile in inglese in https://doi.org/10.1016/j.envint.2020.106274. (19) https://www.unep.org/news-and-stories/press-release/historic-day-campaign-beat-plastic-pollution-nations-commit-develop. (20) Denominata «End Plastic Pollution: Towards an international legally binding instrument» Ris. UNEP/EA.5/L23/Rev.1, disponibile in https://wedocs.unep.org/bitstream/handle/20.500.11822/38522/k2200647_-_unep-ea-5-l-23-rev-1_-_advance.pdf?sequence=1&isAllowed=y. (21) Organisation for Economic Cooperation and Development (OECD), Global Plastic Outlook, testo integrale «Global Plastics Outlook: Economic Drivers, Environmental Impacts and Policy Options» disponibile in https://www.oecd-ilibrary.org/sites/de747aef-en/index.html?itemId=/content/publication/de747aef-en. (22) Direttiva (UE) 2019/904 del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 giugno 2019 sulla riduzione dell’incidenza di determinati prodotti di plastica sull’ambiente, in https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32019L0904.
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PRIMO PIANO
Lo ship recycling, verso una rotta «circolare». Problematiche, criticità e opportunità. Enrico Maria Mosconi (*) - Emilio Errigo (**) (*) Insegna Tecnologia e Gestione della Produzione e coordina la laurea magistrale in Circular Economy dell’Università degli studi della Tuscia presso il polo universitario di Civitavecchia. Membro di numerose commissioni e centri per lo studio su strategie tecnologiche, produzione e ambiente, dirige il Master per la Finanza Competitiva AIGEP, e partecipa al gruppo di lavoro UNI/CT057 per lo sviluppo dello standard sulla Circular Economy dell’ISO. Expert e coordinatore di team di esperti e studiosi nell’ambito dell’Europrogettazione presso la Commissione europea, coordina il nuovo Master in Transport Security and Cyber Protection dell’Università degli studi della Tuscia. (**) Prof. Gen. B. (aus), è docente di International Law of the Sea e Management of Port activities all’Università degli studi della Tuscia. Esperto internazionale in tecniche di scorta navale, sicurezza marittima e portuale, tutela e protezione personalità istituzionali e diplomatiche, negli spazi marittimi, fluviali e lacuali. È direttore del Comitato scientifico del Master universitario Transport Security, Safety and Cyber protection all’ Università degli studi della Tuscia. 22
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(European Commission).
Introduzione Nell’affascinante mondo degli oceani e dei mari, si staglia con contorni netti e precisi, la Convenzione delle Nazioni unite sul diritto del mare (UNCLOS). Con i suoi 320 articoli e ben 9 allegati, rappresenta la Magna Carta degli oceani, mari, fondi e sottofondi delle acque marine del globo, che coprono per oltre il 70%, della superficie del nostro pianeta terra, che a stretto rigore del vero, si sarebbe dovuto chiamare «Pianeta Mare o Pianeta Blu». La Convenzione internazionale sul (nuovo) diritto del mare, firmata nel 1982, a Montego Bay - Giamaica, ha visto impegnati sin dagli anni 70 e fino agli anni 90, la maggior parte degli Stati costieri e privi di litorale, compresi gli Enti territoriali e non. Una grande, calibrata e ben riuscita, opera di codificazione delle norme internazionali consuetudinarie, di cui all’articolo 38, dello Statuto della Corte internazionale di Giustizia, enucleate in un testo da definirsi storico per la difesa, protezione e preservazione degli spazi marittimi e oceanici, ivi compresi i fondi, sottofondi, colonne d’acqua sovrastanti, con risorse viventi e presenti, in questo fantastico mondo blu. Con questa riflessione a più mani e pensiero costruttivo, si vuole fornire il proprio contributo per la «difesa del mare e delle coste», vera ricchezza universale da preservare e salvaguardare a beneficio della vita e benessere economico, delle presenti e future generazioni. Il mondo scientifico universitario nazionale vede in prima linea d’azione, l’Università della Tuscia di Viterbo, con il Polo Specialistico di Civitavecchia, considerato d’eccellenza internazionale, di economia circolare, aziendale, sicurezza dell’economia del mare, dei trasporti intermodali sostenibili, portualità, logistica, scienze ambientali e biologia del mare. Inoltre, è bene ricordare, che con la legge n. 91 del 14 giugno 2021 — titolata: Istituzione di una Zona Economica Esclusiva (ZEE) oltre il limite esterno al mare territoriale, (G.U. Serie Generale n.148 del 23/06/2021), in conformità alla Convenzione delle Nazioni unite sul diritto del mare, (Montego Bay 1982) ratificata in Italia, con legge n.689 del 2 dicembre 1994 — è stata autorizzata l’istituzione della ZEE, con enormi benefici economici e diritti esclusivi e sovrani dello Stato costiero, quale è l’Italia (1).
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Lo ship recycling, verso una rotta «circolare». Problematiche, criticità e opportunità.
Gli oceani e l’economia del mare Gli oceani coprono circa il 70% della superfice totale del pianeta e assorbono il 30% delle . Molte società nelle aree costiere fanno affidamento alle attività marittime per il loro sostentamento. Tuttavia, la qualità e la biodiversità degli ecosistemi marini stanno subendo enormi impatti dovuti principalmente alle attività antropocentriche dell’uomo condotte su mare e terra. L’economia del mare integra una vasta gamma di attività economiche dal turismo costiero e marittimo al trasporto marittimo, alla cantieristica navale e attività portuali, alla pesca e all’acquacoltura e alle energie rinnovabili offshore. L’attività connessa allo sviluppo è indubbiamente il trasporto marittimo (2). Il trasporto via mare è la spina dorsale dell’economia globale, infatti, oltre il 90% delle merci scambiate viaggia sul mare, ed è fisicamente impossibile da sostituire con un altro mezzo di trasporto (3). Sia previsioni del WTO (4) che quelle OCSE (5), concordano sul fatto che entro il 2030 il commercio marittimo e le attività connesse potrebbero superare la crescita economica globale nel suo complessivo, sia in termini di valore aggiunto e occupazionale. Se da una parte questo comparto rappresenta il motore del commercio mondiale, dall’altro, le navi hanno un impatto significativo in termini di inquinamento, e questo non solo durante il periodo di servizio, ma anche alla fine della loro vita. L’attuale flotta mercantile mondiale comprende 99.800 navi, di cui circa il due per cento raggiunge il fine vita ogni anno. In media, la vita utile di una nave oscilla, a seconda della tipologia di imbarcazione, dai 20 ai 30 di servizio. Attualmente l’industria della demolizione di navi obsolete contamina mari e suoli, mettendo in serio pericolo la biodiversità marina e danneggia la salute dei lavoratori. Sicuramente mettere a condizione di riciclo una nave, significa anche dover tenere conto del valore dell’inventario di tutti i materiali presenti e recuperabili, capaci di instaurare un mercato di materie prime seconde. Un valore di tipo circolare che se pianificato correttamente potrebbe cambiare lo scenario e le dinamiche ambientali di impatto dello ship recycling aprendo la strada verso nuovi modelli di business puliti e circolari. C’è una crescita di aspettativa politica a dimensione globale, sulla necessità di puntare, non soltanto su strumenti che applichino il
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I lavoratori tirano una corda legata a una piattaforma petrolifera dismessa per smantellarla presso il cantiere navale Alang, nello stato occidentale del Gujarat, India, il 29 maggio 2018 (REUTERS/Amit Dave).
principio di «chi inquina paga», ma anche su meccanismi economici che aiutino a colmare il divario di competitività che si prospetta della imprescindibile futura gestione green delle attività produttive. Si stima che i materiali riciclabili rappresentino tra il 95 e il 98% del peso leggero di una nave. Il riciclaggio delle navi si riferisce al loro processo di smantellamento con lo scopo di estrarre e recuperare materiali, come l’acciaio, che comprende il 95% del materiale utilizzato per la costruzione di una nave, e altre categorie come le leghe di rame bonificate, titanio e leghe di titanio, alluminio e piombo e varie apparecchiature elettroniche che possono essere riutilizzate o decostruite per i loro materiali preziosi. È facile intuire quindi che il valore di una nave a fine vita dipende sicuramente dai prezzi sottostanti ai mercati delle relative materie prime. Invece i tassi (il costo) di demolizione dipendono anche da altri fattori come dal costo del lavoro e dalle misure ambientali seguite e implementate nei cantieri. Qui si apre un mondo dove i metodi di demolizione navale più redditizi sono anche quelli «più pericolosi» sia per quanto riguarda la sicurezza dei lavoratori e sia per gli impatti ambientali.
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zione; di queste, 583 grandi petroliere, bulker, piattaforme offshore, cargo e navi da crociera sono state demolite con metodi scadenti. Nella tabella seguente sono riportati per le diverse aree geografiche i numeri delle navi con la relativa stazza lorda smantellata nel 2021: Tabella 1: navi e relativa stazza lorda smaltita nelle diverse aree geografiche nel 2021 (ONG Shipbreaking «2021 list of all ship dismantled all over the world»).
Destinazione Bangladesh India Pakistan Turchia Resto del mondo EU
La geografia dello ship recycling e le pratiche irresponsabili Le coste dell’Asia meridionale testimoniano un’industria il cui bilancio ambientale e sanitario necessitano urgentemente di un cambiamento, tali pressioni sono dovute alle tecniche di smantellamento e agli standard degli impianti di riciclaggio non conformi alle norme internazionali sulla sicurezza dei lavoratori e sulla protezione dell’ambiente marino. Secondo i dati diffusi dalla NGO ShipBreakingPlatform ogni anno tra le 800 e le 1.100 navi approdano sulle coste dell’Asia meridionale per essere smantellate, applicando tecniche di disassemblaggio scadenti. Paesi quali India, Bangladesh e Pakistan, gestiscono insieme l’80% GT (Gross Tonnage) smaltita a livello globale. L’attrattività del business della rottamazione e riciclaggio delle navi in questi paesi è determinato dall’elevato prezzo offerto dai cantieri situati nel Sud-Est asiatico per l’acquisto della nave e dalle deboli normative e standard in ambito ambientale e di sicurezza sul lavoro. Secondo dati diffusi dalla NGO ShipBreakingPlatform (6) nel 2021: 763 navi commerciali oceaniche sono state vendute ai cantieri di demoli-
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N°navi
Gross Tonnage
254 210 119 77 66 37
8.036.554 3.144.135 2.972.585 1.368.929 387.278 104.983
La scelta della destinazione per il riciclaggio di una nave è determinata dal metodo di demolizione più redditizio. Esistono quattro metodi principali di riciclaggio delle navi che variano in termini di costi, sicurezza e impatto ambientale, questi sono: – Arenamento: metodo con standard minimi di sicurezza ambientale e sicurezza sul lavoro, viene utilizzato in Bangladesh, India e Pakistan. In media un cantiere che utilizza tale metodo può pagare per l’acquisto della nave fino a $600 (7) per ldt (tonnellata di materiale leggero da dislocare). Questo metodo consiste nel trasportare le navi su distese fangose durante l’alta marea. Una volta che la marea si ritira la nave viene messa a terra e centinaia di lavoratori tagliano manualmente i pezzi dalla nave. – Sbarco: metodo standard simile all’arenamento, utilizzato principalmente in Turchia. Il prezzo offerto per l’acquisto di una nave con tale metodo può variare dai $250 ai $270. – Rottura lato molo: la rottura a lato molo è un metodo standard utilizzato in Cina, UE e Stati Uniti, che assicura la nave a un molo in acque riparate. L’offerta per l’acquisto di una nave varia $100-$150 per ltd. – Bacino di carenaggio: la rottura delle navi in bacino di carenaggio è un metodo standard utilizzato in Cina, negli Stati Uniti e nell’UE. Questo metodo è il più sicuro dal punto di vista ambientale ma anche il più costoso. L’offerta per l’acquisto della nave varia dai $100-$150 per ltd.
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Il surplus economico dovuto alla vendita delle navi in centri di riciclaggio scadenti, non ha incentivato molti armatori al riciclo «verde», ovvero un riciclo conforme alle normative e agli standard internazionali per la sicurezza lavorativa e ambientale. Di conseguenza, i costi vengono esternalizzati alle comunità più povere. La persistente difficoltà del management di fine vita delle navi, nonché del riciclaggio dei relativi materiali, è una problematica di dimensione mondiale risolta da comportamenti che tendono a eludere i regolamenti internazionali in potenziale condizione di Dumping. Gli acquirenti in contanti pagano il prezzo più alto per le navi fuori uso e sono intrinsecamente legati ai cantieri di spiaggiamento. Gli acquirenti in contanti cambiano le bandiere delle navi in bandiere di comodo (Panama, Liberia, Palau, Isole Marshall, Comoros, Gabon) e registrano nuova-
– la Convenzione di Basilea (8), firmata da 187 parti il 22 giugno 2020, ha lo scopo di ridurre al minimo il trasferimento transfrontaliero di rifiuti pericolosi dalla sua origine (principalmente nei paesi sviluppati) ai paesi meno sviluppati, ma l’applicazione delle sue disposizioni alle navi fuori uso è un compito impegnativo; – la Convenzione di Hong Kong (9) del 2009 dell’Organizzazione marittima internazionale (IMO) utilizza un approccio più sistematico. I regolamenti della Convezione riguardano: la progettazione, la costruzione, l’esercizio e la preparazione delle navi in modo da facilitare il riciclaggio sicuro e rispettoso dell’ambiente, senza compromettere la sicurezza e l’efficienza operativa delle navi; il funzionamento degli impianti di riciclaggio delle navi in modo si-
mente le navi con nuovi nomi e società di caselle postali anonime, così da illudere il diritto internazionale e rendere difficile rintracciare gli armatori o gli acquirenti in contanti. Il principale mercato che invia navi in disarmo alla demolizione è l’Unione europea.
curo e rispettoso dell’ambiente; e l’istituzione di un adeguato meccanismo di applicazione per il riciclaggio delle navi, che incorpori requisiti di certificazione e rendicontazione. Un’appendice alla Convenzione fornisce un elenco di materiali pericolosi la cui installazione o uso è vietata o limitata nei cantieri navali, nei cantieri di riparazione navale e nelle navi. I cantieri di riciclaggio delle navi dovranno fornire un piano di riciclaggio delle navi, per specificare il modo in cui ogni singola nave sarà riciclata, a seconda delle sue particolarità e del suo inventario. L’entrata in vigore della Convenzione avviene dopo la firma di 15 Stati che rappresentano il 40% del traffico mercantile mondiale. La Conven-
Il quadro normativo dello ship recycling, soluzioni esistenti e circolari Per affrontare le controversie legate al giusto smaltimento delle navi e la mappatura dei rifiuti pericolosi, la comunità internazionale ha tentato attraverso due Convenzioni di risolvere e mitigare il fenomeno del riciclaggio delle navi e dei relativi oneri ambientali e sociali. Tali Convenzioni sono:
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zione non è ancora entrata in vigore, attualmente è stata ratificata da 15 Stati che rappresentano il 29,42% del traffico mercantile mondiale. L’Unione europea ha preso una posizione attiva sulla questione dello smantellamento delle navi sin dall’introduzione dello Ship Recycling Regulation (10), che è in gran parte ispirato dalla Convenzione di Hong Kong. Il 20 novembre 2013 il Parlamento europeo e il Consiglio dell’Unione europea hanno adottato il regolamento (UE) N. 1257/2013 relativo al riciclaggio delle navi. Dal 31 dicembre 2018 secondo l’art. 2 del Regolamento, le navi battenti bandiera dell’UE di stazza superiore a 500 GT devono essere riciclate in impianti di riciclaggio sicuri e rispettosi dell’ambiente. L’elenco è stato istituito per la prima volta in data 19 dicembre 2016 ed è periodicamente aggiornato per aggiungere ul-
eventuali rischi di elusione dell’elenco europeo. Un incentivo finanziario avrebbe lo scopo di annullare il divario in termini di profitto fra lo smantellamento in cantieri non conformi alle regole e quello in cantieri che figurano nell’elenco europeo. In questa dinamica i quadri legislativi vincolanti europei per la demolizione sostenibile e riciclaggio delle navi in impianti «autorizzati», e della strategia per la «licenza di riciclaggio delle navi», si pone la questione della sostenibilità industriale dei processi ma soprattutto dell’internalizzazione del costo sociale. Un aspetto, quello legato alle certificazioni di idoneità al riciclaggio, che oggi unisce forma e sostanza nell’evoluzione dei criteri di autorizzazione per gli impianti. Ciò al fine di garantire anche un regime di ispezione efficace in termini di compliance ai regolamenti relativi alla demoli-
teriori agevolazioni conformi, o, in alternativa, per rimuovere strutture che hanno cessato di ottemperare. L’elenco comprende strutture che operano in territorio UE ed extra-UE. La Decisione di esecuzione (UE) 2021/1211 ha riconosciuto 44 impianti idonei agli standard di riciclaggio delle navi in territorio UE e nove impianti idonei in territorio extra-UE, è da sottolineare che nessun impianto situato nel Sud-Est asiatico rientra tra gli standard europei né tantomeno è ricompreso nella lista degli impianti idonei. Per rendere competitivo e stimolare il mercato del riciclaggio all’interno dei paesi UE, il Regolamento EU 1257/2013 all’art.29 e al considerando 19, si allude a un potenziale strumento di natura finanziaria come misura di emergenza contro
zione delle navi. Nelle loro attività, le organizzazioni impegnate nella ricerca di soluzioni sostenibili su scala globale dal segretariato della Convenzione di Basilea, l’ILO e l’IMO, stimolano a inquadrare la questione in un ragionamento unico di valorizzazione del costo sociale in termini di opportunità imprenditoriale oltre i «piani nazionali di ship-recycling». Secondo l’ultimo rapporto sul trasporto marittimo, la flotta mercantile mondiale tenderà ad aumentare nei prossimi decenni e di conseguenza si prospetta un aumento dello smantellamento delle navi. Trovare soluzioni che riescano a mitigare il fenomeno portando una convergenza nel settore mettendo in risalto i principi di sostenibilità sembra un’impresa ardua e difficile da programmare nel tempo.
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Ipotizzare un mercato green per il settore del riciclaggio delle navi si traduce in un mercato dove l’ottimazione della gestione del flusso di materie prime seconde, secondo un approccio «end of waste», incoraggiano lo sviluppo di un commercio business to business per l’approvvigionamento di materie prime, seconde e materie prime critiche al fine di migliorare la progettazione a monte e il recupero a valle per nuovi processi industriali (11). Bisogna considerare che i futuri sviluppi sono condizionati dalle diverse variazioni del prezzo dei materiali utilizzati per le navi. A oggi, con l’acciaio che rappresenta la maggior parte del materiale recuperabile di una nave, ciò che può condizionare la decisione di demolizione di una nave, è l’andamento dei prezzi per tonnellata di acciaio riciclato, che mostra una dinamica rialzista; ciò può far ipotizzare un crescente aumento nella richiesta di demolizione. Non solo, i prezzi dei materiali, ma anche la corsa all’approvvigionamento, può influenzare la decisione.
Riflessioni In una prospettiva di eco-neutralità (12) una nave green ha sotto controllo tutti i suoi aspetti ambientali. Essa sarebbe frutto di una progettazione circolare, cioè fatta con metodi avanzati di impiego dei materiali e dell’energia, in cui tutti i componenti sono pensati per essere continuamente riutilizzati nei progetti futuri, riducendo gli sprechi. Un incessante sistema di smontaggio, recupero e riassemblaggio, fatto di sviluppo dei mercati verdi intersettoriali e di filiere di prossimità, danno vita a un’industria fatta di flussi circolari delle risorse. Materie prime, seconde e materie prime critiche scambiate in un network di mercati green grazie a
passaporti digitali, possono rendere fluido e gestionale un sistema di economia circolare. Dimostrare che è possibile costruire un sistema circolare per il settore navale non deve essere teoria. Per orientare tutti gli attori verso la strada di una strategia di sistema, non soltanto è necessario un ampio esercizio di consultazione delle parti coinvolte sul terreno comune del valore delle risorse, come anche richiesto dall’ultima comunicazione della Commissione europea, ma bisogna inquadrarla a livello temporale. Flussi di investimento produttivi che, se da una parte avviano un percorso di crescita verso la realizzazione di impianti moderni e mercati green su scala mondiale, dall’altra sono uno strumento strategico di cooperazione e di presenza internazionale per lo sviluppo di infrastrutture a sostegno di un obiettivo ambientale a lungo termine. Non solo, i tempi e le abilità politiche, ma anche un cambio di prospettiva, una visione ambientale nel fare industria, permettono l’allocazione ottimale degli investimenti che diano una ricaduta di sistema nella strategia verde di riciclaggio delle navi all’altezza delle aspettative politiche per l’ambiente. Investire contemporaneamente, nei tempi giusti, sia in impianti extra UE per un’idoneità effettiva degli impianti e della sicurezza sociale e ambientale e, in un’ottica di più a lungo termine nell’adattamento degli impianti UE può essere un moltiplicatore di forza non soltanto in termini di capacità complessiva ma anche di competitività industriale che spinge in alto gli standard nel campo dello «smontaggio» delle navi e permette di attivare le filiere dei mercati green. Un percorso di coesione operativa della diplomazia industriale green per fare vivere nuove dinamiche di mercato. 8
NOTE (1) Errigo A., Focus Europa-Un miliardo di euro per gli oceani, Alis Magazine n.6/2022. (2) Mosconi Enrico Maria, Lo Ship Recycling tra Dumping e Circular Economy, Alis Magazine n.2/2022. (3) The Review of Maritime Transport 2021, UNCTAD. (4) OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio), in inglese WTO (World Trade Organization), è un’organizzazione internazionale istituita per supervisionare gli accordi commerciali tra gli stati membri. Attualmente vi aderiscono 164 paesi. (5) OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico). L’ OCSE è un organizzazione internazionale di studi economici per i paesi membri, paesi sviluppati aventi in comune un sistema di governo di tipo democratico e un’economia di mercato. (6) The Toxic Tide. NGO ShipBreaking Platform. (7) GMS Report, The Ship Recycling, 2020. (8) Basel Convention on the control of transboundary movements of hazardous wastes and their disposal. (9) Hong Kong International Convention for the safe and environmentally sound recycling of ships. (10) Regolamento (UE) n. 1257/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 novembre 2013 relativo al riciclaggio delle navi e che modifica il Regolamento (CE) n. 1013/2006 e la Direttiva 2009/16/CE. (11) Mosconi Enrico Maria, Lo Ship Recycling tra Dumping e Circular Economy, Alis Magazine n.2/2022. (12) Enrico M. Mosconi, audizione presso la 13 Commissione del Senato territorio, ambiente, beni ambientali del 19/05/2020, «Dal waste recycling al waste prevention: panoramica e considerazioni critiche alla luce del nuovo piano d’azione europeo per l’economia circolare».
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PRIMO PIANO
Blue Economy e la minaccia del crimine organizzato transnazionale Renato Caputo
Docente di Diritto internazionale e normative sulla sicurezza nell’ambito del Master universitario di secondo livello in Scienze informative per la sicurezza presso l’Università degli Studi eCampus di Novedrate (CO).
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Conferenza FWW 2020 New York – Sala Assemblea Generale Nazioni Unite (archivio autore).
Il Prof. Caputo interviene alla Conferenza FWWMUN 2020 New York – Sala Assemblea Generale Nazioni unite (archivio autore).
N
el settore dell’economia oceanica sostenibile, la comunità internazionale è da diversi anni preoccupata dalla minaccia rappresentata dalle attività criminali. Tanto i decisori politici quanto i ricercatori scientifici stanno approfondendo lo studio delle dinamiche dell’economia sommersa blu e del ruolo distruttivo della criminalità organizzata all’interno di questa economia. Nel 2008 l’Assemblea generale delle Nazioni unite
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ha lanciato un allarme sulla «possibile connessione tra la criminalità organizzata internazionale e la pesca illegale in alcune regioni del mondo» (1). L’ONU ha esortato gli Stati a indagare sul collegamento tra la criminalità organizzata transnazionale e l’economia oceanica, «tenendo presente i distinti regimi giuridici e rimedi previsti dal diritto internazionale applicabili rispettivamente alla pesca illegale e alla criminalità organizzata internazionale». Nel 2011 è stato prodotto un rapporto completo che mette in evidenza la vulnerabilità del settore della pesca globale a molteplici tipi di criminalità, molti dei quali erano riconducibili al crimine organizzato. Il rapporto raccomandava una risposta collettiva da parte delle Forze dell’ordine al problema, successivamente ripresa dalla Commissione delle Nazioni unite per la prevenzione della criminalità e la giustizia penale, per prevenire la criminalità organizzata transnazionale in mare (2). Nel 2013, l’INTERPOL ha istituito un gruppo di lavoro sulla criminalità nel settore della pesca, per poter
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coordinare al meglio le operazioni congiunte di contrasto delle reti transnazionali della criminalità organizzata. Nel 2019 il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite ha ulteriormente considerato la criminalità organizzata transnazionale in mare una minaccia per la pace e la sicurezza internazionali (3). Le lezioni apprese sono state condivise con la comunità internazionale in occasione di simposi internazionali annuali, che hanno portato all’adozione di una Dichiarazione ministeriale sulla criminalità organizzata transnazionale nel settore della pesca globale (Dichiarazione di Copenaghen) nel 2018. La Dichiarazione traccia un percorso di impegno globale per combattere la criminalità organizzata transnazionale nel settore della pesca e per aiutare a promuovere un’economia blu sostenibile. Nel 2020, una ricerca del World Resources Institute ha presentato lo stato attuale delle conoscenze su come la criminalità organizzata nel settore della pesca ostacoli la realizzazione di un’economia oceanica sostenibile, analizzando i vari tipi di reato che rientrano nel termine «criminalità della pesca» e quali misure pratiche possano essere adottate per contrastare questa fattispecie di crimine (4).
Unione europea: economia blu sostenibile e strumenti di finanziamento Il 17 maggio 2021 la Commissione europea ha presentato un nuovo approccio per realizzare un’economia blu sostenibile nell’UE, in linea con l’invito del Green Deal europeo a trasformare la nostra economia in un’economia efficiente e competitiva, eliminando progressivamente le emissioni di carbonio, proteggendo l’ambiente e la biodiversità e non lasciando indietro nessuno. Il 3 maggio 2022, a Strasburgo, è stata approvata la Risoluzione del Parlamento europeo verso un’economia blu sostenibile nell’UE, che si è focalizzata specificatamente sul ruolo dei settori della pesca e dell’acquacoltura. Questa Risoluzione interpreta il convincimento della Commissione europea che dovessero essere elaborati orientamenti strategici specifici finalizzati allo sviluppo competitivo e resiliente dei settori della pesca e dell’acquacoltura, garantendo la fornitura di alimenti nutrienti e salutari e creando posti di lavoro.
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Enorme importanza è stata data alla promozione della ricerca e dell’innovazione, senza dimenticare la tutela dell’ambiente e della biodiversità. La Risoluzione mira a definire un’agenda generale per il conseguimento di tali obiettivi, in modo da sostituire l’idea di una «crescita blu» incontrollata con l’idea di un’«economia blu sostenibile» basata sulla protezione dei tre pilastri della sostenibilità, ovvero la sostenibilità ambientale, sociale ed economica. Allo scopo di migliorare l’accesso ai finanziamenti e la prontezza agli investimenti per le start-up, le imprese in fase iniziale e le PMI (5) è stato istituito il Fondo europeo per gli Affari Marittimi e la Pesca (FEAMP), il cui programma operativo è stato approvato, al termine della procedura di consultazione, dalla Commissione europea nel 2015 (6). Tra il 2016 e il 2021 il FEAMP ha assegnato oltre 65 milioni di euro alle PMI che sviluppano progetti con prodotti, tecnologie e servizi innovativi per la Blue Economy (7). Sono stati finanziati quasi 60 progetti, inclusi molti progetti che supportano la biodiversità e la rigenerazione degli ecosistemi attraverso l’innovazione. Nel 2019 e nel 2020 il processo di selezione è stato rafforzato per porre maggiormente l’accento sulla prontezza del mercato. In particolare, i bandi Blue Economy Window/BlueInvest si sono rivelati molto efficaci nell’identificare e sostenere le tecnologie promettenti in fase iniziale e le PMI. Nel 2020, la Commissione europea ha collaborato con il Fondo Europeo per gli Investimenti (FEI) per lanciare il Fondo BlueInvest finalizzato a finanziare fondi azionari che supportino le società innovative della Blue Economy. BlueInvest Fund è stato strutturato nell’ambito del prodotto azionario del Fondo Europeo per gli Investimenti Strategici (FEIS) con una garanzia FEIS di 75 milioni di euro. A oggi, il FEI ha erogato con successo finanziamenti per la Blue Economy, superando in definitiva l’obiettivo iniziale di 75 milioni di euro. Sulla base di un invito ai gestori di fondi, sono stati approvati quattro accordi per un importo di 85 milioni di euro (comprese le risorse proprie del FEI) e un quinto accordo di 15 milioni di euro nell’ambito di InnovFin Equity (8). Ciò ha portato il totale degli impegni dei fondi approvati o
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Blue Economy e la minaccia del crimine organizzato transnazionale
private equity possono svolgere un ruolo fondamentale nei prossimi anni nel sostenere lo sviluppo di tecnologie e innovazioni sostenibili che contribuiranno alla conservazione degli oceani, delle coste, della vita marina e della Blue Economy in generale. Occorrerà, però, vigilare per evitare che la criminalità organizzata possa mettere le mani su queste ingenti risorse finanziarie. L’interesse da parte della criminalità organizzata per questo settore non è nuovo. Basti pensare ai molteplici reati che si verificano in mare e che rappresentano una minaccia per la pace e la sicurezza. Tra essi, senza dubbio, debbono essere inclusi i reati commessi nel settore della pesca.
Le minacce alla sicurezza in mare Conferenza FWWMUN 2020 New York - da sinistra verso destra: il Prof. Renato Caputo, l’Amb. Stefano Stefanile, Vice Rappresentante Permanente d’Italia presso le Nazioni unite a New York, l’Amb. Rocco Antonio Cangelosi, già Consigliere Diplomatico del Presidente della Repubblica Italiana (archivio autore).
firmati a 100 milioni di euro e l’importo totale previsto del capitale mobilitato (con investimenti privati) a 300 milioni di euro. Basato sul modello BlueInvest, Portugal Blue, è stato lanciato uno strumento di finanziamento nazionale da 50 milioni di euro con il sostegno del Fondo Europeo per gli Investimenti (FEI). Con la firma di questi cinque accordi, il FEI prevede di concludere il lancio di questa iniziativa e di aprire la strada a un programma di scale up nel prossimo Quadro multi-finanziario. Nel marzo 2022 è stata annunciata una nuova iniziativa azionaria dedicata, nell’ambito InvestEU, che mobiliterà fondi dell’Unione Europea per ulteriori 500 milioni di euro in favore degli intermediari finanziari che investono in questo settore. Lo storico annuncio è stato dato dal commissario Virginijus Sinkevičius (9), insieme a Roger Havenith (10). È stato inoltre comunicato che le attività della piattaforma proseguiranno a operare fino al 2026. Ciò si tradurrà in 1,5 miliardi di euro di finanziamento del rischio a disposizione delle PMI e delle start-up della Blue Economy innovative e sostenibili, tramite intermediari finanziari. I finanziamenti governativi, il capitale di rischio e il
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I «conflitti di pesca», che possono derivare da una combinazione di fattori, tra cui la pesca illegale, sono riconosciuti come una potenziale minaccia alla sicurezza marittima e ai mezzi di sussistenza e c’è una letteratura crescente sull’argomento (11)(12)(13). Nel Golfo di Guinea, numerose attività criminali organizzate in mare minacciano la pace e la sicurezza, tra cui pirateria e rapine a mano armata, sequestri a scopo di riscatto, rapine e contrabbando di carburante e gas, traffico di droga e armi e pesca illegale. Ciò incide negativamente sulle basi economiche degli Stati della regione attraverso, per esempio, l’aumento dei premi assicurativi per le navi mercantili, che ostacola la circolazione di beni e servizi e si traduce in una perdita di reddito per le imprese e per i Governi, con conseguente aumento del prezzo di beni e servizi (14). In Nigeria, per esempio, la pirateria e le rapine a mano armata in mare comportano una riduzione dell’apporto del settore della pesca nazionale al prodotto interno lordo (PIL), poiché un minor numero di navi paganti con licenza è disposta ad andare in mare (15). Inoltre, i pescatori costieri che temono di prendere il mare in Nigeria a causa degli attacchi violenti di pescherecci illegali sono stati reclutati da reti criminali organizzate impegnate in rapine e contrabbando di petrolio, e le donne che si occupavano della vendita del pesce, in alcuni casi, sono state indotte alla prostituzione (16). Nel 2019, una risoluzione del Consiglio di sicurezza ha espresso preoccupazione per i legami tra il terrori-
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Blue Economy e la minaccia del crimine organizzato transnazionale
smo internazionale e la criminalità organizzata, compresa la criminalità organizzata transnazionale in mare (17). Il Consiglio di Sicurezza ha ulteriormente evidenziato la complessa relazione tra la pesca illegale su larga scala e il crimine internazionale di pirateria, come definito nel diritto internazionale del mare delle Nazioni unite (18) nelle acque somale dell’Oceano Indiano. Per realizzare un piano d’azione antipirateria efficace, la comunità internazionale deve essere in grado di sviluppare una sempre maggiore collaborazione multilaterale tra i paesi.
La criminalità organizzata ostacola un’economia oceanica sostenibile Per raggiungere un’economia oceanica sostenibile è necessario bilanciare l’uso dello spazio oceanico e delle sue risorse con la capacità di carico a lungo termine degli ecosistemi oceanici (19). In linea con il concetto a tre pilastri dello sviluppo sostenibile nell’ambito del processo di Rio, un’economia oceanica sostenibile dovrebbe basarsi sull’uso sostenibile dell’oceano da una prospettiva economica, sociale e ambientale (20). L’Agenda 2030 (adottata al vertice delle Nazioni unite sullo sviluppo sostenibile il 25 settembre 2015) estende le tre dimensioni della sostenibilità a cinque aree di importanza critica (vale a dire: persone, prosperità, pace, partenariato e pianeta), a cui dovrebbero improntarsi gli interventi politici sinergici tra agenzie per consentire il raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDG). La criminalità organizzata, nel settore della pesca, può seriamente compromettere la possibilità di realizzare una serie di SDG, come: fame zero (21), lavoro dignitoso e crescita economica (22), consumo e produzione responsabili (23) e «vita sott’acqua» (24). L’obiettivo di sviluppo sostenibile 16, che riguarda «pace, giustizia e istituzioni forti», ha un ruolo fondamentale per affrontare le varie manifestazioni della criminalità organizzata nel settore della pesca (25). Solo a titolo esemplificativo, basti pensare alle comunità costiere che, non avendo reali opzioni economiche alternative, diventano facile preda delle organizzazioni criminali, laddove depredate della fonte di sostentamento primario costituita dalla pesca.
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Economia sommersa blu: minaccia per la pace e la sicurezza Nel 2012, alla Conferenza Rio + 20 (26), venne coniata la definizione di «economia blu», a sottolineare che questa economia rappresenta la parte marina della più ampia «economia verde», finalizzata a conseguire un miglioramento del benessere umano e dell’equità sociale, riducendo al contempo in modo significativo i rischi ambientali e le scarsità ecologiche. Il moderno settore della pesca è, come molti altri settori economici, globalizzato, industrializzato e integrato nel mercato finanziario mondiale; è quindi ugualmente esposto alla criminalità organizzata. D’altro canto, la criminalità organizzata nel settore della pesca non è un elemento nuovo. Basti pensare, per esempio, che il famigerato Al Capone sfruttò l’industria della pesca per la produzione di rum negli anni 20 (27)(28). Le conseguenze di questa «economia sommersa blu», però, vanno ben oltre il danneggiamento dell’ecosistema oceanico. Rappresenta una vera e propria minaccia per la pace e la sicurezza internazionale, in quanto — rendendo impossibile il raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile — mette in pericolo la sicurezza alimentare e distrugge le già fragili società costiere. Gli oceani sono fonte di sussistenza per circa 520 milioni di persone che dipendono dalla pesca o dal suo indotto, senza poi parlare degli oltre 2,6 miliardi di persone che mangiano pesce come alimento base. Tuttavia, la pesca illegale mette a repentaglio la crescita dell’economia blu, la sicurezza nazionale, la sicurezza alimentare e i diritti umani. Questo risulta ancor più evidente nel Pacifico, dove la pesca illegale spesso viene praticata impunemente. Ciò è particolarmente vero per i paesi in via di sviluppo che non possono permettersi un sistema di gestione e controllo della pesca costoso e complicato come quelli realizzati nelle acque territoriali europee. I ricercatori ritengono che la pesca illegale e non regolamentata venga praticata principalmente nei paesi che presentano fenomeni corruttivi su larga scala, una legislazione ambigua in materia o strutture inadeguate per dare piena attuazione alle leggi adottate per disciplinare questo settore.
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Blue Economy e la minaccia del crimine organizzato transnazionale
Diversi esperti hanno suggerito che le opportunità di corruzione possono anche essere ridotte attraverso modifiche al modo in cui vengono negoziati le licenze di pesca e gli accordi di accesso. A livello nazionale, i comitati multi-stakeholder potrebbero essere impiegati per supervisionare le decisioni sulle licenze, invece che questo ruolo sia svolto da un solo funzionario o dipartimento. Anche la capacità di tracciare il movimento dei frutti di mare dalla fonte all’uso finale può aiutare a smascherare le pratiche illegali e creare catene di approvvigionamento trasparenti a sostegno della sostenibilità marina e dei diritti umani. La Seafood Alliance for Legality and Traceability (SALT) è un’iniziativa che si muove in tal senso. La SALT rappresenta una comunità globale di governi, industria ittica e organizzazioni non governative che lavorano insieme per condividere idee e collaborare a soluzioni per prodotti ittici legali e so-
stenibili, con un focus particolare sulla tracciabilità: la capacità per monitorare il movimento dei prodotti ittici attraverso le catene di approvvigionamento. Affrontare la pesca illegale porterà allo sviluppo inclusivo e all’empowerment delle persone che dipendono dagli oceani per la propria alimentazione o per il proprio lavoro. È fondamentale riconoscere che la democrazia, il buon governo, la rule of law, a livello nazionale e internazionale, nonché un ambiente favorevole, sono essenziali per sviluppare una crescita economica inclusiva, garantendo sviluppo sociale, protezione dell’ambiente e lo sradicamento della povertà e della fame. Per contrastare, nell’ambito della Blue Economy, la minaccia transnazionale del crimine organizzato c’è bisogno di istituzioni a tutti i livelli che siano efficaci, trasparenti, responsabili e democratiche. 8
NOTE (1) Assemblea generale delle Nazioni unite. Pesca sostenibile, anche attraverso l’Accordo del 1995 per l’attuazione delle disposizioni della Convenzione delle Nazioni unite sul diritto del mare del 10 dicembre 1982 relativa alla conservazione e alla gestione degli stock ittici transzonali e degli stock ittici altamente migratori, e strumenti correlati. Risoluzione ONU A/RES/63/112, 2008, https://undocs.org/en/A/RES/63/112. (2) Commissione per la prevenzione della criminalità e la giustizia penale. Dichiarazioni sulle implicazioni finanziarie presentate alla Commissione per la prevenzione della criminalità e la giustizia penale prima dell’esame dei progetti di risoluzioni nella sua ventesima sessione. Rapporto n. E/CN.15/2011/21 (UN ODC, 2019). (3) Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite. Mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. La criminalità organizzata transnazionale in mare come minaccia alla pace e alla sicurezza internazionali. 8457a Riunione del rapporto del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite n. S/PV.8457 (UNSC, 2019). (4) Witbooi E., Ali K.D., Santosa M.A. e altri, Organized Crime in the Fisheries Sector. Washington, DC, World Resources Institute, 2020, https://oceanpanel.org/bluepapers/organised-crime-associated-fisheries. (5) Piccole e Medie Imprese. (6) Decisione di esecuzione n.C (2015) 8452 del 25 novembre 2015. (7) Addamo A., Calvo Santos A., Guillén J., e altri, The EU blue economy report 2022, European Commission, Directorate-General for Maritime Affairs and Fisheries, 2022, https://data.europa.eu/doi/10.2771/793264. (8) Il programma InnovFin Equity è un prodotto finanziario lanciato dalla CE e dal FEI nell’ambito di Orizzonte 2020. Fornisce investimenti azionari e co-investimenti a o insieme a fondi di investimento, concentrandosi su aziende nelle prime fasi di sviluppo, operanti in settori innovativi coperti di Orizzonte 2020 (InnovFin Equity (europa.eu)). (9) Virginijus Sinkevičius è un politico lituano, commissario europeo con il portafoglio per l’ambiente e gli oceani dal 2019. È stato membro del Seimas della Repubblica di Lituania e ministro dell’Economia e dell’innovazione del suo paese. (10) Vicedirettore generale del Fondo Europeo per gli Investimenti (FEI). (11) Okafor-Yarwood I., «The cyclical nature of maritime security threats: illegal, unreported and unregulated fishing as a threat to human and national security in the Gulf of Guinea», African Security 13(2), 2020, pp. 116-146. (12) Spijkers J. e altri, Global patterns of fisheries conflict: forty years of data, Global Environmental Change, Volume 57, luglio 2019, 101921. (13) Pomeroy R. e altri, Fish wars: conflict and collaboration in fisheries management in Southeast Asia, Marine Policy, Volume 31, 6, novembre 2007, pp. 645-656. (14) Gilpin R., Enhancing Maritime Security in the Gulf of Guinea. Strategic Insights, Volume VI, gennaio 2007. (15) Onuoha F., Piracy and Maritime Security in the Gulf of Guinea: Nigeria as a Microcosm, Al Jazeera Center for Studies, 2012. (16) Okafor-Yarwood I. op.cit. (17) Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite. Minacce alla pace e alla sicurezza internazionale. Risoluzione 2842/2019 del Consiglio di sicurezza. 8582a Riunione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite n. S/RES/2842 (UNSC, 2019). (18) ONU, United Nations Convention on the Law of the Sea (UNCLOS), articolo 101, 1982. (19) Kraemer R.A., A Sustainable Ocean Economy, Innovation and Growth: A G20 Initiative. CIGI Policy Brief n. 113, Centre for International Governance Innovation, 2017, www.cigionline.org/ publications/sustainable-ocean-economy-innovation-and-growth-g20-initiative. (20) ONU, The Future We Want: Outcome Document of the United Nations Conference on Sustainable Development, 2012, https://sustainabledevelopment.un.org/content/documents/733FutureWeWant.pdf. (21) Sustainable Development Goal 2: Zero Hunger. (22) L’obiettivo di sviluppo sostenibile 8 riguarda «lavoro dignitoso e crescita economica» ed è uno dei 17 obiettivi di sviluppo sostenibile stabiliti dall’Assemblea generale delle Nazioni unite nel 2015. (23) L’SDG 12 vuole garantire il benessere della popolazione attraverso l’accesso all’acqua, all’energia e agli alimenti, riducendo allo stesso tempo il consumo eccessivo delle risorse naturali. (24) Sustainable Development Goal 14. (25) Kercher J., Fisheries crime and the SDGs: the call and the tools for interagency cooperation, FishCRIME, 2018. (26) La Conferenza delle Nazioni Unite sullo Sviluppo Sostenibile (UNCSD), venne comunemente denominata RIO +20 in quanto tenutasi a 20 anni di distanza dal Vertice della Terra di Rio de Janeiro UNCED del 1992. Risoluzione RES/64/236 del 23 dicembre 2009. (27) Ensign E.S., Intelligence in the Rum War at Sea, 1920–1933 (Joint Military Intelligence College, 2001), https://ni-u.edu/ni_press/pdf/Intelligence_RUM_WAR.pdf. (28) Demont J., Maritime Drug Smuggling and Rum-Running, Maclean’s magazine, pubblicato online 17 maggio, 2002, ultimo aggiornamento: 30 giugno 2020, www.thecanadianencyclopedia.ca/en/article/maritime-drug-smuggling-and-rum-running.
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PANORAMICA TECNICO-PROFESSIONALE
Soccorso ai sottomarini sinistrati: il S.A.V.E.R. italiano (Submarines Assistance Ventilation Equipment and Rescue) (1)
Gennaro Vitagliano
Capitano di Fregata di Stato Maggiore. Ha frequentato la Scuola Navale Militare Francesco Morosini di Venezia. Nominato Guardiamarina nel 1992 ha ricoperto numerosi incarichi a bordo dei sottomarini. È stato capo servizio operazioni del Gruppo Sommergibili. Ha comandato nave Astice e successivamente è stato imbarcato come Comandante in II^ su nave Foscari partecipando all’operazione Enduring Freedom. Ha prestato servizio presso il 5° Reparto Sommergibili dello Stato Maggiore della Marina quale capo sezione personale. Nel 2017 ha assunto la direzione dell’International Submarine Escape and Rescue Liaison Office (ISMERLO) della NATO a Northwood in Inghilterra, dove ha gestito e coordinato personalmente gli eventi che hanno riguardato il sommergibile argentino ARA SAN JUAN e successivamente quello Indonesiano KRI NANGALA, è stato anche a capo del Gruppo di lavoro che ha redatto la nuova edizione della pubblicazione NATO ATP 57. È attualmente capo del 5° Ufficio Submarine Escape and Rescue del 5° Reparto Sommergibili presso lo Stato Maggiore della Marina.
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«U
nlike air crashes, submarine accidents frequently have survivors, which makes the imperative of developing rescue capabilities even more acute» (2). Questa affermazione, apparentemente semplice, racchiude in sé la complessità della gestione di un sottomarino sinistrato che richiede, in estrema sintesi, la perfezione nelle risposte. Come noto, i sottomarini sono mezzi dalle caratteristiche peculiari che, a similitudine degli aeromobili, operano in uno spazio tridimensionale. Circa quarantuno nazioni nel mondo sono dotate di una flotta sottomarina più o meno moderna a cui sono affidate diverse tipologie di missioni. Data questa premessa, un sottomarino sinistrato indica che il battello non è in grado di emergere autono-
mamente, ovvero che il suo equipaggio non può abbandonare il mezzo nel più classico dei modi usando i mezzi di salvataggio di superficie, quali scialuppe o battelli autogonfiabili, in dotazione a tutte le navi e natanti di ogni ordine. Prestare quindi soccorso all’equipaggio di un sottomarino sinistrato (concetto reso con l’acronimo DISSUB - Distressed Submarine) vuol dire essere in grado di mobilitare efficacemente uomini altamente addestrati e specializzati e mezzi dedicati ovunque nel mondo. Per l’equipaggio di un sottomarino sinistrato le uniche due alternative di fuoriuscita sono: la procedura autonoma di ciascun membro dell’equipaggio, classificata internazionalmente come ESCAPE, oppure l’assistenza ai membri da parte di mezzi di soccorso esterni che provvedono a riportarli in superficie. Ciò viene identificato con il termine inglese RESCUE. In passato, durante gli albori del «sommergibilismo», i mezzi a disposizione erano poco complessi e principalmente progettati per navigare in superficie e all’uopo immergersi per brevi periodi a quote poco profonde. In quel periodo si sono avuti per lo più incidenti causati da difetti progettuali e errori umani provocati da una inevitabile mancanza di esperienza nella conduzione del mezzo stesso. In sostanza, nelle fasi più remote della sommergibilistica i sistemi di salvataggio si
Nave ANTEO.
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Soccorso ai sottomarini sinistrati: il S.A.V.E.R. italiano
focalizzarono sull’applicazione di metodi di fuoriuscita individuale, basati quasi esclusivamente su autorespiratori singoli, derivanti da quelli in uso nelle miniere di carbone. Ad esempio, il 17 gennaio del 1911 (3) ventisette marinai tedeschi dell’U-3 fuoriuscirono attraverso i tubi lanciasiluri usando gli autorespiratori tedeschi «Dräger» di chiara derivazione commerciale. A ogni buon conto lo sviluppo tecnologico negli anni venti e trenta del secolo scorso, progredì rapidamente tanto che il compito del sommergibile passò dalla difesa della propria base a quella delle coste nazionali. Tale passaggio di impiego implicava il fatto che ora il sommergibile offensivo era capace di compiere la propria offesa nelle acque nemiche (4). Tuttavia, nonostante tale cambio di impiego del mezzo, di contro non si registrarono significativi progressi nel campo della fuoriuscita dei mezzi di soccorso collettivi, ma soltanto evidenti passi in avanti nel miglioramento delle maschere individuali. A partire dalla seconda metà degli anni 20 a seguito di una serie di incidenti occorsi a sommergibili statunitensi il capitano di corvetta Charles B. Momsen, ufficiale sommergibilista americano, «conceived a concept of marine rescue chamber that could be lowered from the surface to mate with a submarine’s hatch and proposed through official channels» (5). Negli anni il Progetto di Momsen fu perfezionato dal comandante Allan Rockweel McCann; pertanto nel 1930 la marina statunitense iniziò la produzione di dodici esemplari di quella che ancora oggi è conosciuta come Submarine Rescue Chamber (SRC), nota anche come «Campana McCann». Con l’avvento di tale strumento di salvataggio, si poté assistere all’impiego del primo vero mezzo di soccorso in favore dei sommergibili sinistrati. Nel
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1939, grazie alla SRC fu possibile soccorrere i membri del sommergibile americano USS Squalus affondato su un fondale di circa 70 metri a causa di una serie di avarie alle proprie valvole (6). Col proseguire del tempo l’evoluzione tecnologica del mezzo e con essa il mutamento degli scenari operativi in cui i sommergibili sarebbero stati destinati a operare, spesso molto lontano dai sorgitori amici, indussero l’industria a creare nuovi mezzi atti al soccorso. La prima risposta fu affidata alla creazione di navi dedicate al soccorso sommergibili, ovvero armate con apparecchiature fisse dedicate, nonché da spazi medici e logistici per il personale soccorritore ma anche per gli equipaggi salvati. Si sviluppò quindi il concetto di Mother Ship (noto con l’acronimo MOSHIP) ossia una nave esclusivamente dedicata al soccorso sommergibili. Con l’avvento dell’era moderna nucleare, la limitata velocità di una unità navale, le problematiche connesse alle manutenzioni e agli approntamenti così come l’ormai globale bacino di gravitazione dei sommergibili atomici e convenzionali, hanno dato impulso a uno nuovo concetto di mezzo di soccorso che doveva rispondere a requisiti diversi. Sono stati perciò introdotti i concetti di trasportabilità aerea, di modularità, di interoperabilità e di autonomia. La Marina Militare italiana, da sempre all’avanguardia nel soccorso ai sommergibili, ha raccolto la sfida dotandosi di un sistema che si può definire di assoluta eccellenza. Tale sistema è denominato con la sigla S.A.V.E.R. (Submarines Assistance Ventilation Equipment and Rescue) (7) e si compone di una miscellanea di sottosistemi trasportabili e dedicati al recupero di naufraghi da un sottomarino sinistrato unitamente a specifici trattamenti iperbarici.
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Soccorso ai sottomarini sinistrati: il S.A.V.E.R. italiano
Il complesso sistema si compone di due sottosistemi distinti: Intervento Subacqueo (SIS) e Soccorso e Recupero (SRS). Il principio di funzionamento di entrambi i sistemi prevede che le apparecchiature siano fisicamente connesse al sommergibile attraverso: connettori e prese esterne per quanto concerne la ventilazione; mentre per il trasferimento del personale in superficie è necessario che il modulo o la campana di soccorso siano agganciate alla mastra del battello attraverso il cosiddetto effetto ventosa. I succitati sottosistemi sono riassumibili come segue: – SIS, ovvero Submarine Intervention Systems (8); questi sono tutti quegli assetti che, in funzione dello scenario SMER (Submarine Escape and Rescue) (9) in atto, operano in primis per mantenere in vita i naufraghi, fino all’avvenuta evacuazione dal sommergibile sinistrato (DISSUB), e forniscono supporto generico in superficie e in immersione. Nel SIS sono inclusi anche i sistemi che permettono il trasporto di materiali da e verso il DISSUB e/o il recupero di personale in particolari condizioni operative (fino a 300 metri e senza necessità di ri-compressione dei naufraghi in superficie). Pertanto, in dettaglio, seppur sinteticamente, il sottosistema SIS si compone dei seguenti «elementi»: • VS sistema di ventilazione di emergenza del DISSUB; • IZ sistema di insufflazione casse zavorra dall’esterno del DISSUB; • SRC campana di soccorso; • WROV veicolo a controllo remoto e filoguidato per attività lavorative.
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– SRS, ovvero il Submarine Rescue System (10); si tratta di tutti quegli assetti che, nella loro interezza, sono necessari per recuperare e trattare i naufraghi di un DISSUB fino ad una quota operativa di 600 metri e una pressione interna del DISSUB fino a 6 bar assoluti. Questo sottosistema si articola nelle seguenti componenti: • SRV mezzo di soccorso filoguidato (modulare per differenti payload oltre alla capsula di soccorso); • PLARS sistema di lancio e recupero del mezzo di soccorso; • DDC complesso di camere iperbariche di decompressione; • FASD complesso di sistemi ausiliari di supporto.
Il sistema è reso indipendente operativamente dalla piattaforma su cui è installato dai sistemi ausiliari facenti parte del FASD (cfr. supra). Occorre rimarcare che i componenti del sistema S.A.V.E.R. sono realizzati per essere trasportati in modalità intermodale, cioè impiegando per il trasporto unità di carico (quali container, moduli, ecc.) in grado di essere facilmente trasferite su diversi mezzi di trasporto (come navi, camion e treni) ed essere portate a destinazione compresa la movimentazione su velivoli (11). Il sistema italiano S.A.V.E.R. qui sopra sommariamente descritto, se confrontato con gli esistenti sistemi di soccorso e intervento per i sottomarini sinistrati, risulta essere al momento quello più avanzato, in quanto caratte-
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Soccorso ai sottomarini sinistrati: il S.A.V.E.R. italiano
Nave ANTEO - Messa a mare della campana subacquea SDC.
rizzato da un pool di sistemi che massimizzano la probabilità di successo. Il S.A.V.E.R. può operare in piena sicurezza anche in avverse condizioni meteo marine e perfino in presenza di una corrente sottomarina elevata grazie alla soluzione filoguidata del SRV che massimizza la potenza installata sui propulsori del veicolo garantendo, altresì, una «endurance» praticamente illimitata in termini di approvvigionamento-potenza e svincolando la
durata della missione di soccorso dalla capacità delle batterie installate a bordo dei veicoli free-flying. Il sistema rappresenta il punto focale nella organizzazione di una risposta, a un eventuale allarme, assolutamente rodata e performante che coinvolge attori eterogenei che devono essere sincronizzati nell’immediatezza. Pertanto, se da un lato i sottomarini hanno fatto passi da gigante anche i sistemi di soccorso hanno saputo adeguarsi ai tempi e ai mutati scenari garantendo ai professionisti degli abissi una possibilità concreta di salvataggio. Sono così passati cinquecento anni da quando il genio di Leonardo da Vinci intuì il sottomarino meccanico (12) e quasi quattrocento da quando l’olandese Cornelius Van Drebbel costruì materialmente il primo sottomarino dandone dimostrazione a re Giacomo I d’Inghilterra (13). I sottomarini continuano a far sognare e a far pensare ma anche a porre problemi di come salvare l’equipaggio in caso di un distress. L’Italia, con la Sua Marina Militare, ha posto un punto di particolare rilievo in questa affascinante storia che avrà, come ogni cosa di rilievo, ulteriori e proficui sviluppi. 8
NOTE (1) Apparecchiatura per l’assistenza, la ventilazione e il soccorso ai sommergibili. (2) A differenza di un incidente aereo, di frequente accade che in un incidente occorso a un sommergibile ci siano dei superstiti e ciò rende imperativo che la capacità di inviare soccorsi sia molto efficace. Cfr. Goldstein L. - Murray W., International Submarine Rescue: A Constructive Role for China?, in «Asia Policy» n. 5, January 2008, pp. 167-183. (3) Cfr. Lockwood C. A. - Adamson H. C., Hell at 50 Fathoms, Mishawaka (IN) USA 1952. (4) Cfr. Hezlet A. R., Storia dei sommergibili. La guerra subacquea dalle origini all’era atomica, London 2018, p. 87. (5) Ideò e propose, attraverso i canali ufficiali preposti, un concetto di camera iperbarica marittima che potesse essere calata dalla superficie fino a raggiungere la mastra del sommergibile e fare ventosa. Cfr. Maas P., The Rescuer, London 1968, p. 51. (6) Cfr. Maas P. The terrible Hours: the Man Behind the Greatest Submarine Rescue in «History», New York 1999, p. 49. (7) Apparecchiatura per l’assistenza, la ventilazione e il soccorso ai sommergibili. (8) Sistemi di intervento su sommergibile. (9) Soccorso e fuoriuscita da un sommergibile. (10) Sistema di soccorso a un sommergibile. (11) Si tratta, in concreto, di velivoli modello C-130J e C-130J-30 come requisito primario e come requisito secondario comunque sui velivoli inseriti nella lista associata ai requisiti di trasportabilità dei mezzi di soccorso NATO quali C-17, C-5 e AN-124. (12) Tale idea leonardesca, ritrovata nel foglio 881v del Codice Atlantico, era un progetto ambizioso e militarmente micidiale poiché il «sottomarino» di Leonardo era progettato per essere agganciato sotto la prua di una imbarcazione; questo avrebbe dovuto funzionare con un motore a pedali e l’operatore nascosto al suo interno lo avrebbe impiegato per raggiungere la nave nemica e sabotarla. (13) Il sommergibile di Van Drebbel, si immerse a 3-4 metri nel Tamigi. BIBLIOGRAFIA Goldstein L. - Murray W., International Submarine Rescue: A Constructive Role for China?, in «Asia Policy» n. 5, January 2008, pp. 167-183. Hezlet A. R., Storia dei sommergibili. La guerra subacquea dalle origini all’era atomica, London 2018. Lockwood C. A. - Adamson H. C., Hell at 50 Fathoms, Mishawaka (IN) USA 1952. Maas P., The Rescuer, London 1968. Maas P. The terrible Hours: the Man Behind the Greatest Submarine Rescue in «History», New York 1999.
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PANORAMICA TECNICO-PROFESSIONALE Charles Rogier politico e capo della rivoluzione belga lascia Liegi alla guida dei volontari. Dipinto di Charles Soubre (1878) (wikipedia.org).
I modelli di neutralità del Belgio, dell’Austria e della Finlandia Rodolfo Bastianelli Nato a Roma il 5 novembre 1969. Laureato in Giurisprudenza a Roma, ha effettuato un corso di specializzazione post-laurea presso l’Institut Français des Relations International (IFRI) a Parigi. Dopo aver lavorato presso le riviste Ideazione e Charta Minuta, dal 2011 segue la politica estera per L’Occidentale. È professore a contratto di Storia delle relazioni internazionali e collabora inoltre con LiMes, Informazioni della Difesa, rivista di politica, affari esteri e il settimanale on-line dello IAI, Affari Internazionali. Collabora con la Rivista Marittima dal 2009.
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Il ministro degli esteri austriaco Leopold Figl mostra il trattato firmato, dal balcone del Belvedere a Vienna il 21 maggio 1955 (clooney.at).
I soldati finlandesi alzano una bandiera al confine norvegese dopo l’espulsione degli ultimi soldati tedeschi (wikiwand.com).
Il conflitto in Ucraina, oltre le conseguenze che sta avendo sul piano geopolitico e degli equilibri internazionali, sta ripresentando anche il dibattito su una questione che si credeva ormai appartenente a un’altra epoca storica, ovvero quella della neutralità stabilita per un paese da un accordo internazionale e garantita da una serie di Stati terzi. Le soluzioni proposte in queste settimane sullo status di cui potrebbe disporre l’Ucraina una volta terminato il conflitto sono essenzialmente quelle fissate per la Finlandia e l’Austria al termine della Seconda guerra mondiale, due esempi di neutralità che tuttavia presentano tra loro delle differenze sostanziali. Da alcuni osservatori è stato poi anche avanzato il modello deciso per il Belgio nel 1839 e rimasto in vigore fino allo scoppio del primo conflitto mondiale.
Il modello di neutralità del Belgio (1839-1914) Lo status di neutralità stabilito per il Belgio traeva origine dagli eventi che seguirono la conclusione delle guerre napoleoniche. Conquistato dalle truppe francesi e annesso alla Francia nel 1795, una volta sconfitto Napoleone i paesi della «Quadruplice Alleanza» — Rus-
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sia, Gran Bretagna, Prussia e Austria — dietro le pressioni di Londra decisero però che nessuna parte di territorio belga dovesse essere lasciato sotto il controllo francese. Il Belgio venne così riunito con la «Repubblica delle Province Unite» in un regno comune pro-
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I modelli di neutralità del Belgio, dell’Austria e della Finlandia
prio nell’intento di formare uno «Stato cuscinetto» funconflitto mondiale a un significativo cambiamento alzionante da barriera qualora in futuro si fosse ripresenl’interno della politica belga. Il rapido incremento dei tata una nuova politica di espansionismo francese (1). rapporti commerciali con Berlino aveva difatti portato Tuttavia, l’unione di queste due realtà estremamente nel 1910 la Germania a diventare il principale partner diverse al loro interno, terminò con la rivolta della poeconomico del Belgio superando la Francia, tanto che polazione belga che nell’agosto 1830 allontanò gli gran parte dell’opinione pubblica aveva ormai un atolandesi da Bruxelles proclamando l’indipendenza del teggiamento filo-tedesco lasciando le sole Forze armate Belgio che venne riconosciuta il 20 gennaio 1831 dalla ancora orientate verso una posizione filo-francese. In conferenza di Londra. questo quadro, il Belgio si trovò quindi ad affrontare Al termine di diversi anni di lavori preparatori, Gran gli eventi che portarono allo scoppio del conflitto nel Bretagna, Austria, Belgio, Prussia, Francia e Paesi 1914 in una situazione non certo favorevole vista anche Bassi firmavano nel 1839 il «Trattato di Londra», il l’impreparazione e la debolezza delle forze militari del quale all’art. 7 richiedeva al Belgio di rimanere neupaese. Così quando il 24 luglio 1914 il Governo ribadì trale e alle potenze firmatarie di esercitare il ruolo di la sua neutralità, il ministro tedesco a Bruxelles rispose garanti della neutralità del paese. Trent’anni più tardi, affermando che, qualora la Francia avesse usato il tercon lo scoppio del conflitto franco-prussiano, nell’agoritorio belga per un’azione offensiva contro la Germasto 1870 la Gran Bretagna, temendo una possibile ocnia, Berlino per tutelare i suoi interessi avrebbe cupazione del territorio belga da parte dei paesi occupato il paese e, in questo caso, se le autorità belghe belligeranti, firmò con la Francia e la Prussia due tratnon avessero collaborato, i tedeschi avrebbero consitati in base ai quali entrambi i paesi si impegnavano a derato il Belgio come uno Stato nemico. Davanti alla preservare la neutralità del Belgio durante il conflitto risposta negativa del Governo di Bruxelles, la Germa(2). In seguito, la posizione di neutralità del Belgio nia il 4 Agosto dichiarò così guerra al Belgio il cui tertrovò un’ulteriore conferma con la stipula della «Seritorio venne invaso e occupato dalle forze tedesche in conda Convenzione de L’Aia» del 1907, firmata e ratiaperta violazione della neutralità di cui Berlino era gaficata anche dalla Germania, la quale all’art. 1 rante secondo il trattato del 1839 (3). Terminato il conaffermava come il territorio di un paese neutrale era da ritenersi inviolabile e all’art. 2 dichiarava che alle parti belligeranti veniva anche interdetto all’interno di questo il transito di reparti militari e di mezzi d’approvvigionamento. Lo status di neutralità belga resse quindi sostanzialmente nonostante le tensioni internazionali accadute tra il XIX e il XX secolo, garantendo così al paese un momento di forte sviluppo economico e industriale che consentì a Bruxelles di avviare anche una politica di espansione coloniale conclusasi con l’acquisizione del territorio del Congo nel 1885. Ma proprio lo sviluppo economico condusse negli anni che Leopoldo III, re del belgio, passa in rassegna una colonna di carri armati, alla sua sinistra il ministro della guerra belga, il generale Denis (wikipedia.org). precedettero lo scoppio del primo
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I modelli di neutralità del Belgio, dell’Austria e della Finlandia
flitto, il Belgio e la Francia il 7 settembre 1920 stipularono un’intesa in base alla quale si stabiliva come i reparti militari belgi e francesi avrebbero preso parte all’occupazione della Renania e che i due paesi avrebbero provveduto inoltre a mobilitare i loro riservisti qualora la Germania avesse deciso di riarmarsi. Tuttavia nel 1936, all’indomani della rioccupazione della Renania da parte della Germania, re Leopoldo III affermò come da quel momento la politica estera del paese sarebbe stata «…completamente ed esclusivamente belga…», ovvero tornata a una posizione di neutralità. Questa, dopo gli eventi del secondo conflitto in cui il Belgio nel 1940 venne nuovamente occupato dalla forze tedesche, sarebbe stata poi definitivamente abbandonata nel 1949 con l’adesione di Bruxelles alla NATO (4).
Il modello di neutralità dell’Austria in base al «Trattato di Stato» del 1955
finisse nella sfera d’influenza sovietica. Nel 1947 si aprirono così i negoziati per definire l’assetto che avrebbe assunto lo Stato austriaco che si protrassero fino al 1955 alternando momenti di apertura e di rottura in base all’andamento delle relazioni tra Mosca e Washington. Questi vennero interrotti una prima volta nel 1949 dall’Unione Sovietica in risposta sia politica alla di assistenza attuata dagli Stati Uniti verso i paesi europei attraverso il «Piano Marshall» che alla decisione di istituire uno Stato tedesco indipendente nella parte occidentale posta sotto il controllo degli alleati, per essere poi ufficialmente sospesi dalla metà del 1950 fino al 1953. Tuttavia, la dirigenza sovietica iniziò a prendere atto come non solo una linea di chiusura non avrebbe impedito il riarmo della Repubblica Federale di Germania se non a rischio di un nuovo conflitto i cui costi sarebbero stati insostenibili per Mosca, ma che probabilmente la posizione intransigente nei negoziati sullo status dell’Austria, unita alla formazione del nuovo Stato tedesco-occidentale, sarebbe stata vista dai paesi dell’Europa orientale come una pesante sconfitta diplomatica dell’Unione Sovietica. Ma a spingere Mosca verso una posizione più pragmatica in merito alla conclusione del trattato sul futuro assetto dell’Austria vi era soprattutto la convinzione che la firma di un accordo sulla neutralità austriaca avrebbe impedito a Vienna di entrare nella NATO interrompendo inoltre le vie di comunicazione dirette tra la Germania e l’Italia (5). Così nel corso della «Conferenza di Berlino» del
Al termine del secondo conflitto mondiale, il territorio dell’Austria venne suddiviso in quattro zone d’occupazione controllate dalle potenze alleate vincitrici, mentre la capitale Vienna dal 1° settembre 1945 fu sottoposta a un’amministrazione quadripartita. Alla guida del Governo fu posto l’esponente del Partito Socialdemocratico Karl Renner, al cui esecutivo vennero progressivamente attribuite un crescente numero di competenze pur conservando comunque il «Consiglio Alleato» la funzione di controllo e supervisione sull’operato delle autorità austriache. Il clima tra le quattro potenze alleate iniziò però a peggiorare e, dopo la decisione delle autorità sovietiche di occupazione di procedere forzosamente all’acquisizione del campo petrolifero di Zisterdorf nelle vicinanze di Vienna, appariva evidente come Mosca non avesse più intenzione di collaborare con i paesi occidentali. Di conseguenza, gli Stati Uniti si convinsero come fosse opportuno avviare una conferenza per decidere lo status I festeggiamenti del Trattato di Stato austriaco, che ristabilì la completa sovranità nel 1955. Da allora Vienna ha sancito la propria neutralità (keystone). dell’Austria ed evitare che il paese
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1954, il ministro degli Esteri sovietico Molotov avanzò una proposta per la soluzione del problema austriaco nella quale si dichiarava come l’Austria non avrebbe dovuto ospitare sul suo territorio alcuna base militare di paesi stranieri o entrare a far parte di qualsiasi alleanza diretta contro gli Stati le cui Forze armate avevano partecipato alla guerra contro la Germania nazista e alla liberazione dell’Austria stessa. La risposta austriaca alla proposta sovietica fu quanto mai positiva, tanto che il Governo di Vienna dichiarò di vedere con favore la convocazione di una conferenza quadripartita, affermando inoltre che l’Austria non aveva l’intenzione di partecipare ad alcuna alleanza né di voler ospitare sul suo territorio basi militari di paesi stranieri o di aspirare a una nuova unione (Anschlüss) con la Germania, essendo inoltre disposta a fornire a Mosca le garanzie che riteneva necessarie per il raggiungimento dell’accordo. Le considerazioni austriache vennero accolte con favore dall’Unione Sovietica e il 24 marzo 1955 il ministro degli Esteri sovietico Molotov invitò il cancelliere austriaco Julius Raab a Mosca per i negoziati sul futuro status dell’Austria che iniziarono il 12 aprile per concludersi tre giorni dopo con la firma di quello che venne indicato come il «Memorandum di Mosca». Suddiviso in tre parti, questo ai punti 1 e 2 della prima obbligava Vienna a rilasciare una dichiarazione nella quale si affermava come l’Austria avrebbe seguito una forma di neutralità perpetua sul modello di quella adottata dalla Svizzera e che questa dichiarazione sarebbe stata poi presentata al Parlamento austriaco per l’approvazione una volta avvenuta la ratifica del trattato in discussione. Di seguito, al punto 3 si invitava Vienna a effettuare tutti i passi necessari per giungere al riconoscimento internazionale dello status di neutralità approvato dal Parlamento, mentre al punto 4 si affermava come fosse opportuno che le quattro potenze alleate dessero la loro garanzia sull’inviolabilità delle frontiere e l’integrità del territorio nazionale austriaco. Infine, nei punti 1 e 2 della parte seconda si enunciava come l’Unione Sovietica riconosceva la dichiarazione di neutralità dell’Austria impegnandosi, insieme alle altre tre potenze alleate, al rispetto dell’integrità territoriale austriaca. In seguito, il 26 ottobre 1955, il Parlamento di Vienna approvava
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lo statuto federale costituzionale sulla neutralità permanente dell’Austria (6). Dal punto di vista giuridico però la dichiarazione unilaterale di neutralità espressa da Vienna avrebbe avuto effetto solo se questa fosse stata riconosciuta dalla comunità internazionale (7). Così, vista la moderazione espressa da Mosca nei negoziati con l’Austria, Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia accettarono la proposta sovietica per avviare dei colloqui con i quali definire il futuro status dell’Austria che si aprirono a Vienna il 2 maggio 1955. Tenuti per due settimane dagli ambasciatori delle quattro potenze alleate, i negoziati registrarono il successo di Londra, Parigi e Washington nel limitare lo spazio di manovra che l’Unione Sovietica avrebbe avuto sulla politica austriaca, mentre Vienna da parte sua ottenne che venisse cancellata dal preambolo il riferimento alle responsabilità avute dall’Austria durante la guerra. Sul piano commerciale, era poi previsto che Vienna assicurasse la libera navigazione sul Danubio alle navi e alle merci di qualsiasi Stato (8). Il 15 maggio 1955 veniva quindi firmato il «Trattato di Stato» che venne ratificato dalle parti il successivo 27 luglio, mentre il 25 ottobre dello stesso anno le ultime Forze militari d’occupazione lasciavano l’Austria (9). Dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica e il cambiamento del quadro politico internazionale, l’Austria il 1° gennaio 1995 è entrata a far parte dell’Unione europea, mentre l’adesione alla NATO continua a rimanere sullo sfondo, essendo sostenuta solo da esponenti del Partito Popolare, la più importante formazione del centro-destra, tanto che, stando ai sondaggi, il 75% degli austriaci sostiene la neutralità del paese e l’80% è contrario all’ingresso nell’Alleanza Atlantica (10). E la conferma di questa posizione è venuta anche da quanto espresso dal cancelliere austriaco Karl Nehammer, il quale poco dopo l’inizio del conflitto in Ucraina ha affermato come «…l’Austria era neutrale, è neutrale e rimarrà neutrale…», escludendo quindi ogni ipotesi di ingresso di Vienna nella NATO (11).
Il modello di neutralità della Finlandia dopo il secondo conflitto mondiale Degli esempi di neutralità descritti in questa analisi, quello seguito dalla Finlandia è sicuramente il più strin-
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gente, tanto che non pochi analisti lo descrivono simile più a una «neutralizzazione» imposta dall’esterno che non a una scelta adottata autonomamente dal paese. Le ragioni che dopo il secondo conflitto mondiale portarono la Finlandia ad adottare questa linea politica vanno ricercate negli eventi avvenuti tra il 1939 e il 1944. Già tese dal momento in cui Helsinki conquistò l’indipendenza nel 1917 (12), le relazioni con Mosca sfociarono in un conflitto tra i due paesi esploso nel novembre 1939 quando l’Unione Sovietica attaccò il territorio finlandese. Con un Esercito debole e male equipaggiato e priva degli aiuti militari che Francia e Regno Unito avevano promesso di offrire, la Finlandia, dopo che nelle prime fasi del conflitto aveva seriamente impegnato le forze dell’Armata Rossa, si trovò all’inizio del 1940 praticamente impossibilitata a proseguire la guerra e così nel marzo dello stesso anno firmò a Mosca un trattato di pace le cui condizioni erano estremamente pesanti per Helsinki. L’anno se-
guente però, subito dopo l’attacco tedesco all’Unione Sovietica del giugno 1941, la Finlandia decise di riprendere le ostilità contro Mosca partecipando al conflitto come «co-belligerante» ma non «alleato» della Germania, respingendo il Governo finlandese tutte le proposte avanzate da Berlino per un accordo formale di alleanza e non partecipando all’assedio di Leningrado in quanto l’operazione non era nell’interesse del paese (13). E questa diversa posizione assunta nel conflitto venne riconosciuta sia dagli Stati Uniti, che non dichiararono guerra alla Finlandia, ma anche dalla stessa Unione Sovietica, la quale abbandonò la richiesta di una resa senza condizioni di Helsinki per accettare invece quella di un armistizio da raggiungere attraverso dei negoziati che fu concluso nel settembre 1944. Le clausole dell’armistizio furono estremamente severe per la Finlandia, che si vedeva obbligata a cedere all’Unione Sovietica un decimo del suo territorio la cui popolazione, pari a circa mezzo milione di per-
Jägers finlandesi a Vaasa (wikipedia.org).
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Sturmgeschütz III tedesco, in dotazione all'esercito finlandese, in marcia durante la guerra di continuazione 1941-44 (wikipedia.org).
sone, doveva essere ricollocata in altre aree del paese, a espellere i soldati tedeschi dislocati nelle regioni settentrionali e a corrispondere in otto anni, a titolo di risarcimento verso Mosca, dei prodotti industriali per un valore pari a 300 milioni di dollari americani. Inoltre, al paese era imposto di cedere in affitto all’Unione Sovietica la penisola di Porkkala, situata nelle vicinanze di Helsinki, dove i sovietici installarono una base militare equipaggiata con carri armati e armi pesanti (14), mentre nella stessa capitale del paese veniva insediata una «Commissione Alleata di Controllo» incaricata di verificare l’applicazione delle disposizioni. Infine, alla Finlandia era impedito di unirsi a qualsiasi alleanza internazionale. Tuttavia, a differenza di quanto previsto nelle condizioni di armistizio stabilite per gli altri paesi alleati della Germania, la Finlandia non vedeva però il suo territorio occupato dagli alleati conservando quindi la sua indipendenza e il proprio sistema politico e istituzionale (15). E nei primi anni del dopoguerra, proprio
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per segnalare all’Unione Sovietica come il paese fosse intenzionato a rispettare la sua neutralità e a migliorare i rapporti con Mosca, il presidente finlandese Juho Kusto Paasikivi (1946-56) prese due decisioni di rilevante significato politico, quali la scelta di non accettare gli aiuti economici statunitensi contenuti all’interno del «Piano Marshall» insieme alla decisione di processare alcuni importanti politici del paese che ebbero un ruolo di primo piano negli eventi del 1941-44. Ed è soprattutto su quest’ultima decisione che si accesero in Finlandia numerose polemiche. Stando a quanto previsto dall’art. 13 dell’armistizio concluso tra Finlandia e Unione Sovietica nel 1944, Helsinki era obbligata a collaborare con gli alleati per arrestare e processare le personalità accusate di crimini di guerra. Dietro pressioni della «Commissione Alleata di Controllo», il Parlamento finlandese approvò così la legge che rendeva possibile il processo contro i leader politici in carica durante il conflitto, ma gran parte dell’opinione pubblica e la stessa
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Corte Suprema ritenevano il provvedimento introdotto incostituzionale, in quanto questo definiva delle responsabilità penali con efficacia retroattiva andando quindi contro l’ordinamento legislativo finlandese (16). Ma a definire concretamente la politica di neutralità della Finlandia sarà il «Trattato di Amicizia, Cooperazione e Mutua Assistenza» firmato con l’Unione Sovietica il 16 aprile 1948 il quale costituirà la base dei futuri rapporti tra Helsinki e Mosca (17). Secondo l’art. 1 del trattato stesso, la Finlandia era obbligata a difendere con ogni mezzo la sua integrità territoriale qualora fosse stata attaccata dalla Germania o da un paese suo alleato oppure nel caso il suo territorio fosse stato utilizzato per un attacco contro l’Unione Sovietica. E in questa eventualità, se necessario, la difesa del territorio finlandese poteva avvenire con l’assistenza oppure congiuntamente alle forze sovietiche. Stando invece all’art. 2, era previsto che Mosca ed Helsinki tenessero delle consultazioni bilaterali qualora si fosse presentata una situazione di crisi inclusa tra quelle previste dal trattato (18). Tuttavia, il Governo finlandese cercherà fin dall’inizio di evitare il verificarsi di circostanze in grado di richiedere l’applicazione di questo articolo proprio per non dare alla comunità internazionale l’immagine di un paese allineato con l’Unione Sovietica, anche se nell’ottobre 1961 Mosca fu sul punto di invocarlo, suscitando così la preoccupazione di Helsinki (19). E la particolare posizione di Helsinki condusse gli ambienti diplomatici occidentali a coniare il termine «finlandizazzione», proprio per indicare la scelta di un paese di voler seguire una politica estera orientata a non creare tensioni con uno Stato vicino molto più potente. Difatti se da una parte la Finlandia aveva conservato un sistema politico democratico e multipartitico con un economia di mercato elementi che facevano rientrare il paese tra quelli indicati come «occidentali», dall’altro però la collocazione di Helsinki escludeva la Finlandia da quell’«area grigia», nella quale era invece inclusa la Svezia, che avrebbe potuto contare sul sostegno militare degli Stati Uniti in caso di attacco sovietico (20). Rinnovato nel 1955, nel 1970 e nel 1983 per una durata ventennale, con la dissoluzione dell’Unione Sovietica Helsinki e Mosca il 20 gennaio 1992, attraverso uno scambio di note, sancivano la cancellazione
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del «Trattato di Amicizia, Cooperazione e Mutua Assistenza» firmato oltre quarant’anni prima.
Considerazioni conclusive I tre modelli di neutralità sopra descritti presentano caratteristiche estremamente differenti tra loro. Quello del Belgio, riflette la concezione giuridica degli anni che vanno dal XIX secolo al primo conflitto mondiale. In quel periodo, i congressi internazionali delle potenze europee decidevano, in base a considerazioni geopolitiche e strategiche, di istituire un paese neutrale il cui status veniva garantito da uno o più stati terzi e che, come nel caso del Belgio, servisse da «cuscinetto» tra due potenze potenzialmente ostili. Completamente differenti sono invece i casi dell’Austria e della Finlandia. Annessa alla Germania nel 1938, l’Austria al termine del Secondo conflitto mondiale fu occupata dalle potenze Alleate e dall’Unione Sovietica, ma mantenne un proprio governo nazionale e venne considerata come una «vittima» della politica nazista. Con la firma del «Trattato di Stato» del 1954, l’Austria riacquistò la piena sovranità a condizione che restasse neutrale. Tuttavia, nei quarant’anni che vanno dal 1954 all’adesione austriaca all’Unione Europea, Vienna mantenne la sua piena sovranità interna, conducendo anche, pur nel rispetto di una linea di equidistanza tra i due blocchi, una politica estera contrassegnata da posizioni autonome come fu nel caso dell’atteggiamento tenuto verso Israele. Diverso è invece il caso della Finlandia, i cui rapporti con il potente vicino sovietico hanno caratterizzato gli equilibri interni del paese fin dalla sua indipendenza. La sconfitta seguita al conflitto del 1941-44 impose ad Helsinki non solo delle pesanti concessioni economiche e territoriali nei confronti dell’Unione Sovietica, ma anche delle severe limitazioni alla sua autonomia politica interna ed internazionale. Come riportato nel paragrafo precedente, lo status della Finlandia è più simile ad una «neutralizzazione» imposta dall’esterno, con delle condizioni così stringenti che non solo la politica estera finlandese, ma anche le sue stesse scelte politiche interne venivano a essere influenzate dall’atteggiamento e dalla posizione assunta dal Cremlino in quel determinato momento. 8 49
I modelli di neutralità del Belgio, dell’Austria e della Finlandia NOTE (1) Il «Regno Unito dei Paesi Bassi» si componeva di due territori differenti dal punto di vista economico, linguistico e religioso. La parte settentrionale era di lingua olandese, di religione protestante e con un economia in cui il commercio rappresentava il settore più importante, mentre la parte meridionale era cattolica, in parte francofona e con un economia a base industriale. E anche se formalmente i due gruppi nazionali erano posti su un piano paritario, il ruolo degli olandesi risultava nettamente predominante rispetto a quello dei francofoni, tanto che l’olandese costituiva la lingua ufficiale. Sulle vicende storiche dal 1815 al 1839 vedi William E. Lingelbach, Belgium Neutrality: Its Origins and Interpretation, in The American Historical Review, Vol. 39, Nr. 1, ottobre 1933, pagg. 48-72. (2) La Gran Bretagna aveva dichiarato che se Francia e Prussia, garanti della neutralità belga ma visti anche come potenziali occupanti del paese data la situazione, fossero venuti meno agli impegni assunti, le Forze militari britanniche sarebbero intervenute a tutela del Belgio e del suo status neutrale. Il Governo britannico aggiunse poi anche di essere disposto a unire i propri reparti unitamente a quelli dell’altro Stato garante della neutralità belga qualora uno dei paesi parte del trattato del 1839 avesse attaccato il Belgio. Vedi su questo A. G. De Lapradelle, The Neutrality of Belgium, in The North American Review, Vol. 200, Nr. 709, dicembre 1914, pagg. 847-857. (3) Il 4 Agosto 1914 il cancelliere tedesco Theobald von Bethmann-Hollweg, parlando dinanzi al «Reichstag» affermò: «…È vero che l’invasione del Belgio costituisce una violazione del diritto internazionale, ma in uno stato di necessità non si deve tenere conto della legge. La Francia si era impegnata a rispettare la neutralità belga, ma dalle informazioni in nostro possesso appariva invece evidente che le forze francesi erano pronte a occupare il paese…». In sostanza ammetteva che l’invasione del Belgio andava contro gli accordi sottoscritti pure da Berlino ma, trovandosi la Germania in uno «stato di necessità», questa situazione portava a non dovere tenere in considerazione quanto previsto dai trattati. E sempre Bethmann-Hollweg, in un colloquio tenuto lo stesso 4 Agosto con l’ambasciatore britannico a Berlino, Sir Edward Goschen, definì il trattato con cui si garantiva la neutralità del Belgio nient’altro che «un pezzo di carta». Vedi su questo Germany and the Neutrality of Belgium, apparso in The American Journal of International Law, Vol. 8, Nr. 4, ottobre 1914, pagg. 877-881. (4) Per effetto della decisione, Francia e Gran Bretagna firmarono nel 1937 una nuova intesa con il Belgio che sostituiva le disposizioni del trattato di Locarno del 1920 nonché quelle contenute nell’accordo militare franco-belga dello stesso anno. Vedi in proposito Pierre H. Laurent, The Reversal of Belgian Foreign Policy, 1936 – 1937, contenuto in Review of Politics, Vol. 31, Nr. 3, luglio 1969, pagg. 370-384. (5) Sugli eventi avvenuti tra il 1945 e il 1954 e le trattative per la definizione del futuro status dell’Austria vedi Robert L. Ferring, The Austrian State Treaty of 1955 and the Cold War, apparso su The Western Political Quarterly, Vol. 21, Nr. 4, dicembre 1968, pagg. 651-667. (6) Va poi evidenziata una differenza sostanziale tra quanto enunciato nel «Memorandum di Mosca», dove si fa riferimento al «tipo di neutralità seguito dalla Svizzera», e nello statuto approvato dal Parlamento austriaco, dove al contrario questo riferimento non è presente. Si deve inoltre aggiungere che lo status di neutralità permanente della Svizzera imponeva al paese di non presentare domanda di ammissione alle Nazioni unite, mentre nel testo del «Trattato di Stato» firmato con l’Austria le quattro potenze alleate si impegnavano «…ad appoggiare l’adesione austriaca all’ONU…». A detta degli esperti però la partecipazione di Vienna alle Nazioni unite non metteva in discussione la posizione austriaca, anche perché era prassi consolidata che i membri del «Consiglio di Sicurezza» avrebbero esentato uno Stato dalla neutralità permanente, come era appunto l’Austria, dal partecipare alle sanzioni economiche e militari approvate dal Consiglio stesso. (7) Lo statuto federale di neutralità approvato dal Parlamento austriaco esprimeva soltanto tre obblighi derivanti al paese da questa posizione, ovvero quello di non entrare a far parte di qualsiasi alleanza internazionale, di non concedere alcuna base militare a Stati stranieri e di difendere la neutralità dell’Austria con ogni mezzo. È opinione degli analisti che le prime due garanzie furono approvate per soddisfare le richieste dell’Unione Sovietica, mentre la terza venne votata dietro indicazione degli Stati Uniti. (8) Sui negoziati che portarono alla firma del «Trattato di Stato» e le disposizioni che vi sono contenute vedi Josef L. Kunz, The State Treaty with Austria, apparso in The American Journa of International Law, Vol. 49, Nr. 4, ottobre 1955, pagg. 535-542. (9) Vedi sull’argomento Josef L. Kunz, Austria’s Permanent Neutrality, apparso in The American Journal of Law, Vol. 50, Nr, 2, aprile 1956, pagg. 418-425. (10) As Finland and Sweden consider Nato membership, Austria clings to neutrality, The Statesman, 22 marzo 2022. (11) Austria to «stay neutral», says chancellor, Euractiv, 8 marzo 2022. (12) La Finlandia dal 1809 al 1917 costituì un Granducato autonomo all’interno dell’Impero russo. (13) La Finlandia non firmò il «Patto Tripartito» e a differenza degli altri paesi alleati dell’Asse non costituiva uno Stato autoritario, avendo difatti delle istituzioni di tipo democratico. Inoltre, il suo Governo non formulò alcuna politica imperialistica o improntata alla superiorità razziale, tanto che non venne mai attuata nessuna persecuzione contro gli ebrei. Tuttavia, Helsinki accettò che sul suo territorio stazionassero 200.000 militari tedeschi, un elemento questo che, a detta di diversi giuristi, rendeva la Finlandia un «co-belligernate indipendente» con una posizione non dissimile quindi a quella della Romania e dell’Ungheria. (14) L’area ritornò sotto il controllo della Finlandia nel 1956. (15) Vedi su questo Ralf Törngren, The Neutrality of Finland, apparso su Foreign Affairs, Vol. 39, Nr. 4, luglio 1961, pagg. 601-609. (16) Il processo che vedeva imputati l’ex-presidente della Repubblica Risto Ryti insieme all’Ambasciatore finlandese a Berlino e ad altre sei personalità politiche che avevano ricoperto ruoli di primo piano nel Governo, si concluse il 16 febbraio 1946 con una serie di condanne che però vennero ritenute dalla «Commissione Alleata di Controllo» non troppo severe. Venne così indetto un nuovo processo nel quale tutte le personalità coinvolte vennero condannate a pene tra i due e i dieci anni di carcere. Nessuno dei condannati scontò per intero la condanna venendo tutti graziati dal presidente Paasikivi. Vedi su questo Immi Tallgren, The Finnish War-Responsibility Trial in 1945–6: The Limits of Ad Hoc Criminal Justice? in Kevin Heller/Gerry Simpson, The Hidden Histories of War Crimes Trials, Oxford University Press, Oxford 2013. (17) Il testo del trattato è consultabile al sito http://heninen.net/sopimus/1948_e.htm. (18) A differenza delle intese firmate dall’Unione Sovietica con i paesi dell’Europa orientale, il trattato con la Finlandia lasciava tuttavia a Helsinki la competenza di difendere il proprio territorio, mentre non vi era nessuna disposizione che avrebbe attivato automaticamente l’assistenza militare sovietica, la quale inoltre doveva essere preceduta da consultazioni politiche bilaterali. Vedi in proposito Juhana Aunesluoma/Johanna Rainio- Niemi, Neutrality As Identity? Finland’s Quest for Security in the Cold War, apparso in Journal of Cold War Studies, Vol. 18, Nr. 4, autunno 2016, pagg. 51-78. (19) Due esempi illustrano bene quanto fosse penetrante l’azione dell’Unione Sovietica all’interno della Finlandia. Il primo avvenne nell’agosto 1958 quando, in un clima segnato da attacchi portati dai quotidiani finlandesi nei confronti di Mosca, a Helsinki venne formato un nuovo governo guidato da Karl-August Fagerholm dal quale erano esclusi i comunisti pur avendo conseguito alle elezioni il 25% dei voti, una scelta questa non gradita dal Cremlino che bloccò i negoziati bilaterali in corso su alcune importanti questioni avviando inoltre una serie di ritorsioni commerciali che ebbero pesanti effetti sull’economia finlandese. Pochi mesi dopo il Governo Fagerholm cadde e se da una parte gli Stati Uniti suggerirono alla Finlandia di non includere nella maggioranza il Partito Comunista, dall’altro l’Unione Sovietica dichiarò che non avrebbe accettato la partecipazione dei conservatori della «Coalizione Nazionale» e dei socialdemocratici. Alla fine, venne formato un esecutivo formato in maggioranza da esponenti del Partito Agrario del presidente Kekkonen che pose termine alla crisi. Il secondo si verificò nell’ottobre 1961 all’apice delle tensioni seguite alla costruzione del Muro di Berlino. Nell’occasione, il ministro degli Esteri sovietico Gromyko comunicò all’Ambasciatore finlandese a Mosca che «delle consultazioni bilaterali erano opportune per garantire la sicurezza delle frontiere dei due paesi alla luce dei pericoli posti dalla Germania e dai suoi alleati». Il ministro degli Esteri finlandese Karjalainen si incontrò con il suo omologo sovietico e il significato politico del colloquio era che Mosca intendeva rafforzare la sua posizione sul fianco orientale nei confronti degli Stati Uniti e della NATO. Vedi su questo l’analisi Why Finlandization Is a Terrible Model For Ukraine, apparso su Lawfare il 21 aprile 2022. (20) In base ai documenti recentemente declassificati, appariva evidente come la Finlandia non avrebbe potuto ricevere nessuna garanzia per la propria sicurezza dai paesi occidentali, per i quali Helsinki era considerata come la prima linea di difesa dell’Unione Sovietica. Se la Svezia in base a intese e impegni «non-ufficiali» avrebbe potuto contare sul sostegno statunitense, Washington, al contrario, dal 1968 aveva escluso per la Finlandia ogni possibilità di appoggio militare. Va poi ricordato come prima Khruscev nel 1956 e poi Gorbachev nel 1989 avevano ufficialmente riconosciuto la «neutralità» di Helsinki. Vedi su questo Klaus Tornudd, Finnish Neutrality Policy during the Cold War, apparso su «SAIS Review of International Affairs», Vol. 25, Nr. 2, estate/autunno 2005, pagg. 43-52.
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PANORAMICA TECNICO-PROFESSIONALE
La crisi ucraina sotto il profilo delle sanzioni economiche UE Tunno Daniele Antonio
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ono diverse le questioni poste dall’ultima grave evoluzione della crisi ucraina che purtroppo ha segnato questo inizio 2022. Gli argomenti che sicuramente bisogna considerare sulla questione concernono in primis profili specifici di diritto internazionale.
Il primo di essi riguarda la fondatezza o meno, in termini di rivendicazioni giuridiche, della narrazione del Presidente russo esposta nel «discorso alla nazione» tenuto la sera del 21 febbraio scorso. Altri aspetti connessi si riferiscono più specificamente ai due distinti «Ordini Esecutivi» sottoscritti da
Nel 2001 consegue la laurea in Giurisprudenza presso l’Università degli studi di Siena, portando a termine un percorso fortemente improntato su materie di diritto internazionale e comparato. Successivamente si trasferisce a Milano dove realizza un percorso professionale trasversale tra legale, amministrativo e commerciale maturando esperienze tra multinazionali, pubblica amministrazione e studi professionali. Attualmente ricopre il ruolo di Regulatory Compliance Expert in un importante gruppo bancario internazionale con sede nel capoluogo lombardo. È appassionato di storia dei trattati, storia moderna, politica internazionale e geopolitica.
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Putin sul riconoscimento unilaterale delle «Repubbliche Popolari» di Donetsk e di Lugansk, e sul fondamento giuridico con cui si è disposto l’intervento militare russo nell’area, ora dissimulato sotto forma di «peacekeeping». In questa sede però si intendono affrontare gli aspetti circa le sanzioni economiche poste in atto dall’Unione europea e le specifiche misure adottate dal nostro paese per fronteggiare l’emergenza sul piano militare, ma anche energetico e umanitario.
Misure UE In attuazione sia di risoluzioni ONU che di decisioni autonome prese nel quadro della politica estera di sicurezza comune (PESC), l’Unione europea ha già in
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passato emanato una serie di regolamenti recanti misure restrittive nei confronti dei regimi per contrastare l’attività dei paesi che minacciano la pace e la sicurezza internazionale. Facciamo riferimento a quei provvedimenti, che a partire dal 2006, sono stati adottati nei confronti dell’Iran e della Corea del Nord. Tali misure, per il nostro ordinamento, trovano fondamento normativo nel D.Lgs. 109/2007 - Misure per prevenire, contrastare e reprimere il finanziamento del terrorismo e l’attività dei paesi che minacciano la pace e la sicurezza internazionale, in attuazione della Direttiva CE 60/2005 (1). Ora con gli eventi della crisi Russia-Ucraina (che certo si trascina dal 2014) siamo entrati in una fase
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La crisi ucraina sotto il profilo delle sanzioni economiche UE
Mappa invasione russa in territorio ucraino (wikipedia).
nuova e senza precedenti: siamo — a mio giudizio — andati ben oltre la «minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale»: un paese (per giunta membro permanente del Consiglio di Sicurezza ONU), ha invaso un altro Stato nel cuore dell’Europa che — al netto delle guerre jugoslave tra il 1991 e il 2001 quale conseguenza estrema della dissoluzione di uno Stato quale appunto la Repubblica socialista federale di Jugoslavia — dalla fine della Seconda guerra mondiale non assisteva all’invasione — almeno in questi termini — di uno Stato da parte di un altro. Il 23 febbraio l’Unione europea ha adottato un pacchetto di misure restrittive relative ad azioni che compromettono o minacciano l’integrità territoriale, la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina, tra le quali misure di congelamento di fondi e risorse economiche nei confronti di soggetti designati: • Regolamento 259/2022 che modifica il Regolamento UE 269/2014 concernente misure restrittive relative ad azioni che compromettono o minacciano l’integrità territoriale, la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina (2)(3);
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Esercito ucraino (wikipedia).
• Regolamento UE 260/2022 che attua il Regolamento UE 269/2014 concernente misure restrittive relative ad azioni che compromettono o minacciano l’integrità territoriale, la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina (4); • Regolamento UE 261/2022 che attua il Regolamento UE 269/2014 concernente misure restrittive relative ad azioni che compromettono o minacciano l’integrità territoriale, la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina (5);
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La crisi ucraina sotto il profilo delle sanzioni economiche UE
• Regolamento UE 262/2022 che modifica il Regolamento UE 833/2014 concernente le misure restrittive a fronte delle azioni della Russia che destabilizzano la situazione in Ucraina (6)(7); • Regolamento UE 263/2022 concernente misure restrittive in risposta al riconoscimento delle zone non controllate dal governo delle regioni ucraine di Donetsk e Lugansk e la conseguente decisione di inviare truppe russe in tali zone (8); • Decisione PESC 264/2022 che modifica la Decisione PESC 512/2014 concernente misure restrittive in considerazione delle azioni della Russia che destabilizzano la situazione in Ucraina (9)(10); • Decisione PESC 265/2022 che modifica la Decisione PESC 145/2014 relativa a misure restrittive in relazione ad azioni che ledono o minacciano l’integrità territoriale, la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina (11)(12); • Decisione PESC 266/2022 concernente misure restrittive in risposta al riconoscimento delle zone non controllate dal governo delle regioni ucraine di Donetsk e Lugansk e la conseguente decisione di inviare truppe russe in tali zone (13); • Decisione PESC 267/2022 che modifica che modifica la Decisione PESC 145/2014 concernente misure restrittive relative ad azioni che compromettono o minacciano l’integrità territoriale, la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina (14). Successivamente il 25 febbraio l’Unione europea, visto l’aggravarsi della situazione in Ucraina, ha adottato ulteriori misure restrittive, che modificano il Regolamento UE 833/2014 e ha ampliato l’elenco dei soggetti designati che figura nell’allegato I del Regolamento UE 269/2014: • Regolamento UE 328/2022 che modifica il Regolamento UE 833/2014 concernente misure restrittive in considerazione di azioni della Russia che destabilizzano la situazione in Ucraina (15); • Regolamento UE 332/2022 che attua il Regolamento UE 269/2014 concernente misure restrittive relative ad azioni che compromettono o minacciano l’integrità territoriale, la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina (16). Infine tra il 28 febbraio e l’8 aprile l’Unione europea
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ha emanato ulteriori misure restrittive tra le quali il divieto di ogni operazione con la Banca centrale di Russia. Sono previste inoltre l’estensione dell’elenco dei soggetti designati e rettifiche al Regolamento UE 263/2022. Nello specifico le ultime disposizioni normative adottate dalla UE in termini di misure economiche contra la Russia per la sua invasione in Ucraina sono: • Regolamento UE 334/2022 che modifica il Regolamento UE 833/2014 concernente misure restrittive in considerazione delle azioni della Russia che destabilizzano la situazione in Ucraina (17); • Decisione PESC 335/2022 che modifica la Decisione PESC 512/2014 concernente misure restrittive in considerazione delle azioni della Russia che destabilizzano la situazione in Ucraina (18); • Regolamento UE 336/2022 che attua il Regolamento UE 269/2014 concernente misure restrittive relative ad azioni che compromettono o minacciano l’integrità territoriale, la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina (19); • Regolamento 345/2022 che modifica il Regolamento UE 833/2014 concernente misure restrittive in considerazione delle azioni della Russia che destabilizzano la situazione in Ucraina (20); • Decisione PESC 346/2022 che modifica la Decisione PESC 512/2014 concernente misure restrittive in considerazione delle azioni della Russia che destabilizzano la situazione in Ucraina (21); • Regolamento UE 350/2022 che modifica il Regolamento UE 833/2014 concernente misure restrittive in considerazione delle azioni della Russia che destabilizzano la situazione in Ucraina (22); • Decisione PESC 351/2022 che modifica la Decisione 512/2014 concernente misure restrittive in considerazione delle azioni della Russia che destabilizzano la situazione in Ucraina (23); • Regolamento UE 353/2022 che attua il Regolamento UE 369/2014 concernente misure restrittive relative ad azioni che compromettono o minacciano l’integrità territoriale, la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina (24); • Decisione PESC 354/2022 che modifica la Decisione PESC 145/2014 concernente misure restrittive
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relative ad azioni che compromettono o minacciano l’integrità territoriale, la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina (25); • Regolamento UE 396/2022 che attua il Regolamento UE 269/2014 concernente misure restrittive relative ad azioni che compromettono o minacciano l’integrità territoriale, la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina (26); • Decisione PESC 397/2022 che modifica la Decisione PESC 145/2014 concernente misure restrittive relative ad azioni che compromettono o minacciano l’integrità territoriale, la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina (27);
• Decisione PESC 429/2002 che modifica la Decisione PESC 145/2014 concernente misure restrittive relative ad azioni che compromettono o minacciano l’integrità territoriale, la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina (32); • Decisione PESC 430/2022 modifica la Decisione PESC 512/2014 concernente misure restrittive in considerazione delle azioni della Russia che destabilizzano la situazione in Ucraina (33); • Regolamento (UE) 2022/580 del Consiglio, dell’8 aprile 2022, che modifica il regolamento (UE) n. 269/2014, concernente misure restrittive relative ad azioni che compromettono o minacciano l’inte-
• Regolamento UE 394/2022 che modifica il Regolamento UE 833/2014 concernente misure restrittive in considerazione di azioni della Russia che destabilizzano la situazione in Ucraina (28); • Decisione PESC 395/2022 che modifica la Decisione PESC 512/2014 concernente misure restrittive in considerazione delle azioni della Russia che destabilizzano la situazione in Ucraina (29); • Regolamento UE 427/2022 che attua il Regolamento UE 269/2014 concernente misure restrittive relative ad azioni che compromettono o minacciano l’integrità territoriale, la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina (30); • Regolamento UE 428/2022 che modifica il Regolamento UE 833/2014 concernente misure restrittive in considerazione delle azioni della Russia che destabilizzano la situazione in Ucraina (31);
grità territoriale, la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina (34); • Regolamento di esecuzione (UE) 2022/581 del Consiglio, dell’8 aprile 2022, che attua il regolamento (UE) n. 269/2014 concernente misure restrittive relative ad azioni che compromettono o minacciano l’integrità territoriale, la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina (35); • Decisione (PESC) 2022/582 del Consiglio, dell’8 aprile 2022, che modifica la decisione 2014/145/ PESC concernente misure restrittive relative ad azioni che compromettono o minacciano l’integrità territoriale, la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina (36); • Regolamento (UE) 2022/576 del Consiglio, dell’8 aprile 2022, che modifica il regolamento (UE) n. 833/2014 concernente misure restrittive in consi-
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Il conflitto russo-ucraino ha generato anche una grave crisi energetica (investigate-europe.eu).
derazione delle azioni della Russia che destabilizzano la situazione in Ucraina (37); • Regolamento (UE) 2022/577 del Consiglio, dell’8 aprile 2022, che modifica il regolamento (CE) n. 765/2006 concernente misure restrittive in considerazione della situazione in Bielorussia e del coinvolgimento della Bielorussia nell’aggressione russa contro l’Ucraina (38); • Decisione (PESC) 2022/578 del Consiglio, dell’8 aprile 2022, che modifica la decisione 2014/512/ PESC concernente misure restrittive in considerazione delle azioni della Russia che destabilizzano la situazione in Ucraina (39); • Decisione (PESC) 2022/579 del Consiglio, dell’8 aprile 2022, che modifica la decisione 2012/642/ PESC, relativa a misure restrittive in considerazione della situazione in Bielorussia e del coinvolgimento della Bielorussia nell’aggressione russa nei confronti dell’Ucraina (40). Andando nel dettaglio di tutti questi provvedimenti normativi UE si rileva che, a seguito del riconoscimento delle Regioni di Doneck e Lugansk, l’Unione europea ha adottato il primo blocco di sanzioni nei con-
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fronti della Russia (modificando il Regolamento UE 269/2014 adottato appunto all’inizio della crisi 8 anni fa) che comprende: • La designazione di 26 individui ed entità legati alla minaccia all’integrità territoriale, la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina. Tra le entità designate sono presenti (ex Regolamento UE 260/2022): — Bank Rossiya; — PROMSVYAZBANK; — VEB.RF (a.k.a. Vnesheconombank). La normativa UE specificatamente adottata prevede comunque la possibilità di svincolo di taluni fondi o risorse economiche congelati appartenenti a tali banche o la messa a disposizione di tali entità di taluni fondi o risorse economiche previa autorizzazione delle autorità nazionali competenti, entro il 24 agosto 2022, per contratti conclusi con tali entità prima del 23 febbraio 2022 (ex Regolamento UE 259/2022). La designazione di 351 membri della Duma di Stato russa — contro cui sono state adottate specifiche misure restrittive — che hanno votato per il riconosci-
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mento delle cosiddette Repubbliche Popolari di Doneck e Lugansk (ex Regolamento UE 261/2022). Inoltre il Regolamento UE 262/2022, che modifica il Regolamento UE 833/2014, prevede: • Divieto di vendere, acquistare e fornire, direttamente o indirettamente, servizi finanziari per l’emissione di strumenti del mercato finanziario emessi dopo il 9 marzo 2022; • Divieto di concludere accordi, direttamente o indirettamente, in relazione a nuovi crediti o debiti dopo il 23 febbraio 2022 nei confronti della Federazione Russa, del Governo russo, della Banca Centrale e di qualsiasi persona che agisca per conto o sotto il controllo di essi. E previsto comunque un Trade Finance Exception — paragrafo 2 dell’articolo 5 bis — il quale dispone che «il divieto non si applica ai prestiti o ai crediti che hanno l’obiettivo specifico e documentato di fornire finanziamenti per le importazioni o le esportazioni di beni e servizi non finanziari non soggette a divieti tra l’Unione e qualsiasi Stato terzo, comprese le spese per beni e servizi provenienti da un altro Stato terzo necessarie per l’esecuzione di contratti di esportazione o di importazione».
Proseguendo il Regolamento UE 263/2022, concernente misure restrittive in risposta al riconoscimento delle aree non governative di Doneck e Lugansk dell’Ucraina e all’ordine delle Forze armate russe in quelle aree, stabilisce: • Embargo all’importazione di beni provenienti delle Regioni Doneck e Lugansk. Il Regolamento fa salva l’esecuzione fino al 24 maggio 2022 di contratti conclusi prima del 23 febbraio 2022; • Divieto di effettuare investimenti, aumentare le quote di partecipazioni o acquisire il controllo di entità presenti nel territorio delle Regioni Doneck e Lugansk; • Divieto di acquisto di proprietà nelle Regioni Doneck e Lugansk; • Divieto di concedere prestiti o crediti o fornire in altro modo finanziamenti, compreso il capitale azionario, a un’entità nel territorio delle Regioni Doneck e Lugansk; • Divieto di creazione di joint venture nel territorio delle Regioni Doneck e Lugansk o con un’entità nel suddetto territorio; • Divieto di fornire servizi di investimento relativi alle attività sopra;
Guerra vuole dire anche emergenza umanitaria dove i più�colpiti sono i bambini (wikipedia).
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• Divieto di fornire servizi turistici; • Divieto di vendita, fornitura, trasferimento di beni e tecnologie inseriti nell’Annex II, relativi al settore energetico, delle telecomunicazioni, del trasporto e del settore petrolifero, del gas e di risorse minerarie, oltre al divieto di fornire assistenza tecnica e servizi di intermediazione; • Divieto di fornire direttamente assistenza tecnica o servizi di intermediazione, di costruzione o di ingegneria relativamente alle infrastrutture nel territorio delle Regioni Doneck e Lugansk; il Regolamento fa salva l’esecuzione fino al 24 agosto 2022 di contratti conclusi prima del 23 febbraio 2022. Più specificatamente con la modifica del Regolamento UE 833/2014 si è disposto: • Divieto di fornire beni dual-use ex Regolamento UE 821/2021 e di beni «quasi dual-use» elencati in uno specifico allegato e identificati tramite codice doganale (i divieti includono assistenza tecnica o finanziaria) — a eccezione, fra le altre fattispecie, di forniture destinate a scopi umanitari, usi medici, aggiornamenti software, dispositivi di comunicazione al consumo, sicurezza dell’informazione (ma non a vantaggio del Governo e delle imprese controllate), programmi spaziali, sicurezza nucleare e marittima, reti TLC e internet, branch di entità costituite conformemente al diritto di uno Stato membro UE o degli Stati Uniti. Previste deroghe per primarie entità russe in caso di esecuzione di contratti e mitigazioni rischi; • Divieto di fornire beni e tecnologie adatti all’uso nella raffinazione del petrolio o nell’aviazione e industria spaziale, elencati in uno specifico allegato e identificati tramite codice doganale (i divieti includono assistenza tecnica o finanziaria). Previste deroghe per esecuzione contratti e altre fattispecie; • Divieto di compiere molteplici attività su valori mobiliari e strumenti del mercato monetario da parte di determinate entità elencate; • Divieto di concludere accordi destinati a erogazione di prestiti o crediti a determinate entità elencate, con eccezioni relative a prestiti o ai crediti che hanno l’obiettivo di fornire finanziamenti per le importazioni o le esportazioni di beni e servizi non finanziari non vietati;
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• Divieto di accettare depositi di cittadini e entità giuridiche russe superiori a centomila euro, che non si applica ai depositi necessari per gli scambi non vietati di beni e servizi; • Divieto di vendere valori mobiliari denominati in euro emessi dopo il 12 aprile 2022 a cittadini ed entità giuridiche russe; • Vendere, fornire, trasferire o esportare, direttamente o indirettamente, beni e tecnologie per la navigazione marittima a qualsiasi persona fisica o giuridica, entità od organismo in Russia o per un uso in Russia, o per la collocazione a bordo di una nave battente bandiera russa; • Prestare, direttamente o indirettamente, assistenza tecnica, servizi di intermediazione o altri servizi connessi ai beni e alle tecnologie di cui al paragrafo 1 e alla fornitura, alla fabbricazione, alla manutenzione e all’uso di tali beni e tecnologie, alle persone fisiche o giuridiche, alle entità o agli organismi in Russia o per un uso in Russia; • Fornire, direttamente o indirettamente, finanziamenti o assistenza finanziaria in relazione ai beni e alle tecnologie di cui al paragrafo 1, per la vendita, la fornitura, il trasferimento o l’esportazione di tali beni e tecnologie, o per la prestazione di assistenza tecnica, di servizi di intermediazione o di altri servizi connessi, a qualunque persona fisica o giuridica, entità od organismo in Russia o per un uso in Russia. Inoltre con gli interventi di metà marzo sono state disposte ulteriori modifiche al già citato Regolamento UE 833/2014 e in particolare si segnala l’inserimento del Registro Navale Russo, nell’elenco delle persone giuridiche, delle entità e degli organismi relativamente ai quali sono vietati l’acquisto, la vendita, la prestazione di servizi di investimento o l’assistenza all’emissione, diretti o indiretti, o qualsiasi altra negoziazione su valori mobiliari e strumenti del mercato monetario emessi dopo il 12 aprile 2022. Da segnalare anche, in termini di misure restrittive, che sono state adottate decisioni contro la United Shipbuilding Corporation, un conglomerato di costruzione navale di proprietà dello Stato russo, è il principale fornitore di navi da guerra alla marina russa. È proprietario di numerosi cantieri navali e uffici di progettazione.
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La grande nave da guerra anfibia «Pyotr Morgunov» — Project 11711, costruita dalla United Shipbuilding Corporation, ha partecipato all’invasione illegale russa dell’Ucraina nel 2022. Anche il pattugliatore «Vasily Bykov» — Project 22160 della flotta del Mar Nero, progettato da United Shipbuilding Corporation, ha partecipato all’aggressione russa contro l’Ucraina. Con i provvedimenti adottati e pubblicati nella Gazzetta Ufficiale Europea ad aprile sono state disposte anche misure verso la Bielorussia in qualità di paese che sostiene e riconosce come lecita l’azione militare di Mosca a danno di Kiev: • il divieto, a partire da agosto 2022, di acquistare, importare o trasferire nell’UE carbone e altri combustibili fossili solidi, se originari della Russia o esportati dalla Russia. Attualmente il valore delle importazioni di carbone nell’UE ammonta a 8 miliardi di euro all’anno; • il divieto di dare accesso ai porti dell’UE alle navi registrate sotto la bandiera della Russia. Sono concesse deroghe per i prodotti agricoli e alimentari, gli aiuti umanitari e l’energia; • il divieto alle imprese di trasporto su strada russe e bielorusse di trasportare merci su strada nell’Unione, anche in transito. Sono concesse deroghe per una serie di prodotti, come i prodotti farmaceutici, medici, agricoli e alimentari, compreso il frumento, e per il trasporto su strada per scopi umanitari; • ulteriori divieti di esportazione diretti a carburante per aerei e altri beni come computer quantistici e semiconduttori avanzati, elettronica di alta gamma, software, macchinari sensibili e attrezzature per il trasporto, nonché nuovi divieti di importazione per prodotti quali legno, cemento, fertilizzanti, prodotti ittici e liquori. I divieti di esportazione e di importazione concordati rappresentano un importo pari, rispettivamente, a 10 miliardi di euro e a 5,5 miliardi di euro.
Misure del Consiglio europeo In data 24 febbraio 2022, a seguito dell’invasione russa in territorio ucraino, il Consiglio europeo ha adottato le Conclusioni sull’aggressione militare non pro-
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vocata e ingiustificata della Russia nei confronti dell’Ucraina. Tali sanzioni riguardano: — settore finanziario; — settori dell’energia; — trasporti; — beni a duplice uso; — politica in materia di visti. Il Consiglio europeo ha altresì condannato fermamente il coinvolgimento della Bielorussia nell’aggressione nei confronti dell’Ucraina e la invita ad astenersi da tali azioni e a rispettare i suoi obblighi internazionali.
Misure adottate dall’Italia Anche i singoli paesi, nell’ambito della loro stretta competenza nazionale, hanno adottato specifiche misure per fronteggiare la crisi. Con riferimento all’Italia è stato approvato il D.L. 16/2022 - Ulteriori misure urgenti per la crisi in Ucraina (41) — il quale (ex art. 1 «cessione di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari»), prevede che fino al 31 dicembre 2022, previo atto di indirizzo delle Camere, è autorizzata la cessione di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari in favore delle autorità governative dell’Ucraina, in deroga alle disposizioni di cui alla Legge 185/1990 - Nuove norme sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento (42) — e agli articoli 310 e 311 del D.Lgs. 66/2010 - Codice dell’ordinamento militare (43) — e alle connesse disposizioni attuative. Con uno o più decreti del ministro della Difesa, di concerto con i ministri degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale e dell’Economia e delle Finanze, sono definiti l’elenco dei mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari oggetto della cessione di cui al comma 1 del citato art 1 D.L. 16/2022, nonché le modalità di realizzazione della stessa, anche ai fini dello scarico contabile. Il citato Decreto Legge si aggiunge ad altro provvedimento normativo avente stessa natura, D.L. 14/2022 (44), il quale ha previsto che: — venga autorizzata, fino al 30 settembre 2022, la partecipazione di personale militare alle iniziative della NATO per l’impiego della forza a elevata pron-
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tezza, denominata Very High Readiness Joint Task Force (VJTF), unità NATO multinazionale di 5.000 militari, con forze marittime, aeree e speciali disponibili, capace di essere schierata in qualsiasi parte del mondo entro 2-3 giorni dall’attivazione. Tale unità nasce nel settembre 2014 a seguito delle azioni che proprio in quell’anno — a conferma dunque che quella tra Russia e Ucraina (e la NATO), non è certo una crisi nata nel 2022 — la Russia ha posto in essere contro l’Ucraina mediante l’annessione Task Force Air «Black Storm» (difesaonline). del territorio della Crimea. — venga autorizzata, per l’anno 2022, la prosecuzione della partecipazione di personale minale del gas naturale derivante dalla guerra in Ucraina litare al potenziamento dei seguenti dispositivi della e le eccezionali esigenze di accoglienza dei cittadini NATO: ucraini in conseguenza del conflitto bellico in atto in a) dispositivo per la sorveglianza dello spazio quel paese dichiarano, su questo particolare e delicato aereo dell’Alleanza. punto, lo stato di emergenza fino al 31/12/2022. b) dispositivo per la sorveglianza navale nell’area L’Italia ha anche aderito a una dichiarazione del sud dell’Alleanza. 26/2/2022 di vari paesi UE ed Extra-UE con quale è c) presenza in Lettonia (Enhanced Forward Prestata espressa una condanna congiunta della guerra di sence). aggressione condotta dalla Russia contro l’Ucraina, d) Air Policing per la sorveglianza dello spazio preannunciando l’adozione di molteplici iniziative e aereo dell’Alleanza. misure contro esponenti del regime russo. Il D.L. 14/2022 è stato convertito nella Legge Tra queste iniziative figura l’istituzione di una 28/2022 (45) e nella stessa legge di conversione sono «Transatlantic Task Force» incaricata di favorire l’efstate fatte confluire le disposizioni del citato D.L. ficace applicazione delle sanzioni finanziarie attraverso 14/2022 che quindi è stato formalmente abrogato. l’individuazione e il congelamento dei beni riconduciIn definitiva le disposizioni ex D.L. 14/2022 e bili ai soggetti designati. 16/2022 sono state inserite nella Legge 28/2022. Nel quadro della Task Force intergovernativa le Fi«L’Italia — ha dichiarato il ministro della Difesa, nancial Intelligence Unit di Australia, Canada, Francia, on. Lorenzo Guerini — sta contribuendo con rapidità Germania, Italia, Giappone, Olanda, Nuova Zelanda, e convinzione alle decisioni prese in ambito NATO Regno Unito e Stati Uniti hanno istituito un Gruppo di (vedi rafforzamento del sistema di deterrenza sul fianco Lavoro per sviluppare attività e collaborazione per conest dell’Alleanza raddoppiando in Romania il numero tribuire alle iniziative in corso. dei velivoli Eurofighter già operanti nella Task Force Gli obiettivi del Gruppo di Lavoro sono enunciati Air «Black Storm» nell’attività della NATO di Air Ponella «Dichiarazione di Intenti» approvata dalle FIU il licing) e il Governo ha approvato una serie di signifi16 marzo 2022: cative misure a seguito dell’inaccettabile e • Contribuire all’efficace applicazione delle misure reingiustificata aggressione della Russia all’Ucraina». strittive decise dalla comunità internazionale, forLo stesso D.L. 16/2022 contiene poi disposizioni per nendo indicazioni al settore privato e contrastando fronteggiare l’eccezionale instabilità del sistema naziocomportamenti elusivi;
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• Impiegare gli strumenti delle analisi e della collaborazione per individuare e «tracciare» beni riferibili alla nomenclatura russa.
Conclusioni Quanto sopra riportato rappresenta l’insieme di misure di natura economico/sanzionatoria UE che cerca — la situazione nel momento in cui questo articolo viene scritto è in continua evoluzione — di contrastare l’aggressione della Russia contro l’Ucraina. A questa azione abbiamo visto inevitabilmente si è affiancata un’attività di «tipo militare» che consisterà nel fornire armi all’Ucraina escludendo — almeno per ora ma e ci si augura che sia così anche nel corso (che
non sarà breve) dei successivi sviluppi della crisi al fine di evitare una pericolosa escalation — un intervento armato direttamente nel territorio dell’Ucraina. Terminando la nostra analisi una piccola considerazione: è sufficiente una rilettura integrale delle norme di diritto internazionale perché ci si renda conto come la Russia di Putin abbia travalicato i propri limiti. Non a caso, proprio il giorno prima che Mosca passasse all’azione, la stessa Cina, che pure si era manifestata vicina alle iniziali posizioni della Russia sulla crisi dell’Ucraina, è intervenuta dichiarando che «la sovranità, l’indipendenza e l’integrità territoriale vanno sempre garantite: L’Ucraina non è un’eccezione». 8
NOTE (1) Gazzetta Ufficiale n.172 del 26/07/2007. (2) Gazzetta Ufficiale Unione Europea L 42 del 23/03/2022. (3) Gazzetta Ufficiale Unione Europea L 78 del 17/03/2014. (4) Gazzetta Ufficiale Unione Europea L 42 del 23/02/2022. (5) Gazzetta Ufficiale Unione Europea L 42 del 23/02/2022. (6) Gazzetta Ufficiale Unione Europea L 42 del 23/02/2022. (7) Gazzetta Ufficiale Unione Europea L 229 del 31/07/2014. (8) Gazzetta Ufficiale Unione Europea L 42 del 23/02/2022. (9) Gazzetta Ufficiale Unione Europea L 42 del 23/02/2022. (10) Gazzetta Ufficiale Unione Europea L 229 del 31/07/2014. (11) Gazzetta Ufficiale Unione Europea L 42 del 23/02/2022. (12) Gazzetta Ufficiale Unione Europea L 78 del 17/03/2014. (13) Gazzetta Ufficiale Unione Europea L 42 del 23/02/2022. (14) Gazzetta Ufficiale Unione Europea L 42 del 23/02/2022. (15) Gazzetta Ufficiale Unione Europea L 49 del 25/02/2022. (16) Gazzetta Ufficiale Unione Europea L 53 del 25/02/2022. (17) Gazzetta Ufficiale Unione Europea L 57 del 28/02/2022. (18) Gazzetta Ufficiale Unione Europea L 57 del 28/02/2022. (19) Gazzetta Ufficiale Unione Europea L 58 del 28/02/2022. (20) Gazzetta Ufficiale Unione Europea L 63 del 02/03/2022. (21) Gazzetta Ufficiale Unione Europea L 63 del 02/03/2022. (22) Gazzetta Ufficiale Unione Europea L 65 del 02/03/2022. (23) Gazzetta Ufficiale Unione Europea L 65 del 02/03/2022. (24) Gazzetta Ufficiale Unione Europea L 66 del 02/03/2022. (25) Gazzetta Ufficiale Unione Europea L 66 del 02/03/2022. (26) Gazzetta Ufficiale Unione Europea L 80 del 09/03/2022. (27) Gazzetta Ufficiale Unione Europea L 80 del 09/03/2022. (28) Gazzetta Ufficiale Unione Europea L 81 del 09/03/2022. (29) Gazzetta Ufficiale Unione Europea L 81 del 09/03/2022. (30) Gazzetta Ufficiale Unione Europea L 87 del 15/03/2022. (31) Gazzetta Ufficiale Unione Europea L 87 del 15/03/2022. (32) Gazzetta Ufficiale Unione Europea L 87 del 15/03/2022. (33) Gazzetta Ufficiale Unione Europea L 87 del 15/03/2022. (34) Gazzetta Ufficiale Unione Europea L 110 del 08/04/2022. (35) Gazzetta Ufficiale Unione Europea L 110 del 08/04/2022. (36) Gazzetta Ufficiale Unione Europea L 110 del 08/04/2022. (37) Gazzetta Ufficiale Unione Europea L 111 del 08/04/2022. (38) Gazzetta Ufficiale Unione Europea L 111 del 08/04/2022. (39) Gazzetta Ufficiale Unione Europea L 111 del 08/04/2022. (40) Gazzetta Ufficiale Unione Europea L 111 del 08/04/2022. (41) Gazzetta Ufficiale n. 49 del 28/02/2022. (42) Gazzetta Ufficiale n.163 del 14/07/1990. (43) Gazzetta Ufficiale n.106 del 08/05/2010. (44) Gazzetta Ufficiale n. 47 del 25/02/2022. (45) Gazzetta Ufficiale n. 87 del 13/04/2022. BIBLIOGRAFIA Contrasto attività paesi che minacciano pace e sicurezza internazionale — www.uif.bancaditalia.it — marzo 2022. Webinar Sanzione vs Russia — Studio Legale Padovan — 25/02/2022. La Crisi Ucraina — Altalex Informazione Giuridica On-Line — www.altalex.com - febbraio 2022. www.difesaonline.it - febbraio 2022. Circolari ABI — www.abi.it — marzo 2022.
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PANORAMICA TECNICO-PROFESSIONALE
Il terrorismo internazionale nel corso del XX secolo Le nuove modalità operative nella seconda parte del secolo parte II
Laura Quadarella Sanfelice di Monteforte (1) Direttore di Mediterranean Insecurity, saggista e analista intelligence, laureata in Giurisprudenza e in Relazioni internazionali, Dottore di ricerca in diritto internazionale, è docente di counter-terrorism presso numerose università italiane e lavora al ministero degli Affari esteri. Tra i suoi libri: Perché ci attaccano. Al Qaeda, l’Islamic State e il terrorismo «fai da te» (2017), Vivere a Mosul con l’Islamic State. Efficienza e brutalità del Califfato (2019, vincitore del premio Cerruglio 2020), e Il mondo dopo il Covid-19. Conseguenze geopolitiche e strategiche. Posture dei gruppi jihadisti e dell’estremismo violento (2020, insieme a Ferdinando Sanfelice di Monteforte).
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Il terrorismo nella seconda metà del XX secolo: la causa palestinese, le nuove modalità operative, le convenzioni settoriali A partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, davanti alle nuove modalità operative di volta in volta utilizzate dal terrorismo internazionale, la comunità internazionale rispose mediante l’elaborazione di convenzioni settoriali. Da un’attenta analisi delle fasi di questa evoluzione, compiuta alla luce delle vicende storiche che maggiormente hanno caratterizzato la seconda metà del secolo, emerge come il manifestarsi delle nuove modalità operative e l’individuazione degli obiettivi da colpire siano fenomeni strettamente legati alla «internazionalizzazione del fenomeno terroristico» e ruotino soprattutto intorno alla c.d. «questione palestinese» e al fondamentalismo islamico che si sviluppò in quegli anni. È infatti opportuno ricordare che a partire dagli anni Sessanta nacquero gruppi terroristi in varie zone del mondo (2), ma solo il terrorismo mediorientale divenne un feno-
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meno veramente senza confini, rivolto, soprattutto dopo la guerra dei sei giorni, che vide confluire nell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) i gruppi terroristi preesistenti, contro tutti gli Stati occidentali che appoggiavano Israele (3). Tratti comuni di tutte le forme di terrorismo sviluppatesi a partire dagli anni Sessanta dello scorso secolo sono stati, secondo parte della dottrina, la mancanza di una forte ideologia (che invece era tipica del terrorismo anarchico), la ricerca dell’intimidazione della società e dei mass media e l’essere pilotati da lontano (4). Approfondendo la nascita del terrorismo estremista islamico, che è sempre stato ritenuto legato esclusivamente alla questione palestinese, va rilevato come vada probabilmente ricercata in tre importantissimi avvenimenti del 1979: la rivoluzione in Iran, l’invasione sovietica in Afghanistan, e la rivolta presso la Grande Moschea de La Mecca. Si tratta di avvenimenti strettamente connessi tra loro, che modificarono gli equilibri dell’intera regione, fomentarono il fanatismo religioso
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e trasformarono un problema locale in un problema globale: la questione palestinese da lotta di indipendenza di un popolo divenne lotta contro l’Occidente e i suoi valori. Con la rivoluzione khomeinista e l’espulsione dello Scià, nel 1979 l’Iran, da Stato filoamericano, divenne culla del fondamentalismo sciita e lasciò campo aperto all’Unione Sovietica per l’invasione dell’Afghanistan, in soccorso del quale arrivarono per combattere l’invasore «infedele» decine di migliaia di giovani musulmani. Nel frattempo, un gruppo di fanatici religiosi assaltò la Grande Moschea de La Mecca, sequestrando migliaia di persone, con un assedio che finì in un bagno di sangue. In quegli stessi anni in un Libano sempre più spaccato in due, con i cristiani al potere e i musulmani
tra il 6 e il 9 settembre 1970 ai danni di aerei commerciali (due aerei statunitensi, uno svizzero e uno britannico), che vennero fatti esplodere dopo l’atterraggio al Cairo e a Zarkia (Giordania), e soprattutto il dirottamento compiuto nel giugno 1976 da un commando palestinese su un volo francese in volo da Tel Aviv a Parigi, che divenne famoso in seguito al perfettamente riuscito intervento operato dalle Forze speciali israeliane all’aeroporto ugandese di Entebbe, che scatenò aspre polemiche nella comunità internazionale e rimane ancora oggi uno dei casi più eclatanti di raid compiuti all’estero in difesa di propri cittadini senza l’autorizzazione dello Stato territoriale); • anni Settanta: uccisioni e sequestri del personale di-
in aumento a causa dell’arrivo dei profughi palestinesi, scoppiò una tremenda guerra civile e, sotto la spinta del fondamentalismo sostenuto da Teheran (5), iniziarono a proliferare campi di addestramento per giovani palestinesi che avevano in animo di abbracciare un percorso terroristico (6). Fu così che si arrivò nel 1982 all’invasione israeliana del Libano, che regalò al fondamentalismo islamico un nemico unico: lo Stato di Israele e i suoi alleati in Occidente. Fu in tale contesto che il terrorismo internazionale islamico iniziò a manifestarsi con le citate nuove modalità operative, che possono essere così cronologicamente schematizzate (7): • anni Sessanta-Settanta: dirottamenti aerei e altri atti illeciti contro l’aviazione civile (impossibile fare un elenco neanche lontanamente esaustivo, ma a titolo di esempio si possono annoverare i quattro effettuati
plomatico, e di altre persone dotate di protezione speciale (vanno ricordati il sequestro dei ministri dell’O.P.E.C., avvenuto a Vienna il 21 dicembre 1975, e quello del personale dell’Ambasciata statunitense a Teheran, che ha avuto luogo dal novembre 1979, ma anche quello di alcuni atleti della squadra israeliana avvenuto alle Olimpiadi di Monaco del 1972 da parte di un gruppo di terroristi palestinesi aderenti a «settembre nero»); • anni Ottanta: attacchi a navi e postazioni marittime fisse (si pensi al sequestro della nave Achille Lauro nell’ottobre 1985); • anni Novanta: aumento degli attentati con l’uso di esplosivo verso obiettivi sempre più rilevanti (si possono citare l’attentato al World Trade Center del 1993 e quelli compiuti nell’agosto 1998 contro le Ambasciate statunitensi in Kenya e Tanzania).
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Non potendo esaminare come e perché si arrivò all’elaborazione delle varie convenzioni con cui la comunità internazionale rispose alle varie modalità operative man mano utilizzate dal terrorismo, basti a titolo di esempio una breve ricostruzione di ciò che portò all’elaborazione della prima di esse. La prima nuova modalità operativa adoperata dal terrorismo internazionale a partire dagli anni Sessanta è stata quella del dirottamento di aeromobili, espressione con la quale si identifica l’azione effettuata da uno o più passeggeri che con la minaccia o l’uso della forza impongono al pilota una rotta diversa da quella prevista. Dopo i primi casi, verificatisi nell’area caraibica dopo la rottura delle relazioni diplomatiche tra Stati Uniti e
rottamenti aerei come «pirateria aerea» e di inquadrarli nella definizione di pirateria accolta nell’art. 15 della Convenzione di Ginevra sull’alto mare del 1958 per ricondurli a tale disciplina. Ben presto, però, la dottrina escluse tale possibilità in quanto il dirottamento aereo, a differenza degli atti di pirateria effettuati nell’alto mare, difetta sempre del requisito secondo il quale l’atto deve essere condotto da persone che non si trovano a bordo, spesso di quello che prevede il verificarsi dell’illecito in alto mare, e quasi sempre del requisito delle motivazioni personali del dirottatore (10). Alla luce dell’inapplicabilità delle norme per la pirateria al fenomeno del dirottamento aereo, la comunità internazionale, posta di fronte alla necessità di elabo-
Cuba, e l’interruzione dei normali collegamenti aerei tra i due Stati, che spinse alcune persone a dirottare degli aerei con il solo scopo di raggiungere uno Stato altrimenti molto difficile da raggiungere (8), iniziarono a emergere scopi più propriamente politico-terroristi. Decine furono i dirottamenti portati a termine dai terroristi palestinesi in quegli anni, alcuni dei quali purtroppo con esiti tragici. I dirottatori miravano sicuramente a richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sulla questione palestinese e a ottenere la liberazione di terroristi detenuti in vari Stati occidentali, ma al contempo volevano creare un clima di insicurezza, spargere il terrore in tutti gli Stati occidentali considerati filosionisti e nella stessa comunità internazionale (9). Questa, davanti a una nuova modalità operativa del terrorismo, per la quale non si poteva applicare la c.d. «clausola belga», tentò inizialmente di qualificare i di-
rare strumenti giuridici capaci di contrastare questa nuova modalità operativa, iniziò a dar vita a quell’approccio settoriale che ha condotto all’elaborazione di numerose Convenzioni settoriali contro il terrorismo. Questo l’elenco delle Convenzioni adottate in quegli anni: • Convention on Offences and Certain Other Acts Committed on Board Aircraft, Tokyo, 14 September 1963 - UN Doc. A/C.6/418/Corr.1, Annex II. • Convention for the Suppression of Unlawful Seizure of Aircraft, The Hague, 16 December 1970 - UN Doc. A/C.6/418/Corr.1, Annex II. • Convention for the Suppression of Unlawful Acts against the Safety of Civil Aviation, Montreal, 23 September 1971 - UN Doc. A/C.6/418/Corr.2, Annex III. • Convention on the Prevention and Punishment of
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Crimes against Internationally Protected Persons, including Diplomatic Agents, New York, 14 December 1973 - UN Doc. A/Res/28/3166. • International Convention against the Taking of Hostages, New York, 17 December 1979 UN Doc. A/Res/34/146. • Convention on the Physical Protection of Nuclear Material, Vienna, 3 March 1980 - IAEA Doc. C/225. • Protocol on the Suppression of Unlawful Acts of Violence at Airports Serving International Civil Aviation, supplementary to the Convention for the Suppression of Unlawful Acts against the Safety of Civil Aviation, Montreal, 24 February 1988 - ICAO Doc. 9518. • Convention for the Suppression of Unlawful Acts against the Safety of Maritime Navigation, Rome, 10 March 1988 - IMO Doc. Sua/Con/15. • Protocol for the Suppression of Unlawful Acts against the Safety of Fixed Platforms located on the Continental Shelf, Rome, 10 March 1988 - IMO Doc. Sua/Con/16/Rev.1. • Convention on the Marking of Plastic Explosive for the Purpose of Detection, Montreal, 1 March 1991 - UN Doc. S/22393/Corr.1. • International Convention for the Suppression of Terrorist Bombings, New York, 15 December 1997 - UN Doc. A/Res/52/164. • International Convention for the Suppression of the Financing of Terrorism, New York, 9 December 1999 - UN Doc. A/Res/54/109. Ancorché a oggi ci siano solo convenzioni settoriali, è stato giustamente rilevato che «l’esistenza di uno standard normativo comune nelle varie convenzioni per la prevenzione e la repressione delle singole attività terroristiche consente in qualche misura di superare i limiti connessi all’approccio settoriale adottato dalla comunità internazionale in materia» (11). Al di là delle diverse figurae criminis prese di volta in volta in esame, che per ricadere sotto la disciplina delle convenzioni debbono presentare come presupposto carattere di internazionalità, le convenzioni disegnano uno standard normativo comune, costituito da obblighi di prevenzione e repressione. Quanto ai primi, le convenzioni demandano ai legislatori nazionali l’adozione di misure opportune in vista della prevenzione dei crimini in oggetto, accompagnando tale obbligo con quelli di predisporre misure statali tese allo scambio di informazioni e al coordinamento di attività amministrative. Maggiore importanza rivestono gli obblighi previsti a carico degli Stati contraenti in tema di repressione, tra cui spiccano quello di immettere nella legislazione penale nazionale le fattispecie di reato (12) contemplate nelle convenzioni e quello di estradare il presunto autore del crimine o di sottoporlo a giudizio, in osservanza del principio aut dedere aut iudicare (13). Questo costituisce il vero fulcro di tutte le convenzioni settoriali ed è riprodotto in ognuna di esse con espressioni pressoché identiche (14). La prima possibilità prevista, quella di estradare, rimanda alle legislazioni interne e ai trattati bilaterali di estradizione (che debbono necessariamente considerare come estradabili i presunti autori delle fattispecie terroristiche contemplate nelle convenzioni) quanto alla regolamentazione specifica e alle modalità dell’estradizione stessa; l’obbligo di giudicare, che scatta automaticamente in caso di rifiuto di estradizione, comporta l’adeguamento delle legislazioni nazionali al fine di immettervi la competenza a esercitare l’azione penale su persone che si trovano sul proprio territorio e che siano accusate di uno dei reati previsti dalle convenzioni, anche nel caso di cittadini stranieri e di fatti commessi in uno Stato terzo (15).
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L’internazionalizzazione e la nascita di Al Qaeda: i primi segnali di un nuovo tipo di terrorismo c.d. «universale» Alla luce dell’evoluzione delle modalità operative del terrorismo internazionale, sia la dottrina che la comunità internazionale ipotizzarono un ulteriore passo in avanti, mediante l’utilizzo di armi di distruzione di massa (16). Il terrorismo dimostrò invece di poter provocare migliaia di morti anche usando armi già conosciute, semplicemente facendone un uso diverso: l’11 settembre 2001 la comunità internazionale è stata colpita in modo devastante semplicemente fondendo due preesistenti manifestazioni terroriste, il dirottamento aereo e gli attacchi suicidi. Ma era un «nuovo terrorismo internazionale» (17), nato dalla globalizzazione dei movimenti terroristi islamici, che aveva sviluppato la forza per attaccare il mondo occidentale in un modo nuovo, trovandolo impreparato e vulnerabile. Si trattava di un terrorismo che era divenuto globale, non mirava più ad attirare l’attenzione dell’opinione pubblica su una determinata causa, ma a uccidere e terrorizzare il più grande numero possibile di persone e a creare ingenti danni economici: il suo fine ultimo era divenuto sovvertire lo status quo e cancellare i principi alla base della comunità internazionale. Si trattava, inoltre, di un terrorismo capace di agire nel rispetto di un progetto politico unitario, elaborato da Al Qaeda, un non - State actor che aveva visto la sua nascita alla fine degli anni Ottanta. Ciò che va compreso è che l’11 settembre non è la data in cui è nato questo nuovo terrorismo, ma solo la data nella quale la comunità internazionale ha avuto contezza della sua esistenza e del fatto che essa stessa è il suo obiettivo. È per questa ragione che analizzando l’evoluzione del terrorismo internazionale nel corso del secolo scorso si devono approfondire le motivazioni che spinsero sul finire del XX secolo alcuni uomini a fondare quell’organizzazione a noi nota come Al Qaeda (18), perché l’attuale fenomeno del terrorismo jihadista si è sviluppato con il tempo, partendo dal terrorismo internazionale che si era manifestato nei decenni precedenti e si era iniziato a modificare soprattutto a partire dal 1979. Per comprendere questo ulteriore sviluppo del terrorismo internazionale, non si può prescindere soprattutto dall’analisi delle motivazioni che hanno spinto Osama bin Laden a sviluppare il desiderio di «punire gli Stati Uniti» per quello che secondo lui avevano fatto dopo la caduta dell’Unione Sovietica, per il sostegno a Israele, e per tutte quelle azioni che avevano portato a far soffrire popolazioni musulmane e a «invadere» la «Terra Santa». Figlio di una dinastia saudita miliardaria (il padre aveva fondato un’azienda edile, che trasformò in impero multimiliardario), a metà anni Settanta si recò negli Stati Uniti avendo contatti anche con ricchi uomini d’affari, ma poi nel periodo universitario, trascorso in Arabia a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, entrò in contatto con la Fratellanza Musulmana, venendone notevolmente influenzato. La vera svolta avvenne nel 1979: bin Laden sentì la necessità di andare in Afghanistan per unirsi alla lotta dei mujaheddin portando soldi, esplosivi ed esperienza professionale (propria e con manodopera) nel campo delle demolizioni edili. In Afghanistan lavorò a stretto contatto con Azzam, reclutatore per eccellenza, palestinese, acerrimo nemico di Israele e fondatore del c.d. Ufficio dei servizi, e conobbe Ayman al-Zawahiri, dottore egiziano sostenitore del jihad mondiale, che aveva partecipato al gruppo di cospiratori dell’attentato del 1981 a Sadat. Con loro Osama nel 1988 fondò Al Qaeda, che dopo il ritiro dei sovietici si concentrò su altri «bersagli», tra i quali rientrarono presto anche gli Stati Uniti, verso cui già da anni stavano mutando i sentimenti di bin Laden. Divennero poi ai suoi occhi colpevoli, du-
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rante la guerra del Golfo, di aver dispiegato truppe di infedeli, per aggiunta di entrambi i generi, in territorio saudita. Dopo aver trascorso un periodo in Sudan e, come si seppe solo anni dopo, aver da lì organizzato nel 1993 attacchi alle truppe americane a Mogadiscio, nel 1996 bin Laden tornò in Afghanistan, da dove dopo vari proclami e interviste annunciò nel 1998 la costituzione del «Fronte islamico mondiale per il jihad contro gli ebrei e i crociati» e lanciò la Fatwa contro gli americani. In quegli anni ci furono la bomba esplosa sotto le torri del World Trade Center
nel 1993, gli attacchi quasi simultanei del 1998 alle Ambasciate statunitensi in Tanzania e in Kenya, e l’attacco alla nave USS Cole nel porto yemenita di Aden nell’ottobre 2000. Si arrivò così agli attacchi dell’11 settembre e alla consapevolezza di trovarsi davanti a un nuovo tipo di terrorismo internazionale, che in pochi anni nel corso del secolo attuale si è ulteriormente trasformato, costringendo la comunità internazionale a ridisegnare totalmente gli strumenti per una lotta globale al terrorismo internazionale (19). 8
NOTE (1) Le opinioni sono personali dell’autore e non rispecchiano necessariamente le amministrazioni di appartenenza. (2) Si ricordino: gruppi legati alla guerra d’indipendenza algerina, il terrorismo indipendentista dell’IRA in Irlanda e dell’ETA in Spagna, le Brigate Rosse in Italia, le rivoluzioni popolari e i colpi di Stato militari in numerosi Stati dell’America centrale e soprattutto dell’America latina. Si veda, Bonante L., Terrorismo internazionale, Firenze, 2002, 70 ss. (3) Per avere un quadro dell’internazionalizzazione del terrorismo palestinese basti pensare che tra il 1968 e il 1986 vennero compiute 565 azioni terroriste fuori dai confini di Israele, che provocarono 498 morti e 1783 feriti, tra i quali i cittadini israeliani furono rispettivamente solo 54 e 79 (Bonante L., Terrorismo internazionale, op. cit., 125s.). (4) Laqueur W., Storia del terrorismo. L’analisi storica del più drammatico fenomeno del nostro tempo, 1978, Milano, 6-7. (5) L’Iran fu il principale sponsor e finanziatore del movimento libanese sciita Hezbollah che, protetto anche dalla Siria, si rese responsabile di numerosi attacchi suicidi contro obiettivi civili e militari occidentali. (6) In questo periodo è Beirut la base operativa dell’OLP di Yasser Arafat: dopo il «settembre nero» (del 1970) infatti i gruppi terroristi si insediarono in Libano e riuscirono ad acquisire quell’indipendenza operativa che la Giordania non aveva mai consentito loro. (7) In dottrina tra i principali studiosi di tale evoluzione si possono ricordare Panzera e Bassiouni. Per il primo cfr. soprattutto: Panzera A.F., Attività terroristiche e diritto internazionale, Napoli, 1978; Panzera A.F., voce Terrorismo, b) Diritto internazionale, in Enciclopedia del Diritto, vol. XLIV, Milano, 1992, 370 ss.; Ronzitti N. (a cura di), Europa e terrorismo internazionale - Analisi giuridica del fenomeno e Convenzioni internazionali, Roma, 1990. Per Bassiouni, tra i numerosissimi scritti, cfr. soprattutto Bassiouni M.C., International Terrorism: Multilateral Conventions (1937-2001), New York, 2001. Per una ricostruzione dell’evoluzione delle modalità operative si veda, soprattutto, Quadarella Sanfelice di Monteforte L., Il terrorismo internazionale come crimine contro l’umanità - da crimine a rilevanza internazionale a crimine internazionale dell’individuo, Napoli, Editoriale Scientifica, 2006, capp. 1 e 2. (8) Tali motivazioni sono riscontrabili anche in alcuni dirottamenti compiuti in quel periodo nell’Europa dell’est. (9) In tal senso cfr. Panzera A.F., Attività terroristiche e diritto internazionale, op. cit., 49. (10) Una parte della dottrina, per estendere anche ai casi di dirottamento aereo il principio dell’universalità della repressione, tipico della pirateria, elaborò proposte tese a considerare i dirottamenti aerei una nuova forma di pirateria o comunque a estendervi la disciplina mediante accordi internazionali. Tra i sostenitori della prima tesi cfr. Breton, Piraterie aérienne et droit international public, in Revue générale de droit international public, 1971, 392 ss.; Valladao E., Piraterie aérienne; nouveau délit international, in Revue générale de l’air et de l’éspace, 1969, 261 ss.; per la seconda tesi, cfr. Jacobson, From Piracy on the High Seas to Piracy in the High Skies: A Study of Aircraft Hijacking, in Cornell International Law Journal, 1972, 161 ss. (11) Panzera A.F., La disciplina normativa sul terrorismo internazionale, in Ronzitti N. (a cura di), Europa e terrorismo internazionale, op. cit., 18. In senso analogo si è espresso anche Gioia, cfr. Gioia A., Terrorismo internazionale, crimini di guerra e crimini contro l’umanità, in Rivista di Diritto Internazionale, n. 1/2004, 16 ss. (12) È espressamente specificato che esse vadano punite con pene severe, appropriate alla gravità del fatto. (13) Esistono anche una serie di obblighi accessori o sussidiari, quali quello di adottare le misure necessarie ad assicurare la presenza del presunto autore del reato fino al processo o all’estradizione e quelli di avviare un’inchiesta preliminare, volta anche alla raccolta di prove e all’assunzione di prove testimoniali. (14) Il principio aut dedere aut judicare deriva dalla famosa formulazione elaborata da Hugo Grotius nel 1642 e abbreviata con l’espressione «aut dedere aut punire» (Grotius H., De Jure Belli ac Pacis, lib. II, cap. XXI, sez. III, in Scott J.B. (ed.), Classic of International Law, 1925), che a partire dagli anni Settanta è stata trasformata (cfr. Bassiouni M.C. - Nanda V. (ed.), A Treatise on International Criminal Law, Springfield, 1973; Bassiouni M.C. (ed.), International Terrorism and Political Crimes, Springfield, 1975, XIX s.), modificando l’obbligo di punire in quello di giudicare. (15) Le convenzioni settoriali contro il terrorismo imposero l’applicazione del principio aut dedere aut judicare senza fare più distinzioni basate sulla cittadinanza, ma prevedendo al contrario l’obbligo di adeguare la legislazione penale interna per poter processare anche i non cittadini per reati commessi all’estero. Cfr. Caracciolo I., Dal diritto penale internazionale al diritto internazionale penale. Il rafforzamento delle garanzie giurisdizionali, Napoli, 2000, 180 ss. (16) In tal senso cfr. soprattutto Laquer W., Il nuovo terrorismo, Milano, 2002, e Bassiouni M.C., International Terrorism: Multilateral Conventions (1937-2001), op. cit., 44-54. (17) Per questa nuova forma di terrorismo, che per alcuni aspetti l’11 settembre 2001 è divenuto un crimine contro l’umanità, si veda Quadarella Sanfelice di Monteforte L., Il terrorismo internazionale come crimine contro l’umanità - da crimine a rilevanza internazionale a crimine internazionale dell’individuo, op. cit., capp. 3 e 4. (18) Per approfondire come è nata e si è sviluppata Al Qaeda, tra l’ampia bibliografia si veda: Byman Daniel, Al Qaeda, the Islamic State, and the Global Jihadist Movement: What Everyone Needs to Know, 2015; Burke Jason, Al Qaeda. La vera storia, Feltrinelli, Milano, 2004; Hoffman Bruce, Rethinking Terrorism and Counterterrorism Since 9/11, in Studies in Conflict & Terrorism, vol. 25, 2002, 303 ss; Hoffman Bruce, Al Qaeda, Trends in Terrorism, and Future Potentialities: An Assessment, in Studies in Conflict & Terrorism, vol. 26, 2003; Hoffman Bruce, The Changing Face of Al Qaeda and Global War on Terrorism, in Studies in Conflict & Terrorism, vol. 27, 2004, 549 ss.; Hoffman Bruce, Inside Terrorism, Columbia University Press, New York, 2006; Lynn John A., Une autre guerre: Histoire et nature du terrorisme, 2021 ; Quadarella Sanfelice di Monteforte Laura, Il terrorismo internazionale come crimine contro l’umanità - da crimine a rilevanza internazionale a crimine internazionale dell’individuo, Editoriale Scientifica, Napoli, 2006; Quadarella Sanfelice di Monteforte Laura, Il terrorismo «fai da te». Inspire e la propaganda online di AQAP per i giovani musulmani in Occidente, Aracne Editrice, Roma, 2013; Quadarella Sanfelice di Monteforte Laura, Perché ci attaccano. Al Qaeda, l’Islamic State e il terrorismo «fai da te», Aracne Editrice, Roma, seconda edizione, 2017; Wright lawrence, Le altissime torri. Come al-Qaeda giunse all’11 settembre, Adelphi, Milano, 2007. (19) A partire, nel settembre 2001, dalle Risoluzioni 1368 e 1373, United Nations, Security Council, Resolution 1368, UN Doc. S/RES/1368 (2001), 12 September 2001, United Nations, Security Council, Resolution 1373, UN Doc. S/RES/1373 (2001), 28 September 2001.
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L’enoxaparina sodica nel trattamento del Covid-19 Il principio attivo è utilizzato nel mondo da anni ma solo dal 2017 è stato registrato il biosimilare e commercializzato in Europa. Viene utilizzato anche nel trattamento delle complicanze dell’infezione da Covid-19 da Oriente ad Occidente, la via della seta e oggi anche del farmaco. Da ormai quasi tre anni Techdow Pharma opera in Italia ed è riconosciuta come la prima azienda farmaceutica cinese ad aprire l’attività nel Belpaese. La società attualmente commercializza la prima enoxaparina sodica biosimilare ma è atteso nei prossimi anni l’arrivo di nuovi prodotti frutto della corposa pipeline di ricerca. «Crediamo che a breve verranno lanciati nuovi farmaci innovativi in aree terapeutiche importanti quali la cardiologia, la diabetologia e l’oncologia» spiega Giorgio Foresti, Amministratore Delegato Techdow Pharma che è la sorella farmaceutica del gruppo Hepalink, leader mondiale nella produzione e commercializzazione di principi attivi a base di eparina. Si tratta di una società che esporta il principio attivo della Eparina in più di cinquanta nazioni e rifornendo anche le più grandi multinazionali farmaceutiche internazionali. La sede centrale dell’azienda si trova nell’hub cinese della ricerca scientifica a Shenzhen, mentre la sede italiana si trova a Milano. Come nasce l’azienda e con quali obiettivi? «Abbiamo avviato gli uffici di Milano nell’ottobre del 2017. I primi mesi, ovviamente, sono stati dedicati all’organizzazione e solo a partire da gennaio è iniziata la commercializzazione del prodotto. La struttura inizialmente era composta da 15 persone tra interni e esterni, ma a partire dal 2019 l’organizzazione è cresciuta con l’inserimento di una rete di trenta informatori medici. Attualmente contiamo sull’impegno di circa cinquanta persone tra interni ed esterni che si dedicano al 100% al supporto di INHIXA, prodotto salvavita. Nel corso di questi tre anni abbiamo conquistato quasi il 50% del consumo di enoxaparina sul mercato italiano, prevalentemente nel mercato ospedaliero, ma una buona fetta anche nel mercato retail in Farmacia». In quali contesti trova applicazione il farmaco e con quali benefici? «L’enoxaparina è un farmaco molto importante perché considerato salvavita. Viene utilizzato prevalentemente nella profilassi della trombosi venosa profonda post-intervento chirurgico ma se ne fa anche un importante utilizzo in ambito medico in tutti quei casi di patologie acute che comportano perdurata immobilità e quindi incremento del rischio di trombosi ed in particolare nelle persone anziane. Il farmaco viene quindi impiegato prevalentemente per la profilassi delle malattie a rischio Tromboembolico Venoso (TEV) e per tale motivo di grande attualità nella cura della malattia da Covid-19 caratterizzata nelle forme moderate severe e critiche da gravi complicazioni trombotiche e tromboemboliche. Di recente, anche l’Aifa con una nota del 24/11/20 ha espresso la raccomandazione di usare l’Eparina ed in particolare l’Enoxaparina sin dai casi moderati se sottoposti a immobilizzazione o ipomobilità sino alle forme più gravi ospedalizzate. Possiamo dire che è un farmaco molto conosciuto perché lanciato sul mercato più di trent’anni fa, ma sono solo nel 2017 il Biosimilare ha iniziato ad essere commercializzato nel mercato europeo. Di questo principio attivo se ne fa ormai un largo utilizzo.». Rispetto a questa nuova emergenza sanitaria, in che modo il farmaco ha trovato impiego nella lotta al Covid-19? “L’Eparina ha oggi un ruolo fondamentale in tutte le Linee Guida Mondiali dopo le prime raccomandazioni comparse all’inizio del 2020 nelle note della Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e viene impiegata nel trattamento dei malati Covid-19 come profilassi e come trattamento delle complicazioni trombotiche. Nella malattia da Covid-19, dopo la prima fase virale si scatena una risposta infiammatoria che provoca una coagulopatia importante. Sono note le proprietà della Eparina sia nel mitigare l’infiammazione che nel contrastare la coagulopatia, riducendone così le complicazioni trombotiche. E’ per tali motivi ben supportati dagli studi pubblicati, che AIFA nel Maggio 2020, ha autorizzato lo studio INHIXACOVID19 che ha nei suoi obiettivi la prova della sua sicurezza, vale a dire basso rischio di emorragie durante la somministrazione, ed della sua efficacia nei malati nella fase lieve, moderata e severa, con dosi intermedie ritenute ormai più adatte a tale indicazione terapeutica. Tale studio ha coinvolto tredici centri a livello italiano ed è coordinato dal centro di infettivologia dell’ospedale Sant’Orsola di Bologna Università di Bologna, coordinato dal Prof. Pierluigi Viale. Lo studio ormai in fase avanzata di arruolamento ha mostrato primi risultati davvero molto incoraggianti». Quali sono le prospettive di mercato di questo farmaco e quali sono i progetti dell’azienda per il futuro? «Al momento commercializziamo solo questo prodotto, ma stiamo lavorando per essere pronti il prima possibile per ottenere altre molecole sia di origine aziendale, e che giungono quindi dalla nostra ricerca, sia acquisite in licenza o in concessione da altre aziende. Siamo convinti che nel 2023 saremo nelle condizioni di lanciare nuovi prodotti e molecole anche sul mercato italiano». L’azione L’eparina agisce sugli effetti della malattia e, quindi, sulle infiammazioni e sulla coaguolpatia provocate dal Covid-19 che generano un forte rischio di trombosi a livello polmonare e non solo. Box Investimenti e ricerca Techdow Pharma investe annualmente in sviluppo e ricerca circa il dodici per cento del fatturato. Recentemente la società è stata quotata alla borsa di Hong Kong proprio allo scopo di reperire capitali da poter investire in ricerca e ampliare così la fase di investimenti in ricerca e sviluppo. In Italia la società opera prevalentemente nella commercializzazione del farmaco. Ha avviato uno studio sull’eparina, effettuando un piccolo investimento che si può considerare di ricerca per valutare la sicurezza e l’efficacia dell’eparina proprio sui malati Covid-19. Si tratta di uno studio autorizzato dall’Aifa e che nei primi mesi del 2021 dovrebbe arrivare a conclusione fornendo dati sull’efficacia del farmaco per questo genere di patologie. Giorgio Foresti, alla guida di Techdow Pharma Italy che ha sede a Milano - www.techdow.it Pubblicità redazionale
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Cadorna e la Marina Storia di una lunga amicizia Andrea Tirondola
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l 29 febbraio 1928 moriva il maresciallo d’Italia Armando Diaz, sepolto pochi giorni dopo nella basilica romana di Santa Maria degli Angeli. Seguirono il progetto e la costruzione, in quella grande chiesa, di un monumento funebre, realizzato nel tempo di nove mesi. Nel luglio di quell’anno Luigi Cadorna, anch’egli
maresciallo d’Italia, dopo avere letto di quest’opera e della possibilità che quel monumento ospitasse altri illustri personaggi, scrisse al figlio Raffaele: «Ti avverto che per nessuna ragione al mondo io debbo andare a finire colà. L’ho scritto nel mio testamento che la mia estrema dimora deve essere a Pallanza accanto ai miei
Laureato in Giurisprudenza nell’Università di Padova ed è avvocato cassazionista in Vicenza, in ambito civile, penale e amministrativo. Tenente di Vascello (CM) di complemento, è stato più volte richiamato in servizio, in particolare presso il Morosini di Venezia. Ha pubblicato il volume Pale a prora! Storia della Scuola Navale Francesco Morosini. Collabora con la Rivista Marittima (per la quale ha curato diversi supplementi) e con l’Ufficio Storico della Marina Militare, per il quale insieme a Enrico Cernuschi ha pubblicato diversi volumi. È presidente dell’associazione culturale Betasom.
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Cadorna generale dell’esercito (USMM).
vecchi. Io non so cosa farmene dei monumenti: mi bastano due metri quadri e due parole che dicano chi sono senza nessuna lode» (1). Di lì a poco, il 21 dicembre, anch’egli scomparve e non vide rispettate queste volontà in quanto, grazie a una sottoscrizione nazionale promossa dalle associazioni dei mutilati e dei combattenti, fu eretto nella sua Pallanza un mausoleo «nel più duro granito del Verbano tagliato e scalpellato», come d’Annunzio aveva definito in passato il volto di Cadorna, suscitando in lui, contrariamente a quanto si pensi dotato di senso dell’umorismo, una battuta: «Bella circonlocuzione per dire che sono brutto!» (2). Cadorna aveva messo per iscritto che avrebbe preferito qualcosa di più semplice, ma è legittimo supporre che abbia perdonato i combattenti che, dimostrando di non averlo dimenticato, vollero tributargli quell’estrema dimora. E fu senz’altro una scelta felice realizzarla sulle rive del Lago Maggiore, da lui amate sin dall’infanzia. Né si tratta di una questione di poesia.
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Per quanto il suo nome sia simbolo e sinonimo della più tremenda guerra terrestre, Cadorna — appassionato montanaro — fu sempre tutt’altro che insensibile rispetto all’acqua, dolce o salata che fosse. Da bambino aveva a lungo praticato la vela sul Verbano (3) e i suoi figli ricordarono la sua passione per il mare, non inferiore a quella per la montagna: «Nuotatore e rematore vigoroso, dimostrava ugual forza a resistere a qualunque bufera scuotesse il bastimento. Più il gigante traballava e i passeggeri a uno a uno si arrendevano, e più se la godeva imperterrito sulla tolda come un vecchio lupo di mare con l’unico effetto di sentire un formidabile appetito» (4). Dell’amore per il mare il giovane Cadorna avrebbe voluto, per di più, fare la sua professione. Allievo tredicenne del Collegio militare di Milano, nel maggio 1864 scrisse al padre Raffaele: «Quando la mamma sarà qui ce la discorreremo su quel tale affare della Marina e che del certo tu saprai. Io credo che non cederò poiché è troppo radicato in me quel desiderio» (5). Pochi giorni
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Cadorna e la Marina Luigi Cadorna nel 1860 a 10 anni, allievo del Collegio militare di Milano, la cui tradizione, e nella medesima sede, prosegue oggi con la Scuola militare «Teuliè». Durante gli anni trascorsi nell’istituto milanese, Cadorna maturò il desiderio di diventare ufficiale di Marina (archivio Cadorna).
dopo scriveva nuovamente al genitore esponendogli i dettagli per l’ammissione alla Regia scuola di Marina (l’Accademia navale del tempo, i cui corsi si tenevano tra Napoli e Genova) (6). Non avrebbe avuto problemi a superare le dure selezioni, in particolare le prove nelle materie scientifiche in cui eccelleva, ma un problema alla vista gli impedì di realizzare il suo sogno, dovendo ripiegare sull’Accademia militare per diventare ufficiale dell’Esercito; di quest’occasione perduta si dolse sempre nel chiuso della propria famiglia (7). Diventato, al culmine di una lunga e non facile carriera, capo di Stato Maggiore dell’Esercito nel luglio 1914, proprio nei giorni in cui iniziava, allargandosi sempre di più, la nuova, grande guerra europea, Cadorna dimostrò immediatamente che la sua concezione della strategia italiana assicurava alla Regia Marina un ruolo determinante e complementare rispetto al Regio Esercito: circostanza unica, più che insolita, nella storia di quel senior service italiano, eccezion fatta per i molto successivi generali Alberto Pariani e Ugo Cavallero. Cadorna trovò così un interlocutore ideale, quanto a lucidità e tenacia, nell’allora capo di Stato Maggiore della
Marina, l’ammiraglio Paolo Thaon di Revel e tutto ciò si tradusse, sin dal principio, in un confronto franco e cordiale (8). Se vogliamo non guastò neppure che i due, per quanto fossero entrambi formalisti inappuntabili, utilizzassero, tra loro, il dialetto piemontese, dandosi del tu anche nella corrispondenza (9). La collaborazione tra le Forze armate partì bene molto prima del 24 maggio 1915. In pratica dall’agosto 1914 e con l’Italia ancora neutrale, fu istituita una Divisione navale speciale, agli ordini dell’ammiraglio Patris, destinata a operare lungo l’ala a mare della III Armata schierata sul futuro fronte contro l’Austria-Ungheria (10). Thaon di Revel, essendo a sua volta consapevole, da marinaio, dei fondali di quelle lagune, pensò bene, a sua volta, d’inventare i pontoni armati, il primo dei quali, il Pavia, fu armato con i cannoni del vecchio incrociatore protetto Bausan, prelevati a Spezia e adattati a quella nuova bisogna, a partire dalle tavole di tiro e dal munizionamento, da ufficiali e sottufficiali del Genio del Regio Esercito. Quelle uniformi in grigioverde che si muovevano a bordo e in arsenale furono il concreto anticipo di una mentalità interforze inedita e imposta dai capi. Alle vecchie e spendibili (opinione degli equipaggi a parte) navi della Divisione speciale su richiesta di Cadorna si aggiunse poi, dal 24 giugno 1915 fino all’aprile 1916, la IV Divisione, formata da 4 moderni incrociatori corazzati, più veloci degli avversari e più potenti (11). Queste unità non poterono, peraltro, essere impiegate con profitto data la natura insidiosa della guerra nell’Alto Adriatico; lo stesso Cadorna ne aveva preso atto per tempo in una sua lettera del 25 giugno 1915, osservando: «Si dovrà nell’avvenire dare grande sviluppo alla torpediniera e al sommergibile» (12); in effetti la presenza di quelle navi, oltre a registrare la perdita dell’Amalfi a opera di un battello tedesco, era legata più alle concezioni navalistiche, in concorrenza con quelle di Thaon di Revel, del comandante della squadra, il Duca degli Abruzzi, e dell’ammiraglio Cagni, comandante di quel reparto, poi tornato nel Basso Adriatico. Sempre nell’ambito di una corretta ottica interforze Il capo di Stato Maggiore dell’Esercito Cadorna, ritratto nel 1915, assieme al sottocapo di Stato Maggiore gen. Carlo Porro, in occasione di un volo su un bombardiere Caproni (archivio Cadorna).
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L’ammiraglio Paolo Thaon di Revel, nella tenuta di Cadorna a bordo di un Caproni nel 1917.
al massimo livello, dopo l’entrata in guerra dell’Italia, fu destinato presso il Comando supremo il sotto capo di Stato Maggiore della Marina allo scopo di favorire la collaborazione tra le due Forze armate. Furono inoltre frequenti le visite di Thaon di Revel (e, dopo il 1° ottobre 1915, dei suoi successori prima che quell’ammiraglio tornasse a ricoprire, questa volta senza concorrenti, l’incarico di capo di Stato Maggiore il 9 febbraio 1917) (13). Questo costante scambio di vedute tra i massimi vertici assicurò una proficua collaborazione tra Esercito e Marina concretizzatasi, in partico-
lare, nel rinforzare lo schieramento, all’inizio numericamente non sufficiente, delle artiglierie pesanti campali delle Forze terrestri grazie all’impiego quotidiano dei pontoni armati, semoventi o a rimorchio, ben presto affiancati dei primi reparti di fanteria e artiglieria di Marina all’estremità del fronte terrestre, nucleo della futura Brigata Marina (14). Non tutto filò, naturalmente, sempre liscio. Pur condividendo la necessità di conservare il pilastro rappresentato dal campo trincerato di Valona, Cadorna si oppose strenuamente a qualsiasi sottrazione di Forze terrestri dall’Isonzo e dalle Alpi a favore dell’Albania e in occasione dei vari piani, studiati fino al 1918, per operazioni anfibie (sempre al livello, al massimo, di un reggimento) in Dalmazia, in Istria o subito dietro alla linea del fronte principale (15). Si trattò di una scelta, in nome del principio di concentrazione delle forze, condivisa nel 1915 dal ministro della Marina, l’ammiraglio Leone Viale (16). In seguito prevalsero le esigenze politiche: nel 1916 il Governo incrementò, fino Il capo di Stato Maggiore della Marina Thaon di Revel al fronte con l’uniforme grigioverde, da lui amata tanto da volervi essere infine sepolto.
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al livello di un Corpo d’armata, il contingente in Albania, pareggiando così le forze austro-ungariche nell’offensiva in quello scacchiere allora e nel 1918. Questi reparti furono messi agli ordini diretti del ministro della Guerra e non di Cadorna, il quale non esitò a scontrarsi, il 22 gennaio 1916, con l’intero Gabinetto, a partire dal nuovo ministro della Marina, l’ammiraglio Camillo Corsi, nel corso di una tempestosa riunione a Roma. Dal punto di vista politico, di per sé prevalente, non c’era niente da dire. Sotto il profilo militare, per contro, Cadorna, da tecnico, dimostrò di aver avuto ragione in quanto si trattò di un classico esempio di troppo poco e troppo tardi rispetto alle esigenze sul terreno. In altre parole l’assurdo di Lissa del 1866 non aveva insegnato nulla all’esecutivo (come pure, d’altra parte, sarebbe accaduto in occasione della guerra di Grecia dell’ottobre 1940). Nel febbraio 1916 le forze austro-ungariche, dopo avere sospinto sull’Adriatico (grazie ai tedeschi e ai bulgari) quel che restava dell’Esercito serbo (evacuato, infine, dalla Regia Marina e dai reparti navali francesi e britannici a Corfù), avanzarono su Durazzo, indifendibile a opera della sola Brigata Savona e destinata sin dall’inizio a essere abbandonata dopo aver imbarcato l’ultimo serbo. Il comandante della Brigata era il generale Giacinto Ferrero (in seguito trasformato nell’a dir poco improbabile «generale Leone» descritto da Emilio Lussu nel proprio celebre libro Un anno sull’Altipiano e reso ancor più infelice nella trasposizione cinematografica di quell’opera, tanto che lo stesso Lussu manifestò, dopo aver visto la pellicola, le proprie perplessità) (17). Ufficiale, in realtà, tutt’altro che ottuso e fanatico, oltre che molto stimato da Cadorna, Ferrero si regolò di conseguenza attendendo di essere lui pure trasferito a sud a cura dell’Armata navale. A questo punto, però, intervenne il Governo, impastoiatosi da sé correndo dietro alla propaganda avversaria. Il generale Emilio Bertotti, comandante superiore in Albania, ordinò pertanto, in base alle nuove direttive ministeriali, di resistere a Durazzo minacciando addirittura la fucilazione di Ferrero. Costui non poté che obbedire, comunicando ai propri dipendenti quell’ordine assurdo e che sarebbe stato pertanto necessario morire tutti sul posto (il tenente di vascello Gennaro Pagano di Melito, presente al discorso, scrisse al ri-
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Cadorna, al fronte, ascolta l’istruzione morale fatta da un capitano alla sua compagnia, per poi rivolgersi personalmente ai soldati. Quella dello scarso interesse di Cadorna per il morale delle truppe è una delle leggende più dure a morire, smentita da provvedimenti quali la reintroduzione dei cappellani militari e l’istituzione delle «Case del Soldato», o da circolari come quella del 20/07/1917 in cui faceva obbligo a ogni superiore di far comprendere al soldato «che egli è un uomo trattato con comprensione umana» (archivio Cadorna).
guardo: «Lo avremmo tutti abbracciato. Caro e magnifico generale Ferrero!» (18)). Le navi italiane rientrarono a Brindisi suscitando la reazione, indispettita e meravigliata, del comando dell’Armata navale (19), per poi tornare a Durazzo dieci giorni dopo, essendo stata finalmente riconosciuta dal Governo (senza più la precedente, inutile retorica letteraria) la situazione. Naturalmente il reimbarco, effettuato ora a contatto del nemico, comportò gravi perdite del tutto inutili. Cadorna non mancò di stigmatizzare l’accaduto sottolineando, nel contempo, l’indispensabile concorso finale della Marina (20). Il momento più alto e tragico della felice collaborazione tra Cadorna e la Regia Marina fu, comunque, quello immediatamente successivo allo sfondamento del fronte verificatosi a Caporetto il 24 ottobre 1917 e della ritirata decisa definitivamente tre giorni dopo. Il cardine fondamentale della manovra, svolta interamente
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sotto la guida di Cadorna, consistette nel nuovo schieramento lungo la linea del Piave, identificata e organizzata, di base, dal capo di Stato Maggiore sin dall’anno precedente nella «dannata ipotesi» di una riuscita offensiva avversaria. Quella linea, contrariamente alla soluzione, più arretrata, del Mincio che pure era stata patrocinata da molti politici nel caos di qui giorni, attribuiva, correttamente, al massiccio del Monte Grappa il ruolo di principale contrafforte (fortificato e dotato delle necessarie sistemazioni logistiche, ossia strade e riserve d’acqua). La linea del Piave rispondeva, inoltre, non solo all’esigenza di ridurre la lunghezza del fronte, ma anche a quella, decisiva dal punto di vista delle operazioni navali in tutto l’Adriatico, di difendere Venezia. Pertanto Thaon di Revel «trovò in Cadorna un corrispondente pienamente consapevole della necessità di mantenere Venezia, segno della sua visione strategica, estremamente chiara, che gli faceva vedere bene le con-
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seguenze negative di un eventuale abbandono dell’Alto Adriatico al nemico» (21). La Marina e il suo capo condivisero, inoltre, lo spirito dell’ordine del giorno al Regio Esercito firmato da Cadorna il 26 ottobre: «L’ora è grave. La patria è in pericolo. Ma il pericolo vero non sta nella forza del nemico quanto nell’animo di chi è pronto a credere che quella forza è invincibile. La sconfitta è sempre di chi è disposto per il primo a ritenersi vinto (…). Ma l’appello supremo lo faccio al cuore generoso dei soldati di cui da due anni conosco il valore, la serena e paziente resistenza ai sacrifici, l’eroismo di cui la nazione è fiera. Essi devono oggi rendersi degni dei loro fratelli che a Passo Buole, sul Novegno, sull’Altipiano di Asiago, hanno detto al nemico: “Di qui non si passa”» (22). Quei momenti furono ricordati da Cadorna qualche anno dopo allorché, nel febbraio 1923, la città di Venezia conferì la cittadinanza onoraria a Thaon di Revel e a Diaz, dopo avere già attribuito a quest’ultimo, nel 1919, una spada d’onore. Scrisse privatamente Cadorna al senatore Luigi Albertini, direttore del Corriere della Sera e fra i suoi pochi sostenitori dopo il 1918: «Ma, di grazia, chi ha salvato Venezia sul Piave nel 1917, nel momento del massimo pericolo? Rammento che quando dopo Caporetto (il 29 ottobre), Revel venne a consultarmi sul modo di salvare Venezia, gli dissi che c’era un modo solo, quello cioè di difendere a ogni costo la linea del Piave. Ma questo non conta, e così si scrive la storia…a Venezia!» (23). L’identità di vedute tra i due capi, non solo strategica, ma anche di carattere, è riscontrabile in relazione a uno degli episodi per i quali Cadorna fu anche oggigiorno oggetto delle critiche più feroci: il famigerato Bollettino di Caporetto del 28 ottobre 1917 (24). Redatto dallo stesso ufficiale che un anno dopo scrisse il Bollettino della Vittoria, il comunicato in questione citava: «… La mancata resistenza di riparti della II Armata vilmente ritiratisi senza combattere, o ignominiosamente arresisi al nemico», per poi lodare «gli sforzi valorosi delle altre truppe». Come noto quel testo (che pure diversi ministri presenti alla sua prima lettura avevano approvato) non piacque al Governo, il quale sostituì l’incipit con le parole «la violenza dell’attacco e la deficiente resistenza di taluni riparti della
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II Armata» non prima, però, che la versione originale fosse diffusa. È poco noto che quando il sotto capo di Stato Maggiore (il generale Carlo Porro) gli lesse la prima versione, Cadorna esclamò «No! Questo no!», ma si fece poi convincere della necessità di dare una sferzata senza nulla nascondere (25). D’altra parte quel bollettino rispecchiava le informazioni che pervenivano sui tavoli del Comando Supremo, purtroppo confermate dalla documentazione e dalle testimonianze postbelliche (26). Fra i non molti che ebbero in quelle ore il coraggio di non dare il proverbiale calcio dell’asino a Cadorna (il quale sarebbe stato sostituito, su decisione del Re, dal generale Armando Diaz il 9 novembre 1917) ci fu proprio l’ammiraglio Thaon di Revel, che disse al collega: «Bene! Così si dice la verità», dimostrando «che per uomini che avevano preoccupazioni esclusivamente d’ordine militare quel comunicato appariva allora necessario e anche opportuno» (27). Lo stesso Cadorna riferì alla Commissione d’inchiesta su Caporetto, di cui si dirà, che il Bollettino era stato «confortato» dalla «esplicita approvazione del capo di Stato Maggiore della Marina» (28), e nella sua relazione scritta sulla questione osservò che persino il Re gli aveva espresso il suo consenso (29). A questo proposito, ancora una volta, il quadro odierno, a bocce ferme e col manzoniano senno di poi, è — dal punto di vista storico e storiografico — peggio che fuorviante. Che gli uomini del Regio Esercito fossero stanchi e psicologicamente scarichi dopo due anni di massacri senza precedenti, da noi come ovunque altrove, è un fatto che neppure un cadorniano di ferro (e reduce di quei giorni) il generale Emilio Faldella, grande storico militare italiano, ha mai pensato di negare. Quello che ci si dimentica di ricordare, in omaggio a una retorica dell’antiretorica tipicamente nostrana, è la cronologia dei fatti. La prima rivoluzione russa del 1917 non fu, come si legge troppo spesso sul web e in certi libri, quella bolscevica di Lenin, ma quella democratica e pressoché senza vittime di Alexander Kerensky, il quale aveva continuato, con poco successo, la guerra contro gli imperi centrali. I primi, veri moti rivoluzionari europei contraddistinti dall’uccisione di cittadini giudicati borghesi e dal saccheggio delle loro abitazioni erano quelli avvenuti a Torino nell’agosto 1917 con un bilancio
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(ufficiale) di 50 morti ed episodi di fraternizzazione tra soldati di cavalleria e rivoltosi che avrebbero caratterizzato, da allora in poi, i peggiori incubi di un giovane tenente colonnello, Vittorio Ambrosio, testimone impotente, o quasi, di quegli avvenimenti per poi diventare, nel 1943, capo di Stato Maggiore generale. Ricordi e timori tanto precisi da spingerlo ad affrettare i tempi, tra il 25 luglio e l’8 settembre 1943, convinto che non ci fosse un minuto da perdere «finché i carabinieri hanno ancora il sottogola» (30). Fermo restando la pessima gestione politica e propagandistica di quel famigerato Bollettino (ne circolarono innumerevoli versioni apocrife), se quella era ancora la reazione, a 26 anni di distanza, figurarsi a due mesi di distanza dalle vicende torinesi, estesesi, poco dopo, in forma appena attenuata, al resto del triangolo industriale. A ogni modo un bell’elogio all’opera di Cadorna fu pronunciato, dopo la sua morte, da un altro marinaio, Augusto Vittorio Vecchj (alias Jack la Bolina), il quale, nel ricordo apparso sulla rivista della Lega Navale L’Italia Marinara, scrisse: « (…) Non fui affatto stupito allorquando, avendo chiesto al grande capitano, che mi onorò della sua amicizia, se era stato soddisfatto dell’opera della Marina, mi rispose senza alcuna esitazione di sì: anzi, ricordò il sempre sollecito concorso prestato all’opera comune dall’ammiraglio Thaon di Revel. (…) Cadorna si giovò della flotta in ogni maniera. Alla destra del suo esercito, essa la mantenne in contatto con la piazzaforte di Venezia; e i distaccamenti di marinari in grigio-verde fecero assidua guardia alla rete di vie d’acqua scavate apposta per aprire comunicazione per vie interne tra Venezia e Monfalcone. Voglio ripeterlo, il Maresciallo non sarebbe stato il completo capitano che fu, se non avesse adoperata l’arma navale con la medesima maestria che dimostrò nel manovrare l’esercito campeggiante» (31). La storia potrebbe finire qui, con il passaggio di consegne tra Cadorna e Diaz al vertice del Comando Supremo del 9 novembre 1917 soddisfacendo, a un tempo, le esigenze politiche italiane e degli alleati e degli stessi generali austro ungarici, Conrad in testa, i quali considerarono la sua caduta un successo ancor maggiore della stessa avanzata di Caporetto. Ma in realtà le vicende dei rapporti di Cadorna con la Marina
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non terminarono. Posto in ausiliaria nell’estate 1918, quel già onnipotente generale diventò il bersaglio dell’ostilità della quasi totalità dello schieramento politico: i liberali non gli perdonavano gli sferzanti screzi coi Governi nel corso della guerra; per i socialisti era il simbolo stesso del militarismo guerrafondaio; per i cattolici era il responsabile dell’«inutile strage» biasimata dal Papa. Non solo: per quanto credente, anche se non bigotto, Cadorna era pur sempre il figlio del conquistatore di Porta Pia, e nel contempo era inviso presso i generali Diaz e Pietro Badoglio — nuovo sotto capo di Stato Maggiore — a loro volta in odore, secondo la vox populi, di massone-
ria anticlericale. A queste correnti si sarebbero in seguito accodati anche i primi, neonati fascisti. Subito dopo Caporetto il nuovo Governo presieduto da Vittorio Emanuele Orlando (il quale, da ministro dell’Interno nel 1916 e nel 1917, aveva deciso di non dar corso a ripetute richieste scritte di Cadorna che sollecitavano iniziative contro quello che veniva definito il disfattismo che minava l’Esercito, salvo ripensarci, con mano ben altrimenti pesante, da Presidente del Consiglio) nominò una Commissione d’inchiesta destinata a indagare sui fatti dell’ottobre 1917. Tra i componenti di questa Commissione figurava anche un ammiraglio, Felice Napoleone Canevaro, già ministro
Sopra: Giovanni Roncagli, qui ritratto nel grado di capitano di corvetta. Scienziato ed esploratore, fondatore dell’Ufficio Storico della Marina, strettamente legato sia a Thaon di Revel che a Cadorna (L’Italia Marinara). Sotto a sx: Un ritratto in borghese di Luigi Cadorna nei primi anni 20, nel duro periodo, segnato da vessazioni morali e ristrettezze economiche, che seguì al suo collocamento d’autorità in ausiliaria avvenuto nel 1918 (archivio Cadorna). Sotto a dx: Raffaele Paolucci sul fronte dolomitico nel maggio 1916. Prima di vincere il concorso nel Corpo Sanitario della Regia Marina nell’estate di quell’anno, il futuro affondatore del Viribus Unitis prestò servizio, sempre quale ufficiale medico, nell’8° Reggimento Bersaglieri. Molto tempo prima Cadorna aveva lungamente comandato (per quattro anni) un altro Reggimento di fanti piumati, il 10° (Paolucci, Il mio piccolo mondo perduto).
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della Marina e degli Esteri. Un mese dopo l’assunzione di quell’incarico, però, l’Ammiraglio si dimise da quel consesso, formalmente per motivi di salute, ma in realtà, come scrisse lo stesso Cadorna: «… Visto di che si trattava» (32). In effetti la Commissione, la quale depositò la propria relazione nell’agosto 1919 addossando (spingendosi al di là dei quesiti cui doveva rispondere) a Cadorna ogni genere di colpa d’ordine tecnico e morale, agì in modo più che discutibile. Naturalmente quell’iniziativa non sopì, ma peggiorò soltanto le polemiche in corso da anni. Lo ammise poco tempo dopo, onestamente e con rassegnazione, lo stesso segretario della Commissione, il colonnello Fulvio Zugaro, che, nella prefazione di un proprio saggio a parte, scrisse: «Studioso appassionato nei miei più giovani anni della storia militare, e di recente chiamato, purtroppo, a ordinare notevoli per quanto incompleti e unilaterali documenti della nostra guerra, per trarne — sotto l’ausilio d’altrui ansiosissima impellente pressione — taluni dati ed elementi di giudizio, posso, nella mia modesta esperienza, vedere quanto erri chi ricerchi le ragioni di avvenimenti militari, siano essi fausti o infausti, nei fattori tattici e strategici immediatamente precedenti, o peggio esclusivamente le ricerchi nell’azione diretta di comando dei supremi reggitori degli eserciti » (33). L’«ansiosissima pressione» citata da Zugaro rientrava nella sfera politica oggettiva di Orlando e trasformò, in pratica, il già generalissimo in una sorta di paria nel corso dei feroci dibattiti del biennio rosso cui seguì, dalla fine del 1920, lo squadrismo in un clima di guerra civile senza precedenti, quanto a dimensioni, estensione e numero di morti, contati a migliaia, persino rispetto alla, viceversa, localizzata repressione del brigantaggio del 1860-65. Chiuso in un dignitoso silenzio, ritiratosi a vita privata a Firenze in modeste condizioni economiche e impegnato a scrivere La guerra alla fronte italiana (cronistoria documentata degli eventi che lo videro protagonista dal 1914 al 1917), Cadorna ebbe, tuttavia, modo di constatare ben presto di non essere stato dimenticato dalla massa degli ex combattenti. Una prima prova tangibile di questi sentimenti di identificazione dell’uomo coi reduci ebbe luogo nei giorni seguenti le celebrazioni, in massima parte spontanee,
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avvenute in occasione della traslazione a Roma del Milite Ignoto, all’inizio del novembre 1921. A causa di una maldestra lettera d’invito alla cerimonia finale indetta nella capitale inviata dal ministro della Guerra, e pensando che, trovandosi in uniforme tra tanti generali che erano stati suoi subordinati fino al 1917, ciò li avrebbe messi in imbarazzo, Cadorna preferì infatti rendere omaggio, da semplice cittadino e in borghese, confuso tra la folla, alla salma del soldato ignoto al suo passaggio per Firenze. Il successivo 6 novembre ebbe quindi luogo, nel capoluogo toscano, una grande cerimonia commemorativa della vittoria che si concluse con un corteo cui presero parte sia Cadorna (sempre in borghese) sia Thaon di Revel. Tutti i presenti vollero che ad aprire il corteo fosse l’anziano generalissimo, il quale non mancò di apprezzare il gesto di cortesia manifestatogli dall’Ammiraglio. Thaon di Revel gli cedette, in effetti, il passo e la precedenza che pur gli spettavano di diritto, essendo stato insignito del Collare dell’Annunziata diventando, così, cugino del Re (34): un’ulteriore
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conferma, se vogliamo, del rispetto e dei sempre ottimi rapporti tra i due in un periodo in cui, tra i generali Luigi Capello, Enrico Caviglia e Badoglio, tanto per citare tre soli nomi, era in corso una lotta feroce a colpi di libri e memoriali più combattuta delle stesse giornate di Caporetto e destinata soltanto a peggiorare l’immagine dell’Esercito e dei suoi capi presso chi la guerra l’aveva fatta in prima linea. Tra quanti non gradirono le manifestazioni di stima che Cadorna riceveva dai combattenti vi fu il quotidiano fascista Il Popolo d’Italia, foglio che già aveva violentemente attaccato quel generale il precedente 28 ottobre per la sua assenza alle cerimonie romane. L’8 novembre 1921 quello stesso giornale pubblicò un fondo del proprio fondatore e direttore, Benito Mussolini, in cui, pur ammettendo candidamente di essere «incompetente in materia», l’autore biasimava Cadorna per il suo operato nella Grande guerra utilizzando gli stessi argomenti della Commissione d’inchiesta (35).
Tra i primi e più puntuali a esporsi in difesa di Cadorna fu proprio, in quel preciso momento storico, un marinaio, e non uno qualsiasi: il capitano di fregata in congedo Giovanni Roncagli (1857-1929) (36). Esploratore, idrografo e cartografo (fu pioniere della topografia aeronautica), autore di numerosi saggi di strategia, economia, geografia commerciale, organica e di memorie, Roncagli ricoprì, dal 1897 fino alla sua scomparsa, la carica di segretario della Società Geografica Italiana. Richiamato in servizio quale addetto all’Ufficio informazioni all’inizio della guerra italoturca, ricoprì in seguito l’incarico, dal 1912 al 1920, di primo capo dell’Ufficio Storico della Marina (37). Roncagli era, infine, strettamente legato a Thaon di Revel, del quale era stato capocorso alla Scuola di Marina di Genova, e che scrisse, nel giugno 1918, l’introduzione al suo volume Il problema militare dell’Adriatico spiegato a tutti (38). Il comandante Roncagli coltivava rapporti di amicizia anche con Cadorna, tanto che nel 1922 diede alle stampe un volume nel quale, forte delle proprie competenze specifiche, analizzò in maniera critica il metodo e le conclusioni della Commissione d’inchiesta, oltre a commentare il precedentemente citato La guerra alla fronte italiana scritto in prima persona da quel generale (39). Roncagli ebbe infine modo di dimostrare, in seguito, la sua vicinanza a Cadorna in frangenti decisamente delicati. Sin dal primo dopoguerra il maresciallo Foch, capo di Stato Maggiore dell’Esercito francese dopo gli ammutinamenti del 1917 e fino alla fine del conflitto, aveva rivendicato l’idea di attestare la difesa italiana dopo Caporetto sul Piave e di avere dato suggerimenti in questo senso a Cadorna. Quest’ultimo aveva già confutato l’assunto nel proprio La guerra alla fronte italiana, ma allorché, sul finire nel 1922, la questione tornò alla ribalta sulla stampa internazionale, l’ex generalissimo pubblicò, in difesa della dignità nazionale e della verità storica, alcuni articoli su questo tema, l’ultimo dei quali apparve nell’aprile 1923 sulla Rassegna Italiana, suscitando un vivace dibattito che si Firenze, 4 novembre 1923. Luigi Cadorna, in borghese sulla sinistra, guida il corteo per il 5° anniversario della Vittoria dopo essere stato convinto a prendervi parte, quasi con la forza, dai combattenti fiorentini (archivio Cadorna).
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estese alla più ampia questione della sua, in pratica, riabilitazione (40). Nel febbraio 1923 apparve poi sul Corriere della Sera un articolo anonimo (redatto da Angelo Gatti) con cui si chiedeva al Governo di estendere a Cadorna (il quale percepiva la misera pensione decisa dal Governo Nitti, nel 1920, a danno degli ufficiali generali e ammiragli tagliando, per risparmiare, gli importi previsti per legge a fronte dei contributi versati) gli assegni straordinari che sarebbero stati di lì a poco approvati per Diaz e Thaon di Revel (nominati, quattro mesi prima, rispettivamente ministro della Guerra e della Marina nel Governo Mussolini) (41). Pochi giorni dopo Cadorna scrisse al direttore Albertini per ringraziarlo manifestando, però, la propria perplessità in merito a quest’iniziativa: «… Perché Mussolini mi è avversissimo», e così Diaz (42). Fu facile profeta. Il Parlamento approvò gli assegni per i due ministri militari, ma non per lui. Il 18 febbraio 1923 Cadorna scrisse al figlio: «(…) Il che significa che Mussolini ha messo il suo veto e che tutti si sono inchinati come era prevedibile. Amen! Tale è il mio destino e sarebbe vano e sciocco ribellarvisi. (…) Perciò è inutile nascondersi la realtà, la quale è quella di finire la vita in una relativa miseria. Ma ci adatteremo anche a questa: ci si adatta a tutto; l’importante è non capitolare mai!» (43). La perdurante polemica con Foch, e il vivo interesse dei lettori, diedero peraltro il destro al giornale di Albertini di tornare, nel maggio seguente, sulla questione Cadorna, ricordandone i meriti e chiedendone la promozione a generale d’esercito (44). Questa volta arrivò una diretta e stizzita risposta del Governo Mussolini: il 18 maggio un comunicato stampa informava che negli ambienti governativi si reputava inopportuno parlare di un uomo «legato a due sciagure del nostro esercito», invitando i suoi sostenitori a restare, per sempre, nel silenzio. Cadorna ritenne, sulle prime, che quel comunicato, destinato a suscitare l’indignata reazione delle associazioni combattentistiche, fosse farina del solo sacco di Cesare Rossi, capo Ufficio stampa di Mussolini (45). Ma pochi giorni dopo fu proprio il comandante Roncagli, suo «amico devotissimo» come lo definì il generale nel darne notizia ad Albertini, a rivelargli che il promotore di quelle righe era stato il ministro Diaz («pare adunque che nella ca-
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pitale la cosa sia pressoché di dominio pubblico. Io stento ancora a crederla, tanto è enorme») (46). Nella sua lettera a Cadorna, Roncagli scrisse di avere avuto notizia di ciò (e autorizzazione a riferirne) «da un’alta personalità militare a Lei devota e che mi onora della sua amicizia», descrizione che non si fatica ad attribuire a Thaon di Revel. Cadorna naturalmente si adirò. Diaz, da semplice colonnello, era stato, dal 1914 al 1916, suo capo segreteria e, una volta assunto l’incarico ministeriale, gli aveva scritto manifestandogli la propria «deferenza» e «costante devozione» (47). Nelle settimane seguenti la paternità dell’ormai famigerato comunicato fu pubblicamente attribuita a Diaz da un articolo del senatore Maffeo Pantaleoni (48). A questo punto, il 10 agosto 1923, Cadorna scrisse a Diaz, ricordandogli le sue precedenti manifestazioni di stima e chiedendo, laddove la notizia diffusa sulla stampa fosse stata errata, una smentita formale. Il ministro replicò in modo tortuoso senza prendere espressamente posizione; né rispose a una successiva lettera di Cadorna sullo stesso argomento (49). L’intento di Cadorna fu, all’inizio, quello di rendere di pubblico dominio l’intera questione, come evidenziano alcune sue lettere a una conoscente, la contessa Virginia Tadini Buoninsegni (vedova di un ufficiale di Marina), cui il 7 agosto 1923 Cadorna scrisse in merito alla propria prima missiva a Diaz: «Io lo diffido a smentire pubblicamente l’asserzione del Pantaleoni. E siccome non lo potrà fare, anche per riguardo a Mussolini, gli vuoterò allora completamente il sacco. È questo un bel caso davvero!» (50). Il 22 agosto, dopo avere inviato al ministro la seconda lettera di cui si è detto, Luigi Cadorna scrisse di nuovo alla contessa aggiungendo che: «Quando sarà scoccato un mese di silenzio, trarrò da questo le opportune deduzioni e constatazioni, ed egli non avrà da lodarsene» (51). Cadorna informò delle proprie intenzioni anche lo storico Alberto Lumbroso (52), dicendogli «che era deciso a farla finita una buona volta, e che stava preparando uno scritto con cui intendeva rispondere pubblicamente alle malevole insinuazioni fatte a suo danno». A questo punto sarebbe stato lo stesso Lumbroso a pregare Thaon di Revel, col quale era in buoni rapporti e che sapeva essere sincero amico del generale,
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ad agire da intermediario allo scopo di scongiurarne un intervento pubblico (53). Un’ipotesi, questa, senz’altro possibile una volta che si considerino le polemiche al vetriolo che stavano dividendo, in quello stesso periodo, gli altri maggiori generali della Grande guerra, da Hubert Gough, comandante della 7ª Armata britannica crollata durante la Caporetto inglese del 21 marzo 1918, al francese Robert Nivelle fino al generale tedesco Ludendorff, per tacere della faida, protratta fino al 1936, tra gli ammiragli Jellicoe e Beatty e ai giudizi al cianuro dell’ammiraglio Von Tirpitz. Thaon di Revel, il quale era rimasto estraneo alla polemica, ma che non aveva evidentemente apprezzato la mossa del Governo di cui faceva parte, si prestò di buon grado a questo compito, facendo desistere, alla fine, il generale (54). Cadorna, pertanto, tacque ancora una volta e anzi, considerandosi a maggior ragione un appestato per le istituzioni, rifiutò, nei mesi seguenti, gli inviti a presenziare a varie cerimonie, che pure continuavano a pervenirgli numerosi, «perché non ne sono degno». Così, alla richiesta delle associazioni combattentistiche di presenziare alla cerimonia per il 5° anniversario della vittoria tenutasi a Firenze il 4 novembre 1923, rispose che per tale motivo non avrebbe potuto; ciò nonostante, fu letteralmente prelevato dalla sua abitazione e poi portato sulle spalle da quelli che erano stati i suoi soldati (55). Il fascismo intransigente non gradì e il gerarca Roberto Farinacci commentò, sul suo quotidiano Cremona Nuova, sotto il titolo «Il fascismo vigila attentamente certe inopportune manifestazioni», in questo modo: «L’opporre Cadorna a Diaz e quindi Cadorna al fascismo è una delle tante linee del programma antifascista» (56). La spaccatura (anche in merito a Cadorna) tra il fascismo e le associazioni dei combattenti (le quali, nel frattempo, promossero una sottoscrizione nazionale per donare al generale una villa a Pallanza), deflagrò, nell’estate 1924, dopo l’omicidio Matteotti, delitto in seguito al quale il generale scrisse ad Albertini che il discredito aveva colpito Mussolini «1° per il sistema di violenza che nessun uomo libero può tollerare; 2° per essersi circondato di canaglia» (57). Il deputato Carlo Delcroix, presidente dell’Associa-
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zione nazionale mutilati e invalidi di guerra (nonché fervido sostenitore di Cadorna) manifestò subito le proprie critiche al Governo. In luglio si tenne inoltre, ad Assisi, il congresso dell’Associazione nazionale combattenti e reduci e nel corso del dibattito non mancarono tanto critiche aperte al fascismo quanto richieste di riabilitazione di Cadorna. La medaglia d’oro di Marina Raffaele Paolucci, affondatore della nave da battaglia Viribus Unitis, condannò espressamente il «nefando delitto» Matteotti (58). Fu infine votato un ordine del giorno destinato a provocare l’ira di Mussolini. Quel documento sanciva, infatti, l’indipendenza politica dei combattenti e condannava, nel contempo, ogni illegalità. L’atto in questione era stato presentato dal presidente dei combattenti, la medaglia d’oro Ettore Viola, e proprio costui si recò, pochi giorni dopo, con una delegazione, dal Re per chiedergli, «senza perifrasi» di trarne le conclusioni politiche (59). Si trattava di un atto privo di valore politico e costituzionale visto che (cosa spesso dimenticata da certi libri) la maggioranza parlamentare, basata sui fascisti e sui cattolici era rimasta, nonostante tutto, la stessa del «Mussolini a pieni voti» del novembre 1922, ma il campanello d’allarme, nell’Italia non certo pacificata del 1924-26, fu, non di meno, grave e importante. In occasione della solenne consegna a Cadorna della
Padova, 14 giugno 1925: un raggiante Cadorna in occasione della cerimonia per la consegna del bastone di comando da Maresciallo (archivio Cadorna).
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villa donatagli a Pallanza dai combattenti, lo stesso Paolucci inviò questo messaggio: «Il generale Cadorna conosce da tempo i miei sentimenti nei suoi riguardi. Da tempo egli sa che con altri deputati io volevo alla Camera farmi promotore di una legge che considerasse il generale Cadorna alla stessa stregua del generale Diaz, nei riguardi degli assegni speciali; e ciò quando doveva venire in discussione la proposta di tali assegni per il generale Diaz e per l’ammiraglio Revel. Ma conservo la nobile lettera con la quale il grande Generale mi vietò tale azione. Egli non avrebbe potuto accettare alcun assegno senza un preciso riconoscimento morale. Il riconoscimento gli viene oggi dal popolo. Gli viene dal nostro cuore di soldati che non dimenticano» (60). Mussolini, cui non difettava certo il fiuto politico, comprese che non poteva continuare a tirare la corda rispetto al numeroso e influente mondo dei reduci. Si risolse quindi ad accogliere una delle principali e politicamente più innocue tra le istanze avanzate dai combattenti (condivisa, oltretutto, dall’allargata base del partito nato nel 1921 e chimicamente molto diverso ri-
spetto al gruppuscolo di vecchi della vigilia e repubblicani di piazza San Sepolcro, nel 1919): la riabilitazione di Cadorna (61). Il 3 novembre 1924 fu così istituito il nuovo grado di Maresciallo d’Italia, di cui furono insigniti Cadorna — richiamato formalmente in servizio — e Diaz, nonché quello di Grande Ammiraglio, riservato a Thaon di Revel; ciò nonostante l’opposizione di Diaz (62) il quale, risultando (come da anzianità) posposto a Cadorna sull’annuario, inviò nel novembre 1925, con «un senso di amarezza e di dolore», all’amico Farinacci una lettera chiedendogli di risolvere, in suo favore e in sede politica, la questione delle precedenze (63). I due neo-marescialli si trovarono giocoforza assieme allorché, il 14 giugno 1925, ricevettero congiuntamente, nel Palazzo della Ragione di Padova, i propri bastoni di comando. L’oratore ufficiale della cerimonia fu un marinaio, il già ricordato Raffaele Paolucci, il quale disse rivolgendosi a Cadorna: «L’Italia dei soldati vi è grata non solo per l’Esercito e le vittorie che ci donaste, ma anche perché sapeste romanamente ta-
I funerali di Cadorna, tenutisi a Pallanza il 27 dicembre 1928. Dietro il principe Umberto, in prima fila con dei diplomatici, seguono in seconda fila il grande ammiraglio Thaon di Revel, il capo di Stato Maggiore dell’Esercito gen. Gualtieri, Emanuele Filiberto di Savoia-Aosta, Raffaele Cadorna e il capo di Stato Maggiore della Marina, Ernesto Burzagli (archivio Cadorna).
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cere, quando una sola parola poteva accendere incendi terribili. Sapeste chiudere nel vostro cuore un’amarezza che difficilmente avrà avuto l’eguale nella storia degli uomini. Nei giorni della vittoria, quando voi chiuso nella piccola casa di Firenze sentivate il tripudio della folla e la vostra spada pendeva inerte alla parete, non c’era un cavallo che vi portasse a fianco del vincitore alla testa dell’Esercito. Chi scrisse sulla piccola casa la parola ingiusta e terribile “Caporetto” non era l’Italia. L’Italia è questa che non ha atteso la vostra morte per rendervi onore». Vale la pena riportare, a questo punto, la risposta di Cadorna. Sono parole che, nell’esaltazione del silenzioso sacrificio dei soldati, richiamano il Il varo dell’incrociatore LUIGI CADORNA, avvenuto a Trieste il 30 settembre 1931(L’Italia Bollettino della Vittoria navale di Thaon di Marinara). Revel: «E in noi, comandanti, esalta sopra tutto il valore unico costante dei soldati. Poiché — e senza via d’uscita; coi quali ho anche usato a volte palo sento con fierezza — gli onori fatti a me in quest’ora role dure, dettate dalla necessità e non dal cuore; ai vanno oltre la mia persona; vanno al combattente itaquali non ho potuto dare singolarmente il premio che liano di tutte le battaglie e di tutte le vittorie; vanno ai si meritavano, ma che sento oggi uniti a me e comparvivi e ai morti; a quei milioni di silenziosi eroi a cui ho tecipi della giustizia che mi è resa» (64). chiesto il sacrificio di ogni cosa più cara; a cui ho detto Così, riparati i torti subiti, Cadorna visse serenache bisognava esser pronti a morire per un altissimo mente i propri ultimi anni, spegnendosi il 21 dicembre scopo, che essi forse non vedevano sempre, ai quali ho 1928 a Bordighera, su quel mare che tanto lo aveva atdovuto far spargere il sangue, anche quando il suctratto da ragazzo. Alle esequie, tenutesi a Pallanza, la cesso pareva lontano, l’offensiva temeraria, e la lotta Marina non mancò: oltre all’ammiraglio Umberto Cagni, che volle accompagnare la salma in treno dalla Liguria al lago, presenziarono infatti sia Thaon di Revel che il capo di Stato Maggiore, ammiraglio Ernesto Burzagli. Il 24 maggio 1932 l’inaugurazione del Mausoleo sulle rive del lago fu presieduta da un altro marinaio, Costanzo Ciano. Il nome di Cadorna fu infine ricordato dalla Marina con un incrociatore leggero della seconda serie dei «Condottieri», varato nel 1931 e unità eponima della sua classe a fianco, come era logico che fosse, del gemello Armando Diaz. Di quella nave, sopravvissuta alla Seconda guerra mondiale e radiata nel 1951, rimane, esposta, nel Museo storico navale di Venezia, la ruota del timone: un ricordo che, in una città che tanto gli è debitrice, ben rappresenta la figura e il ruolo del La ruota del timone dell’incrociatore CADORNA, conservata nel Museo storico navale di Venezia (archivio Tirondola). maresciallo Luigi Cadorna. 8 Rivista Marittima Giugno 2022
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Cadorna e la Marina NOTE (1) Luigi Cadorna, Lettere famigliari, a cura di Raffaele Cadorna, Mondadori, Milano, 1967, p. 317. (2) Ibidem, pp. 16-17. (3) Rodolfo Corselli, Cadorna, ed. Corbaccio, Milano, 1937, p. 17. (4) Luigi Cadorna, Pagine polemiche, ed. Garzanti, Milano, 1950, pp. XXVI-XXVII. Il libro è stato ripubblicato dal nipote Carlo, con numerose integrazioni, col titolo Caporetto? Risponde Cadorna, ed. Bastogi, Roma, 2020. (5) Cadorna, Lettere famigliari, op. cit., p. 52. Nel 1859 il padre Raffaele, assunto il ministero della Guerra nel governo provvisorio di Toscana, si era anche occupato della riorganizzazione dell’ex Marina granducale. (6) Ibidem, p. 53. (7) Cadorna, Pagine polemiche, op. cit., p. XXVI. (8) Ferdinando Sanfelice di Monteforte, La collaborazione tra Thaon di Revel e Cadorna e il ruolo della Marina Militare italiana in La Guerra di Cadorna. 1915-17. Atti del Convegno. Trieste-Gorizia 2-4 novembre 2016, ed. Ufficio Storico SME, Roma, 2018, p. 534; il saggio è stato contestualmente pubblicato sulla Rivista Marittima, dicembre 2016. (9) Per quanto nativo di Pallanza, Cadorna amava esprimersi in torinese. (10) Cronistoria documentata della guerra marittima italo-austriaca 1915-1918, coll. 1, La preparazione dei mezzi e loro impiego, Fasc. 8, Cooperazione della Marina alle operazioni dell’esercito sul fronte terrestre, Ufficio di Stato Maggiore della Regia Marina-Ufficio Storico, pp. 5-6; Luigi Cadorna, La Guerra alla fronte italiana, fino all’arresto sulla linea del Piave e del Grappa, vol. I, ed. Treves, Milano 1921, p. 106; Franco Favre, La Marina nella Grande Guerra, ed. Gaspari, Udine, 2008, pp. 53-55. (11) Cronistoria documentata, op. cit., p. 20. (12) Cadorna, Lettere famigliari, op. cit., p. 110. (13) Sanfelice di Monteforte, La collaborazione tra Thaon di Revel e Cadorna, op. cit., p. 535. (14) Ibidem, pp. 536-538. (15) Si veda l’ampia ricostruzione dei fatti in Luigi Cadorna, Altre pagine sulla Grande Guerra, ed. Mondadori, Milano, 1925, pp. 101 ss. (16) Riccardo Nassigh, La Marina italiana e l’Adriatico. Il potere marittimo in un teatro ristretto, ed. U.S.M.M., Roma, 1998, p. 61. (17) Una puntuale analisi di tale testo riguardo al generale Ferrero si trova in Paolo Pozzato e Giovanni Nicolli, Mito e antimito. Un anno sull’altipiano con Emilio Lussu e la Brigata Sassari, ed. Ghedina&Tassotti, Bassano del Grappa, 1991, p. 57, e in Paolo Pozzato, Un anno sull’altipiano con i Diavoli rossi, ed. Gaspari, Udine, 2006, pp. 91-96; Emanuele Farruggia, Uomini contro, Nuova Storia Contemporanea, settembre-ottobre 2009. Nei giorni di Caporetto Cadorna affidò d’urgenza a Ferrero, di passaggio a Udine in licenza, il comando dell’ala destra della II Armata, da lui guidata con perizia nella ritirata proteggendo nel contempo il fianco della III Armata, che rischiava di restare imbottigliata sulla costa dall’avanzata austro-tedesca. Nel corso dell’evacuazione di Durazzo, Ferrero si adeguò completamente alle disposizioni del capitano di fregata Roberto Monaco di Longano, incaricato di organizzare lo sgombero, pur a lui subordinato. (18) Gennaro Pagano di Melito, Mine e spie, ed. Ardita, Roma, 1934, pp. 189-191. (19) Cronistoria documentata della guerra marittima italo-austriaca 1915-1918, Coll. 2, Impiego delle Forze navali-Operazioni, Fasc. 1, Concorso delle Forze navali del Basso Adriatico alle operazioni militari nei Balcani, p. 14. (20) Cadorna, Altre pagine sulla Grande Guerra, pp. 158-169. (21) Sanfelice di Monteforte, La collaborazione tra Thaon di Revel e Cadorna, op. cit., p. 541. Si vedano inoltre Silvio Salza, La Marina italiana nella Grande Guerra, vol. VI, La lotta contro il sommergibile (dall’ottobre 1917 al gennaio 1918), ed. Vallecchi, Firenze, 1939, pp. 235-252, e Cronistoria documentata della guerra marittima italo-austriaca 1915-1918, coll. 1, Preparazione dei mezzi, fasc. 8, op. cit., pp. 121 ss. (22) Salza, La Marina Italiana, op. cit., p. 240. (23) Il direttore e il generale. Carteggio Albertini-Cadorna 1915-1928, a cura di Andrea Guiso, ed. Fondazione il Corriere della Sera, Milano, 2014, p. 198. (24) Cadorna, Pagine polemiche, op. cit., pp. 249-260. (25) Cadorna, che si assunse la piena responsabilità del primo bollettino da lui firmato, non citò mai questo dettaglio, reso pubblico solo postumo da una relazione di un ufficiale presente ai fatti, l’allora colonnello Melchiade Gabba, citata da Raffaele Cadorna in una nota di Pagine polemiche, p. 254. (26) Filippo Cappellano, Dalla parte di Cadorna. Capo di Stato Maggiore dell’Esercito 1914-1917, ed. Rodorigo, Roma, 2021, pp. 256-268. (27) Emilio Faldella, La Grande Guerra, vol. II, Da Caporetto al Piave (1917-1918), ed. Longanesi&C., Milano, 1978, p. 255. (28) Commissione d’Inchiesta (R.D. 12.1.1918), Relazione. Dall’Isonzo al Piave (24.10-9.11.1917), Vol. II, Le cause e le responsabilità degli avvenimenti, Stabilimento poligrafico per l'amministrazione della guerra, Roma, 1919, p. 546. (29) Il Re espresse il suo consenso con una lettera che, assieme ad altri documenti, fu sequestrata dai carabinieri nella villa di Cadorna il giorno stesso dei suoi funerali, il 27 dicembre 1928. Cadorna, Caporetto? Risponde Cadorna, op. cit., pp. 245-246. (30) Dino Alfieri, Due dittatori di fronte, ed. Rizzoli, Milano, 1948, p. 315. (31) Jack la Bolina, Cadorna, L’Italia Marinara, gennaio 1929. (32) Cadorna, Pagine polemiche, op. cit., p. 11. (33) Fulvio Zugaro, Il costo della guerra italiana. Contributo alla storia economica della guerra mondiale, stabilimento poligrafico per l’amministrazione della guerra, Roma, 1921; Angelo Gatti, Per la storia, Il Corriere della Sera, 22 settembre 1921. (34) Cadorna, Lettere famigliari, op. cit., pp. 286-287. Per protocollo i decorati dell’Annunziata dovevano precedere tutte le cariche dello Stato. Il Generale ricordò in privato: «Fui accolto da una ovazione delirante: fui quasi portato in trionfo e fu una cosa indimenticabile. Parlai, con veterani, madri di caduti ecc. E pensavo: se fosse vero il malgoverno degli uomini [di cui era stato accusato dalla Commissione d’inchiesta, ndr] mi odierebbero a morte». (35) Benito Mussolini, Il Fante Ignoto e Cadorna. Adagio, signori!, Il Popolo d’Italia, 8 novembre 1921. (36) Paolo Alberini e Franco Prosperini, Uomini della Marina 1861-1946. Dizionario biografico, ed. U.S.M.M., Roma, 2015, pp. 457-458. (37) Atti dell’Ufficio Storico della Marina Militare, ed. U.S.M.M., Roma, 2007, p. 19. Roncagli fu, inoltre, autore del testo storico ufficiale della Regia Marina sulla guerra di Libia: Guerra italo-turca. Cronistoria delle operazioni navali, vol. I Dalle origini al decreto di sovranità sulla Libia, ediz. riservata, ministero della Marina, Roma, 1916. (38) Giovanni Roncagli, Il problema dell’Adriatico spiegato a tutti, ed. R. Società Geografica Italiana, Roma, 1918, pp. V-VI. Thaon di Revel, qualificandosi «sempre aff.mo amico», scrisse a Roncagli: «(…) Mi rallegro nel vedere come, dopo quasi mezzo secolo di armonia di sentire, i nostri apprezzamenti si ritrovino concordi come lo erano nei primordi della comune carriera, alla Scuola di Marina, sul vecchio Vittorio Emanuele». Negli anni in cui Thaon di Revel era comandante dell’Accademia navale l’istituto livornese, su iniziativa di Roncagli, fu nominato socio della Società Geografica Italiana. (39) Giovanni Roncagli, Un Condottiero. Il Generale Cadorna nelle sue Memorie di guerra e negli Atti della Commissione d’inchiesta, ed. La Vita Italiana, Roma, 1922. (40) Luigi Cadorna, La fine di una leggenda. Risposta al maresciallo Foch, in Rassegna Italiana Politica Letteraria, fasc. LIX, aprile 1923. (41) Elevazione, Il Corriere della Sera, 11 febbraio 1923. (42) Il direttore e il generale, op. cit., p. 197. (43) Cadorna, Lettere famigliari, op. cit., p. 293. (44) L’Italia fu sola al Piave. Una risposta di Cadorna a Foch, Il Corriere della Sera, 27 aprile 1923; Luigi Albertini, La nostra colpa, Il Corriere della Sera, 4 maggio 1923; Idem, Atto di giustizia immancabile, Il Corriere della Sera, 16 maggio 1923. Nel primo articolo Albertini riportò le parole del generale austriaco Alfred Krauss, che nel lodare Cadorna osservò come una dodicesima «spallata» italiana sull’Isonzo nell’autunno 1917 sarebbe stata esiziale per l’esercito asburgico. (45) In merito al comunicato, Cadorna scrisse a caldo il 20 maggio: «Io lo ho accolto lietamente essendo da preferirsi una aperta dichiarazione di guerra a una subdola inimicizia». Cadorna, Lettere famigliari, op. cit., p. 295. (46) Il direttore e il generale, op. cit., pp. 208-210. (47) «L’antico mio segretario non mi poteva scrivere in tono più umile», chiosò Cadorna. Ibidem, p. 209.
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Cadorna e la Marina (48) Ibidem, pp. 214-215. Cadorna appurò che il testo originale del comunicato prevedeva parole ancora più dure; tra i coautori c’era naturalmente il capo Ufficio stampa di Mussolini, quel Cesare Rossi che sarebbe stato poi coinvolto nell’omicidio Matteotti, oltre a Margherita Sarfatti. (49) Cadorna, Pagine polemiche, op. cit., pp. 207-209, che riportano l’intera corrispondenza. (50) Archivio di Stato di Siena, Fondo Tadini Buoninsegni, corrispondenza Tadini Buoninsegni-Cadorna. (51) Ibidem. (52) Lumbroso fu appassionato cultore delle vicende risorgimentali e fra i pochi sostenitori dell’ammiraglio Persano, protagonista dello scontro di Lissa. (53) Alberto Lumbroso, Cinque capi nella tormenta e dopo. Cadorna, Diaz, Emanuele Filiberto, Thaon di Revel, ed. Agnelli, Milano, 1932, pp. 78-79. (54) Sin dall’assunzione dell’incarico ministeriale Thaon di Revel «si sarebbe mantenuto sempre lontano per stile di vita e signorilità di modi» dall’estremismo fascista. Ezio Ferrante, Il Grande Ammiraglio Paolo Thaon di Revel, supplemento alla Rivista Marittima, giugno 2017, p. 90. I dissidi dell’ammiraglio con Mussolini sfociarono infine nel maggio 1925 con le sue dimissioni da ministro, a causa della previsione che il Comando Supremo fosse inderogabilmente retto da un generale dell’Esercito, a scapito della Marina. (55) Cadorna, Lettere famigliari, op. cit., pp. 296-297; Il generale Cadorna portato in trionfo dai combattenti e dalla folla a Firenze, Il Corriere della Sera, 6 novembre 1923. L’episodio è descritto nei dettagli anche in una lettera alla Tadini Buoninsegni del 5 novembre, in cui così descrisse il suo stato d’animo: «E intanto filosofavo sulla mia strana sorte che mi fa oscillare tra l’osanna e il crucifige! Buffo, non è vero?». (56) Le onoranze fiorentine a Cadorna, Il Corriere della Sera, 9 novembre 1923. Ancora nel 1940, nella sua Storia della rivoluzione fascista, Farinacci parlò del «tristo comando di Cadorna». Il gerarca cremonese era inoltre in ottimi rapporti con uno dei più agguerriti nemici del generale, il generale Giulio Douhet. (57) Il direttore e il generale, op. cit., p. 222. (58) Il Congresso dei Combattenti inaugurato ad Assisi, Il Corriere della Sera, 28 luglio 1924. Lo stesso Paolucci ricordò l’ordine del giorno presentato in quella sede da lui e da altre medaglie d’oro: «Volevamo la fine di ogni violenza, volevamo il rispetto della legge. Tutti i faziosi, tutti i violenti irriducibili dovevano andare via dalle nostre fila, perché ci disonoravano davanti agli stranieri e davanti a noi stessi», Raffaele Paolucci, Il mio piccolo mondo perduto, ed. Cappelli, Rocca San Casciano, 1952, pp. 305-306. (59) Emilio Lussu, Marcia su Roma e dintorni, ed. Einaudi, Torino, 1977, pp. 184-185. (60) La casa offerta al Generale con un vibrante discorso di Carlo Delcroix, Il Corriere della Sera, 21 settembre 1924. (61) In quelle settimane Il Corriere della Sera (Le riparazioni a Cadorna e la volontà del paese, 12 ottobre 1924) pubblicava un elenco di ministri e generali «che vedrebbero volentieri un atto riparatore»; tra questi era menzionato Thaon di Revel. (62) Mussolini disse poi nel 1940: «Non fu facile far accettare a Diaz — artefice della vittoria — una parità di annuario con Cadorna, artefice della grande carneficina carsica». Yvon De Begnac, Palazzo Venezia. Storia di un Regime, ed. La Rocca, Roma, 1950, p. 357. Mussolini, del resto ricambiato (il generale lo considerava «un energumeno»), non aveva cambiato giudizio su Cadorna; dopo la morte di Diaz, commemorandolo in Senato il 1° marzo 1928, affermò che il defunto «comprese che i soldati non erano soltanto dei piastrini di riconoscimento», evidentemente a differenza del predecessore. Cadorna non la prese bene, potendo oltretutto dimostrare che l’affermazione, riferita a lui, non aveva fondamento. (63) Archivio Centrale dello Stato, Carte Farinacci, scatola 18, fascicolo Diaz. (64) Otello Cavara, Le solenni onoranze a Cadorna e a Diaz, Il Corriere della Sera, 15 giugno 1925. BIBLIOGRAFIA Archivio Il Corriere della Sera. Archivio Il Popolo d’Italia. Archivio Centrale dello Stato, Carte Farinacci, scatola 18, fascicolo Diaz. Archivio di Stato di Siena, Fondo Tadini Buoninsegni, Corrispondenza Tadini Buoninsegni-Cadorna. Atti dell’Ufficio Storico della Marina Militare, ed. U.S.M.M., Roma, 2007. Commissione d’Inchiesta (R.D.12.1.1918), Relazione. Dall’Isonzo al Piave (24.10-9.11.1917), 3 vol., stabilimento poligrafico per l’amministrazione della guerra, Roma, 1919. Cronistoria documentata della guerra marittima italo-austriaca 1915-1918. Il direttore e il generale. Carteggio Albertini-Cadorna 1915-1928, a cura di Andrea Guiso, ed. Fondazione il Corriere della Sera, Milano, 2014. Mussolini a pieni voti, a cura di Aldo A. Mola con la collaborazione di Aldo G. 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F OCUS
DIPLOMATICO
L’Alleanza Atlantica verso il vertice di Madrid Mentre prosegue — con devastazioni e massacri che volevamo credere ormai appartenere al passato — l’avanzata delle Forze russe nell’Ucraina sud-orientale, con la concreta possibilità di una presa di controllo da parte di Mosca dell’intero Donbass se non oltre, la NATO si accinge a tenere a Madrid, dal 28 al 30 del corrente mese, uno dei più importanti vertici della sua storia. Un vertice non a caso definito dal Segretario generale dell’Alleanza — in occasione della sua recente visita a L’Aia per un incontro preparatorio con sette capi di Stato e/o Governo alleati — «historic and trasformative» e chiamato ad adottare deliberazioni su un insieme di temi sensibili: da quelle relative — per riprendere le parole dello stesso Stoltenberg — al sostegno «da fornire all’Ucraina nel breve e medio/lungo periodo» a quelle necessarie per consentire all’Alleanza di dotarsi di «una più robusta e immediatamente attivabile capacità di difesa avanzata» a quelle, infine, che impronteranno il nuovo Concetto Strategico per far fronte al meglio, nella fedeltà ai valori fondanti, a un contesto di sicurezza «profondamente mutato». Senza dimenticare le decisioni che dovranno parimenti essere assunte — ove, come auspicabile ma tutt’altro che certo, dovesse registrarsi nell’occasione una qualche
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attenuazione della posizione ostativa della Turchia di Erdogan — per avviare il percorso di adesione alla NATO di Svezia e Finlandia in un’ottica di finalizzazione in tempi per quanto possibile ravvicinati. In sostanza, l’Alleanza sarà chiamata a offrire ulteriore conferma in occasione dell’imminente appuntamento nella capitale spagnola di almeno quattro suoi caratteri distintivi: 1) quello di rappresentare la sola organizzazione in seno alla quale le 30 nazioni che la compongono sono in grado di consultarsi quotidianamente nonché decidere e agire insieme su tutte le questioni di sicurezza di interesse comune. Sempre sulla base di quella preziosa regola del «consensus» che ne costituisce uno dei tratti qualificanti; 2) quello di esprimere in maniera altamente simbolica ma anche, ogniqualvolta necessario, operativa il profondo legame tra gli alleati europei da un lato (21 membri della UE lo sono del resto anche della NATO e diverranno 23 su 27 una volta completato l’iter di adesione di Stoccolma ed Helsinki) e Canada e Stati Uniti dall’altro su questioni securitarie cruciali, e direi «esistenziali» alla luce di quanto sta avvenendo in Ucraina. La capacità dell’Alleanza di assicurare una presenza militare significativa, strutturata e di lungo periodo degli Stati Uniti sul suolo europeo è del resto valore aggiunto
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difficile da sottovalutare per una pluralità di motivi. Non ultimo tra questi il disastro cui — insieme, certo, con altri fattori — condusse il disimpegno americano e il sostanziale disinteresse di quella dirigenza per le vicende del nostro continente dopo la Prima guerra mondiale; 3) quello di rappresentare tuttora (e, ritengo, per molto tempo a venire) il pilastro della sicurezza e difesa dell’area euroatlantica in continuità con la prova fornita nei difficili anni della Guerra Fredda; 4) quello infine di confermare, una volta di più, la sua capacità di adattamento al mutare del panorama di sicurezza internazionale. È nell’unità intorno a valori condivisi che ha sempre saputo trovare nei momenti cruciali che risiede altresì la forza di un’Alleanza che celebra quest’anno il suo 73° compleanno. Certo, essa ha conosciuto momenti di crisi anche seri: da quello legato alla vicenda di Suez nel 1956 (con la frattura tra Parigi e Londra da un lato e Washington dall’altro) a quello degli euro-missili negli anni 80 a quello, più recente, innescato dalla guerra all’Iraq del 2003 con conseguente frattura tra la cosiddetta «vecchia» (in sostanza l’Europa «carolingia») e la «nuova» Europa costituita dai paesi da poco sottrattisi al giogo sovietico e altre, probabilmente, ve ne saranno. Ma tali crisi sono, a oggi, tutte state superate nel segno di un superiore interesse collettivo. La NATO appare in ogni caso, in questo momento, forte di una unitarietà di intenti certamente non prevista dal Cremlino alla vigilia dell’attacco all’Ucraina ed è, questo, patrimonio da conservare gelosamente. Anche se non sono da sottovalutare le affioranti diversità di accento tra talune capitali europee (in particolare, ancora una volta, Parigi e Berlino da un lato, con le quali Roma è in stretto contatto, e Washington e Londra dall’altro) sulle modalità e sull’urgenza da conferire all’avvio di un negoziato tra Mosca e Kiev in presenza delle necessarie pre-condizioni, a cominciare da una a tutt’oggi assente disponibilità del Cremlino ad arrestare la propria offensiva. Se parlo di patrimonio da custodire gelosamente è anche perché — in aggiunta all’aggressione all’Ucraina e alla sua sovranità da parte della Russia di Putin (dico «Russia di Putin» perché vi è anche un’altra Russia certo
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minoritaria ma non assente, coraggiosa, che ci è vicina e non possiamo abbandonare) — altre sfide richiedono oggi più che mai una forte «coesione atlantica». Esse vanno dalle sempre più sofisticate minacce cyber e minacce «ibride» (sul terreno, per esempio, della disinformazione o dell’uso politico e ricattatorio delle forniture alimentari cerealicole in primis — vedasi il blocco dei porti ucraini da parte di Mosca — e del dramma migratorio: basti pensare al cinico comportamento del regime di Lukashenko nei mesi scorsi) al duro confronto geo-politico in atto tra le nostre democrazie e i regimi autocratici (Russia e Repubblica Popolare Cinese in primis, senza dimenticare la Repubblica Islamica dell’Iran e la Corea del Nord), al terrorismo, in tutte le sue forme, alle ricadute dei mutamenti climatici (vero e proprio moltiplicatore dei fattori di crisi), alle sfide poste all’Occidente dalle cosiddette «Emerging Disruptive Technologies-EDT» (Intelligenza Artificiale, informatica quantistica…) particolarmente pericolose ove impiegate a fini offensivi da regimi incompatibili con i nostri valori. Sono tutte «sfide globali» che nessun paese alleato può affrontare da solo, neppure gli Stati Uniti con i quali è anzi indispensabile vieppiù rafforzare la collaborazione sia a livello politico-diplomatico che tra le rispettive industrie di punta nel settore delle alte tecnologie. In sostanza, nel pieno della più grave crisi geo-politica in Europa dal dopoguerra a oggi, l’esigenza di una relazione transatlantica robusta e ad ampio spettro è più evidente che mai. Come ama ripetere il segretario generale Stoltenberg è questo il momento per l’Alleanza di: «Rimanere forte sotto il profilo militare — in primis, dato il momento, in termini di capacità di deterrenza — diventare più forte sotto il profilo politico (attraverso per esempio un’accentuazione delle consultazioni tra alleati e con i maggiori partner nel mondo), adottare un approccio più globale» senza per questo trasformarsi in una NATO globale. Sviluppo che sarebbe tra l’altro incompatibile col perimetro di competenza, quello euro-atlantico, definito dal Trattato istitutivo. Prima di entrare più nel dettaglio con riferimento al prossimo «Concetto Strategico» (il testo che fissa periodicamente le linee guida di azione per l’Alleanza
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sulla base di una condivisa valutazione delle minacce) qualche considerazione sulla crisi russo-ucraina. Al di là delle diverse valutazioni sulle cause di fondo dell’invasione russa, l’Alleanza è unita nel condannarla e nel tentativo di contrastarla. Va da sé che essa è poi coesa sulla base dell’art. 5 del Trattato di Washington («uno per tutti, tutti per uno»: la cosiddetta «clause-Mousquetaire») nella volontà di difendere «ogni centimetro di territorio alleato» ma anche di evitare — facendo pervenire per tempo gli opportuni segnali dissuasivi al Cremlino — che il conflitto si allarghi al di là del territorio ucraino coinvolgendo direttamente paesi membri della NATO con conseguenze potenzialmente devastanti. Nel merito le conseguenze innescate dall’aggressione russa al vicino paese hanno già portato: — all’attivazione, per la prima volta, della «NATO Response Force-NRF» istituita nel 2002 al summit di Praga; — a un salto qualitativo e quantitativo negli investimenti e acquisti per la difesa (100 miliardi di euro) da parte di una sino a ora riluttante Germania determinata, almeno stando a quanto dichiarato dallo stesso cancelliere Scholz in un vibrante discorso al Bundestag lo scorso 27 febbraio, a investire ogni anno più del 2% del proprio PIL in spese per la difesa; — sono stati costituiti 8 battaglioni multinazionali da dispiegare ai confini orientali dell’Alleanza: in Polonia, in Bulgaria, in Ungheria, nei tre Stati baltici, in Romania e in Slovacchia, con contributi in termini di uomini e mezzi sia americani che europei, Italia compresa (vi sono ormai circa 100.000 militari americani in Europa: numero certo inferiore a quello dei momenti del più tesi della Guerra Fredda ma superiore a quello precedente l’annessione russa della Crimea nel 2014); - indotto due solide democrazie nordiche con un’antica tradizione di neutralità (appunto Svezia e Finlandia) a smarcarsi da tale secolare orientamento per chiedere, sull’onda di un visibile mutamento in tal senso delle rispettive opinioni pubbliche, di entrare far parte a pieno titolo dell’Alleanza (pur essendone da tempo partner importanti, apprezzati e credibili anche in termini di interoperatività delle forze).
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Tale sviluppo fa sì, nelle parole del direttore dell’«Estonian Foreign Policy Institute», Kristi Raik, che «per la prima volta nella storia avremo tutti i paesi del nord Europa e quelli baltici riuniti nello stesso Trattato di difesa collettiva. È un cambiamento importante che creerà più coesione nella regione». Né va dimenticata, aggiungo, la recente non meno importante e plebiscitaria decisione danese di rinunziare alla clausola di «opt-out» a suo tempo utilizzata per aderire, infine, alla politica di difesa comune europea. Vengo al prossimo vertice di Madrid e ai principali risultati che è lecito attendersi. È in primo luogo, scontato «rebus sic stantibus» che in quell’occasione i capi di Stato e di Governo alleati formalizzeranno un’accentuazione della presenza militare della NATO ai confini orientali dell’Alleanza (dunque senza sconfinamenti e sempre in un’ottica difensiva e di deterrenza), così come un salto qualitativo nella natura di tale dispositivo. Si andrà in sostanza verso un rafforzamento della postura di deterrenza e difesa della NATO che dovrà essere ben strutturata, credibile e sostenibile nel medio/lungo periodo. In tale nuova postura di difesa verrà ovviamente integrata la componente cyber, anche per contrastare le note capacità offensive russe (e cinesi) su tale terreno. In altri termini, per trarre una prima conclusione di natura per così dire geopolitica, vi sarà un aumento anche se non massiccio nel numero delle unità dispiegate ma crescerà soprattutto e non di poco, in termini tra l’altro di rapidità di risposta, la credibilità della deterrenza e della difesa alleata. Proprio il contrario di quello che il nuovo zar si prefiggeva con la sua brutale aggressione all’Ucraina, scommettendo su una sostanziale disarticolazione dell’Alleanza a fronte di una prova dura e inattesa. Qualche considerazione su altri temi importanti che saranno affrontati al Vertice e ne impronteranno il Comunicato finale.
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La Cina continuerà probabilmente a essere definita non un «avversario» quanto, piuttosto, un «rivale sistemico». Rivale sistemico che pone sfide serie per l’Alleanza testimoniate tra l’altro dai seguenti fattori: 1) l’impressionante crescita del suo arsenale militare nucleare e convenzionale, a cominciare dai missili ipersonici e dal recente varo della portaerei di ultima generazione Fujian interamente «made in China» e tecnologicamente competitiva con quelle statunitensi; 2) la sua alleanza, dichiaratamente «indefettibile» (ma i fatti diranno se sarà davvero così), con la Russia di Putin nel segno di una comune lotta «al mondo unipolare a guida statunitense» e ai valori di cui questo è espressione; 3) la sua diplomazia di potenza basata su accordi con clausole finanziarie molto impegnative, e dunque sovente difficili da rispettare per i paesi più fragili (basti pensare a quelli conclusi da Pechino, che sta ora passando all’incasso, per la realizzazione in tali paesi di progetti funzionali alla «Via della seta»); 4) le frequenti intimidazioni, con minacciose esercitazioni navali e aeree, nei confronti di Taiwan e della sua democrazia. Il Comunicato Finale del summit conterrà in ogni caso un linguaggio all’altezza delle preoccupazioni che la sempre maggiore assertività di Pechino ormai da tempo suscita in ambito atlantico e in seno alle grandi democrazie dell’Indo-Pacifico. È un’assertività con pesanti implicazioni, ove non contrastata, per la sicurezza alleata nel suo complesso. Anche quella cinese è in ogni caso una sfida troppo grande per essere affrontata da un solo alleato, pur se si tratta degli Stati Uniti. I «leader» alleati converranno altresì di intensificare gli sforzi per investire di più e più rapidamente nel settore della difesa. Anche se, va detto, il 2021 è stato il settimo anno consecutivo di crescita al riguardo per gli alleati europei e il Canada: come testimoniato da ultimo dalla per molti versi inattesa decisione dell’attuale esecutivo tedesco cui ho sopra fatto riferimento.
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A Madrid come sopra anticipato verrà poi adottato il nuovo «Concetto Strategico», a 12 anni da quello varato a Lisbona in un contesto internazionale profondamente diverso. Basti pensare, e lo dico a titolo di esempio, al fatto che il documento approvato nel 2010 nella capitale portoghese: a) si riferisce alla Russia come «partner strategico»; b) menziona brevemente le sfide attuali (da quelle oggi dominanti di tipo cyber a quelle legate alle «Emerging Disruptive Technologies»; c) non menziona la Cina. In altre parole esso sembra appartenere a un altro mondo perché il mondo è, da allora, profondamente cambiato e non in meglio come la tragedia ucraina si occupa quotidianamente di ricordarci. Andranno comunque salvaguardati ad avviso italiano, e la nostra diplomazia si sta attivamente adoperando a tal fine, due ruoli chiave assegnati alla NATO dal Concetto Strategico di Lisbona. Ruoli che restano a nostro avviso fondamentali al di là della «emergenza» rappresentata dai drammatici sviluppi in atto in Ucraina e dalla «minaccia russa» che non dovrà però monopolizzare, ferma restando la sua gravità, il futuro dell’Alleanza. Vale a dire — in aggiunta alla «difesa collettiva» ai sensi dell’articolo 5 che resterà la chiave di volta dell’Alleanza — quelli della «gestione delle crisi» in senso lato e della «sicurezza cooperativa», compiti entrambi da porre in essere attraverso una stretta cooperazione con i cosiddetti «key-partner across the world». Ciò detto, il Concetto Strategico che uscirà dal Vertice di Madrid non potrà non riflettere il «nuovo mondo» cui ho sopra fatto riferimento, non solo nuovo ma anche più pericoloso e imprevedibile. Non sarà però un’istantanea. Piuttosto assomiglierà a un film, anticipando le dinamiche così come le criticità e le minacce cui ci troveremo confrontati nel prossimo futuro. Indicherà altresì, per quanto possibile in maniera credibile, come potremo affrontare allo stesso tempo l’insieme di tali sfide. Nella valutazione italiana il nuovo Concetto Strategico dovrà in primo luogo fornire una risposta a un certo numero di problemi che ci sembrano prioritari. Tra questi: A) come rapportarci alla Federazione Russa non solo oggi ma in prospettiva (difficile, ma necessario per tutti i noti motivi, tornare a un rapporto più
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o meno normale e costruttivo con Mosca specie dopo le recenti durissime esternazioni di Medvedev contro l’Occidente su Telegram del 7 giugno); B) dovrà poi riformulare la postura di difesa dell’Alleanza in un ambiente in rapido mutamento «dove gli attacchi cyber, i droni armati e il riscaldamento globale pongono seri problemi al miliardo di persone che la NATO è chiamata a proteggere»; C) definire, come anticipato, la «policy» dell’Alleanza nei confronti della RPC per i prossimi anni lanciando a Pechino segnali di adeguata fermezza (come caldeggiato, in particolare, da Washington e dalla Gran Bretagna post-Brexit) senza per questo adottare un atteggiamento di confronto a tutto campo che rischierebbe tra l’altro di accelerare la saldatura dell’asse Mosca-Pechino. Il nuovo Concetto Strategico dedicherà poi ampio spazio alla «resilienza». Resilienza che costituisce ormai la «prima linea di deterrenza e difesa» delle nostre democrazie alla luce della stretta interconnessione ormai in essere tra settori civili strategici (banche, aeroporti, reti di distribuzione, ospedali…) e la «difesa» di un paese in senso stretto. Va in primo luogo assicurato in ambito alleato un «livello minimo comune di resilienza» poiché — come sappiamo — la capacità di tenuta di una catena dipende da quella dell’anello più debole. Vi è motivo di ritenere che uno spazio adeguato sarà poi dedicato ancora una volta — con un linguaggio che non potrà ovviamente non tenere conto della criticità del momento — al perdurante impegno dell’Alleanza per un controllo e una progressiva riduzione degli armamenti sia nucleari che convenzionali. Traguardo il cui raggiungimento non è purtroppo agevolato dall’attuale contesto strategico: in particolare dal duro confronto in atto con Mosca anche se, almeno per ora, non sul terreno. Vi è in ogni caso da sperare — anche se la situazione in atto ai confini orientali dell’Alleanza non induce all’ottimismo — che si determinino prima o poi le condizioni per un rilancio con i dovuti adattamenti da parte occidentale (Stati Uniti e NATO) delle articolate proposte in materia avanzate alla Federazione Russa, in risposta alle preoccupazioni della controparte, nelle settimane precedenti l’aggressione all’Ucraina. Proposte, base di un possibile negoziato, rese naturalmente caduche dalla sconsiderata decisione di Putin di invadere il vicino paese.
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Verrà poi ribadita la necessità per la NATO di mantenere sugli avversari la necessaria superiorità tecnologica nei settori cruciali per la difesa. Sotto questo profilo un ruolo fondamentale potrà essere svolto dall’istituendo «Defense Innovation Accelerator for the North Atlantic» (DIANA) con importanti poli di ricerca e sviluppo ubicati anche in Italia presso nostri centri di eccellenza tecnologici e militari. Sul piano politico dal vertice di Madrid usciranno con ogni probabilità le seguenti decisioni: 1) di avvalersi maggiormente dell’Alleanza (accentuandone dunque, ciò cui molto tiene il nostro paese, il carattere di istanza politica e non solo militare) per difendere al meglio le posizioni comuni tra gli alleati su questioni di rilevanza strategica: dalla posizione nei confronti dell’aggressione russa all’Ucraina alla tutela della libertà di navigazione nelle acque internazionali (tema di prioritario rilievo alla luce in particolare delle rivendicazioni cinesi sul Mar di Cina Meridionale); 2) tenere tra alleati più frequenti consultazioni anche al di là dei casi previsti dall’art.4 del Trattato di Washington; 3) fare il miglior uso possibile della rete di partenariati con paesi «like-minded» nei più diversi scacchieri per affrontare le sfide alla sicurezza comuni, a cominciare da quelle derivanti dalla crescente assertività russa e cinese. Sotto tale profilo è significativo l’invito a contribuire alle discussioni che si terranno a margine del Vertice in senso stretto rivolto da Stoltenberg ai capi di Stato o Governo di quattro partner-chiave dello scacchiere Indo-Pacifico nel segno di una sempre più evidente «indivisibilità» della sicurezza: Australia, Giappone, Nuova Zelanda e Sud Corea. Importante per l’Italia — e la nostra diplomazia si è molto spesa a tal fine — anche il fatto che a margine del Vertice i ministri degli Esteri dei 30 paesi membri avranno una importante discussione su che cosa debba intendersi per «fianco sud dell’Alleanza» e quali minacce possano scaturire a breve e in prospettiva da tale scacchiere. È un’area vasta, per noi cruciale anche per gli aspetti migratori, che va dall’Africa al Pakistan e dove è forte la competizione tra le nostre democrazie e le autocrazie (basti pensare alla crescente influenza di Mosca e Pechino nell’Africa sub-sahariana e non solo). Il tutto per pervenire in tempi stretti a quella NATO a 360 gradi cui noi aspi-
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riamo: capace per esempio — oltre che di far fronte alla sfida proveniente da est — di anticipare le dinamiche proprie di un continente africano con un miliardo di abitanti a rischio povertà, aggravata dalla crescente insicurezza alimentare e nel quale è largamente presente il terrorismo jihadista. Infine, nella sezione tradizionalmente dedicata al partenariato con le principali organizzazioni regionali e internazionali, il Concetto Strategico di prossima adozione — consolidando una costante apprezzabilmente emersa da qualche anno a questa parte anche attraverso dichiarazioni congiunte al termine dei lavori — non mancherà di dedicare adeguato spazio allo stato e alle prospettive della collaborazione tra la NATO e l’Unione europea per far fronte alle tante sfide comuni. Sotto tale profilo l’accelerazione conosciuta più di recente anche sull’onda della crisi ucraina dall’impegno dei 27 paesi membri dell’UE a dotarsi in tempi il più possibile ravvicinati di una credibile capacità di difesa comune lungo le linee e con gli strumenti messi a fuoco nella Bussola Strategica avallata dal Consiglio europeo lo scorso 21 marzo, non potrà che essere salutata con favore dai capi di Stato e di Governo alleati. Una crescita progressiva e importante delle spese per la difesa in ambito europeo contemplata dalla Bussola Strategica — in uno spirito di complementarietà con la NATO, come non si è mancato e non si manca di caldeggiare in ogni occasione e ai più diversi livelli da parte italiana, ma anche di autonoma capacità di azione ove necessario — va del resto nel senso di quella miglior e più equa ripartizione degli oneri finanziari in ambito atlantico (il famoso «burden-sharing») da tempo vigorosamente sollecitata in maniera «bipartisan» dall’alleato statunitense. Il salto di qualità nella collaborazione NATO-UE sul terreno della difesa, che dovrebbe essere propiziato dal disporre ormai l’UE di un articolato documento di stra-
tegia approvato al più alto livello, potrebbe però rivelarsi non privo di criticità. Potenziali ostacoli che vanno per non citarne che alcuni: dai tempi che si riveleranno necessari per pervenire a quella effettiva capacità di dispiegamento di una forza europea sino a 5000 uomini in tempo di crisi prefigurata dalla Bussola Strategica, agli ostacoli che sul terreno della collaborazione tra le due organizzazioni potrebbe prima o poi porre nuovamente, per l’uno o l’altro motivo, la difficile Turchia di Erdogan (paese membro della NATO ma da decenni «candidato» all’adesione all’Unione europea) al forte condizionamento che, sull’adozione di decisioni in materia di iniziative o azioni comuni sul terreno della difesa, è destinata come noto a esercitare la regola dell’unanimità prevista in materia dai trattati UE. Tali criticità, peraltro note da tempo, non debbono tuttavia fare velo alla constatazione dell’importante passo avanti che anche per la collaborazione in prospettiva tra l’UE e l’Alleanza Atlantica è lecito ravvisare nell’ adozione, da parte dei 27, dello «Strategic Compass». Ovviamente progressi più celeri anche in tale ambito si registrerebbero ove dovesse un giorno trovare attuazione (ma il percorso appare tutt’altro che facile) l’una o l’altra delle proposte all’esame in talune capitali europee per sottrarre, in qualche modo, alla regola dell’unanimità le decisioni in materia di politica estera e di difesa. È del resto solo attraverso un ulteriore rafforzamento del partenariato strategico tra la NATO e l’Unione europea che potranno essere affrontate con la necessaria incisività le sfide globali per l’Occidente al centro dell’agenda del Vertice: dal contrasto all’aggressione russa all’Ucraina alla gestione delle minacce provenienti dal fianco sud alla sopra evocata «sicurezza cooperativa». Gabriele Checchia, Circolo di Studi Diplomatici
L’ambasciatore Gabriele Checchia è nato ad Ancona il 23 marzo 1952. Conseguita la maturità classica, si laurea, nel 1974, in Scienze Politiche al “Cesare Alfieri” con successivo corso di specializzazione in Diritto internazionale alla «Johns Hopkins». Nel 1978, a seguito di esame di concorso, entra al ministero degli Esteri ricoprendo negli anni numerosi incarichi alla Farnesina e all’estero. È stato Ambasciatore d’Italia in Libano (2006-10), alla NATO (2012-14) e all’OCSE (2014-16). A riposo, per limiti di età, dal dicembre 2016. È, attualmente, «Senior Advisor» della LUISS per le tematiche di internazionalizzazione e Presidente del «Comitato Atlantico» di Napoli. Il Circolo di Studi Diplomatici è un’associazione fondata nel 1968 su iniziativa di un ristretto gruppo di ambasciatori con l’obiettivo di non disperdere le esperienze e le competenze dopo la cessazione dal servizio attivo. Il Circolo si è poi nel tempo rinnovato e ampliato attraverso la cooptazione di funzionari diplomatici giunti all’apice della carriera nello svolgimento di incarichi di alta responsabilità, a Roma e all’estero.
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O SSERVATORIO Un difficile ripartenza
INTERNAZIONALE
Il 3 maggio il segretario generale dell’ONU Antonio Guterres, il Consiglio di Sicurezza, il Dipartimento di Stato americano e l’alto rappresentante europeo Josep Borrell, hanno emesso duri comunicati condannando un attacco da parte delle milizie islamiste di al-Shabaab contro una base avanzata a Elbaraf, nella regione del medio Shabelle, tenuta da truppe burundesi, dell’ATMIS, l’ operazione di stabilizzazione dell’Unione Africana da poco attivata, istituita alla fine del mandato dell’AMISOM. Sull’attacco vi sono versioni discordanti, ufficialmente vi sarebbero stati una decina di caduti tra i «caschi verdi». Altre fonti parlano invece di quasi duecento caduti e riportano che la base è stata brevemente occupata dai miliziani islamisti, che dopo averla saccheggiata e incendiata, hanno abbandonato la posizione.
all’UA, ma anche all’ONU (il cui Consiglio di Sicurezza con la Risoluzione 2628 del 31 marzo 2022 sanciva la fine dell’AMISOM e l’ attivazione dell’ATMIS) e alla UE, che gestisce diverse operazioni in loco come la EUTM-Somalia (che opera dal 2010 e a cui prendono parte militari istruttori di Italia, Spagna, Svezia, Finlandia, Romania, Gran Bretagna e Serbia), la EU CAP-Somalia (che opera dal 2013) e la EUNAVFOR «Atalanta» (attivata nel 2008), segnale che rappresenta il fatto che per quei miliziani il cambio di nome non significa nulla e che continueranno a colpire. La ATMIS (African [Union] Transition Mission in Somalia) ha preso il posto della AMISOM (African [Union] Mission in Somalia) il 1° aprile scorso, in linea con una decisione del Consiglio per la Pace e la Sicurezza dell’UA. La nuova missione ha il mandato di
La gravità dell’accaduto è stata comunque confermata dal fatto che anche il Presidente della Commissione dell’Unione Africana (l’ex ministro degli Esteri Chadiano Mussa Faki) ha rotto il silenzio condannando l’accaduto. Nonostante l’AMISOM (come l’ATMIS) sia, anche se in maniera politicamente ambigua, una articolazione dell’Unione, una dichiarazione da parte di Addis Abeba rivela la gravità del momento (soprattutto in considerazione del fatto che l’organizzazione regionale è stata sempre molto misurata in merito a dichiarazioni pubbliche a proposito della Somalia, considerato il dossier più difficile dell’organizzazione). L’attacco alla base, nella Somalia centrale, parte dei miliziani di al-Shabaab, è stato un pesante segnale sia
supportare il Governo somalo nell’attuazione del Piano di Transizione e nel trasferimento di maggiori responsabilità alle Forze armate e alla polizia somale. L’attivazione dell’ATMIS era stata prevista per dicembre 2021 ma i disaccordi con le autorità somale lo hanno ritardato ed è stato finalmente raggiunto un accordo su quello che sembra essere in realtà solo un cambio di nome e un’estensione del mandato esistente. L’ATMIS opererà fino alla fine del 2024, dopodiché tutte le responsabilità saranno trasferite alle Forze di sicurezza somale. La capacità in termini di personale di ATMIS con circa 18.000 soldati, 1.000 poliziotti (provenienti da Kenya, Etiopia, Nigeria, Gibuti, Brundi, Uganda, Sierra Leone) e un centinaio di funzionari civili (tutti
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diplomatici distaccati dalle rispettive nazioni) rispecchia quella di AMISOM, così come gran parte delle sue attribuzioni. Quindi è cambiato qualcosa che può aiutare a stabilizzare la Somalia? Il lavoro dell’AMISOM, iniziato nel marzo 2007, mirava a ridimensionare la capacità militare di Al-Shabaab e rafforzare quella dell’esercito e della polizia somale in modo che la missione potesse cessare quanto prima. Questo è avvenuto solo in parte, le Forze panafricane si sono impegnate in scontri violentissimi con le milizie islamiste, subendo perdite pesanti (si parla di cifre che arrivano ai 3.000 caduti) e hanno addirittura compiuto un assalto anfibio nel 2012 a Chisimaio, riuscendo a cacciare le milizie di al-Shabaab; il mandato dei «caschi verdi» è stato diverse volte rinnovato e la cessazione era prevista per il 2021. Tuttavia, tale mandato non è cessato,
sia l’ONU hanno valutato la situazione lo scorso anno e hanno proposto diverse soluzioni. Era necessario un accordo sul mandato, la composizione, le dimensioni, gli obiettivi strategici e specifici di una nuova missione e i compiti delle componenti militari, civili e di polizia. Questi processi hanno reso molto tesi i rapporti tra la comunità internazionale e le autorità somale, che sebbene divise su tutto, sono state unanimi nella durissima opposizione a ogni possibile riduzione delle forze e modifica sostanziale del mandato dell’AMISOM a causa del lento processo di integrazione tra le Forze armate e di sicurezza nazionali e quelle delle regioni autonome del Puntland e del Jubaland. Tale è stata l’ostilità che nel novembre scorso è stato espulso il vice capo della missione, il diplomatico ugandese Simon Mulongo e una settimana dopo l’avvio dell’ATMIS, è
poiché le minacce alla sicurezza che hanno reso necessario l’arrivo dei soldati panafricani, continuano a sussistere tuttora e la Somalia continua a fare fronte a tre emergenze : la sicurezza, la governance e lo sviluppo. Queste emergenze continuano a tenere impegnato il paese e l’AMISOM, che doveva essere la prima risposta al problema della sicurezza, e avviare un percorso virtuoso nella quale una nuova governance e lo sviluppo avrebbero portato fuori il paese dalla condizione di Stato fallito (dalla caduta del regime di Siad Barre, che ha gettato le basi della attuale instabilità del paese) è riuscita solo a controllare la situazione ma senza riuscire a modificarla. Per determinare il futuro dell’AMISOM, sia l’UA
stato fatto lo stesso con lo Special Representative of the African Union Commission Chairperson for Somalia (SRCC), il diplomatico mozambicano Francisco Madeira. Al momento la missione è guidata da un «acting», e Addis Abeba negozia con Mogadiscio e chiaramente il problema non è nella scelta della persona ma cosa dovrà fare la missione. Questo mostra come per l’ATMIS lo scenario sia difficile e tutto in salita anche senza i miliziani di al-Shabaab. Il Governo della Somalia vuole che ATMIS si concentri sull’attuazione del Piano di Transizione, sviluppato nel 2018 per trasferire le responsabilità di sicurezza dall’AMISOM alle Forze di sicurezza del paese, ma con consistenti flussi finanziari per equipag-
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giarle e addestrarle. Il Piano è stato recentemente rivisto e sarà realizzato (auspicabilmente) nei prossimi tre anni. L’UA e l’ONU hanno concordato con questo approccio. Bankole Adeoye, commissario dell’UA per gli Affari politici e capo del Consiglio per la pace e la sicurezza, ha affermato che gli obiettivi di stabilizzazione e costruzione dello Stato somalo e l’attivazione dell’ATMIS saranno pienamente in linea con il Piano di Transizione. Il Consiglio per la pace e la sicurezza dell’UA ha delineato un mandato per la nuova missione che includeva la riduzione delle capacità militari di al-Shabaab e altri gruppi terroristici, le forniture di sicurezza, lo sviluppo delle capacità delle Forze di sicurezza, della giustizia e delle autorità locali e il sostegno alla pace e alla riconciliazione. Ma anche il mandato dell’AMISOM era lo stesso ed era allineato con il Piano di Transizione, quindi non ci sarebbe nulla di nuovo nella missione ATMIS, rispetto alla precedente. Il cambiamento più grande è forse che l’idea di una «transizione» è più fortemente radicata nella logica della nuova missione, che ha una sequenza temporale in quattro fasi per lavorare con il Governo somalo per attuare il Piano di Transizione. Inoltre, dovrebbero essere implementati anche alcuni adeguamenti, come il riordino delle strutture dell’ATMIS rispetto a quelle dell’AMISOM e una maggiore riconosciuta autorità di comando e controllo al comandante delle forze impiegate nella missione. In termini di modifiche operative, ATMIS differirà da AMISOM nell’incremento della mobilità, ed efficienza in ogni settore della missione con l’obiettivo principale di indebolire rapidamente le capacità di al-Shabaab e altri gruppi estremisti. Obiettivo difficile da raggiungere, tano più che le forze americane sono state ritirate da quei territori nel dicembre 2020. A prescindere dell’attacco del 2 maggio, al-Shabaab continua a mantenere una forte pressione sulle forze internazionali e somale e il gruppo controlla ancora vasti territori della Somalia centrale e meridionale, conduce micidiali incursioni nella stessa capitale somala e dispone di consistenti risorse finanziarie (secondo un istituto di ricerca con sede a Mogadiscio, nel 2021 avrebbe raccolto circa 180 milioni di dollari di entrate [tasse e dogane] e speso 24 milioni di dollari in armi). Negli ultimi mesi sono state segnalate molte aggressioni, aggravate da scioperi a Mogadiscio e Beledweyne che hanno provocato oltre 53 morti. Come accennato, la presenza dei «caschi verdi» era prevista come elemento di attivazione di un processo di unificazione nazionale; quindi dare priorità alla questione politica che verte in una situazione di stallo, rappresenterebbe una spinta a risolvere i problemi di sicurezza del paese, ma la sostituzione di AMISOM con ATMIS arriva in un momento critico. Le tensioni politiche nel paese minacciano ancora i modesti passi in avanti realizzati negli anni. Le divisioni tra le élite somale sulla distribuzione del potere e delle risorse sono al centro di tutti i problemi. Due pacifiche transizioni di potere si sono verificate nel 2012 e nel 2017, ma la terza ha vacillato a causa di controversie sulla gestione delle elezioni. Il presidente Mohamed Abdullahi Mohamed, al potere dal 2017, è rimasto in carica dopo la scadenza del suo mandato nel febbraio 2021 sino alle elezioni del maggio 2022, che
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hanno visto la vittoria di Hassan Sheikh Mohamud. Come suaccennato le elezioni presidenziali di metà maggio hanno formalizzato la fine dello stallo istituzionale, ma i problemi, legati soprattutto alla spartizione del potere e delle risorse tra i partiti/clan somali, restano. Il primo ministro Mohamed Hussein Roble è stato incaricato di riformare il processo elettorale, ma i progressi sono stati lenti, nonostante l’instancabile lavoro di mediazione dell’UNPOS (UN Political Office for Somalia). Il futuro del paese è imprevedibile, con l’impasse politica che a volte sfocia in scontri armati e persistenti intromissioni esterne, da parte di Turchia, Qatar e EAU, che hanno le loro agende (e consistenti presenze militari sul territorio) che non coincidono necessariamente con i piani dell’ONU e dell’UE (per completezza, la Gran Bretagna ha una sua missione bilaterale di addestramento delle Forze armate somale, l’operazione Tangham, con una sessantina di istruttori e l’Italia, la MIADIT-Somalia, focalizzata sull’addestramento delle Forze di polizia somale e di Gibuti e che opera in stretto collegamento con l’EUCAP Somalia). ATMIS dovrà inoltre affrontare gli stessi problemi finanziari dell’AMISOM. Le Nazioni unite hanno fornito il supporto logistico alla missione, continueranno a farlo con l’UNSOS (UN Support Office for Somalia), con l’UE che finanzia gli stipendi del personale militare e di polizia dell’AMISOM. Ma l’UE aveva ridotto il suo sostegno negli ultimi anni (anche per protestare contro le politiche interne di alcuni paesi partecipanti all’AMISOM soprattutto nell’ ambito delle libertà politiche e civili) e le sue intenzioni nei confronti di ATMIS non sono ancora chiare, anche se la delegazione dell’UE in Somalia ha garantito che l’UE è pronta a contribuire e garantire i finanziamenti purché il piano di gestione sia realistico, pragmatico e mirato. Quindi sembra che ATMIS non differirà sostanzialmente da AMISOM nei suoi fini ultimi. Continuerà principalmente a fornire supporto militare al paese, come fatto dall’ AMISOM, essenziale per la sicurezza della Somalia. Poiché lo stallo politico è al centro dei problemi sociali e di sicurezza interni del paese, risolverlo dovrebbe essere la priorità. Se deve differire dall’AMISOM, il mandato dell’ATMIS e la riconfigurazione delle forze dovrebbero includere un solido impegno politico a sostegno della riconciliazione tra i gruppi politici divisi all’ interno del paese e una migliore cooperazione politica tra ONU e UA. Altrimenti, la scelta di dare un nuovo nome alla missione senza affrontare i problemi istituzionali e politici in primis che affliggono il paese e che lo tengono ancorato alla condizione di «Stato fallito», non basterà ad attuare un vero cambiamento. Analizzare i recenti sviluppi della Somalia e del Corno d’Africa, regione di importanza crescente, porta naturalmente ad ampliare lo sguardo, considerando, o almeno tentando di considerare, le possibili future ripercussioni regionali e sub-regionali della guerra in Ucraina. Le relazioni della Russia con l’Africa sono sottoposte a pressioni pesanti sulla scia della sua invasione dell’Ucraina e condizionate dalle diverse reazioni da parte degli Stati del continente africano in merito alla nuova guerra in Europa. Negli ultimi anni, Mosca ha rafforzato i legami con i paesi di tutto il continente, in particolare quelli afflitti dalla violenza interna e disil-
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lusi dalle potenze occidentali. La Russia rimane un fornitore leader di armi e gli appaltatori militari privati russi continuano a espandere la loro presenza, come per esempio di recente in Mali, in Centrafrica, Camerun e Sudan (senza contare le incursioni politico-diplomatiche in Guinea, Burkina Faso, Niger e Chad). Se la Russia stia perseguendo con successo una strategia più ampia, o semplicemente si stia impegnando in giochi di potere tattici, resta oggetto di dibattito. La Russia ha cercato a lungo una base navale sul Mar Rosso e detiene il suo seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite per influenzare il continente africano. La risposta dell’Africa alla crisi ucraina è stata tutt’altro che unita. Durante la storica sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni unite all’inizio di marzo, le fratture emergenti sono state chiaramente mo-
Un prossimo «rehatting» in Mali?
strate: solo circa la metà degli Stati africani ha sostenuto la denuncia dell’aggressione russa contenuta nella risoluzione, mentre solo l’ Eritrea si è opposta. Laddove alcuni paesi hanno condannato fermamente l’invasione come una manifesta violazione di norme fondamentali, altri sono stati più titubanti, sottolineando spesso l’incoerenza dell’Occidente nei confronti di questi stessi principi (altri addirittura non si sono presentati al voto, nascondendosi dietro fumose e contradditorie dichiarazioni). È un fatto che anche nel continente africano e nell’area del Corno d’Africa e le sue aree circonvicine (l’asse Canale di Suez-Mar Rosso-Stretto di Bab elMandeb) la situazione resta aperta a possibili intromissioni, se non direttamente russe, da parte di «partners» (come l’Iran, presente nello Yemen) che provocherebbero ulteriori scosse a un’ area già fragile.
schio del collasso del paese sarebbe enorme», ha detto Guterres (che ritornava da una controversa visita a Mosca e Kiev), aggiungendo «Non ho intenzione di proporre che questa missione finisca perché penso che le conseguenze sarebbero terribili. Ma MINUSMA sta operando in circostanze che richiedono davvero non più una forza di mantenimento della pace, ma una missione incaricata di rafforzare la pace e combattere il terrorismo. Deve essere una forza africana, appartenente all’Unione africana, ma con un mandato del Consiglio di Sicurezza che include il Capitolo Sette e un finanziamento obbligatorio». Il Capitolo Sette della Carta delle Nazioni unite consente l’uso della forza in caso di «minaccia alla pace» e per imporre l’applicazione del mandato approvato dal Consiglio di Sicurezza.
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Nel mese di giugno il Consiglio di Sicurezza deciderà se rinnovare il mandato della Missione Integrata di Stabilizzazione in Mali (MINUSMA), una delle più grandi operazioni di mantenimento della pace delle Nazioni unite. Il Segretario generale dell’ONU Antonio Guterres, nel corso di una visita in Mali ha affermato che il paese potrebbe essere soggetto a una crisi grave se la missione dell’ONU si ritirasse, ma ha suggerito che un’opzione potrebbe essere quella di sostituirla con una forza dell’Unione Africana, sostenuta da un mandato operativo più stringente di quello dato a MINUSMA. Guterres ha avanzato la proposta in un’intervista alla stazione francese Radio France Internationale in vista di una decisione chiave sul futuro dell’ONU in Mali. «La vera situazione è che senza MINUSMA, il ri-
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Le parole di Guterres non sono casuali e sono un pesante campanello dall’allarme, in quanto vista la crescente ostilità delle autorità di Bamako verso la presenza internazionale, e occidentale in particolare, molte nazioni, stanno considerando di ritirare i loro contingenti, anche per non ripetere l’umiliante espulsione del contingente danese della missione multinazionale europea di Forze speciali Takuba e l’ONU vuole evitare a tutti costi un vacuum che potrebbe essere pericolosissimo e che ha già segnali negativi con la fine della missione di addestramento della UE (EUTM-Mali) e dell’oramai prossima fine (o espulsione, viste le ultime mosse di Bamako che denuncia la validità degli accordi firmati con Parigi) delle restanti forze francesi della Barkhane. Questo difficile scenario non è casuale, ma il risul-
ha visto l’arrivo e l’integrazione di contingenti di paesi occidentali, asiatici e latinoamericani (anche se la maggior parte dei contingenti della missione proviene da Stati africani) in questa missione, arrivando a includere 14.000 soldati e poliziotti. La missione ha il mandato di sostenere il fragile paese del Sahel nella sua lotta contro gli insorti jihadisti, pagando un alto tributo di sangue (170 caduti, di cui molti in attentati con autobombe e/o altre azioni di tipo terroristico), ma è stata spesso criticata per essere stata dotata di un mandato che le ha impedito di intervenire con la forza necessaria. Questo problema risale alle divisioni politiche all’interno del Consiglio di Sicurezza (e in particolare tra i 5 Stati permanenti) che hanno reso difficile l’adozione di mandati più stringenti. Di conseguenza, secondo questo punto di vista, l’onere della sicurezza grava sulle Forze armate
tato di un processo di degrado che parte da lontano e che nonostante molti sforzi, la comunità internazionale (o almeno una sua parte) non riesce ad arrestare. La crisi del Mali, esplosa nel 2011 con l’insurrezione dei Touareg che volevano separarne il Nord e costituire il loro Stato, l’Azawad; la contemporanea insurrezione islamista, l’ affannosa risposta di una Forza panafricana, la AFISMA, lanciata dall’ECOWAS (Economic Community of West African States) e schierata grazie a un ponte aereo delle nazioni della UE e NATO, accompagnata dall’invio di una operazione militare francese (operazione Serval prima e Barkhane poi) ha solo rallentato un cammino di scollamento istituzionale e alimentato una crescente ostilità da parte delle popolazioni locali contro tutto ciò che era Occidente. Il passaggio della AFISMA a MINUSMA nel 2013
mal equipaggiate del Mali (nonostante un generoso programma di aiuti da parte delle nazioni della UE che ha anche fornito la sopracitata EUTM-Mali, che è arrivata a contare quasi 600 unità di personale). Per accrescera la capacità della missione Barkhane si è poi lanciata l’iniziativa della forza G5S (operazione multinazionale formata dalle unità di elite degli eserciti di Mali, Mauritania, Burkina Faso, Chad e Niger) con ruoli supplettivi e di sostegno alle forze francesi per il Sahel. Ma anche in questo caso le debolezze intrinseche degli attori locali (e, bisogna dirlo, le incertezze e contraddizioni occidentali) non hanno fatto decollare questo tentativo. A questo si aggiungono le crisi isituzionali di tre dei cinque aderenti al sottogruppo regionale G5 (Mali, Burkina Faso, Chad) dove sono al potere governi golpisti e/o provvisori che ne riducono legittimità e efficacia e la
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comunità internazionale, anche in questo caso, non tutta, è restia a interagire con quel tipo di Governi. Nel 2021 era stato ventilato l’invio di una forza dell’UA a sostegno della MINUSMA e delle altre forze internazionali, ma il progetto si è arenato e l’unica presenza di Addis Abeba in Mali è di una piccola delegazione di uffici e di consiglieri militari. Guterres ha affermato di essere consapevole della portata del compito delle Nazioni unite in Mali ma ha riconosciuto che vi è una situazione molto difficile soprattutto nella cooperazione tra Bamako e MINUSMA sulla questione dei diritti umani. Il mese scorso, diverse centinaia di civili sarebbero stati uccisi nel Mali centrale da Forze governative e operatori militari stranieri, che secondo Human Rights Watch potrebbero essere stati i contractor russi della Wagner. Il Mali lo nega e afferma che le sue forze hanno eliminato più di 200 jihadisti. Tuttavia, l’ONU afferma di essere ancora in attesa del permesso da parte delle autorità per inviare investigatori nella regione. La decisione del prossimo mese a New York arriva nel contesto della rottura delle relazioni tra il Mali e la Francia, che negli ultimi nove anni vi ha inviato migliaia di soldati (perdendone 53), supportati da elicotteri, jet e droni. Il loro prossimo ritiro potrebbe avere implicazioni per la MINUSMA, in quanto il mandato dell’ONU autorizzava le forze francesi a sostenere la missione in caso di pericolo imminente e grave. Quindi è nell’ordine delle cose, interpetando le parole di Guterres, un ritiro dei contingenti non africani dalla missione e un «re-hatting» dei restanti dai «caschi blu» delle Nazioni unite a quelli verdi dell’UA. Ovviamente è una importante decisione politica : come si è visto, l’altra missione dell’UA, in Somalia, non sembra essere partita sotto i migliori auspici, e ci sono molti problemi da risolvere. Il primo è di ordine politico, come trovare l’intesa e la volontà all’interno delle due organizzazioni e tra queste due, visto che i precedenti sono stati a dir poco complessi, come nel caso dell’UNAMID. Anche i problemi finanziari rivestiranno grande importanza; la UE, che si è dotata di una nuova architettura finanziaria per questo tipo di attività, potrà farsi carico di una parte, ma sarà necessario l’ intervento di altri paesi finanziatori (Stati Uniti?). Inoltre, se il progetto di una
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nuova Forza panafricana troverà accoglienza, la presenza dell’ONU in Mali in una qualche misura dovrà estrinsecare la sua azione alla stregua di quella dell’UNSOS, visto che i contingenti africani sono estranei al concetto di «selfsustaining». Anche in questo caso per evitare che si espanda la penetrazione russa in Mali (i recenti negoziati per la fornitura di armamenti e istruttori russi con il Camerun, che confina con la Repubblica Centroafricana dove la presenza di Mosca è forte, sono un segnale pericoloso) potrebbe fungere da catalizzatore per portare a termine queste iniziative, senza tuttavia ignorare le difficoltà istituzionali, come le esacerbate divisioni all’interno del Consiglio di Sicurezza e la non uniforme posizione degli Stati africani.
Una fragile tregua Diciassette mesi dopo che un cessate il fuoco mediato dalla Russia ha posto fine alla seconda guerra tra Armenia e Azerbaigian in 30 anni, nuovi combattimenti ne minano una tregua fragile. Yerevan e Stepanakert (l’autorità de facto di quello che resta della autoprocalamata Repubblica armenofona del Nagorno-Karabakh/Artsakh) temono che Baku approfitterà del coinvolgimento russo in Ucraina per riprendere il controllo di altre porzioni del Nagorno-Karabakh. L’Azerbaigian vede l’intero territorio come proprio ai sensi del diritto internazionale. Insiste sul fatto che le Forze armate delle autorità de facto sono illegali e vuole che le Forze di pace russe le disarmino. La Russia è diffidente nei confronti dell’escalation, che potrebbe deludere le sue speranze di svolgere un ruolo di primo piano in un Caucaso meridionale stabile e vicino alle sue posizioni. Ma la guerra in Ucraina sta visibilmente riducendo l’influenza di Mosca e ha interrotto ogni tipo di collaborazione con Francia e Stati Uniti, gli altri co-presidenti del Forum principale per i colloqui sulla pace. Dati i costi di un nuovo conflitto, queste insieme ad altre nazioni— come l’UE e la Turchia — dovrebbero cooperare discretamente per incoraggiare il dialogo e i
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colloqui tra interlocutori nazionali e locali necessari per analizzare questioni economiche e misure utili a ridurre le tensioni. Le radici del conflitto del NagornoKarabakh risalgono a decenni fa. Nel 1988, gli abitanti di etnia armena che vivevano in quella che allora era l’Oblast Autonoma del Nagorno-Karabakh (NKAO) — un’enclave a maggioranza armena all’interno del territorio dell’Azerbaigian sovietico — chiesero la restituzione di quei territori all’Armenia. Con il crollo dell’Unione Sovietica, gli attriti si trasformarono in una vera e propria guerra. La prima guerra del Nagorno-Karabakh si è conclusa con un cessate il fuoco sponsorizzato dalla Russia nel 1994, con le Forze armene che prendono il controllo dell’NKAO (che intanto dichiara l’indipendenza), nonché di sette territori azeri a ovest, sud e est del Nagorno-Karabakh. Questo status quo è rimasto fino alla seconda guerra, iniziata nel settembre 2020, che ha visto la superiorità dell’Azerbaigian. In un altro cessate il fuoco promosso da Mosca, truppe russe hanno preso rapidamente il controllo di parte del Nagorno-Karabakh, comprese le città di Shusha e Hadrut, e dei sette territori adiacenti che Baku aveva perso nel 1994. Le Forze di pace russe si sono schierate per pattugliare le porzioni di territorio dell’ex-NKAO rimaste nelle mani di armeni di etnia armena, mentre le truppe di Yerevan si ritiravano. La regione ha visto alcuni combattimenti nel periodo successivo al cessate il fuoco, in particolare vicino al perimetro del Nagorno-Karabakh e lungo il confine di Stato tra Armenia e Azerbaigian. Dall’invasione russa dell’Ucraina il 24 febbraio, tuttavia, il rischio di un’escalation che potrebbe riportare la regione a un conflitto aperto è aumentato, con diversi scontri e la rivendicazione azera di aree che si trovano in un distretto del Nagorno-Karabakh popolato da armeni che era stato sotto l’amministrazione della autoproclamata Repubblica armenofona del Nagorno-Karabach/Artsakh. Nonostante queste tensioni, le due parti tengono aperta la linea del dialogo (l’ultimo incontro si è tenuto a Bruxelles il 6 aprile scorso), anche se senza risultati
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concreti, riproponendo situazioni analoghe al difficile dialogo russo-ucraino, dove le questioni centrali riguardanti il destino dello stesso Nagorno-Karabakh, Armenia e Azerbaigian per ora restano distanti. Con Baku che ora controlla saldamente i sette territori adiacenti che le Forze armene avevano conquistato nella prima guerra, la disputa è ora interamente concentrata sul Nagorno-Karabakh. La posizione dell’Azerbaigian è che l’unico accordo che vuole deve inziare con l’accettazione inequivocabile da parte dell’Armenia della sovranità di Baku su tutto il territorio entro i suoi confini internazionalmente riconosciuti, compreso l’intero Nagorno-Karabakh. Baku, per ora, non è interessata a esplorare soluzioni alternative per definire lo status del Nagorno-Karabakh come un alto grado di autonomia e autogoverno, compreso la gestione delle proprie Forze di polizia. Per Yerevan queste promesse sono insufficienti, sebbene la leadership di Yerevan abbia fatto presente che la sicurezza e i diritti degli armenofoni del Karabakh potrebbero essere temi più cruciali per loro rispetto a quello dello status del territorio. Date le circostanze, la strategia più promettente potrebbe essere la stessa su cui i mediatori hanno fatto affidamento fino a oggi: incoraggiare le parti a lavorare insieme su questioni meno delicate, come il ripristino dei legami economici, e lasciare da parte, inizialmente, la questione della demarcazione dei confini statali tra Armenia e Azerbaigian e status finale del Nagorno-Karabach e i diritti delle popolazioni armenofone. Nel frattempo, gli attori esterni con la maggiore influenza — Russia, Francia, Stati Uniti, UE e Turchia — che avrebbero dovuto incoraggiare un modus vivendi che aiuti a stabilizzare la situazione del Caucaso meridionale, sono concentrati sull’ invasione russa in Ucraina. In questo contesto un potenziale partner locale, come la Turchia, con il presidente Erdogan alla perenne ricerca di successi esterni per consolidare la sua posizione interna, data la solidità delle sue relazioni con Baku e il suo interesse a intrattenere relazioni più calde con Yerevan, potrebbe essere utile per aiutare a contenere i contrasti che sorgono tra le parti su quel territorio. Enrico Magnani
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M ARINE ITALIA Conclusa la «Mare Aperto 22-1» Il 27 maggio è si conclusa con successo la prima edizione dell’esercitazione «Mare Aperto 2022», iniziata il 3 maggio e a cui hanno partecipato più di 4.000 tra donne e uomini appartenenti a 7 nazioni della NATO, 37 navi, 3 sottomarini, 11 velivoli, 15 elicotteri, reparti della componente anfibia, con mezzi da sbarco e veicoli d’assalto, e distaccamenti di Forze speciali. L’ammiraglio di squadra Aurelio De Carolis, Comandante in Capo della Squadra navale, ha diretto l’esercitazione, insieme al suo staff imbarcato sulla portaerei Cavour. Impegnati anche i comandi della Brigata Marina San Marco, delle Forze di contromisure mine e delle quattro Divisioni navali in cui si articola l’organizzazione operativa della Marina Militare, nonché unità appartenenti a nazioni alleate — Canada, Francia, Germania, Grecia, Spagna e Stati Uniti — che hanno contribuito a mantenere un elevato livello di interoperabilità tra le forze della NATO, confermando così l’importanza dell’esercitazione sul piano internazionale. Nella Sardegna meridionale ha operato il gruppo cacciamine, al cui interno è stato integrato lo Standing NATO Mine Countermeasure Group 2 (SNMCMG 2) dell’Alleanza Atlantica. Coinvolti anche in questa edizione, gli studenti di alcuni atenei italiani che hanno collaborato a sviluppare lo scenario dell’esercitazione svolgendo il ruolo di political advisor, legad e addetti alla pubblica informazione e che — a bordo del Cavour, del Garibaldi e dell’Etna — hanno beneficiato di un ciclo di conferenze a cura
MILITARI del CeSMar (Centro Studi di Geopolitica e Strategia Marittima). Al termine dell’esercitazione, l’ammiraglio De Carolis ha affermato «in questa edizione della Mare Aperto, la prima da Comandante in Capo, ho voluto ricercare la massima efficacia addestrativa, coinvolgendo gli staff imbarcati in processi di pianificazione complessi, in uno scenario in continua evoluzione, utilizzando appieno il coinvolgimento degli studenti degli atenei partecipanti e delle realtà interistituzionali e interagenzia coinvolte, il tutto finalizzato alla preparazione delle Forze marittime nazionali per la tutela degli interessi del paese e delle organizzazioni internazionali cui esso aderisce, uno dei principali compiti istituzionali della Marina Militare».
Pubblicato il Rapporto Marina Militare 2021 Riprendendo un’importante consuetudine interrotta circa 10 anni fa, la Marina Militare ha pubblicato un’edizione del Rapporto che illustra e valorizza le attività svolte dalla Forza armata durante lo scorso anno. Il Rapporto Marina Militare 2021 si apre con una prefazione a cura del Capo di Stato Maggiore, Ammiraglio di squadra Enrico Credendino, che afferma la capacità della Forza armata nel superare con passione e orgoglio gli ostacoli e le sfide del difficile scenario creato dalla pandemia. Di fronte all’attuale scenario di conflittualità e instabilità, è essenziale che la Marina Militare agisca in modo efficace nel continuum tra prevenzione, competizione, crisi e conflitto, per mantenere un’adeguata iniziativa rispetto a tutti i soggetti che nel Mediterraneo
Ripresa aerea delle unità — in formazione su 8 linee di fila — della Marina Militare e di Marine estere partecipanti alla «Mare Aperto 22-1».
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allargato perseguono, anche in maniera assertiva, i propri esclusivi interessi, spesso in contrasto con gli orientamenti della comunità internazionale. Il Rapporto Marina Militare 2021 prosegue con un’analisi di uno scenario con al centro l’Italia che, a causa di molteplici fattori di criticità, risulta particolarmente esposta e vulnerabile rispetto agli effetti di crisi con connotazioni marittime. In uno scenario marittimo così complesso, è indispensabile che l’azione dello Stato sul mare sia sostenuta generando un’adeguata «massa critica», ottenibile attraverso coesione trasversale, operatività unitaria ed efficienza sistemica dei mezzi governativi che sul mare operano a vario titolo. Arricchito da numerose infografiche, il Rapporto MM 2021 analizza poi un panorama a 360°, idealmente suddiviso in quattro quadranti: opeLa copertina del Rapporto Marina Militare 2021, che illustra e valorizza le numerose, complesse e variegate attività svolte dalla Forza armata durante lo scorso anno.
razioni e attività, personale e organizzazione, lo strumento aeronavale e le infrastrutture, e i programmi e il bilancio. Si apprende che nel corso del 2021 le unità di superficie e subacquee inquadrate nella Squadra navale hanno eseguito complessivamente circa 99.000 ore di moto, associate a circa 12.200 ore di volo dell’Aviazione navale, svolgendo attività operative e addestrative che hanno inciso, rispettivamente, sul 71% e sul 27% del totale, con il rimanente 2% destinato a test e sperimentazioni. In tale ambito, viene giustamente ricordata la campagna «Ready For Operations» condotta con successo dalla portaerei Cavour negli Stati Uniti, nonché la proficua collaborazione con la portaerei britannica Queen Elizabeth, il tutto finalizzato al raggiungimento, nel 2024, alla capacità operativa iniziale del «Sistema portaerei» della Marina Militare. Anche nel 2021, la consistenza del personale — pari a 29.800 uomini e donne — è rimasta una delle principali criticità della Forza armata, impegnata in ambito istituzionale a soddisfare un’esigenza di consistenza minima per la quale occorrono circa 5.000 effettivi, a cui ne vanno aggiunti altri 4.000 per giungere a un assetto ideale; nuove risorse sono necessarie anche per garantire un ordinato ricambio generazionale del personale civile. Un ele-
Un’ immagine al computer della Stazione navale Mar Grande di Taranto, nella configurazione risultante dopo i previsti interventi di ampliamento, come illustrato nel Rapporto Marina Militare 2021.
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mento di novità nell’organizzazione complessiva della Marina Militare riguarda l’attuazione di un’architettura di innovazione tecnologica, di cui fanno parte lo Stato Maggiore della Marina, i Centri tecnici della Forza armata e ufficiali particolarmente qualificati in settori tecnologici di particolare interesse, al fine di indirizzare, valorizzare e mettere a sistema le attività di studio e sperimentazione di tecnologie innovative che possono trovare utile applicazione nello strumento aeronavale nazionale del futuro. In tema di infrastrutture, procede il programma di ammodernamento degli arsenali, meglio noto come «Basi Blu» e concepito per potenziarne le capacità anche in funzione dell’ingresso in linea di nuove unità quali il Trieste e la classe «Thaon Di Revel»; i nuovi programmi di potenziamento della Marina Militare prevedono i sottomarini U212 NFS, i cacciatorpediniere lanciamissili DDX, le unità d’assalto anfibio LXD, una nuova generazione di cacciamine e una serie di unità ausiliarie d’altura e costiere specialistiche.
nella base navale dell’US Navy di Norfolk, in Virginia. Dal 31 maggio al 1 luglio, il Duilio è stato impegnato nella «COMposite Training Unit EXercise, COMPTUEX», un complesso evento addestrativo finalizzato alla qualificazione delle unità assegnate a un gruppo navale incentrato su una portaerei. Pertanto, il Duilio opera come unità di scorta del Carrier Strike Group incentrato sulla portaerei a propulsione nucleare George H. W. Bush (identificato con l’acronimo CSG-GHWB), integrandosi nel sistema di comando e controllo di quest’ultimo. L’in-
L’Alliance di nuovo in azione nell’Oceano Artico L’unità polivalente di ricerca Alliance è partita il 21 maggio dalla Spezia alla volta dell’Oceano Artico, con destinazione il porto norvegese di Tromsø. Due le missioni scientifiche che la nave condurrà nei prossimi mesi: la prima è denominata «Nordic Recognized Enviromental Picture 22» (NREP 22), condotta dallo «Science and Technology Organization-Centre for Maritime Research and Experimentation, STO-CMRE» della NATO, e la seconda è la campagna «High North 22», guidata dalla Marina Militare e comprendente attività di mappatura, campionamento, analisi e osservazioni finalizzare a accrescere le conoscenze delle regioni artiche, studiandone i cambiamenti occorsi negli ultimi anni e verificare così l’evoluzione del clima nonché lo stato di salute del pianeta Terra. Il rientro dell’Alliance alla Spezia è previsto nell’agosto 2022.
Il cacciatorpediniere lanciamissili Caio Duilio in azione con l’US Navy Dopo aver partecipato all’esercitazione «Mare Aperto 22-1», il cacciatorpediniere lanciamissili Caio Duilio ha fatto rotta verso gli Stati Uniti, e il 25 maggio è giunto
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L’arrivo del cacciatorpediniere lanciamissili CAIO DUILIO nella base navale di Norfolk, in Virginia. Dal 31 maggio al 1 luglio, il DUILIO è impegnato nella COMposite Training Unit EXercise, COMPTUEX (US Navy).
serimento del Duilio nel CSG-GHWB permetterà di migliorare il livello di integrazione e di conseguire la piena interoperabilità delle unità di scorta della Marina Militare assieme a quelle statunitensi, consolidando le conoscenze in materia di protezione di un dispositivo navale complesso incentrato su una portaerei.
Il Carrier Strike Group del Cavour e l’esercitazione «Neptune Shield 2022» Dopo una breve sosta seguita alla conclusione dell’esercitazione «Mare Aperto 22-1», il Carrier Strike Group, CSG, della Marina Militare formato dalla portaerei Cavour, dal cacciatorpediniere lanciamissili Andrea Doria e dalla fregata Alpino è stato impegnato, dal 27 al 31 maggio, nell’esercitazione NATO «Neptune Shield 2022» (NESH 22). In tale occasione e per la prima volta nella storia dell’Alleanza Atlantica, l’Italia ha trasferito il comando e il controllo operativo di un proprio CSG a un comando NATO, per la precisione
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preparazione del personale della Marina Militare inquadrato nello staff della «Italian Maritime Force, ITMARFOR». Il complesso di queste esercitazioni è funzionale al potenziamento capacitivo delle unità e del personale imbarcato, in modo da impiegare al meglio sistemi e procedure NATO e ampliare lo spettro di capacità operative nell’ambito dell’Alleanza.
AUSTRALIA Missili «Tomahawk» sui sottomarini classe «Collins» Dopo aver partecipato all’esercitazione «Mare Aperto 22-1», la portaerei CAVOUR, qui ritratta con velivoli ad ala fissa F-35B e AV-8B sul ponte di volo, ha preso parte all’esercitazione NATO «Neptune Shield 22». Per l’occasione, il CAVOUR è stato inserito in un Carrier Strike Group della Marina Militare comprendente anche il cacciatorpediniere lanciamissili ANDREA DORIA e la fregata ALPINO.
il «Naval Striking and Support Forces NATO, STRIKFORNATO», evento che ha rappresentato un’opportunità unica per integrare un dispositivo aeronavale della Marina Militare nelle operazioni alleate. Da parte sua, la NESH 22 ha avuto luogo dal 17 al 31 Maggio, in un teatro operativo comprendente il mar Adriatico, il Mediterraneo, l’Atlantico orientale e il mar Baltico, e ha visto come tema principale la vigilanza aeronavale e la condotta di operazioni di strike dal mare a cura di unità e reparti navali, aerei e terrestri: per l’occasione, STRIKFORNATO ha esercitato il comando e controllo anche sul CSG incentrato sulla portaerei statunitense Harry S. Truman e del gruppo anfibio incentrato sulla portaeromobili d’assalto Kearsarge (comprendente anche il 22nd Marine Expeditionary Unit, MEU). Sostanzialmente, la NESH 22 ha avuto luogo nel teatro operativo euro-mediterraneo sotto la responsabilità operativa dei due JFC, Joint Forces Command, della NATO, rispettivamente di base a Napoli e a Brunsum, in Olanda. In occasione della «Mare Aperto 22-1», il Cavour ha operato con un reparto aereo imbarcato formato da velivoli F-35B «Lightning II» e AV-8B «Harrier II Plus», avendo a bordo anche personale dello staff di STRIKFORNATO e svolgendo eventi addestrativi e procedurali finalizzati a potenziare le capacità del CSG italiano alle future operazioni NATO, in particolare la
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La Marina australiana sta valutando la possibilità di ammodernare i sei sottomarini classe «Collins» tuttora in servizio con missili da crociera «Tomahawk»: l’iniziativa rientra nei massicci interventi necessari e già programmati per estendere la vita operativa dei battelli (Life of Type Extension, LOTE), in attesa dell’ingresso in linea di nuove unità subacquee. Nell’ambito del programma LOTE, che inizierà nel 2026, si prevede di completare l’ammodernamento di ogni «Collins» a intervalli di due anni: gli interventi comprenderanno la revisione generale di tutto il sistema propulsivo e di generazione e distribuzione dell’energia elettrica, l’impianto di refrigerazione, ventilazione e condizionamento, nonché diversi tipi di sistemi e sensori, comprendendo ciò la sostituzione di almeno uno dei due periscopi tradizionali con un albero optronico di produzione francese. Qualora i «Tomahawk» fossero prescelti nell’ambito del programma LOTE, saranno necessarie idonee modifiche ai moduli hardware e software d’interfaccia fra i missili e il sistema di gestione operativa
Il sottomarino FARNCOMB, appartenente alla classe «Collins» rientra nella Fleet Base West, di Adelaide, nell’Australia occidentale. Il FARNCOMB sarà il primo battello a completare il programma LOTE, forse comprensivo dell’adozione di missili da crociera (Commonwealth of Australia).
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dei «Collins»: poiché essi non dispongono di tubi di lancio verticali, i missili verrebbero lanciati dai tubi lanciasiluri, procedura peraltro seguita da altre classi di battelli, fra cui quelli della Royal Navy. Va ricordato che la versione del «Tomahawk» impiegabile da tubi lanciasiluri non risulta più in produzione, ma la società produttrice, Raytheon, ha dichiarato che è pronta a riaprire la linea di produzione in caso di ordini quantitativamente significativi, una possibilità questa in cui potrebbe rientrare un approvvigionamento in comune di missili fra le Marine di Australia e Gran Bretagna, nonché di qualche altra Marina interessata all’arma.
FINLANDIA Esercitazioni navali nel Baltico settentrionale Dal 13 al 28 maggio 2022, la Marina finlandese ha condotto una serie di attività addestrative nella porzione settentrionale del mar Baltico, a cui hanno partecipato unità navali e batterie missilistiche della difesa costiera. Ispirati dall’assertività della Russia in tutto il teatro euro-mediterraneo e in linea con le aspirazioni di Helsinki per l’adesione alla NATO, i temi delle esercitazioni hanno riguardato la protezione dei traffici marittimi, il monitoraggio e l’aggiornamento continuo del quadro tattico e le operazioni in ambiente littoral, compresa una serie di tiri e lanci missilistici simulati. Diretti dal comandante della Marina finlandese ammiraglio di divisione Jori Harju, gli eventi hanno visto la partecipazione anche di unità e reparti della Marina svedese (in particolare la corvetta Gävle e la nave comando/posamine Karlskrona e il 1° reggimento anfibio), nonché interazioni con altre componenti delle Forze armate e agenzie di sicurezza finlandesi. Nell’ultima fase delle esercitazioni sono state condotte attività tipo PASSEX con un gruppo navale dell’US Navy formato dal cacciatorpediniere lanciamissili Gravely e dalle unità d’assalto anfibio Kearsarge e Gunston Hall.
NATO, inizialmente impegnato in operazioni antisommergibili nelle acque fra l’Islanda e la Norvegia. Sempre sotto il controllo operativo del MARCOM (Maritime Command) della NATO con sede a Northwood (nella campagna inglese), il Latouche-Tréville si è poi spostato nel mar Baltico, svolgendo attività addestrative con unità della Marina polacca: dopo il rientro a Brest (metà giugno 2022), il Latouche-Tréville eseguirà una serie di uscite in mare giornaliere tradizionalmente riservate a suoi ex-comandanti e sarà ritirata dal servizio a luglio 2022. In servizio nella Marina francese dal 1990, il Latouche-Tréville è l’ultima fregata della serie «F70», comprendente altre sei unità concepite per la lotta antisommergibili e due esemplari per la difesa contraerei. Nel suo ultimo dispiegamento, il Latouche-Tréville ha imbarcato un elicottero «Alouette III», ultimo modello di elicottero presente a bordo delle unità navali francesi basate nel territorio metropolitano.
GRAN BRETAGNA Accordo con la Marina danese per le fregate «Type 31» Le Marine di Danimarca e Gran Bretagna hanno stipulato un accordo — noto come «Implementing Agreement» — per facilitare l’ingresso in servizio delle future fregate britanniche «Type 31», inquadrate nella classe «Insipiration». Il progetto di queste ultime è derivato dalle fregate classe «Iver Huitfeldt» già in linea con la Marina danese, e di ciò si avvantaggerà la Royal Navy per ottimizzare la costruzione, l’addestramento e le probabili operazioni congiunte fra le proprie unità e quelle
FRANCIA Ultima missione della fregata Latouche-Tréville Partita dalla base navale di Brest il 7 marzo, la fregata Latouche-Tréville ha svolto la sua ultima missione prima del ritiro dal servizio operando nell’ambito dello Standing Nato Maritime Group 1 (SNMG1) della
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Immagine al computer di una fregata britannica classe «Inspiration». La Royal Navy e la Marina danese hanno sottoscritto un accordo per facilitare la realizzazione del programma costruttivo britannico per le nuove fregate (BAE Systems).
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danesi. Da riprodurre in cinque esemplari, di cui il primo denominato Venturer, le fregate britanniche dovranno sostituire le unità classe «Duke/Type 23» e svolgere compiti di presenza e sorveglianza su scala globale. Il Venturer è stato impostato ad aprile 2022 nei nuovi cantieri Babcock, a Rosyth, in Scozia, ed è previsto che venga varato alla fine del 2023. Firmatari dell’Implementing Agreement sono stati gli ammiragli Andrew Burns per la Royal Navy e Torben Mikkelsen, entrambi responsabili delle operazioni navali nelle due Marine: la firma è avvenuta durante la riunione annuale dei capi delle Marine europee (noto come, Chiefs of European Navies Seminar, CHENS), svoltosi in Romania a metà maggio circa.
Ritiro dal servizio di due sottomarini d’attacco I sottomarini nucleari d’attacco della Royal Navy Talent e Trenchant sono stati ritirati dal servizio il 20 maggio, nel corso di un cerimonia svoltasi nella base navale di Devonport: ultimi esemplari della classe «Trafalgar», entrambe le unità sono rimaste in linea per circa 32 anni, avendo come missione primaria la protezione dei sottomarini nucleari lanciamissili balistici che costituiscono la forza di deterrenza strategica britannica e come funzioni aggiuntive le operazioni antisommergibili, lo strike contro bersagli terrestri mediante missili da crociera, l’inserzione di Forze speciali e la raccolta d’informazioni. La sostituzione dei «Trafalgar» è iniziata da qualche anno, a cura dei battelli d’attacco a propulsione nucleare classe «Astute», di cui quattro esemplari sono già in servizio e il quinto, Anson, è impegnato nelle prove. Come i «Trafalgar», gli «Astute» operano praticamente in tutti i teatri del globo: in particolare, l’Astute ha fatto parte del Carrier Strike Group che nel 2021 ha raggiunto l’Estremo Oriente, l’Ambush ha partecipato ad attività addestrative NATO qualche mese fa e l’Audacious è stato in azione nel Mediterraneo, raggiungendo la piena capacità operativa all’inizio di aprile 2022.
Il lancio di un ingannatore attivo a radio frequenza del sistema C-GEM da una corvetta israeliana classe «Sa’ar 6» (foto Rafael).
del ministero della Difesa di Tel Aviv hanno concluso con successo la campagna di prove del sistema CGEM, un ingannatore attivo a radio frequenza lanciato da unità navali per proteggerle da missili antinave attraverso la manipolazione dello spettro elettromagnetico. Il «C-GEM» disturba e distrae diversi tipi di sistemi di guida di ordigni nemici, indipendentemente dalle manovre evasive eseguite dall’unità navale che lo lancia: l’ultima fase di prove è stata condotta a cura di una corvetta israeliana classe «Sa’ar 6» e il loro esito positivo permetterà l’integrazione del C-GEM nel sistema di difesa multistrato delle principali unità navali di superficie della Marina israeliana. In questo modo, il C-GEM costituirà il pilastro soft-kill del predetto sistema di difesa, affiancando il C-DOME, che rappresenta il pilastro hard-kill, potenziando in maniera evidente le capacità operative della Marina israeliana nei moderni scenari bellici caratterizzati anche da minacce missilistiche antinave da non sottovalutare.
ISRAELE Prove in mare del sistema ingannatore imbarcato «C-GEM»
REPUBBLICA POPOLARE CINESE Il cacciatorpediniere lanciamissili Lhasa conclude l’addestramento avanzato
All’inizio del 2022, la società israeliana Rafael, la Marina israeliana e la Direzione di ricerca e sviluppo
Come riportato dal quotidiano filogovernativo Global Time, il cacciatorpediniere lanciamissili Lhasa, se-
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Due cacciatorpedinieri lanciamissili cinesi: il LHASA (in primo piano) e il NANCHANG in banchina. Il LHASA ha recentemente completato il tirocinio avanzato al termine di una campagna operativa che l’ha visto all’opera nei settori delle difesa aerea, del contrasto antinave e della lotta antisommergibili (South China Morning Post).
condo esemplare della classe «Rhennai/Type 055», ha recentemente completato l’addestramento avanzato al termine di una campagna che lo ha visto all’opera in operazioni di difesa aerea, contrasto antinave e lotta antisommergibili. Avente un dislocamento di oltre 10.000 tonnellate, il Lhasa è stato dichiarato pronto per missioni al di là delle prima catena insulare che circonda a levante i mari adiacenti la Repubblica Popolare Cinese. Il tirocinio avanzato è stato condotto a cura di un centro addestrativo inquadrato nel Comando della Flotta settentrionale della Marina cinese, si è svolto in una zona del Mar Giallo e a esso hanno partecipato anche tre corvette «Type 056A». La flottiglia guidata dal Lhasa è stata impegnata in eventi seriali con l’impiego dei sistemi d’arma e dei sensori imbarcati, svolgendo numerose attività a cui hanno partecipato anche sottomarini e almeno un cacciatorpediniere lanciamissili «Type 052D». Entrato in servizio nel marzo 2021 ed equipaggiato con un totale di 112 celle per il lancio verticale di ordigni superficie-aria, antinave, da crociera e antisommergibili, il Lhasa seguirà un percorso operativo simile a quello del Nanchang, primo esemplare della classe, e sarà presto aggregato a un gruppo navale incentrato su una delle portaerei attualmente in linea con la Marina cinese.
RUSSIA Il sottomarino Alrosa alle prove A metà maggio, l’agenzia d’informazioni russa TASS ha comunicato che il sottomarino Alrosa, in-
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quadrato nella Flotta del Mar Nero ha completato un ciclo di lavori di grande manutenzione e ha iniziato le prove in mare per diventare nuovamente operativo. L’Alrosa è un battello realizzato secondo una versione particolare del «Project 877», meglio noto come classe «Kilo» e se ne distingue per la presenza di un propulsore «pump-jet» al posto dell’elica tradizionale: ciò faceva del battello un esemplare unico nel suo genere, concepito per verificare l’efficacia tecnica-operativa di un sistema propulsivo più silenzioso di quello presente a bordo di altri sottomarini russi diesel-elettrici. L’Alrosa era entrato in servizio nella Marina sovietica alla fine del 1990, e dopo la caduta dell’Unione Sovietica e l’indipendenza della Crimea, il suo equipaggio era rimasto fedele al Governo di Kiev. L’Alrosa svolse attività addestrative alquanto limitate e nel 1997 fu incorporato nella Flotta del Mar Nero al termine del negoziato che portò alla spartizione di quest’ultima fra la Russia e l’Ucraina. Anche con la Marina russa, l’attività dell’Alrosa è rimasta circoscritta al Mar Nero, se non addirittura alle acque costiere prospicienti la Crimea, con qualche ridispiegamento a Novorossiysk. Fonti dei cantieri di Sebastopoli affermano che gli ultimi intereventi sull’Alrosa ne hanno potenziato le capacità belliche, portando il battello allo stesso livello di efficacia dei sei sottomarini classe «Varshavyanka/Kilo Improved» in servizio nella Flotta del Mar Nero: l’Alrosa risulta inoltre esser stato modificato per permettergli l’impiego anche di missili da crociera «Kalibr-PL» («SS-N-27 Sizzler», secondo la denominazione NATO), ma non è noto se il propulsore «pump-jet» ha subito modifiche.
L’Admiral Makarov possibile futura nave ammiraglia della Flotta del Mar Nero Il 19 maggio, l’agenzia d’informazioni russa TASS ha comunicato che la fregata Admiral Makarov potrebbe verosimilmente assumere il ruolo di nave ammiraglia della Flotta del Mar Nero, funzione assolta in precedenza dall’incrociatore lanciamissili Moskva, affondato il 14 aprile 2022. La perdita del Moskva ha costretto i vertici della Marina a scegliere una nuova nave ammiraglia della Flotta del Mar Nero fra le tre fregate
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Immagine aerea della fregata ADMIRAL MAKAROV (classe «Admiral Grigorovich»), verosimilmente destinata ad assumere il ruolo di nave ammiraglia della Flotta del Mar Nero, dopo l’affondamento dall’incrociatore lanciamissili MOSKVA (TASS).
della classe «Admiral Grigorovich» (l’eponima, l’Admiral Essen e la Makarov): è tuttavia possibile che la funzione di flagship sia provvisoria, perché a novembre del 2021 in un evento svoltosi a Sebastopoli una fonte industriale aveva rivelato che il ruolo di nave ammiraglia sarebbe stato assegnato all’unità d’assalto anfibio Mitrofan Moskalenko, che si trova tuttora in costruzione nel cantiere Zaliv di Kerch in Crimea, ma il cui ingresso in linea è previsto per il 2030. Da parte sua, l’Admiral Makarov è stata costruita nei cantieri Yantar di Kaliningrad ed è entrata in servizio nella Marina russa alla fine del 2017: il suo dislocamento a pieno carico è di 3.620 tonnellate, mentre la velocità massima è di 30 nodi. L’armamento comprende un cannone da 100 mm, due complessi di celle per il lancio verticale di missili da crociera «Kalibr» e di ordigni antiaerei «Shtil», tubi lanciasiluri antisommergibili e un elicottero Ka-27 o Ka-31.
Nuovo lancio del missile ipersonico imbarcato «Zircon» Il 28 maggio, il ministero della Difesa russo ha divulgato un video del lancio di prova di un missile ipersonico antinave «Zircon» dalla fregata Admiral Gorshkov: il lancio ha avuto luogo nel Mar di Barents e, secondo fonti russe, l’ordigno ha colpito con successo
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un bersaglio situato nel Mar Bianco, a circa 1.000 km di distanza. L’evento fa parte della campagna di prove necessarie a verificare le capacità belliche della fregata. L’Admiral Gorshkov ha un dislocamento di 4.500 tonnellate e un’autonomia di 4.850 miglia a 14 nodi; la propulsione è affidata a un sistema CODAG formato da due motori diesel e altrettante turbine a gas, per una potenza massima di 49 MW. L’armamento missilistico comprende due impianti ottupli per il lancio verticale di missili antinave e da crociera («Kalibr», «Oniks» e «Zircon») e quattro impianti ottupli «Redut» per il lancio verticale di diversi modelli di missili antiaerei: l’armamento balistico è articolato su un cannone da 130 mm e due mitragliatrici da 14,5 mm, mentre la difesa di punto è affidata a due impianti «Palash». Da parte sua, il missile «Zircon» può raggiungere una velocità di Mach 5, possiede capacità di manovra in volo e può colpire bersagli navali e terrestri.
RUSSIA-UCRAINA Colpita la nuova unità ausiliaria russa Vsevolod Bobrov Fra le numerose informazioni, veritiere e di propaganda, che giungono dal teatro bellico russo-ucraino, una di esse, confermata, ha riguardato la nuova unità ausiliaria della Marina russa Vsevolod Bobrov, colpita il 12 maggio nei pressi dell’ormai famosa isola dei Serpenti da uno o più missili antinave lanciati da batterie costiere ucraine. Il Vsevolod Bobrov, dotata di rinforzi antighiaccio perché destinata a operare nell’Oceano Artico e di equipaggiamenti di supporto, è rientrato a Sebastopoli con danni a bordo e con gran parte dell’equipaggio tratto in salvo da altre unità in azione nella zona: l’unità risulta adesso impegnata in lavori di riparazione di entità sconosciuta. Appartenente alla classe «Elbrus/Project 23120», il Vsevolod Bobrov è entrato in servizio con la Flotta del Nord nel 2018, ed è stata successivamente ad alcun interventi migliorativi nel settore dei sistemi di navigazione e comunicazioni. Le sue caratteristiche le premettono di svolgere diverse funzioni, prima fra tutto il trasporto e il trasferimento di materiali solidi e la partecipazione a operazioni di ricerca e soccorso: essa ha una lunghezza di 95 m, una larghezza di 22 m e un equipaggio di 27 persone, più
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Immagine di repertorio della nave ausiliaria russa VSEVOLOD BOBROV, verosimilmente danneggiata il 12 maggio da uno o più missili antinave ucraini nel corso di una missione presso l’Isola dei Serpenti, nel Mar Nero (TASS).
altre 43 da ospitare in caso di bisogno. Le unità della classe sono state concepite per pattugliare le acque territoriali russe e la ZEE di Mosca nelle regioni artiche, ma l’andamento delle operazioni navali in Mar Nero ha indotto la Marina russa a trasferirla a Sebastopoli.
E. Petersen (DDG 121), appartenente alla classe «Arleigh Burke Flight-IIA» e che porta il nome del defunto Lieutenant General dei Marines Frank Petersen jr. Alla cerimonia hanno partecipato anche Carlos Campbell, ex-assistente segretario al Commercio degli Stati Uniti (pilota navale e commilitone di Petersen), l’ammiraglio Mike Gilday (Chief of Naval Operations dell’US Navy) e il generale David Berger, attuale comandante del Corpo dei Marines. Petersen fu il primo afro-americano a diventare pilota del Corpo dei Marines e a essere promosso generale a tre stelle. Scomparso nell’agosto 2015, all’età di 83 anni, Petersen aveva partecipato alla guerra di Corea e al conflitto vietnamita, prendendo parte a 350 missioni di guerra e volando oltre 4.000 ore su vari modelli di velivoli da caccia e d’attacco.
… e del sottomarino Oregon
La cerimonia dell’ingresso in servizio nell’US Navy del sottomarino nucleare d’attacco Oregon (SSN 793), STATI UNITI secondo esemplare appartenente della classe «Virginia In servizio il cacciatorpediniere lanciamissili Block IV», si è svolta il 28 maggio nella base navale Frank E. Petersen di New London, nel Connecticut. Il battello ha una lunCon una cerimonia presieduta dal segretario delghezza di 114,6 m, una larghezza di 10,3 m, può opel’US Navy Carlos Del Toro e svoltasi il 14 maggio a rare a una quota superiore ai 250 metri e a una velocità Charleston (South Carolina), l’US Navy ha immesso massima di 25 nodi, prestazione questa naturalmente in servizio il cacciatorpediniere lanciamissili Frank raggiunta soltanto in determinate condizioni tattiche. L’equipaggio comprende 140 uomini e donne. I battelli della classe «Virginia Block IV» si distinguono dai Blocks precedenti perché caratterizzati da accorgimenti progettuali finalizzati a ridurre i costi gestionali delle unità lungo tutto il loro ciclo di servizio: l’introduzione di alcune limitate modifiche progettuali relative alla componentistica permette all’US Navy di aumentare i periodi di disponibilità dei «Virginia Block IV» fra due consecutivi periodi di sosta per lavori, aumentandone di conseguenza il numero di dispiegamenti operativi. Il sottomarino Oregon è la terza unità dell’US Navy a portare il nome di questo Stato; la prima fu un brigantino Il cacciatorpediniere lanciamissili FRANK E. PETERSEN (DDG 121), appartenente alla classe «Arleigh Burke Flight-IIA» e ripreso poco prima della cerimonia di consegna in servizio nel periodo 1841-45, mentre la seall’US Navy, svoltasi il 14 maggio a Charleston (South Carolina) (US Navy). conda fu una corazzata classe «Indiana», in linea nel 1896 e ritirata dal servizio nel 1919.
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Il lancio di un missile AGM-114L «Longbow Hellfire» dal «Surface-To-Surface Missile Module, SSMM» in dotazione alla littoral combat ship MONTGOMERY (US Navy).
Esercitazione di missili land-attack lanciati da unità LCS L’US Navy ha completato con successo un’esercitazione di lancio di missili land-attack lanciati da una littoral combat ship, LCS, durante un evento svoltosi il 12 maggio. L’unità impegnata è stato il Montogomery, appartenente alla variante «Independence» e armato con missili AGM-114L «Longbow Hellfire»; tre di tali ordigni — parte del «Surface-to-Surface Mission Module, SSMM» — sono stati lanciati contro un bersaglio situato a terra, a una distanza imprecisata. Impiegati in entrambe le varianti di LCS sin dal 2019, i missili «Longbow Hellfire» hanno dimostrato di essere capaci di neutralizzare rapidamente un attacco a sciame condotto da numerose unità sottili veloci, mentre ogni modulo SSMM ha una capacità 24 missili. In servizio dal 1988 per l’impiego da elicotteri d’attacco dell’US Army contro mezzi corazzati, il «Longbow Hellfire» ha dimostrato la sua efficacia nel tempo ed è stato adottato anche dalle altre Forze armate statunitensi.
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Impostazione del Columbia La cerimonia d’impostazione del sottomarino nucleare lanciamissili balistici Columbia, eponimo di una classe destinata a sostituire gradualmente gli «Ohio», ha avuto luogo il 4 giugno nel cantiere di Quonset Point, Rhode Island, della società General Dynamics
Immagine al computer del futuro sottomarino nucleare lanciamissili balistici : i 12 battelli che formeranno la classe saranno equipaggiato con i missili balistici «Trident D5LE», attualmente in produzione (US Navy).
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Electric Boat, GDEB. Questo stabilimento produrrà il compartimento in cui sono installati i silos per i missili balistici e altre componenti del battello, il cui assemblaggio finale avverrà nel cantiere di Groton, nel Connecticut, anch’esso di proprietà della Electric Boat. Nel costruzione del Columbia e delle altre unità della classe è coinvolta anche la società Newport News Shipbuilding del gruppo Huntington Ingalls Industries, che negli stabilimenti d Newport News, in Virginia, produrrà il 22% del battello, comprese le sezioni prodiera e poppiera. Nel settembre 2017, la GDEB ha firmato un contratto di 5,1 miliardi di dollari per completare il progetto dell’unità Il varo tecnico del sottomarino turco HIZIR REIS (seconda unità della classe «Reis»), avvenuto il 23 maggio nell’Arsenale della Marina di Golcuk; nell’occasione, ha avuto luogo capoclasse, a cui si è aggiunto nel novembre anche il taglio della prima lamiera del SELMAN REIS, sesto esemplare di una classe di 2020 un altro contratto da 9,5 miliardi per la unità di progetto tedesco (Turkish MoD). costruzione e le prove del Columbia e per iniziare la produzione del secondo battello, battezzato Wiclasse «Reis») e il taglio della prima lamiera del sesto sconsin. La US Navy ha assegnato i distintivi ottici da battello, Selman Reis. Nel suo intervento, Erdogan ha SSBN 826 a 837 per identificare i 12 battelli che fordichiarato che la Marina turca ha in programma l’inmeranno questa classe di nuovi sottomarini nucleari gresso in linea di un sottomarino classe «Reis» a calanciamissili balistici. Fra le novità del progetto «Codenza annuale, in modo da completare il programma lumbia», sono da menzionare le superfici di governo entro il 2027: in particolare, si prevede che l’unità capoppiere a «X», un propulsore water-jet ad azionapoclasse — Piri Reis — entri in servizio quest’anno, mento elettrico facente parte di un sistema integrato di seguita dal Hizir Reis nel 2023, dal Murat Reis nel produzione e distribuzione di energia elettrica, una fal2024, dal Aydin Reis nel 2025, dal Seydi Ali Reis nel satorre dotata di sei sollevamenti elettrici e una suite 2026, e dal Selman Reis nel 2027. I battelli classe elettroacustica di cui fa parte un sensore prodiero di «Reis» sono il risultato di un contratto siglato nel 2009 grandi dimensioni: i nuovi battelli saranno equipagfra l’organizzazione governativa industriale militare giato con i missili balistici «Trident D5LE», attualturca (SSB) e la società tedesca Thyssen Krupp Marine mente in produzione. La costruzione del Columbia è Systems, per la costruzione di unità dotato di impianto iniziata nel 2017 e la consegna è prevista nel 2027: il AIP ma realizzate secondo requisiti e specifiche della primo pattugliamento strategico è programmato per il Marina turca introdotte nel progetto originale «Type 2031, mentre la sostituzione completa degli «Ohio» do214». Durante la cerimonia, Erdogan ha inoltre annunvrebbe concludersi entro il 2039. ciato l’esistenza di un nuovo progetto per sottomarini destinati alla Marina turca, secondo il programma noto TURCHIA come MILDEN (MILli DENnizalti): al momento non Varo del secondo sottomarino classe «Reis/ si hanno dettagli del programma, ma è possibile ipoType 214» tizzare che il progetto venga sviluppato in Turchia faAlla presenza del presidente della Repubblica Recep cendo tesoro delle esperienze maturate con i battelli di Tayyip Erdogan, il 23 maggio si è svolta nell’Arsenale origine tedesca e che esso sarà verosimilmente dotato della Marina turca di Golcuk, la cerimonia del varo tecdi impianto AIP. nico del sottomarino Hizir Reis (seconda unità della Michele Cosentino 112
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S CIENZA I grandi tecnici della Marina Militare: l’ingegner Cesare Laurenti - 2a Parte In superficie i motori diesel, oltre ad assicurare la propulsione, trascinavano i 2 motori pneumatici, che fungevano da compressori per ricaricare le bombole di aria compressa. L’impianto del Proposto fu sperimentato dalla Regia Marina su di una unità di superficie, la cisterna Acheronte, fornendo risultati molto inferiori alle aspettative in termini di autonomia sulle bombole; questi risultati e la complessità del progetto, in particolare per l’alimentazione del motore diesel con l’aria di scarico dal motore pneumatico e per l’espulsione dei gas di scarico in immersione, portarono all’abbandono di questo primo progetto italiano di propulsione unica per sommergibili. Dal progetto del Foca Laurenti derivò quello della classe «Medusa», con una più convenzionale propulsione su 2 assi, progetto che ebbe un discreto successo commerciale: fra il 1912 e il 1913 ne furono costruiti otto esemplari per la Marina italiana (Medusa, Velella, Arco, Salpa, Fisalia, Jantina, Zoea, Jalea); ne ordinarono uno ciascuno la Marina portoghese (NRP Espadarte) e quella russa (Svyatoyi Georgiy, poi requisito
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T ECNICA dalla Regia Marina e rinominato Argonauta), mentre la Gran Bretagna ne acquistò la licenza di produzione e realizzò, presso il Cantiere Scott, 3 unità classe «S» (S1, S2, S3) che nel 1915, quando Italia e Gran Bretagna erano paesi alleati nella Prima guerra mondiale, furono trasferiti alla Regia Marina italiana. L’autorevole Jane’s Fighting Ships del 1918 cita un sommergibile di questo tipo, ordinato dalla Marina rumena, impostato nel 1915 al Muggiano e poi requisito dalla Regia Marina italiana che l’avrebbe chiamato Scylla; di tale sommergibile però non vi è alcuna altra traccia, in particolare sul sito ufficiale della Marina Militare, per cui l’autore è portato a ritenere che, per una volta, il Jane’s si sia sbagliato. La classe «Medusa» rappresentano il primo esperimento di produzione in serie di sommergibili per la Marina italiana da parte di cantieri nazionali. La loro costruzione, con la consulenza della Regia Marina, venne affidata nel 1910 alla Fiat-S.Giorgio della Spezia che passò la subfornitura ai Cantieri Orlando di Livorno e ai Cantieri Navali Riuniti di Genova, filiale del Muggiano, per quattro di essi. Su questi battelli vennero adottati per la prima volta, invece dei motori a benzina,
A sinistra la prima pagina della richiesta di brevetto depositata da Cesare Laurenti negli Stati Uniti nel 1907, relativa al concetto di sommergibile tipo Laurenti, con doppio scafo e intercapedine superiore per aumentare la riserva di galleggiabilità in superficie; il brevetto fu convesso nel 1911 con il numero US985911; al centro la seconda pagina della richiesta di brevetto depositata da Cesare Laurenti negli Stati Uniti nel 1907, relativa al concetto di sommergibile tipo Laurenti; a destra la terza pagina della richiesta di brevetto depositata da Cesare Laurenti negli Stati Uniti nel 1907, relativa al concetto di sommergibile tipo Laurenti (patents.google.com/?inventor=Cesare+Laurenti).
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L’ariete torpediniere PUGLIA, costruito nell’Arsenale di Taranto tra il 1893 ed il 1901, alla direzione della cui costruzione fu destinato il giovane ingegnere Cesare Laurenti nel 1895-98; la nave è ripresa a Brisbane in Australia nel 1901, in occasione della prima campagna all’estero dopo la consegna (wikipedia.org).
motori diesel, i quali imposero lunghe e laboriose prove preliminari, dense di incidenti, che furono causa di notevole ritardo nella consegna delle unità alla Marina. La struttura dello scafo di questi battelli era del tipo a doppio involucro, con le ossature comprese fra i due fasciami, entrambi capaci di sostenere la pressione esterna. Come nel tipo «Glauco», lo scafo esterno era profilato per dare al sommergibile buone qualità nautiche in superficie; i doppi fondi, le casse assetto, i depositi combustibile e le casse compenso erano tutte ricavate nell’intercapedine fra i due scafi. Questi sommergibili dimostrarono di possedere ottime caratteristiche per la navigazione in immersione; avevano particolarmente eccellenti la manovrabilità e la stabilità in quota. Con questi sommergibili finì per la Regia Marina il periodo sperimentale, e iniziò con le successive costruzioni, a disporre di unità bellicamente valide, che costituirono l’ossatura della componente subacquea italiana in Adriatico durante il periodo iniziale della Prima guerra mondiale. Laurenti realizzò anche un bacino galleggiante tubolare per prova sommergibili, in grado di contenere unità subacquee anche di 300 t di dislocamento. Il bacino venne realizzato nel cantiere di Riva Trigoso e varato nel 1911. Il sommergibile vi si inseriva, quindi il bacino veniva messo in pressione fino a raggiungere il valore della pressione idrostatica corrispondente alla quota massima di esercizio. In questo modo il sommergibile veniva sottoposto alla verifica della robustezza senza dover essere
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Il GLAUCO, eponimo di una classe di 5 unità, fu il primo sommergibile costruito in Italia dopo il DELFINO; fu progettato da Cesare Laurenti quando era capitano (GN) e realizzato tra il 1903 e il 1905 nell’arsenale di Venezia (www.associazione-venus.it, collezione Giuseppe Celeste).
Il sommergibile svedese HVALEN (del tipo «Foca» progettato da Cesare Laurenti) ripreso nel 1915 con la nave SKÄGGALD (ex cannoniera trasformata nel 1913 in nave appoggio sommergibili) (foto d’epoca, wikipedia.org).
portato fisicamente alla quota massima. L’equipaggio, se ne era necessaria la presenza a bordo, poteva stazionare nel sommergibile in costante comunicazione con la centrale di controllo dove veniva regolata la pressione, potendo in caso di emergenza richiedere l’immediata depressurizzazione del bacino, riducendo quindi gli elevati rischi legati alle prove di quota massima tradizionali. Il bacino, che venne realizzato e impiegato presso il cantiere del Muggiano, poteva anche essere utilizzato per tradizionali lavori di carenaggio, aprendolo superiormente. Il progetto di massima di tale bacino venne brevettato negli Stati Uniti (brevetto US998970 richiesto nel 1910 e concesso nel 1911).
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Progetto preliminare Laurenti-Del Proposto 1910 per un sommergibile a elevata velocità subacquea dotato di motore unico pneumatico a combustione (foto d’epoca, dalla Rivista Marittima, 1986).
Prima pagina della richiesta di brevetto depositata da Cesare Laurenti negli Stati Uniti nel 1910, relativa al concetto di bacino galleggiante tubolare impiegabile, oltre che per carenamento, anche per prove di pressatura di sommergibili; il brevetto fu concesso nel 1911 con il numero US998970 (patents.google.com/?inventor=Cesare+Laurenti).
Il motore diesel Fiat 2C 116 di potenza 300 CV montato sul sommergibile MEDUSA (foto d’epoca, da internet, pagina Facebook centro storico Fiat).
Nel 1910 Laurenti depositò negli Stati Uniti tre richieste di brevetto, la prima già citata relativa al bacino galleggiante per prove di pressatura del sommergibile, la seconda (brevetto US1061088 concesso nel 1913) per un timone di profondità retrattile, il cui principio di funzionamento era basato sulla variazione della superficie esposta al flusso idrodinamico dell’acqua, e non sulla rotazione di una superficie permanentemente esposta a tale flusso, come nei timoni convenzionali. La terza richiesta (brevetto US1059475 concesso nel 1913) era relativa a un concetto di sommergibile basato sugli stessi principi del precedente brevetto depositato nel 1907 e concesso nel 1911, ma con alcune novità nella struttura. Nel 1909, nell’ambito di un concorso indetto dalla US Navy, Laurenti progettò il Thrasher (poi riclassificato G4), costruito nel Cantiere Cramp & Sons nel 1910-14; l’apparato motore con 4 motori a benzina su 2 assi con-
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Prima pagina della richiesta di brevetto depositata da Cesare Laurenti negli Stati Uniti nel 1910, che modifica e integra una precedente richiesta del 1907, relativa al concetto di sommergibile tipo Laurenti, con doppio scafo e intercapedine superiore per aumentare la riserva di galleggiabilità in superficie; il brevetto fu concesso nel 1913 con il numero US1059475 (patents.google.com/?inventor=Cesare+Laurenti).
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Il varo del sommergibile USS G4 a Cramp Shipyards, Philadelphia il 15 agosto 1912 (archivio autore).
dizionò con le sue ripetute avarie la breve vita operativa dell’unità, radiata nel 1919. Nel dicembre 1912 Cesare Laurenti partecipa al secondo convegno degli ingegneri navali alla Spezia, contribuendo in particolare alla discussione sullo spessore ottimale della protezione delle navi corazzate. Nel 1912 la Marina tedesca si rivolse a Laurenti per la progettazione di un sommergibile di elevato dislocamento. Il battello, di circa 700 tonnellate, chiamato U42, fu impostato nel 1913 e varato nell’agosto 1915, quando ormai l’Italia era in guerra contro gli AustroTedeschi. Pertanto il mezzo fu requisito dalla Marina italiana e battezzato Balilla. Il Cantiere Scott in Gran Bretagna costruì, nel 191316, su progetto Laurenti, un battello di squadra con propulsione a vapore, lo Swordfish, di dimensioni nettamente superiori alla precedente classe «S». Lo scoppio della guerra incrementò la produzione dei sommergibili sia negli arsenali militari sia nei cantieri privati. Laurenti contribuì con la progettazione di nuovi modelli, fra cui quelli della classe «F», realizzati in 21 esemplari per la sola Regia Marina, considerati i migliori da lui realizzati. Il progetto dei sommergibili classe «F» era derivato da quello dei battelli classe Medusa, dei quali conservavano praticamente identiche dimensioni e le forme dello scafo. Essi rappresentano la massima espressione tecnico-creativa dell’Ing. Laurenti e furono indubbiamente la miglior classe di bat-
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telli italiani progettati prima dell’inizio della guerra: manovrieri, affidabili, facili da gestire e poco costosi, si rivelavano particolarmente adatti a manovrare in mari stretti come l’Adriatico. Avevano un limitata quota operativa, ma essendo destinati a operare in mari con bassi fondali, la cosa non era determinante. Erano unità a doppio scafo; quello interno resistente aveva sezioni trasversali di forma variabile in funzione dei macchinari che dovevano essere alloggiati in questa zona, mentre lo scafo esterno aveva la forma delle torpediniere, per assicurare una buona tenuta al mare in navigazione in superficie. L’intercapedine tra lo scafo resistente e il piano di coperta poteva essere resa stagna mediante la chiusura di apposite serrande laterali: in questo modo il sommergibile acquisiva una riserva di spinta aggiuntiva, particolarmente utile durante la navigazione in superficie con mare agitato. C’erano quattro doppi fondi, ciascuno dotato di valvola di allagamento e valvola sfogo d’aria. Lo scafo era suddiviso per mezzo di paratie stagne (munite di doppia porta stagna) in tre compartimenti: compartimento prodiero con camera di lancio e alloggio ufficiali; compartimento centrale con camera di manovra, locale motori termici e locale motori termici di propulsione; compartimento poppiero con i locali batterie. Furono costruiti 21 sommergibili classe «F» tra il 1915 e il 1918, presso i cantieri Fiat San Giorgio del Muggiano (La Spezia), Odero di Sestri Ponente (Genova) e Orlando di Livorno. Tre unità della classe «F»
La camera di manovra di un sommergibile classe «F» (archivio autore).
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Il motore diesel Fiat di un sommergibile classe «F» (archivio autore).
(inizialmente classificate F22, F23 ed F24 e destinate alla Regia Marina italiana) furono costruite al Muggiano nel 1915-17 per la Marina spagnola, che le classificò A1, A2, A3. Tre sommergibili di progetto molto simile alla classe «F» furono costruiti al Muggiano per il Portogallo e consegnati nel 1917 (classe «Foca», composta da Foca, Hydra e Golfinho). La Marina brasiliana impostò la propria arma subacquea con i battelli tipo «F» (F1, F3 ed F5) costruiti al Muggiano nel 1913-14. Sempre nel cantiere del Muggiano venne anche realizzata, su progetto di Laurenti, la nave appoggio e salvataggio sommergibili Cearà, che, alla sua entrata in linea nel 1916, era la più avanzata unità del tipo esistente. Questa unità era dotata di un bacino interno circolare allagabile e pressurizzabile capace di accogliere un sommergibile avente lunghezza fino a 60 metri e larghezza fino a 7 metri, 2 grandi gru a poppa con portata complessiva di 400 tonnellate, per operazioni di salvataggio e recupero sommergibili, dinamo per ricaricare le batterie, compressori per ricaricare le bombole di aria compressa. Venne impiegata per supportare le operazioni dei sommergibili brasiliani in Europa sia durante la Prima che la Seconda guerra mondiale. Fino al termine della Seconda guerra mondiale tutti i sommergibili della Marina brasiliana vennero realizzati nel cantiere del Muggiano. Il progetto di massima della nave appoggio sommergibili venne brevettato negli Stati Uniti (brevetto US1113450 richiesto nel 1913 e concesso nel 1914). Nel 1913 Laurenti depositò negli Stati Uniti tre richieste di brevetto, la prima già citata relativa alla nave
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appoggio sommergibili, la seconda (brevetto US1120392 concesso nel 1914) relativa alla sistemazione dei locali accumulatori con spazi chiusi adiacenti per ragioni di sicurezza, e la terza (brevetto US1179848 concesso nel 1916) relativa a un sistema di tubi lanciasiluri per sommergibili disposti trasversalmente, ma che potevano essere ruotati in posizione longitudinale per essere ricaricati. Alla vigilia della Prima guerra mondiale nel cantiere Kockums di Karlskrona venne impostata per la Marina svedese la classe «Svàrdfisken» composta dall’unità capoclasse e dal Turnlaren; progettate da Laurenti, erano unità simili ai nostri «F». Infine, durante la guerra, sempre negli stessi cantieri fu realizzata la classe «Hajen», progettata sempre da Laurenti e composta da tre battelli: Hajen, Salen e Valrossen, sensibilmente più grandi rispetto ai precedenti. Una unità classe «F» fu costruita al Muggiano per la Marina russa, e regolarmente consegnato alla Russia in quanto all’epoca era un paese alleato dell’Italia. All’unità venne assegnato lo stesso nome di Svyatoy Georgiy già assegnato all’unità classe «Medusa» requisita dalla Regia Marina e ribattezzata Argonauta. Allorché, a guerra iniziata, fu evidente l’importanza di impiegare battelli appositamente attrezzati per posare campi minati in prossimità delle basi e dei porti nemici, allo scopo di rendere disponibili in tempi brevi alcune unità subacquee per questo compito, Laurenti elaborò il progetto della trasformazione di alcuni sommergibili classe «Medusa» per renderli idonei al trasporto e alla posa di mine; tale progetto non fu poi realizzato.
Cesare Laurenti nel giugno 1913 al Muggiano in occasione del varo del sommergibile brasiliano F1 (archivio autore).
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Nel 1915 Laurenti depositò negli Stati Uniti tre richieste di brevetto, la prima (brevetto US1219115 concesso nel 1917) relativa a serbatoi per il combustibile liquido fittamente compartimentati, che per assicurare la costanza dei pesi e della relativa posizione a bordo venivano riempiti di acqua di mare man mano che il combustibile era consumato. La seconda (brevetto 1161484 concesso nello stesso anno 1915) relativa all’impiego di eiettori (ad aria o ad acqua) per accelerare il deflusso dell’aria dalle casse d’immersione riducendo così la durata della fase di allagamento delle casse stesse e rendendo più rapida l’immersione. La terza (brevetto US1192537 concesso nel 1916) relativa all’impiego di valvole a flap con comando a distanza plurimo (capace cioè di aprire o chiudere numerose valvole contemporaneamente) come valvole di allagamento, in particolare per allagare rapidamente la camera superiore dei sommergibili tipo «Laurenti», che, ricordiamo, in superficie doveva essere stagna per fornire riserva di spinta. Durante la Grande guerra Laurenti progettò per la Marina russa un tipo di sommergibile di elevato dislocamento (classe «V», 960 tonnellate in superficie e 1180 in immersione) da costruirsi nel cantiere Russud di Nikolaev sul Mar Nero. Si trattava di un’unità dotata di un armamento formidabile, costituito da 16 tubi lanciasiluri da 450 mm, 2 cannoni da 76 mm e 20 mine, propulsi da un apparato motore diesel elettrico concepito dall’ingegner del Proposto. Il contratto per la costruzione di 7 unita venne firmato nel 1916, e i battelli erano in costruzione durante la rivoluzione di ottobre del 1917 e vennero tutti demoliti sullo scalo. Durante la guerra, su ordine della Marina, Laurenti progettò battelli di dislocamento più elevato, la classe «Pacinotti» (Pacinotti e Guglielmotti) e la classe «Barbarigo» (Barbarigo, Provana, Veniero, Nani), ultimati a guerra ormai terminata. I «Pacinotti» rappresentarono il primo esperimento nel campo delle unità subacquee di medio dislocamento, anche dette di media crociera. La Regia Marina passò l’ordinazione di due esemplari nel 1913 quando la Marina Imperiale Germanica aveva già in costruzione un’unità dello stesso tipo presso i Cantieri della Spezia (che diventerà il sommergibile Balilla). Lo scafo dei «Barbarigo», pur di dimensioni al-
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quanto maggiori, riprende le forme esterne, la sistemazione centrale dei doppi fondi e quella dei depositi combustibili dei sommergibili classe «F». L’innovazione più importante fu apportata alla sistemazione degli accumulatori che vennero allogati in quattro compartimenti stagni al disotto di un ponte orizzontale che interessava buona parte del sommergibile escluse le due camere di lancio. La potenza dei motori sia a combustione sia elettrici installati su questi sommergibili fu piuttosto elevata; in tal modo i battelli di questo tipo poterono sviluppare una buona velocità tanto in superficie quanto in immersione. Pur essendo veloci e manovrieri sia in superficie sia in immersione, la forma dello scafo di questi battelli non era atta a sopportare forti pressioni, specialmente nelle parti affinate; la profondità massima raggiungibile fu pertanto limitata a valori che già nel corso del primo conflitto mondiale si erano dimostrati insufficienti. La sezione centrale del sommergibile Andrea Provana, della classe «Barbarigo», è esposta nel parco del Valentino a Torino, città nella quale la sezione fu portata, dopo la radiazione dell’unità, nel 1928 in occasione dell’esposizione universale, per essere acquistata nel 1933 dalla locale sezione dell’ANMI (Associazione Nazionale Marinai d’Italia). Di caratteristiche simili ai «Pacinotti» furono i battelli del tipo «F» della Marina Imperiale Giapponese (da non confondere con la classe «F» italiana), progettati da Laurenti e costruiti su licenza dal Cantiere Kawasaki di Kobe tra il 1917 e il 1922: 5 sommergibili divisi in due sottoclassi, 2 («RO-1» e «RO-2») impostati nel 1917 e 3 («RO-3», «RO-4» e «RO-5») impostati nel 1919. Furono i primi sommergibili giapponesi di medio dislocamento.
Il sommergibile BARBARIGO il 18 novembre 1917 dopo il varo nel cantiere Fiat San Giorgio del Muggiano (fdal Notiziario della Marina, 1998).
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Nel progetto dei «Barbarigo» l’ingegner Laurenti fu coadiuvato, in particolare per la sistemazione degli accumulatori, dal maggiore del Genio Navale Virginio (Gino) Cavallini (7), che già aveva collaborato ad altri progetti di Laurenti, e che realizzerà poi una serie di progetti di sommergibili di successo, così come un altro ufficiale del Genio Navale, Curio Bernardis (8); i sommergibili tipo Cavallini e tipo Bernardis erano profondamente differenti dai tipo Laurenti (con l’eccezione della classe «Pietro Micca», progettata da Cavallini, ma basata sulla tipologia costruttiva dei sommergibili a doppio scafo di Laurenti, costruiti in 6 esemplari nel 191519 presso l’Arsenale della Spezia), e accettavano limitazioni in altri settori per poter conseguire quote operative superiori, dell’ordine dei 100 metri. Infatti quando la Regia Marina ordinò la costruzione delle prime unità subacquee del dopoguerra, nuovi concetti si erano affermati nel campo costruttivo e l’idea della torpedinierasommergibile, che aveva resistito per più di vent’anni e le cui migliori realizzazioni sono stati i battelli progettati da Laurenti, venne definitivamente abbandonata. Nel 1916 Laurenti presento negli Stati Uniti una richiesta di brevetto (US1209729 concesso nello stesso 1916) relativa a un meccanismo da applicare a un tubo lanciasiluri per consentire di modificare i settaggi del
siluro dall’interno del sommergibile, senza necessità di aprire il tubo; questo meccanismo inoltre consente di caricare nello stesso tubo siluri di lunghezza diversa. Nel 1917 Laurenti presento negli Stati Uniti una richiesta di brevetto (US1234915 concesso nello stesso 1917) di un sistema di chiusura semiautomatico delle serrande di ventilazione di un sommergibile, capace di assicurare la chiusura automatica delle stesse nel caso il battello, per qualche motivo, si immerga senza che le serrande stesse siano state preventivamente chiuse manualmente. Si tratta dell’ultimo brevetto di Cesare Laurenti reperito dall’autore. Non ci sono notizie sull’attività di Laurenti dopo il 1917, fino alla morte avvenuta a Roma il 29 marzo 1921, quando Laurenti aveva 55 anni. Risulta che nel 1919 fu nominato membro onorario della neonata Società Lunigianese per la Storia Naturale della regione, poi divenuta Accademia Cappellini. Cesare Laurenti fu sepolto a Civitavecchia; gli è ancora oggi dedicata una scuola elementare inaugurata nel 1928 a Civitavecchia. Un suo mezzobusto, in marmo, è sistemato nell’ala sinistra esterna del Civico Ospedale della Spezia, a ricordo della sua munifica donazione all’ente di ben 30.000 lire, nel 1919. Claudio Boccalatte
I SOMMERGIBILI TIPO LAURENTI I battelli di Laurenti privilegiavano talune caratteristiche come la sicurezza, l’abitabilità interna, la tenuta al mare e in generale la navigabilità in superficie, a scapito della quota operativa. In sostanza i battelli di Laurenti, adottando sezioni di forma diversa da quella circolare, ottimale per resistere alla pressione esterna, non potevano operare a profondità superiori ai 30-40 metri, ma questo non era considerato un difetto in quanto all’inizio del secolo, non esistendo apparecchiature per individuare i battelli in immersione, era sufficiente che essi scomparissero dalla superficie per non essere individuati e che si portassero a una quota di sicurezza per evitare lo speronamento accidentale da parte delle navi di superficie. I battelli concepiti da Laurenti, a parità di dislocamento, risultavano di prestazioni, in superficie, superiori rispetto a quelli di altri progettisti che adottavano scafi resistenti a sezione circolare. Il Laurenti, non avendo il vincolo fissato dalla forma dell’involucro, poteva installare macchinari e impianti anche voluminosi e complessi senza penalizzare eccessivamente le dimensioni globali del battello. Laurenti ideò pure un sistema originale per aumentare la riserva di spinta in emersione, così che il sommergibile potesse assumere appieno l’assetto di una veloce torpediniera di superficie di alto bordo libero, con buone qualità nautiche anche in mare agitato. Predispose una intercapedine opportunamente diaframmata al di sopra dello scafo resistente, in modo tale da formare un ponte di coperta abbastanza alto sul livello mare. Lo spazio racchiuso da questa intercapedine era reso a libera circolazione in assetto immerso oppure stagno durante la navigazione in superficie, aprendo o chiudendo opportunamente sfoghi d’aria e valvole di allagamento. Con questo sistema la riserva di spinta assicurata dall’acqua di zavorra nei doppi fondi era pari al 35÷40% del dislocamento dosato, mentre si arrivava al 60% contando, solamente in superficie, il volume aggiunto dall’intercapedine resa stagna. Altre caratteristiche dei battelli tipo Laurenti che dimostrano la sua elevatissima attenzione alla sicurezza erano la presenza di zavorra distaccabile, che in caso di emergenza poteva essere sganciata dall’interno alleggerendo significativamente l’unità, l’elevata compartimentazione stagna trasversale interna (normalmente 6 paratie che dividevano il battello in 7 compartimenti stagni) e la presenza di appositi «maniglioni» per il sollevamento del battello mediante le gru di un battello di salvataggio, in caso il battello stesso fosse posato sul fondo in avaria.
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CARATTERISTICHE DEI PRINCIPALI SOMMERGIBILI PROGETTATI DA CESARE LAURENTI Delfino (dopo i lavori di trasformazione): Cantiere: Regio Arsenale di Spezia. Impostazione: 1890; varo: 1895; in servizio: 01/04/1895; trasformazione: 1902-04. Dislocamento: in superficie: 103,3 t; in immersione: 113,3 t. Dimensioni: lunghezza: 24,4 m (f.t.); larghezza: 2,9 m; immersione: 2, 78 m. Apparato motore: di superficie 1 motore a benzina Fiat, potenza 130 hp (95,7 kW); subacqueo 1 motore elettrico di propulsione Savigliano, potenza 65,2 hp (46 kW) -1 elica. Velocità: max in superficie 10 nodi; max in immersione 6 nodi. Autonomia: in superficie 165 miglia a 6 nodi; in immersione 24 miglia a 2 nodi. Armamento: 1 tls AV da 450 mm; 2 siluri tipo A 60/450x3,70. Profondità di sicurezza: 32 m. Equipaggio: 1 ufficiale; 7 tra sottufficiali e marinai. Classe «Glauco» (5 unità): Cantiere: Regio Arsenale di Venezia. Unità capoclasse Glauco: impostazione: 01/08/1903; varo: 09/07/1905; in servizio: 15/12/1905; radiazione: 01/09/1916. Dislocamento: in superficie: 160 t; in immersione: 244 t. Dimensioni: lunghezza: 36,85 m; larghezza: 4,32 m; immersione: 2,50 m. Apparato motore: di superficie 4 motori a scoppio tipo Fiat; potenza 600 hp (441,6 kW); apparato motore subacqueo 2 motori elettrici di propulsione Savigliano; potenza 170 hp (125,1 kW) - 2 eliche. Velocità: max in superficie 13 nodi; max in immersione 6,2 nodi. Autonomia: in superficie 150 miglia a 13 nodi; 225 miglia a 10 nodi; in immersione 18,6 miglia a 6,2 nodi; 81 miglia alla velocità di 3,5 nodi. Armamento: 3 tls AV da 450 mm, 2 siluri tipo A 68/450x4,64. Profondità di sicurezza: 25 m. Equipaggio: 2 ufficiali; 13 tra sottufficiali e marinai. Foca (unità singola): Cantiere: Fiat - San Giorgio, Muggiano (Spezia). Impostazione: 04/1907; varo: 08/09/1908; in servizio: 15/12/1909; radiazione: 16/09/1918. Dislocamento: in superficie: 185 t; in immersione: 280 t. Dimensioni: lunghezza: 42.5 m; larghezza: 4,3 m; immersione: 2,58 m. Apparato motore: di superficie (iniziale) 6 motori a scoppio tipo Fiat; di superficie (dal 1910) 4 motori a scoppio tipo Fiat; potenza (iniziale) 600 hp (441,6 kW); potenza (dal 1910) 600 hp (441,6 kW); subacqueo 2 motori elettrici di propulsione Siemens; potenza 160 hp (117,8 kW); 2 eliche dal 1910 (iniziale 3 eliche). Velocità: max in superficie 12.8 nodi; max in immersione 6,5 nodi. Autonomia: in superficie 190 miglia a 12,5 nodi; 350 miglia a 10. Nodi: in immersione 12 miglia a 6,0 nodi; 45 miglia alla velocità di 4,0 nodi. Armamento: 3 tls AV da 450 mm; 2 siluri tipo A 68/450x4,64. Profondità di sicurezza: 35 m. HSwMS Hvalen (Svezia) unità singola simile al Foca: Cantiere: Fiat - San Giorgio, Muggiano (Spezia) Varo:16 febbraio 1909; consegna 1909; radiazione 1919. Dislocamento: 190 t in superficie; 230 t in immersion. Dimensioni: lunghezza 42.4 m; larghezza 4.3 m; immersione 2.7 m. Propulsione: 3 motori a benzina; 750 hp (560 kW); 1 motore elettrico; 150 hp (110 kW). Velocità: 14.8 nodi in superficie; 6.3 nodi in immersione. Profondità di sicurezza 30 m. Equipaggio: 17 persone. Armamento: 2 tubi lanciasiluri da 457 mm. HDMS Dykkeren (Danimarca) unità singola: Cantiere: Fiat - San Giorgio, Muggiano (Spezia). Impostazione: 18/07/1909; consegna: 29/09/1909; radiazione: 13/06/1917.
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Scienza e Tecnica Dislocamento in superficie 105 t, in immersione 132 t. Dimensioni: lunghezza 34.65 m; larghezza 3.5 m, immersione 2.2 m. Apparato motore solo elettrico. Velocità: 12 nodi in superficie; 7.5 nodi in immersione. Autonomia: circa 100 miglia. Equipaggio: 12 persone. Armamento: 2 tubi lanciasiluri. Classe «Medusa» (8 unità): Cantiere: Fiat-San Giorgio, (Muggiano) Spezia. Unità capoclasse Medusa: impostazione: 25/05/1910; varo: 30/07/1911; in servizio: 01/06/1912; affondato: 10/06/1915; radiazione: 10/06/1915. Dislocamento: in superficie: 250 t; in immersione: 305 t. Dimensioni: lunghezza: 45,15 m; larghezza: 4,20 m; immersione: 3,00 m. Apparato motore: di superficie 2 motori diesel Fiat; potenza 650 hp (478,4 kW) - subacqueo 2 motori elettrici di propulsione Savigliano; potenza 300 hp (220,8 kW) - 2 eliche. Velocità: max in superficie 12,5 nodi; max in immersione 8,2 nodi. Autonomia: in superficie 670 miglia a 12 nodi, 1.200 miglia a 8 nodi; in immersione 24 miglia a 8 nodi; 54 miglia a 6 nodi. Armamento: 2 tls AV da 450 mm; 4 siluri da 450 mm. Profondità di sicurezza: 40 m. Equipaggio: 2 ufficiali; 19 tra sottufficiali e marinai. NRP Espadarte (Portogallo) unità singola simile alla classe «Medusa»: Cantiere: La Spezia Impostazione: 1910; varo 5/10/1912; consegna: 1913; radiazione: 1931. Dislocamento in superficie 249 t, in immersione 300 t. Dimensioni: lunghezza 45,1 m; larghezza 4,2 m; immersione max 3,0 m. Apparato motore: 2 assi; 2 motori diesel Fiat - 550 bhp (410 kW); 2 motori elettrici - 300 shp (220 kW). Velocità: 13,8 nodi in superficie. Autonomia: 1.5500 miglia a 8.5 nodi. Equipaggio: 21 persone. Armamento: 2 tubi lanciasiluri da 457 mm; 4 siluri. U.S.S. Trasher (poi riclassificato G4) (Stati Uniti) unità singola: Cantiere Cramp & Sons, Philadelphia. Impostazione: 9/07/1910; varo 15/08/1912; consegna 22/01/1914; radiazione 1919. Dislocamento: 370 t in superficie; 464 t in immersione. Dimensioni: lunghezza 48,00 m; larghezza 5,33 m, immersione 3,33 m. Apparato motore diesel-elettrico:4 motori a benzina, 2 assi. Velocità massima: 15,5 nodi in superficie; 9,5 nodi in immersione. Autonomia: 1700 miglia a 8 nodi in superficie; 40 miglia a 5 nodi in immersione. Equipaggio: 23 persone. Armamento: 4 tubi lanciasiluri 450 mm, 2 a prora e 2 a poppa; 8 siluri. Argonauta – unità singola- ordinato dalla Marina russa con il nome di Svyatoy Georgy e requisito dalla Regia Marina italiana allo scoppio della Prima guerra mondiale, simile alla classe «Medusa». Cantiere: Fiat - San Giorgio, Muggiano (Spezia). Impostazione: 11/03/1913; varo: 05/07/1914; in servizio: 18/12/1915; radiazione: 29/03/1928. Dislocamento: in superficie: 255 t; in immersione: 305 t. Dimensioni: lunghezza: 45,15 m; larghezza: 4,20 m; immersione: 3,05 m. Apparato motore: di superficie 2 motori diesel Fiat, potenza 700 hp (515 kW); subacqueo 2 motori elettrici di propulsione Siemens, potenza 450 hp (331 kW), 2 eliche. Velocità: max in superficie 14 nodi; max in immersione 9,9 nodi. Autonomia: in superficie 695 miglia a 13,5 nodi; 1.600 miglia a 9 nodi; in immersione 15,5 miglia a 9,0 nodi; 120 miglia a 3,0 nodi. Armamento: 2 tls AV da 450 mm; 4 siluri 450 mm. Profondità di sicurezza: 40 m. Equipaggio: 2 ufficiali; 12 tra sottufficiali e marinai.
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Scienza e Tecnica S-class (Gran Bretagna), 3 unità simili alla classe «Medusa»: Cantiere: Scotts Shipbuilding and Engineering Company, Greenock. Periodo di costruzione: 1912-15; trasferiti alla Regia Marina nell’ottobre 1915. Dislocamento: 265 tons in superficie; 324 tons in immersione. Dimensioni: lunghezza 45.1 m; larghezza 4.4 m; immersione 3.2 m. Propulsione: 2 assi, motori diesel Scott-Fiat a 6 cilindri, 650 hp , 2 motori elettrici, 400 hp. Velocità: 13 nodi in superficie, 8.5 nodi in immersione. Autonomia: 1,600 miglia a 8.5 nodi, in superficie. Equipaggio: 18 persone. Armamento: 2 tubi lanciasiluri da 450 mm; 4 siluri; 1 cannone; 12-pounder. HMS Swordfish (Gran Bretagna) unità singola: Cantiere: Scotts Shipbuilding and Engineering Company, Greenock. Ordine: 1913; impostazione: 28/02/1914; varo: 18/03/1916; consegna: 28/04/1916; radiazione: 30/10/1918. Dislocamento: 947 t in superficie; 1,123 t in immersione. Dimensioni: lunghezza fuori tutto 70.49 m; larghezza 6.99 m; immersione 4.55 m. Apparato motore a vapore in superficie, elettrico in immersione; 2 assi; 2 turbine della potenza di 4,000 shp (3,000 KW); 1 caldaia; 2 motori elettrici della potenza di 1,400 bhp (1,000 KW). Velocità: 18 nodi in superficie; 10 nodi in immersione. Autonomia: 3,000 miglia a 8.5 nodi. Equipaggio: 18 persone. Armamento: 2 cannoni da 76 mm; 2 tubi lanciasiluri prodieri da 530 mm; 4 tubi lanciasiluri trasversali da 460 mm. Classe «F»: 21 unità (da F1 a F21) per la Regia Marina italiana; 3 unità (A1-A3) per la Marina spagnola; 3 unità (classe «Foca») per la Marina portoghese; una unità (Svyatoy Georgiy) per la Marina russa. Cantieri: 16 unità Odero di Sestri Ponente (GE) e 5 unità Orlando di Livorno. Impostazione: 27/05/1915; varo: 02/04/1916; in servizio: 20/10/1916; radiazione: 02/06/1930. Dislocamento: in superficie 259,7 t; in immersione 320 t. Dimensioni: lunghezza 45,63 m; larghezza 4,22 m; immersione: 2,62 m. Apparato motore: di superficie 2 motori diesel Fiat mod.2C 216, potenza 650 hp (478,4 KW); subacqueo 2 motori elettrici di propulsione Savigliano, potenza 500 hp (368,0 KW); 2 eliche. Velocità: max in superficie 12,3 nodi; max in immersione 8 nodi. Autonomia: in superficie 912 miglia a 12 nodi; 1.300 miglia a 9,3 nodi; in immersione 8 miglia a 8 nodi; 139 miglia a 1,5 nodi. Armamento: 2 tls AV da 450 mm, 4 siluri da 450 mm; 1 cannone antiaereo da 76/30; 1 mitragliatrice Colt da 65 mm. Profondità di sicurezza: 40 m. Equipaggio: 2 ufficiali; 24 tra sottufficiali e marinai. Classe «Svàrdfisken»; 2 unità (Sveirdfisken e Turnlaren), simili alla classe «F», per la Marina svedese. Costruzione cantiere Kockum di Malmo, 1914. Dimensioni: lunghezza 44,6 m; larghezza 4,2 m; immersione 3,17 m. Dislocamento: in superficie 250 t. Armamento: 2 tubi lanciasiluri prodieri da 450 mm. Classe «Hajen», 3 unità (Hajen, Salen e Valrossen) per la Marina svedese. Costruzione cantiere Kockum di Malmo, 1917-18. Dimensioni: lunghezza 52,1 m; larghezza 5,1 m; immersione 3,5 m. Dislocamento: in superficie 386 t. Apparato motore diesel 2800 HP + motore elettrico. Velocità: 15 nodi in superficie; 9 nodi in immersione. Armamento: 4 tubi lanciasiluri da 457 mm; 1 cannoncino antiaereo da 57 mm. Nave appoggio sommergibili Cearà, Marina del Brasile. Cantiere: Fiat, San Giorgio, Muggiano (Spezia). Consegnata nel 1916. Dislocamento: 4100 t, 5200 t a pieno carico; 6460 t con sommergibile nel bacino in pressione. Dimensioni: lunghezza 90 m; larghezza 12 m; immersione 4.30 m. Propulsione: 2 assi; 2 motori diesel a 2 tempi 6 cilindri Fiat, 4600 hp.
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Scienza e Tecnica Velocità massima: 14 nodi. Autonomia: 4000 miglia a 10 nodi. Equipaggio: 180 persone. Armamento: 2 x 102 mm; 2 x 20 mm AA. Balilla unità singola; ordinato nel 1913 dalla Marina tedesca, requisito nel 1915 e consegnato alla Regia Marina. Cantiere: Fiat, San Giorgio, Muggiano (Spezia). Impostazione: 18/03/1913; varo 08/08/1915; in servizio 08/08/1915. Dislocamento: in superficie 728 t; in immersione 875 t. Dimensioni: lunghezza 65 m; larghezza 6,05 m; immersione 4,17 m. Apparato motore: di superficie 2 motori diesel tipo Fiat, potenza 2.600 hp (1.913,6 KW); subacqueo 2 motori elettrici di propulsione Siemens, potenza 900 hp (662,4 KW), 2 eliche. Velocità: max in superficie 14,8 nodi; max in immersione 9 nodi. Autonomia: in superficie 3.500 miglia a 10 nodi; in immersione 85 miglia a 3 nodi. Armamento: 2 tls AV da 450 mm; 2 tls AD da 450 mm; 4 siluri 450 mm; 2 cannoni da 76/30 mm. Classe «Pacinotti», 2 unità (Antonio Pacinotti e Alberto Guglielmotti) Cantiere: Fiat, San Giorgio, Muggiano (Spezia). Unità capoclasse Pacinotti: impostazione 07/06/1914; varo 13/03/1916; in servizio 07/12/1916; radiazione 15/05/1921. Dislocamento: in superficie 710 t; in immersione 869 t. Dimensioni: lunghezza 65 m; larghezza 6,05 m; immersione 4,12 m. Apparato motore: di superficie 2 motori diesel Fiat, potenza 2.000 hp (1472 KW); subacqueo 2 motori elettrici di propulsione Savigliano; potenza 900 hp (662,4 kW), 2 eliche. Velocità: max in superficie 14,6 nodi; max in immersione 9 nodi. Autonomia: in superficie 1.600 miglia a 14,5 nodi; 3.500 miglia a 10 nodi in immersione 12 miglia a 9 nodi; 90 miglia a 3 nodi. Armamento: 3 tls AV da 450 mm; 2 tls AD da 450 mm; 5 siluri da 450 mm; 2 cannoni antiaerei da 76/30 mm. Profondità di sicurezza: 38 m. Equipaggio: 4 ufficiali; 35 tra sottufficiali e marinai. Classe «Barbarigo», 4 unità (Barbarigo, Provana, Veniero e Nani) Cantiere: Fiat, San Giorgio, Spezia. Unità capoclasse Barbarigo: impostazione 22/10/1915; varo 18/11/1917; in servizio 10/09/1918; radiazione 01/05/1928. Dislocamento: in superficie 796,6 t; in immersione: 926,5 t. Dimensioni: lunghezza 67 m; larghezza 5,90 m; immersione 3,81 m. Apparato motore: di superficie 2 motori diesel Fiat, potenza 2.600 hp (1.913,6 KW); subacqueo 2 motori elettrici di propulsione Ansaldo, potenza 1.300 hp (956,8 KW), 2 eliche. Velocità: max in superficie 16,8 nodi; max in immersione 9,3 nodi. Autonomia: in superficie 690 miglia a 16,8 nodi; 1.850 miglia a 9,3 nodi; in immersione 7 miglia a 9,3 nodi; 160 miglia a 1,6 nodi. Armamento: 4 tls AV da 450 mm; 2 tls AD da 450 mm; 10 siluri da 450 mm; 2 cannoni antiaerei da 76/40 mm. Profondità di sicurezza: 50 m. Equipaggio: 4 ufficiali; 36 tra sottufficiali e marinai. Classe «F» o «Ro-1», 5 unità (Ro-1, Ro-2, Ro-3, Ro-4 e Ro-5) per la Marina imperiale giapponese. Cantiere: Kawasaki, Kobe, Giappone. Unità capoclasse Ro-1: impostazione 05/01/1917; varo 28/07/1919; consegna 31/03/1920; radiazione 01/04/1932. Dislocamento: 700 ton in superficie; 1064 ton in immersione. Dimensioni: lunghezza f.t. 65.6 m; larghezza 6.1 m; immersione 4.2 m. Propulsione diesel-elettrica, con 2 motori diesel Fiat per una potenza di 2,800 bhp (2,100 KW) e 2 motori elettrici Savigliano per una potenza di 1,200 shp (890 KW), 2 assi. Velocità 13 nodi in superficie; 8 nodi in immersione. Combustibile 58.4 ton; autonomia 3.500 miglia in superficie a 10 nodi; 80 miglia in immersione a 4 nodi. Profondità di sicurezza: 40 m. Equipaggio: 43 persone. Armamento: 5 tubi lanciasiluri da 450 mm (3 a prora e 2 a poppa); 8 siluri tipo 44; 1 mitragliatrice da 7,7 mm; dopo la consegna è stato aggiunto un cannone da 76.2/40 mm.
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Scienza e Tecnica NOTE (1) Giacinto Pullino (1837-98) fu generale ispettore del genio navale, presidente del Comitato progetti dal 1893 al 1896 e deputato al parlamento dal 1892; oltre al sommergibile Delfino progettò le corazzate classe «Emanuele Filiberto» e alcune unità minori. (2) L’incrociatore Puglia (inizialmente classificato ariete torpediniere) era una nave della classe «regioni» (o classe «Lombardia») costruita nel 1893-1901 presso l’Arsenale di Taranto, radiata nel 1923 e donata dalla Regia Marina a Gabriele D’Annunzio, che fece trasferire una gran parte della nave (inclusa la prora e la sovrastruttura) presso il Vittoriale degli italiani a Gardone Riviera (BS), dove è ancora oggi. (3) Corazzata Lepanto, della classe «Italia», progettata da Benedetto Brin, costruita presso i cantieri Orlando di Livorno nel 1876-87, venne radiata nel 1914. Le unità di questa classe erano caratterizzate da una protezione corazzata estremamente ridotta, privilegiando velocità, autonomia, abitabilità e una fitta compartimentazione interna. (4) Giovanni Sechi (1871-1948), altro prolifico autore di articoli per la Rivista Marittima, fu ammiraglio di squadra e ministro della Marina dal 1919 al 1921. (5) Sul cleptoscopio, sul contemporaneo TELOPS dell’ingegner Triulzi e sulle polemiche che contraddistinsero il deposito dei relativi brevetti si veda l’articolo «I grandi tecnici della Marina Militare: il generale Gioacchino Russo» di C. Boccalatte, Rivista Marittima, maggio 2021, Rubrica «Scienza e Tecnica». (6) Cesidio del Proposto fu un ingegnere italiano, estremamente attivo nel primo decennio del 900, nel corso del quale pubblicò diversi brevetti relativi a vari aspetti della propulsione navale per unità di superficie e sommergibili; fu anche autore di un supplemento alla Rivista Marittima pubblicato nell’ottobre 1906 e dedicato alla propulsione diesel elettrica. Alcuni dei sistemi da lui concepiti trovarono applicazione pratica su unità navali costruite in diverse nazioni. (7) Virginio (Gino) Cavallini (Fornacette, Pisa, 20 febbraio 1875-Camaiore, Lucca 30 gennaio 1944) fu un ufficiale del genio navale, progettista di sommergibili di fama internazionale. Tra le unità da lui progettate si ricordano i sommergibili classe «Settembrini» e classe «R» per la Marina italiana, e classe «Tarantinos» per quella argentina. Lasciò il servizio nel 1922 a domanda, per continuare a lavorare come progettista e consulente presso i cantieri navali Franco Tosi di Taranto. (8) Curio Bernardis (Udine 1872-1941) fu un ufficiale del genio navale, progettista di sommergibili di fama internazionale, che definì un tipo di battello a semplice scafo e con doppi fondi resistenti interni, universalmente noto come sommergibile «tipo Bernardis». Da questo innovativo concetto nacquero i sommergibili delle classi «Pisani», «Bandiera», «Fieramosca», «Squalo», «Bragadin», «Dumlupinar», «Sakarya», «Glauco», «Marcello», «Marconi», «Ammiragli», classe «600». In tutto furono 103 i battelli realizzati su progetto di Bernardis per la Regia Marina italiana e per le Marine turca, romena e brasiliana, di cui 54 costruiti dal cantiere di Monfalcone. BIBLIOGRAFIA Jane’s Fighting Ships, 1904, 1915, 1918, 1919. A. Flamigni, A. Turrini, T. Marcon, «Sommergibili italiani-cento anni di vita tra storia e leggenda», Rivista Marittima, Supplemento al numero di maggio 1990. A. Turrini, «L’arma subacquea italiana dalle origini alla Prima guerra mondiale», inserto allegato al Notiziario della Marina da novembre 1997 a dicembre 1998. A. Turrini, «Minisommergibili con motore a circuito chiuso-un antesignano degli inizi del secolo», Rivista Marittima, marzo 1986. C. Del Preposto, A. Lecoine, «Propulsione delle navi mediante macchine irreversibili-con un progetto di nave mercantile da 11.000 tonnellate di dislocamento e un progetto di cannoniera, di K.P. Boklewsky, professore di costruzioni navali al Politecnico di Pietroburgo», Supplemento alla Rivista Marittima di ottobre 1906. G. C. Poddighe, «La Regia Marina italiana e l’impiego dei motori endotermici-le scelte relative alla propulsione delle navi militari costruite in Italia sino alla 2a g.m, volume 1», (scaricabile all’indirizzo internet https://www.academia.edu/43717301/REGIA_MARINA_ITALIANA_ED_ALTERNATIVE_DI_PROPULSIONE_VOL_1). Sito internet https://patents.google.com/?inventor=Cesare+Laurenti. A. Turrini, Ottorino Ottone Miozzi, Manuel Minuto Rizzo «Sommergibili e mezzi d’assalto subacquei italiani, tomo 1», Roma 2010, Ufficio Storico della Marina Militare. A. Turrini, «Ricordo di Cesare Laurenti», Rivista Marittima, luglio 1996. A. Turrini, «L’opera di Cesare Laurenti, realizzazioni e progetti», Roma 2002, Ufficio Storico MM. Ufficio Storico MM, Uomini della marina 1861-1946. Rivista nautica, Italia Navale, pubblicazione periodica quindicinale, raccolta anno 1913 (da http://www.books.google.com). Enciclopedia Treccani, Dizionario biografico degli italiani, voce «Cesare Laurenti», sito internet https://www.treccani.it/enciclopedia/cesare-laurenti_res-8686ceea87ee-11dc-8e9d-0016357eee51_(Dizionario-Biografico). Sito internet www.marina.difesa.it, voci varie. Sito internet wikipedia, voci varie. Sito internet www.grupsom.com. C. Laurenti, «Motore elettrico per torpediniere sottomarine», nella rubrica «Informazioni e notizie-notizie varie», Rivista Marittima febbraio 1896. C. Laurenti, «Educazione e coltura militare degli ingegneri navali», nella rubrica «lettere al Direttore», Rivista Marittima, 1900. C. Laurenti, «La navigazione subacquea a scopo di guerra», Rivista Marittima, giugno 1900. C. Laurenti, «Sull’impiego dei sottomarini», nella rubrica «lettere al Direttore», Rivista Marittima, giugno 1900. C. Laurenti, «La navigazione subacquea a scopo di guerra», nella rubrica «lettere al Direttore», Rivista Marittima, settembre 1900. C. Laurenti, «La navigazione subacquea nel XIX secolo», Rivista Marittima, giugno 1901. C. Laurenti, «L’antidoto dei sottomarini», nella rubrica «lettere al Direttore», Rivista Marittima, luglio 1901. C. Laurenti, «Il trasporto dell’energia elettrica a bordo delle navi da guerra», nella rubrica «Miscellanea», Rivista Marittima, dicembre 1901. C. Laurenti, «Le installazioni elettriche sulle navi da guerra della Marina francese», nella rubrica «Miscellanea», Rivista Marittima, aprile 1902. C. Laurenti, «Installazione elettrica a terra negli stabilimenti della Marina francese”, nella rubrica «Miscellanea», Rivista Marittima, agosto 1902. C. Laurenti, «Sull’impiego del sottomarino», nella rubrica «lettere al Direttore», Rivista Marittima, giugno 1903. C. Laurenti, «Le motrici a combustione interna nelle stazioni centrali di produzione di energia elettrica», nella rubrica «Miscellanea», Rivista Marittima, agosto 1903. C. Laurenti, «La perdita del sottomarino inglese A-1», nella rubrica «lettere al Direttore», Rivista Marittima, luglio 1904. C. Laurenti, «I disastri dei sottomarini», Rivista Marittima, agosto 1905. C. Laurenti, «La catastrofe del Lutin», nella rubrica «lettere al Direttore», Rivista Marittima, 1907. G. Ducci, capitano di corvetta, «Bacino galleggiante per prova e carenaggio di sommergibili», nella rubrica «Miscellanea», Rivista Marittima, aprile 1911. C. Boccalatte, «I grandi tecnici della Marina Militare: il generale Benedetto Brin», nella rubrica «Scienza e Tecnica», Rivista Marittima, settembre 2015. C. Boccalatte, «I grandi tecnici della Marina Militare: l’ammiraglio Giancarlo Vallauri», nella rubrica «Scienza e Tecnica», Rivista Marittima, dicembre 2015. C. Boccalatte, «I grandi tecnici della Marina Militare: il generale Giuseppe Rota», nella rubrica «Scienza e Tecnica», Rivista Marittima febbraio 2016. C. Boccalatte, «I grandi tecnici della Marina Militare: il generale Domenico Chiodo», nella rubrica «Scienza e Tecnica», Rivista Marittima, marzo 2016. C. Boccalatte, «I grandi tecnici della Marina Militare: il generale Umberto Pugliese», nella rubrica «Scienza e Tecnica», Rivista Marittima, maggio 2016. C. Boccalatte, «I grandi tecnici della Marina Militare: il generale Vittorio Cuniberti», nella rubrica «Scienza e Tecnica», Rivista Marittima, novembre 2016. C. Boccalatte, «I grandi tecnici della Marina Militare: il generale Edoardo Masdea» nella rubrica, «Scienza e Tecnica», Rivista Marittima, febbraio 2017. C. Boccalatte, «I grandi tecnici della Marina Militare: il professor Ugo Tiberio, ideatore del radar italiano», nella rubrica «Scienza e Tecnica», Rivista Marittima, maggio 2017. C. Boccalatte, «I grandi tecnici della Marina Militare: l’ammiraglio Gian Battista Magnaghi, artefice dell’Istituto Idrografico di Genova», nella rubrica «Scienza e Tecnica», Rivista Marittima, novembre 2017. C. Boccalatte, «I grandi tecnici della Marina Militare: l’ammiraglio Umberto Cagni», nella rubrica «Scienza e Tecnica», Rivista Marittima, gennaio 2019. C. Boccalatte, «I grandi tecnici della Marina Militare: il professor Angelo Scribanti», nella rubrica «Scienza e Tecnica», Rivista Marittima, aprile 2019. C. Boccalatte, «I grandi tecnici della Marina Militare: il generale Gioacchino Russo», nella rubrica «Scienza e Tecnica», Rivista Marittima, maggio 2021.
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C HE
COSA SCRIVONO GLI ALTRI
«Putin’s War is Europe’s 9/11» FOREIGN POLICY, SPRING 2022
Nel libro di quasi un ventennio fa (2003), Paradiso e Potere, il politologo Robert Kagan, membro del think tank Brooking Institution e del Council on Foreign Relations, con una buona dose di provocazione geopolitica sosteneva che «gli europei venivano da Venere, mentre gli americani da Marte»! Il tutto per stigmatizzare come l’Europa e gli Stati Uniti non avevano più la stessa visione strategica su come difendere il sistema della democrazia liberale dalle pulsioni revisioniste poste in essere dalle potenze autoritarie. In altre parole, secondo Kagan, l’Europa stava andando verso un mondo fatto di negoziazione e cooperazione trans-nazionale, in una sorta di paradiso post-storico nel tentativo di realizzare il sogno kantiano della «pace perpetua», mentre gli Stati Uniti, rimanendo con i piedi ben saldi nella storia, erano pragmaticamente più vicini a un mondo «hobbesiano», dove le leggi e le regole internazionali sono inaffidabili e dove la difesa di un ordine internazionale liberale dipende ancora una volta dall’uso della Forza militare. Uno scenario che mi sembra molto opportuno premettere all’articolo in parola, a firma della columnist , che analizza come il 24 febbraio scorso, di fronte all’aggressione russa dell’Ucraina contraria a ogni norma del diritto internazionale, l’Europa, riscuotendosi bruscamente dal suo sogno kantiano della pace perpetua, «has finally woken up to the necessity of hard power». «Improvvisamente, gli europei stanno iniziando a capire perché i loro oltre due decenni di colloqui con Putin non hanno portato a nulla — scrive l’autrice — perché la loro diplomazia, per quanto ben intenzionata, mancava delle fondamenta dell’hard power. Gli europei vedono la guerra come una maledizione del passato. Putin no. Dal momento che gli europei parlavano da una posizione di debolezza, non di
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forza, Putin vedeva la guerra in Ucraina (e in Georgia prima nel 2008) come un’opzione migliore dei colloqui. Ha calcolato che facendo la guerra avrebbe probabilmente potuto ottenere ciò che voleva, perché gli europei non avrebbero ostacolato la sua strada, mentre nei negoziati avrebbero dovuto scendere a compromessi». Di qui, in un’unità d’intenti e soprattutto di vedute invero rara, l’Europa, insieme agli Stati Uniti e al Regno Unito, in maniera compatta, ha manifestato la volontà di colpire la Russia sul doppio versante economico-finanziario (e siamo arrivati al varo del pur discusso sesto pacchetto di sanzioni) e militare sul campo con il massiccio sostegno diretto di forniture militari alla tenace resistenza ucraina, trasformandosi così nell’arsenale della democrazia, come l’America ai tempi del presidente Franklin D. Roosevelt nella Seconda guerra mondiale. Accogliendo nel frattempo a braccia aperte, con una solidarietà assolutamente inedita per parecchi Statimembri, ben lungi dalle querimonie di sempre in materia di accoglienza e ripartizione dei richiedenti asilo, di milioni di profughi ucraini, «profughi veri di una guerra vera», avviando nel contempo le procedure per l’entrata dell’Ucraina nell’Unione. Ma soprattutto bisogna sottolineare ai nostri fini l’approvazione del 21 marzo scorso da parte del Consiglio dell’Unione della «Bussola strategica per la sicurezza e la difesa della Ue» (www.consilium.europa.eu ), un ambizioso piano d’azione per rafforzare la politica di sicurezza e di difesa dell’UE entro il 2030, destinata a rafforzare l’autonomia strategica dei 27 e le loro capacità di collaborare con i partner al fine di salvaguardare i propri valori e interessi, in considerazione che «la guerra è tornata in Europa, a seguito dell’ingiustificata e non provocata aggressione russa contro l’Ucraina, nonché dei grandi cambiamenti geopolitici in corso». Un Unione più forte e capace dunque in materia di sicurezza e difesa per contribuire positi-
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vamente alla sicurezza globale e transatlantica, in maniera complementare alla NATO che, pur vilipesa e contestata nei quattro anni della presidenza Trump (e di cui lo stesso Macron, nemmeno tre anni fa, non aveva esitato a denunciarne addirittura, nella celebre intervista al settimanale britannico The Economist , «lo stato di morte cerebrale»), rinasce a nuova vita, rimanendo il fondamento della difesa collettiva per i suoi membri, visto che, come si è espresso il Consiglio europeo, «le minacce sono in aumento e il costo dell’inazione è chiaro». Lo scorso 9 maggio poi a Strasburgo, la celebrazione del 72° anniversario della «Dichiarazione Schuman» (european-union.europa.eu>historyeu) ha coinciso con la cerimonia solenne di conclusione della «Conferenza sul Futuro dell’Europa» nella sede del Parlamento europeo, un evento, come scrive l’ambasciatore Nelli Feroci su Affarinternazionali.it, «caratterizzato dal richiamo condiviso ai valori fondanti del progetto europeo: democrazia, tolleranza, rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, pace, cooperazione, integrazione e inclusione». Tutto ciò atteso, non si può non condividere il giudizio della De Gruyter, secondo cui: «il 24 febbraio è stato per l’Europa quello che il 9/11 è stato per gli Stati Uniti», cioè un vero e proprio «threshold crossing» geopolitico!
«Dopo l’11 settembre 2001» QUADERNI DI SCIENZE POLITICHE, N. 20/2021
E all’11 settembre 2001 idealmente si ricollega, nell’ultimo numero in parola della rivista dell’Università Cattolica di Milano, Davide Antonelli che ripercorre in dettaglio le conseguenze immediate e di più lungo periodo degli attentati perpetrati dai terroristi islamici negli Stati Uniti l’11 settembre 2001, che hanno prodotto nel mondo occidentale «una sensazione di vuoto e desolazione». «L’11 settembre 2001 è generalmente riconosciuto come uno dei momenti di
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massima incertezza, paura e drammaticità della nostra storia recente — esordisce l’autore. In soli 148 minuti, le illusioni di chi aveva creduto di cambiare pagina, passando da un secolo dove la guerra e la deterrenza strategica si erano imposte come denominatore comune delle relazioni internazionali a una nuova epoca più tollerante e inclusiva, furono polverizzate al pari delle Torri Gemelle». In particolare, nella genesi e nell’affermazione delle denominazioni mediatiche degli eventi in questione, espressioni come «Ground Zero» e «9-11» sortirono un successo immediato tanto più che, in quest’ultimo caso, «nella cultura americana era un perfetto “three-syllable term” (termine di tre sillabe), come “Watergate,” “Vietnam,” o “Pearl Harbor”, nonché un simbolo immediatamente riconoscibile dell’intera serie di attacchi e delle loro conseguenze sia per l’America sia per il mondo intero. Da quel momento in poi l’espressione “nine-eleven” non fu più abbandonata e ancora oggi è un simbolo iconico e immediato della lotta al terrorismo di matrice islamica. Non a caso si dice che noi oggi viviamo nell’epoca “post- 9/11”». L’autore procede quindi a un’analisi approfondita degli effetti provocati dagli eventi del 9/11 nell’esame minuzioso dei suoi risvolti politico-giuridici, sociali ed economici. «L’11 settembre 2001 non si è quindi concluso in ventiquattro ore, ma si è protratto nei giorni e nei mesi successivi — ben sottolinea l’autore, nella considerazione che — qualcosa è cambiato per sempre. Un nuovo trauma collettivo ha distrutto certezze secolari, generando sfiducia e paura, ma anche rabbia
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e desiderio di vendetta da parte di entrambi gli schieramenti. La consapevolezza che un evento di simile portata emotiva e distruttiva, inconcepibile e imprevedibile fino alle 8.46 del mattino dell’11 settembre 2001, avrebbe potuto ripetersi in futuro, ha segnato in pochi minuti la vita di un intero popolo, inaugurando una fase storica dove i nemici non hanno più né volto né divisa e gli attacchi terroristici sono diventati un nuovo e devastante strumento di propaganda. Da quel momento è stato chiaro che il concetto di nemico è cambiato, al pari di quello di arma. La minaccia può arrivare da qualsiasi oggetto di uso quotidiano e in qualsiasi luogo e momento della nostra vita. Il nemico e l’arma non sono più riconoscibili, per questo chiunque può essere un nemico da guardare con diffidenza e qualsiasi oggetto può essere un’arma con cui provocare una strage. A pensarci bene, forse è proprio questa la conseguenza più drammatica degli attentati dell’11 settembre». Il fascicolo in esame ci presenta una panoplia di temi e problemi al solito estremamente ricca, che spazia dalla politica internazionale (come nell’articolo di Andrea Zotti sulle barriere tariffarie, protezionismo e divergenze regolative fra Stati Uniti ed Europa durante l’amministrazione Trump) alla storia delle relazioni diplomatiche, come nell’ampio saggio del prof. De Leonardis, direttore della rivista (che nel 2011 ha raggiunto una tappa importante: dieci anni dall’inizio della pubblicazione e venti numeri pubblicati), dedicato ai rapporti tra Santa Sede e Inghilterra, dalla rottura delle relazioni diplomatiche al Congresso di Vienna (cioè dal 1559 al 1815), saggio che costituisce la bozza del capitolo introduttivo di un volume in preparazione. E sempre alla penna del De Leonardis si deve l’affettuoso ricordo del prof. Ottavio Barié, «Maestro di studi storici e gentiluomo» (1923-2011), una delle grandi figure di una stagione molto felice nel campo
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degli studi delle relazioni internazionali (insieme a Ennio di Nolfo, Enrico Serra e Pietro Pastorelli), del quale si ripercorre la lunga e prestigiosa carriera, sottolineando come sia appartenuto «a una generazione e a una specie di cattedratici, oggi più rara, che della loro materia padroneggiavano a pieno non una piccola nicchia, o un breve periodo se storici, ma l’intero arco temporale e di contenuti». (Barié, La storia e la grande crisi, Università Cattolica del Sacro Cuore (cattolicanews.it)).
«What Would Clausewitz Say about Putin’s War on Ukraine? USNI PROCEEDINGS, MARCH 2022
Alla luce dei principi enunciati nel Vom Kriege del grande Carl von Clausewitz (1780-1831), che trascorse una carriera in armi combattendo la Francia rivoluzionaria e napoleonica sotto le insegne del re di Prussia e, per un periodo (1812-14), anche nell’Esercito imperiale russo, Jim Holmes, già ufficiale della US Navy e oggi docente al Naval War College, ci propone un’interessante lettura della guerra in corso in Ucraina. Innanzitutto i russi hanno fallito in una delle funzioni più elementari della creazione di una strategia: comprendere l’avversario e pagargli il dovuto rispetto. Se pretendi tutto dal tuo avversario, puoi scommettere che farà il massimo sforzo per sfidarti e sconfiggerti. I leader russi hanno ceduto alla fallacia della «sceneggiatura» — un’idea implicita negli scritti di Clausewitz — nel senso che non bisogna mai presumere a priori che il nemico reagirà esattamente nel modo in cui la sceneggiatura richiede. Contrariamente alle aspettative russe infatti, gli ucraini si sono comportati non come una «fiaschetta di Bologna» (cioè un tipo speciale di bottiglia di vetro a volte utilizzata in esperimenti di fisica, duro come la roccia all’esterno ed estremamente fragile all’interno), ma come «un toro ferito», infuriato per il «dolore bruciante» delle ferite inflittegli dall’aggres-
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sore. Mosca ha dimenticato una delle ingiunzioni fondamentali del teorico prussiano: che la guerra comporta la «collisione di due forze viventi», una competizione in cui entrambi i pugili cercano di rovesciarsi a vicenda. Qualunque sia l’equilibrio delle forze, ogni concorrente ha almeno qualche possibilità di prevalere. L’autocompiacimento è un «vizio strategico» di prim’ordine e Clausewitz condannerebbe la leadership russa per esserne caduta preda. I comandanti russi poi sembrano ignorare il ritmo di flusso e riflusso tipico delle campagne militari, laddove Clausewitz discerne uno schema nelle operazioni sul campo di battaglia in base al quale l’attaccante gode di un considerevole vantaggio militare agli esordi in virtù dell’iniziativa, della sorpresa e di altri fattori, solo per vedere che il vantaggio inizia a scivolare via man mano che la campagna si consuma. Questo è naturale, sottolinea Holmes. Clausewitz sostiene che la difesa tattica — non l’offesa — costituisce la forma più forte di guerra. Di conseguenza, il difensore restringe il vantaggio dell’attaccante che, mentre penetra più in profondità in territorio ostile, è costretto a conquistare posizioni fortificate o, come nel caso della guerra in Ucraina, è trascinato in operazioni di urban warfare. Ma soprattutto l’esercito russo sembra aver dimenticato le regole fondamentali della logistica con legioni di unità in stallo perché letteralmente affamate di carburante, munizioni e pezzi di ricambio. Il fatto è che nessuna campagna militare può protrarsi fino alla vittoria senza un efficace sistema di funzioni di supporto. «Una battuta militare sostiene che i dilettanti parlano di tattiche, mentre i professionisti parlano di logistica. E come tutte le buone battute, c’è del vero in quello», è il commento ironico dell’autore. Infine se la guerra va avanti abbastanza a lungo e il difensore gioca bene la sua mano, l’invasore supererà quello che Clausewitz definisce il «punto culminante dell’offensiva», cioè il «punto di crossover» oltre il quale il contendente precedentemente in offensiva diventa più debole e bloc-
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cato in profondità all’interno del backcountry del difensore. In altre parole, conclude l’autore, «il difensore gode di determinati vantaggi, non importa quanto inferiori possano apparire le sue forze sulla carta. La disponibilità locale di risorse militarmente rilevanti, brevi linee di comunicazione tra le aree di base e il fronte di combattimento e molti altri vantaggi del campo di casa finiscono per rafforzare le prospettive del difensore». Ma l’errore più grande della cosiddetta «dottrina Gerasimov», la strategia militare non convenzionale di Mosca (dal nome del Generale capo delle Forze armate russe dal 2013, al riguardo www.opiniojuris.it/dottrina-gerasimov), sembra essere, a parere di molti analisti (da ultimo Stefano Pontecorvo sulle colonne del quotidiano La Repubblica del 25 maggio scorso), il rovesciamento della stessa posizione clausewitziana: non dunque «guerra come continuazione della politica con altri mezzi», come sosteneva fermamente il teorico prussiano, ma «politica come continuazione della guerra, sottolineando come un efficace conduzione politica può implicare l’uso di mezzi e metodi militari accanto a quelli a cui si ricorre tradizionalmente» (senza che peraltro siano stati conseguiti sinora nella campagna ucraina gli obiettivi che il Cremlino si era prefissato!). In buona sostanza, a quasi due secoli dalla sua pubblicazione il Vom Kriege mostra di essere nel suo genere un vero e proprio «classico», cioè un libro evergreen che si può leggere e rileggere con profitto e da cui poter trarre ancora ai nostri giorni utili spunti e riflessioni nella difficile condotta dell’arte della guerra. In altre parole, come ha scritto Italo Calvino: «i classici sono libri che esercitano un’influenza particolare sia quando s’impongono come indimenticabili, sia quando si nascondono nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale». Ezio Ferrante Rivista Marittima Giugno 2022
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R ECENSIONI
E SEGNALAZIONI
Lorenzo TERMINE (a cura di) (prefazione di Andrea Carteny e postfazione di Simone Dossi)
Tigri con le ali La politica di difesa postmaoista e l’arma nucleare Aracne Aprilia 2021 pp. 210 Euro 12,00
«Tigri con le ali: la politica di difesa post-maoista e l’arma nucleare» di Lorenzo Termine è un’attenta analisi della «transizione strategica» avvenuta nella Cina comunista nel periodo che va tra la fine del 1976 e il 1985. L’evoluzione della politica estera e di sicurezza della Repubblica Popolare Cinese, e della relativa politica nucleare, rappresenta la principale tematica di ricerca del volume che assume la fine del 1976 come data cruciale per lo studio della materia. Difatti, nel settembre del 1976 muore Mao Zedong, non solo leader della Cina comunista ma anche fondatore della RPC e Presidente della Commissione militare centrale e, quindi, figura centrale della politica estera e di difesa di Pechino. Il passaggio dalla leadership maoista a quella denghista costituisce pertanto uno spartiacque fondamentale in quella che rappresenterà una «transizione strategica» della Repubblica Popolare Cinese. Sotto la guida del Grande timoniere l’arma nucleare veniva percepita come uno strumento in grado di modificare l’equilibrio di potenza, ma allo stesso tempo poteva essere neutralizzato attraverso i principi maoisti di «guerra popolare» e di «attrarre il nemico in profondità», definiti durante la guerra civile e nella guerra contro il Giappone. A seguito dell’osservazione degli eventi in Corea e nello Stretto di Taiwan, Mao comprese, però, che quest’arma garantiva la capacità di «ricatto nucleare». In seguito alla morte del fondatore della Repubblica Popolare si inasprì duramente la lotta fra la fazione conservatrice, legata ai principi maoisti, e la fazione riformista, guidata invece da Deng Xiaoping. L’ascesa alla leadership di quest’ultimo indirizzò la Cina comunista verso la cosiddetta «epoca delle riforme». Difatti, sotto la guida di Deng Xiaoping, la Re-
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pubblica Popolare Cinese integrò elementi di mercato nell’economia socialista nazionale. La leadership denghista segnò pertanto il passaggio da un’economia fortemente centralizzata a un’economia socialista con elementi di mercato. Le riforme promosse a partire dal 1978 portarono a quello che viene definito come «miracolo cinese». Tuttavia, le innovazioni di Deng non si limitarono solamente alla dimensione economica. Analogamente, l’ascesa di Deng Xiaoping rese possibile la cosiddetta «transizione strategica». L’analisi e lo studio delle nuove tecnologie portarono alla necessità di superare la dottrina maoista di «guerra popolare» per passare alla fine degli anni Settanta al concetto strategico di «guerra popolare in condizioni moderne» e, a metà degli anni Ottanta, alla dottrina di «guerra locale» e di «difesa attiva». A partire da tali premesse, Tigri con le ali si presenta come un attento studio delle direttrici fondamentali della «transizione strategica» dell’era denghista e di come questa abbia influenzato la politica nucleare di Pechino e sui principali elementi di continuità e discontinuità con il passato maoista. La ricerca di Lorenzo Termine si basa su una solida metodologia di ricerca, che si sviluppa su tre direttrici fondamentali di studio: il fattore internazionale, il fattore interno e il fattore tecnologico. In relazione alla prima direttrice, viene presa in considerazione l’influenza dei mutamenti del sistema di potere internazionale sulla pianificazione della politica estera e nucleare della Cina comunista. La cooperazione tecnologica dell’Unione Sovietica a favore della Repubblica Popolare Cinese fu fondamentale per lo sviluppo delle capacità militari e nucleari cinesi. L’abbandono sovietico di tale cooperazione, il 20 giugno 1959, contribuì alla maturazione dell’approccio strategico conosciuto come «politica estera indipendente per la pace», strettamente collegata con la politica del «non allineamento». I due elementi dell’autonomia e della ricerca della stabilità internazionale furono cruciali per dare vita al cosiddetto «miracolo cinese». Il volume analizza magistralmente come si riflettono questi fattori sullo sviluppo non solo dell’economia ma anche, e soprattutto, della dottrina militare e nucleare della Repubblica Popolare Cinese. Lo studio di Lorenzo Ter-
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Recensioni e segnalazioni
mine sottolinea come una dottrina orientata verso una politica indipendente per la pace abbia indirizzato la Cina verso l’elaborazione di un utilizzo esclusivamente difensivo dell’arma nucleare (second strike). Una postura pertanto rivolta a un No First Use che implica il principio del «guadagnare padronanza colpendo solo dopo che il nemico ha colpito». L’obiettivo pertanto è quello di assicurare la capacità di un «secondo colpo» in seguito a un attacco nucleare, ovvero quello che la letteratura definisce come «deterrence by punishment» (letteralmente «deterrenza tramite punizione»). Un elemento di originalità di Tigri con le ali è costituito dall’attento studio dell’evoluzione del dibatto interno alla dimensione politico-istituzionale della Repubblica Popolare Cinese. Difatti, l’analisi del contesto internazionale viene sempre affiancata dall’indagine del secondo fattore che abbiamo precedentemente individuato, ovvero quello interno. Il lavoro di Lorenzo Termine presenta magistralmente il dibattito fra le due principali fazioni nel partito: una più conservatrice e fedele ai principi maoisti, l’altra più riformista e guidata da personaggi come Deng Xiaoping. L’ascesa di Deng Xiaoping alla leadership cinese gettò le basi per quella che viene conosciuta come «epoca delle riforme». Un’epoca segnata da cruciali riforme effettuate a partire dal 1978, non solo nel sistema di mercato ma anche in quello tecnologico-militare. Tigri con le ali pertanto riserva una particolare attenzione alla competizione delle varie fazioni interne al Partito Comunista Cinese, che viene analizzata attraverso il dibattito promosso dalle figure più importanti all’interno del partito stesso e dei principali analisti cinesi sulle riviste di politica estera e di difesa. La terza e ultima direttrice fondamentale di studio è rappresentata dal fattore tecnologico. Per quanto concerne l’evoluzione tecnologico-militare in ambito nucleare, quest’ultima risulta essere strettamente collegata alla dottrina sviluppata in materia. Le innovazioni effettuate in tale ambito, pertanto, sono state coerenti con un utilizzo fortemente difensivo dell’arma nucleare. Per poter essere conformi a una strategia di second strike, le principali tecnologie militari tendono a escludere armi con un potenziale utilizzo offensivo o di first strike. L’impiego dell’arma nucleare secondo i principi di secondo colpo viene individuato, dalla letteratura in materia, come uno dei punti di coerenza fra il passato maoista e la leadership denghista. Tigri con 130
le ali conferma tale postura aggiungendo però degli elementi essenziali, che talvolta la letteratura non ha sufficientemente evidenziato. Lorenzo Termine effettua un’analisi dettagliata della politica nucleare nel periodo della leadership maoista e di quella denghista, andando a indicare anche i punti di discontinuità fra le due dirigenze. La principale discontinuità che viene individuata non concerne la dimensione strategico-dottrinale ma riguarda proprio il fattore tecnologico. Deng Xiaoping confermò la postura del No First Use, ma nel 1982 lo studio e lo sviluppo di due armi generarono una deviazione dal percorso maoista degna di nota: la bomba al neutrone e le armi nucleari tattiche. Nel giugno del 1982 si svolse, infatti, un’esercitazione dell’utilizzo offensivo delle testate nucleari tattiche, mentre nell’ottobre dello stesso anno si registrò un’esplosione di circa 7 chilotoni causata da un test dell’arma al neutrone. Lo sviluppo e i test di queste due tecnologie offensive risultano essere una discontinuità con la dottrina dell’utilizzo dell’arma nucleare secondo la postura del second strike e del No First Use teorizzata nel periodo maoista e riaffermata anche nella leadership denghista. Il volume Tigri con le ali rappresenta un contributo fondamentale per la letteratura italiana, in quanto va a colmare una profonda lacuna nel dibattito in materia di difesa e nucleare della Cina comunista a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta. L’analisi di Lorenzo Termine colpisce per la sua solidità metodologica, nonostante la materia sia contraddistinta da limitate fonti primarie da cui poter estrarre informazioni. La forte centralizzazione del processo decisionale politico ha portato l’autore ad approfondire anche documenti prodotti dall’intelligence americana e l’ampia letteratura memorialistica, autobiografica e antologica. In conclusione, il merito di Tigri con le ali è quello di aver proposto al pubblico italiano un tema fondamentale discusso solo marginalmente. Lorenzo Termine con una precisa ricerca delle fonti e una metodologia di ricerca impeccabile interviene magistralmente analizzando gli elementi di continuità e discontinuità della politica nucleare fra la leadership maoista e denghista, ponendo delle solide basi per comprendere le prospettive future del nucleare cinese. Elisa Ugolini Centro Studi Geopolitica.info Rivista Marittima Giugno 2022
Recensioni e segnalazioni Giulio CARGNELLO (a cura di) (prefazione di di Andreas Ferrarese)
La diplomazia della Santa Sede e i governi nelle Filippine e a Guam Aracne Roma 2021 pp. 748 Euro 30,00
La lunga clausura domestica ha permesso a molti utenti Netflix di scoprire anche film di nicchia: fra essi «1898: Los ultimos de Filipinas» pellicola spagnola del 2016 sulla resistenza dell’ultimo avamposto spagnolo nell’arcipelago e «Goyo: The boy general» film filippino del 2018 — disponibile solo in tagalog con i sottotitoli in italiano — su Gregorio «Goyo» Del Pilar (1875-1899). Il libro che qui si presenta (circa 750 pagine) potrebbe pertanto fornire, a quanti intendano approfondire la conoscenza della storia delle Filippine, un utilissimo contributo. Non solo. Il libro risulta anche un utile e denso ausilio per chi sia interessato a capire come e quando gli Stati Uniti abbiano assunto all’inizio dell’età contemporanea il ruolo di «guida planetaria» e quale ruolo giocò, e forse gioca ancora, in una dimensione globale la Santa Sede, lo Stato «senza divisioni». Un interesse specifico per i lettori di questa Rivista assume inoltre la dimensione navale nella occupazione e nel controllo delle Filippine da parte degli Stati Uniti. Nella premessa Andreas Ferrarese, già diplomatico nelle Filippine, sottolinea come il volume rappresenti un contributo essenziale per chi voglia avvicinarsi agli studi di storia di politica internazionale in età contemporanea sugli Stati Uniti, la Spagna e la Santa Sede. Dopo un’ampia introduzione in cui all’illustrazione delle fonti analizzate e alla metodologia adottata è fornito un generale inquadramento geopolitico, i primi due capitoli si soffermano sull’Estremo Oriente iberico prima del 1898 e sulla diplomazia della Santa Sede. Il primo europeo che «scoprì» nel 1521, per la monarchia spagnola, le Filippine fu il portoghese Magellano. Come è ben illustrato nell’opera, la progressiva colonizzazione spagnola non avvenne sulla rotta che attraversa l’Oceano Indiano ma percorrendo quella atlantica che passa per le Americhe e l’Oceano Pacifico. Non si tratta di un elemento secondario: infatti le Filippine, pur essendo una colonia spagnola, hanno sviluppato fin
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dal XVI secolo un forte legame con le Americhe e in particolare con il Messico. Dopo circa quattro secoli di dominazione spagnola, nel 1896, scoppiò la rivoluzione filippina sostenuta da una serie di movimenti rivoluzionari indipendentisti nei quali un ruolo non secondario fu giocato dalla massoneria. La Chiesa cattolica seguì da vicino tutte le vicende che portarono prima alla rivoluzione e poi al conflitto ispano americano. In particolare, l’autore ricostruisce analiticamente i vani tentativi di mediazione svolti dalla Santa Sede per evitare lo scontro che nondimeno esplose dopo l’affondamento dell’USS Maine nel porto dell’Avana. Nel 1898, alla fine della guerra ispano-americana, gli Stati Uniti occuparono Cuba, le Filippine, Guam e Puerto Rico. Nel secondo capitolo, di grande interesse sono le pagine dedicate al ruolo svolto dalla diplomazia della Santa Sede — e in particolare dal cardinale Rampolla — per le vicine Isole Caroline. La disputa, scoppiata nel 1885 per il possesso delle Isole tra Spagna e Germania, fu felicemente risolta dalla Santa Sede riconoscendo la sovranità della Spagna ma con concessioni commerciali alla Germania. Sempre al fallito tentativo svolto dalla Santa Sede per evitare lo scontro è dedicato il terzo capitolo il cui obiettivo tuttavia è chiarire la fitta trama di contatti che si stabilirono tra gli Stati Uniti e la Santa Sede. Il capitolo successivo è dedicato al primo Governo americano delle Filippine. Il quinto capitolo presenta, invece, le diverse e talvolta divergenti visioni della Chiesa cattolica sulla «gestione» delle faccende filippine, in particolare in relazione alle molteplici problematiche legate alla sopravvivenza degli ordini religiosi e alla possibile vendita delle loro proprietà nell’arcipelago. Infine, il sesto e ultimo capitolo, è dedicato all’isola di Guam che, sempre dal 1898, è divenuta, ed è tutt’ora, un’importante base militare degli Stati Uniti. In conclusione, le Filippine e Guam risentono nelle lingue locali, nelle tradizioni popolari e nei costumi, dei quattrocento anni di dominazione spagnola e della successiva colonizzazione americana, rappresentando un panorama culturale unico dove tre continenti, Asia, America ed Europa, si incontrano e si fondono. Il lavoro evidenzia, inoltre, le radici di una presenza solidissima della Chiesa cattolica nella società filippina: sintonia provata anche da molti che vedono nel cardinale Tagle, arcivescovo emerito di Manila, un possibile candidato alla successione di Papa Francesco. Alessandra Mita Ferraro
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MARITTIMA MENSILE DELLA MARINA MILITARE DAL 1868
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Rivista Marittima Giugno 2022
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