APRILE 2022
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MARITTIMA SPED. IN ABB. POSTALE - D.L. 353/2003 (CONV. L. 46/2004 ART. 1 COMMA 1) - PERIODICO MENSILE € 6,00
MENSILE DELLA MARINA MILITARE DAL 1868
La svolta navale di Israele
Lorenzo Vita
Malta: fulcro del potere navale nel Mediterraneo
Massimo de Leonardis
La dimensione marittima del Marocco: una potenza in divenire
Giuseppe Dentice
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Sommario 48 La liquidità dei processi mediterranei Alessandro Mazzetti
PRIMO PIANO
8 Malta: fulcro del potere navale nel Mediterraneo
58 A guardia del canale e non solo: la Marina egiziana Michele Cosentino
Massimo de Leonardis
20 La svolta navale di Israele Lorenzo Vita
70 Una marittimità rimossa Leonardo Palma
82
La Tunisia, un paese mediterraneo da tenere in grande considerazione Giacomo Innocenti
STORIA E CULTURA MILITARE
90 La guerra civile spagnola e Gibilterra Patrizio Rapalino
30
L’impatto degli Accordi di Abramo sul Nord Africa, analisi e prospettive. Intervista a Michela Mercuri, esperta di Medio Oriente Roberto Sciarrone
34
La dimensione marittima del Marocco: una potenza in divenire Giuseppe Dentice
RUBRICHE
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L’Algeria tra sviluppo militare e politica estera equilibrata Mario Savina
Rivista Marittima Aprile 2022
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Focus diplomatico Osservatorio internazionale Marine Militari Che cosa scrivono gli altri Recensioni e segnalazioni
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MARITTIMA
MENSILE DELLA MARINA MILITARE DAL 1868
PROPRIETARIO
EDITORE DIFESA SERVIZI SPA UFFICIO PUBBLICA INFORMAZIONE E COMUNICAZIONE DIREZIONE E REDAZIONE Via Taormina, 4 - 00135 Roma Tel. +39 06 36807248-54 Fax +39 06 36807249 rivistamarittima@marina.difesa.it www.marina.difesa.it/media-cultura/editoria/marivista/Pagine/Rivista_Home.aspx
DIRETTORE RESPONSABILE Capitano di vascello Daniele Sapienza
CAPO REDATTORE Capitano di fregata Gino Lanzara
REDAZIONE Capitano di corvetta Danilo Ceccarelli Morolli Sottotenente di vascello Margherita D’Ambrosio Guardiamarina Giorgio Carosella Sottocapo di prima classe scelto Luigi Di Russo Tel. + 39 06 36807254
SEGRETERIA DI REDAZIONE Primo luogotenente Riccardo Gonizzi Addetto amministrativo Gaetano Lanzo
IN COPERTINA: La recente «Tri Carrier Operation
(TCO)», nel mar Ionio in diretto supporto alle operazioni della NATO per aumentare la sicurezza e la stabilità nel Mediterraneo (dal basso verso l’alto: portaerei CAVOUR; HARRY S. TRUMAN; CHARLES DE GAULLE).
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Contrammiraglio (ris) Michele Cosentino
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COMITATO SCIENTIFICO DELLA RIVISTA MARITTIMA Prof. Antonello BIAGINI, Ambasciatore Paolo CASARDI Prof. Danilo CECCARELLI MOROLLI, Prof. Piero CIMBOLLI SPAGNESI Prof. Massimo DE LEONARDIS, Prof. Mariano GABRIELE Prof. Marco GEMIGNANI, A.S. (ris) Ferdinando SANFELICE DI MONTEFORTE
Dottor Mario Savina
Dottor Leonardo Palma Dottor Giacomo Innocenti Contrammiraglio (ris) Patrizio Rapalino Ambasciatore Gabriele Checchia, Circolo di Studi Diplomatici Dottor Enrico Magnani
COMITATO EDITORIALE DELLA RIVISTA MARITTIMA
Contrammiraglio (ris) Ezio Ferrante
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Capitano di corvetta Danilo Ceccarelli Morolli Dottor Enrico Cernuschi
Prof.ssa Fiammetta SALMONI, Prof.ssa Margherita SCOGNAMIGLIO, Prof. Tommaso VALENTINI, Prof. Avv. Alessandro ZAMPONE Gli articoli sono soggetti a peer review double blind
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E ditoriale
«I
suppose England will be the last to make peace; and while she trusts to her Wooden Walls, she will be more successful than any other Power...» (1) queste parole profetiche, ovvero frutto del corretto apprezzamento della situazione, erano state scritte, nel giugno 1796, a bordo del vascello HMS Captain (2) e indirizzate dall’allora capitano di vascello Horatio Nelson al fratello William (3). All’epoca, gli eventi non erano favorevoli per gli inglesi, tanto che per i successivi due anni il Mediterraneo sarebbe stato abbandonato dalla Royal Navy. In particolare, nell’Italia settentrionale, l’armata di Napoleone guadagnava successi militari e politici nei confronti delle potenze monarchiche europee dell’Ancien Régime, compreso il Granducato di Toscana e Nelson, in quel momento, temeva per l’isola d’Elba e Portoferraio, la cui conquista francese poteva costituire la base di partenza per riconquistare la Corsica (4). Le «Wooden Walls», cioè le Muraglie di Legno, vergate in maiuscolo dal futuro vincitore di Trafalgar erano — naturalmente — le navi di linea della Royal Navy. Quanto alla parola Power, sempre in maiuscolo, essa richiama, va da sé, la fondamentale opera del navalista statunitense Alfred Thayer Mahan: «The Influence of Sea Power upon History» apparsa quasi un secolo dopo. In mare, infatti, tutto cambia a partire dalla tecnologia, e guai se non fosse così; ma sempre e solo allo scopo di conservare le regole fondamentali del Potere Marittimo. Mahan, benché figlio di una nazione inizialmente votata al continentalismo, aveva come Nelson, ben chiaro che gli Stati marittimi sono quelli destinati a esercitare un «Potere» più ampio di quelli continentali, privi cioè di uno sbocco sul mare e, più in generale, di una vocazione marittima congenita. Non è un caso, infatti, che Mahan abbia scritto della vita di Nelson e dell’incarnazione del Sea Power da parte della Gran Bretagna (5), a testimonianza di una comunione di pensiero con il grande Ammiraglio inglese. Il Potere Marittimo è la proiezione di tutta la nazione sul mare ovvero: «Sia il mezzo per costruire ed espandere una nazione che il mezzo per proteggerla assieme ai suoi interessi usando lo spazio marittimo» (6); quindi una unione solidale con il concetto di commercio marittimo — e i SEGUE A PAGINA 4
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relativi abilitanti: dalla flotta militare alla flotta mercantile, i porti, gli avamporti e le relative infrastrutture, i vettori attraverso cui si sviluppa un’importante fetta dell’economia moderna come i cavi e le condotte sottomarine, nonché le infrastrutture marittime critiche — funzionali al mantenimento e all’incremento della sua prosperità. Tutto ciò non escludendo, se necessario, un’azione diretta per proteggere i confini nazionali o laddove ne fossero minacciati gli interessi vitali. Possono variare le strategie marittime, passando dalle più assertive alle più attendiste, connesse con flotte militari meno dotate e per questo abili interpreti del ruolo di minaccia in potenza o, comunque, inevitabilmente interpreti di linee più ragionate, alla Corbett (7). Ma i principi alla base non mutano: qualunque realtà a livello di Stato segue una propria strategia marittima a tutela dei propri confini, delle linee di traffico, della flotta mercantile e delle proprie aree di giurisdizione marittima. Vale la pena ricordare come la strategia marittima sia figlia e al tempo stesso principio abilitante del Potere Marittimo, proponendosi lo studio dei metodi d’impiego dei suoi elementi. Una corretta strategia marittima abbraccia così, inevitabilmente, diverse discipline e comprende, oltre agli aspetti strettamente operativi legati all’impiego delle navi da guerra (strategia navale), tutti gli aspetti e le varie discipline legate all’economia, alla crescente importanza della logistica integrata, alla diplomazia e, più in generale, alla cultura. Data questa premessa la Rivista Marittima propone oggi al lettore un numero dedicato alle Marine del Mediterraneo non appartenenti alla NATO. È un tentativo di offrire un quadro marittimo che si sottopone senza pretese d’esaustività. Un tentativo, semplice e franco, volto a prospettare un quadro marittimo tanto variegato quanto interessante e molto fluido. Perciò nulla ex cathedra bensì un aperto dialogo come in «quadrato ufficiali» a bordo delle navi; se vogliamo, con la chiarezza tipica dell’ambiente. Pertanto il focus dello sforzo di questo mese è chiarire e comprendere come il Potere Marittimo sia una chiave geopolitica e geostrategica nonché geoeconomica essenziale in un complesso e cruciale scacchiere marittimo come quello del Mediterraneo. In particolare, si desidera evidenziare come il ruolo delle Marine militari dei paesi non NATO abbia fatto acquisire ai relativi Stati di appartenenza mediterranei una maggiore valenza politica e un maggior peso diplomatico nelle questioni internazionali. Un ruolo importante quello svolto dalle Marine dei singoli Stati, grazie al raggiungimento di uno Strumento navale equilibrato, moderno e credibile. Proprio nel Mediterraneo le Marine cosiddette «minori», confermano una loro ragion d’essere operativa e costituiscono un elemento prezioso e spesso indispensabile nell’ambito dei rapporti internazionali dei paesi d’appartenenza. Queste Marine cresciute con tenacia sono, oggi, un tassello imprescindibile del sempre complesso quadro che compone l’equilibrio geopolitico, geostrategico e geoeconomico mediterraneo. Ancora una volta il Mediterraneo rappresenta ben più che uno spazio marittimo, bensì un luogo di incontro e di scambio di culture e di tutela dei reciproci interessi vitali, dove è naturale che possano sorgere tensioni e crisi. Scriveva Shakespeare, nel Macbeth, «Past is Prologue» e non potrebbe essere diversamente, siamo tutti figli di un passato complesso e in continua evoluzione. Naturalmente la realtà odierna, articolata in un quadro in continuo (e imprevedibile) mutamento pone il dovere di mantenere sempre alta l’attenzione verso le questioni attinenti alla sicurezza e difesa marittima, nell’interesse della nazione e dei suoi cittadini. Non a caso pochi giorni fa, il Capo di Stato Maggiore della Marina Militare, Ammiraglio di squadra Enrico Credendino, tra le altre cose, ha evidenziato davanti alle Commissioni Difesa del Senato e della Camera in occasione della presentazione delle linee programmatiche del proprio mandato che: «… C’è anche un crescente riarmo dei paesi dell’area in termini navali. La Turchia diventerà il primo paese marittimo del Mediterraneo: ha raddoppiato la consistenza della flotta e del personale e avrà una flotta di 60.000 uomini e donne, con navi moderne e molto sofisticate. C’è anche l’Egitto che si sta affermando in termini navali
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in maniera importante pur con linee di approvvigionamento molto diversificate. L’Algeria ha capacità marittime nuove, sommergibili sofisticati russi con armamento russo: l’Algeria ha capacità di land strike e, quindi, di lancio di missili sul territorio che l’Italia oggi non ha. Noi abbiamo ancora un’esigenza operativa ferma, stiamo ancora in discussione e ci vorranno anni prima di avere questa capacità che gli algerini oggi già hanno e anche il Marocco si sta riarmando in termini navali. C’è un grande attivismo, un grande armamento e poi c’è anche la questione della territorializzazione del mare: l’appropriazione di parti sempre più estese d’alto mare per ottenere il controllo delle rotte che attraversano e delle risorse che giacciono sui loro fondali. Oggi soltanto il 20 per cento, anzi meno del 20 per cento del Mediterraneo, rimane libero per la navigazione e l’Italia finalmente sta concordando la Zona Economica Esclusiva (ZEE) con i paesi rivieraschi. Una volta che verrà emanata e definita questa ZEE, dovremo pattugliarla ed essere presenti; quindi, questo sarà un ulteriore compito per la Marina …». Seppur mantenendo, dunque, sempre «alta la guardia» nei confronti del rapidamente mutevole contesto geostrategico, non dobbiamo dimenticare uno dei maggiori postulati che da sempre informa l’approccio della Marina Militare all’ambiente internazionale, ovvero il fatto che il mare unisce e non divide. Proprio per questo, per esempio, l’Italia ha aderito, assieme ai paesi rivieraschi del comune Mediterraneo all’iniziativa detta del Dialogo 5 + 5. Si tratta di un foro informale di collaborazione fra cinque paesi della sponda Nord (Italia, Francia, Malta, Portogallo e Spagna) e i cinque della sponda Sud (Algeria, Libia, Mauritania, Marocco e Tunisia) del Mediterraneo occidentale. Un centro di pensiero nato nel 1990, a livello di ministri degli Esteri, che ha avuto successo estendendosi dagli Esteri agli ambiti parlamentari, della Difesa e a quelli degli Interni, dei Trasporti, del Lavoro e del Turismo; temi cui si sono aggiunti recentemente anche l’Istruzione e l’Ambiente. Per quanto riguarda la Difesa, si tratta di cooperare nelle seguenti aree: sorveglianza marittima; sicurezza aerea; contributo delle Forze armate alla Protezione Civile; formazione. Non possiamo poi non menzionare l’iniziativa ADRION, che si inquadra tra le attività discendenti dalla Conferenza interministeriale del 2000, la cui dimensione marittima fu promossa dalla Marina Militare nel 2004, quando tre dei sei paesi adriatici non facevano ancora parte dell’Alleanza Atlantica (Albania e Croazia ingresso nel 2009 e Montenegro nel 2017), mentre Slovacchia e Slovenia avevano da poco aderito all’UE (la Croazia avrebbe aderito nel 2013). L’iniziativa ADRION, tuttora in corso, dimostra la volontà dei paesi rivieraschi di sviluppare la cooperazione regionale col fine di garantire la sicurezza e la stabilità politico-economica dell’area. In definitiva, il ruolo delle Marine non appartenenti alla NATO è molto più complesso di quanto si possa immaginare, considerando anche che la metà dei paesi mediterranei appartengono geograficamente al continente africano, un continente a cui il futuro riserva molte attenzioni geopolitiche e geostrategiche. Questa pagina si chiude con un accenno, non banale né casuale, alla storia recente del Mediterraneo: segnaliamo, con piacere, l’uscita a cura dell’Ufficio Storico della Marina Militare, della traduzione, dall’inglese all’italiano, del libro: Lotta per il Mare di Mezzo: la guerra delle Grandi Marine nel Teatro del Mediterraneo 1940-1945. Uscito nel 2009 negli Stati Uniti, a cura del Naval Institute di Annapolis, Struggle for the Middle Sea: The Great Navies at War in the Mediterranean Theater, 1940-1945 è l’opera più nota dello statunitense Vincent P. O’Hara. Si tratta, sin dalla sua prima apparizione, di un volume, più volte ristampato, importante, secondo il concorde parere della critica e del pubblico, per diversi motivi, due dei quali meritevoli di particolare attenzione anche da noi. Il primo, solo in apparenza banale, consiste nel fatto che è stato scritto da uno storico americano profondo studioso della guerra nel Mediterraneo tra il 1940 e il 1945. Due grandi Marine: la Royal Navy e la Regia Marina, si sono affrontate in modo modernissimo nel rispetto delle loro antiche tra-
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dizioni e, diciamolo pure, delle proprie particolari culture. Ne emerge il quadro di un match duro e senza esclusioni di colpi che è narrato con precisione e senza pregiudizi. Non è la storia redatta dai vincitori o fatta per compiacerli, quanto piuttosto un saggio scritto con spirito critico da un autore super partes nel pieno rispetto del metodo scientifico. Il secondo motivo degno di nota è che l’autore chiarisce, sulla base dei documenti del tempo di guerra, come la Regia Marina non solo sia stata una validissima avversaria dell’allora Royal Navy, assestando e ricevendo duri colpi, ma chiarendo, in dettaglio e con serenità, i termini fondamentali della questione. L’arrivo, cioè, a destinazione, dell’83,49% dei materiali e di oltre il 91% degli uomini nel Nord Africa dall’inizio alla fine di quella durissima campagna durata tre anni: la guerra dei soldati al sole. E tutto ciò nonostante l’inferiorità numerica e tecnologica, le rotte obbligate e il vantaggio dell’iniziativa di cui godettero sempre i britannici e, in seguito, gli statunitensi. Diverso fu, invece, il contesto strategico, godendo gli inglesi sin dall’estate 1940, di un vantaggio di 3 a 1 in fatto di rifornimenti salito poi a 10 a 1 nel 1943 in seguito all’intervento statunitense che tutto travolse, dal decisivo sbarco nel Nord Africa francese in poi. In altre parole la Regia Marina italiana, affiancata dalla Regia Aeronautica, portò, in buona sostanza, nel Nord Africa tutto quello che fu possibile sbarcare, saturando ogni mese «a tappo» la capacità degli scali libici. Una storia non tanto lontana che conviene conoscere bene, tanto più che nuovi «tempi di ferro» sono in corso non lontano da qui e che tutto possiamo permetterci, noi italiani, meno che ripetere gli errori del passato o, peggio ancora, rinnegare lezioni (e anche successi) pagati a così caro prezzo.
NOTE (1) «Suppongo che l’Inghilterra sarà l'ultima a fare la pace; e mentre si affida alle sue Muraglie di Legno, avrà più successo di qualsiasi altro Potere …». (2) Vascello di terza classe da 74 cannoni della Royal Navy, varato nel 1787. (3) Joseph F. Callo, Nelson Speaks (Admiral Lord Nelson in his own words), pag. 78, Naval Institute Press 2001. (4) Caduta in mano inglese nel 1793 allo scopo di imporre il blocco al regime giacobino rivoluzionario francese, fu poi evacuata nel settembre del 1796 e prontamente rioccupata dai francesi dell’Armata d’Italia, guidata da Napoleone. (5) The Life of Nelson: The Embodiment of the Sea Power of Great Britain: In two volumes: vols. I & II. (6) Pier Paolo Ramoino, Fondamenti di strategia navale, Ed. Forum di relazioni internazionali, 1999, pag. 66. (7) Sir Julian Stafford Corbett (1854-1922), storico navale britannico e cultore di strategia marittima.
DANIELE SAPIENZA Direttore della Rivista Marittima
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PRIMO PIANO
Malta: fulcro del potere navale nel Mediterraneo Massimo de Leonardis
L’
arcipelago maltese, composto da tre isole abitate, la principale Malta, le due più piccole Gozo e Comino (con solo tre residenti e un albergo per i turisti) e altre minori, nei secoli dell’età moderna e contemporanea ha costituito un punto nevralgico del potere navale nel Mediterraneo. Dal punto di vista geografico, etnico, culturale e religioso l’arcipelago appartiene pienamente all’Europa, anche se nel corso della sua storia fu dominato per circa due secoli, dall’870 al 1091, dagli Aghlabidi nordafricani.
Malta dei Cavalieri In età moderna, una data fondamentale della storia di Malta fu il 1530, anno in cui Carlo II re di Sicilia (Carlo V come sacro romano imperatore, Carlo I come re di Spagna) investì il Sovrano Militare Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Gerusalemme, fondato nell’XI secolo in Terra Santa, del feudo perpetuo, nobile, libero e franco dell’arcipelago maltese e della città di Tripoli di Barberia, grazie all’intercessione di papa Clemente VII, che era stato Cavaliere rodiota. L’Ordine era stato costretto ad abbandonare la Terra Santa nel
Professore Ordinario (a.r.) di Storia delle relazioni e delle istituzioni internazionali e docente di Storia dei trattati e politica internazionale nell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove dal 2005 al 2017 è stato direttore del Dipartimento di scienze politiche. Presidente dal 2015 della International Commission of Military History. Nell’ambito della Marina Militare è Consigliere scientifico del Capo di Stato Maggiore per l’area umanistica e membro decano del Comitato consultivo dell’Ufficio Storico. Dal 1999 coordinatore delle discipline storiche al master in Diplomacy dell’Istituto per gli studi di politica internazionale. Membro della European Academy of Sciences and Arts e insignito della medaglia «Marin Drinov» dell’Accademia delle scienze bulgara.
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La sede del Maritime Squadron of Armed Forces of Malta a Floriana (di Frank Vincentz da wikipedia.org).
1291, rifugiandosi prima a Cipro e poi dal 1310 appunto a Rodi, anch’essa però conquistata dagli Ottomani nel 1522, dopo sei mesi di assedio. Di qui la denominazione comune da allora adottata di Sovrano Militare Ordine di Malta. Le isole restavano comunque sotto la suzeraineté del Re di Sicilia, tanto che Malta fu diocesi suffraganea di Palermo fino al 1831. Un altro evento famoso fu il grande assedio di Malta nel 1565, quando i cavalieri resistettero vittoriosamente all’assalto delle imponenti forze ottomane. Fu la premessa della vittoria navale di Lepanto nel 1571, dopo la quale l’Impero ottomano non cercò più di espandere il suo potere navale al Mediterraneo occidentale, che rimase però infestato fino ai primi decenni del XIX secolo dalle scorrerie dei pirati barbareschi, facenti capo ad autonomi potentati arabi in Africa settentrionale. Ancora nel XVIII secolo il Sovrano Militare Ordine di Malta svolgeva un ruolo di milizia armata a difesa della
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cristianità, senza peraltro dimenticare l’originaria vocazione caritativa: nel 1783 la flotta dell’Ordine, carica di viveri, medicinali, abiti, era prontamente salpata sotto la guida del Balì Frelon de La Frelonnière per recare soccorso ai terremotati della Sicilia e della Calabria. Il ruolo militare era stato richiamato ancora da papa Benedetto XIV, che, elargendo all’Ordine speciali privilegi e benefici, esprimeva a esso, con la lettera apostolica Quoniam inter del 17 dicembre 1743, tutta la sua benevolenza e ricordava che la Milizia dell’Ospedale di S. Giovanni di Gerusalemme «combattendo, per la gloria di Cristo, contro i perduti uomini infetti dall’errore maomettano, con sommo vigore, difende assiduamente e con tutte le forze i paesi cristiani dalle incursioni di costoro» e «per sua istituzione, fa [...] guerra continua contro il comune nemico del nome cristiano [...] e [...] a tale scopo mantiene una flotta munitissima e ben dotata di materiale bellico e di ogni
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Malta: fulcro del potere navale nel Mediterraneo
macchina guerresca» (1). L’Europa degli equilibri di potenza aveva però già da molto tempo sostituito la Respublica Christiana; gli Stati sovrani combattevano guerre per i loro interessi dinastici e nazionali e nei loro rapporti con l’Impero ottomano non ponevano più al centro il fattore religioso. Già prima della tempesta della Rivoluzione francese l’arcipelago maltese aveva suscitato l’interesse delle grandi potenze (2). Le relazioni tra la Russia e Malta risalivano al regno di Pietro il Grande e l’imperatrice Caterina II aveva poi stabilito piene relazioni diplomatiche con Malta. Dal 1770 la flotta russa cercava infatti un punto d’appoggio permanente nel Mediterraneo; intanto, a seguito della prima spartizione della Polonia del 1772, una parte delle terre polacche che ricadevano nel Gran Priorato d’Austria e Boemia dell’Ordine era passata sotto il dominio degli zar. L’interesse della Gran Bretagna per Malta datava dal 1783, anno in cui dovette restituire Minorca alla Spagna in conseguenza della sconfitta nella Guerra d’indipendenza americana; un memorandum del 1794 al ministro degli Esteri Lord Grenville sottolineò l’importanza strategica ed economica dell’isola. Nello stesso anno gli Stati Uniti offrirono ai Cavalieri protezione e un nuovo territorio sul continente americano. La Rivoluzione francese ebbe un forte impatto sull’Ordine. Il ruolo preminente della Francia a Malta, frutto dei buoni rapporti con l’Ordine, era minacciato dall’interesse delle grandi potenze e ai nuovi governanti di Parigi si pose l’alternativa tra restare amici dell’Ordine conservandogli i suoi beni o, coerentemente alle idee rivoluzionarie, confiscarli e conquistare Malta. L’Illuminismo e la Rivoluzione francese seminarono divisione nell’Ordine Gerosolimitano: un piccolo gruppo di cavalieri francesi aderì alle nuove idee, un altro gruppo più numeroso militò apertamente nel campo controrivoluzionario, per esempio arruolandosi nell’armata del Principe di Condé. Nel giugno 1791, il Ricevitore dell’Ordine fornì un milione e duecentomila lire al re Luigi XVI che tentava la fuga e che poi, nonostante la protesta del gran maestro Emmanuel de Rohan, fu imprigionato al Tempio, parte integrante della residenza del Gran Priore di Francia. Un decreto del 19 settembre 1792 abolì l’Ordine nei territori francesi, incameran-
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done i beni, che rappresentavano circa la metà di tutti i suoi possedimenti sul continente europeo. Gli statuti obbligavano l’Ordine a combattere solo contro gli infedeli nell’interesse generale della cristianità e a rimanere neutrale nelle guerre tra gli Stati cristiani. Tra il 1793 ed il 1798 l’Ordine cercò quindi di barcamenarsi tra la Gran Bretagna e la Francia, tendendo in un primo tempo più a favore di Londra e poi di Parigi, quando nel 1796 la flotta britannica fu temporaneamente ritirata dal Mediterraneo. Per ottenere protezione, l’Ordine guardò anche alla Russia, dove nel 1796 era salito al trono lo zar Paolo I, che puntava a una riconciliazione con la Chiesa di Roma e rivelò al gesuita padre Gabriel Grüber di sentirsi «cattolico di cuore». Come più tardi il figlio e successore Alessandro I nel caso della Santa Alleanza, Paolo I univa sinceri sentimenti religiosi alla difesa degli interessi russi. Nel gennaio 1797 lo Zar ed il Gran Maestro de Rohan firmarono una convenzione che assicurava ai Cavalieri un’indennità annuale di 300mila fiorini e in settembre Paolo I accettò graziosamente il titolo di «protettore dell’Ordine», del quale si fregiavano già anche il sacro romano Imperatore e il Re di Sicilia, che furono irritati. Nello stesso anno, alla morte di Rohan, l’elezione a Gran Maestro del barone Ferdinand von Hompesch zu Bolheim, di origine tedesca, suscitò in Francia il sospetto di una forte influenza austriaca sull’Ordine. Napoleone Bonaparte denunciò la formazione di una coalizione tra Russia, Austria e i Cavalieri e decise di conquistare Malta. Il 6 giugno 1798, in navigazione verso l’Egitto, giunse al largo di Malta la flotta francese, composta da 15 vascelli, 12 fregate e 500 altri navigli che trasportavano 40mila uomini. Tre giorni prima che la flotta francese salpasse da Tolone, von Hompesch era stato preavvertito dal rappresentante dell’Ordine a Rastadt che essa era diretta a Malta. Ma il Gran Maestro, probabilmente influenzato dal suo Consiglio di guerra nel quale erano presenti molti filo-francesi, non prestò fede al rapporto, convinto che la spedizione fosse diretta in Irlanda o in Portogallo. Dei 362 Cavalieri presenti sull’isola 260 erano francesi e 53 di essi (o 34, secondo altre fonti) si unirono poi all’esercito di Bonaparte. Il piano preparato nel 1792 a difesa dell’isola prevedeva la protezione di tutti i 44 possibili punti di sbarco, mu-
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Malta: fulcro del potere navale nel Mediterraneo
niti di 66 torri e di fortificazioni largamente incomplete. Nel centro dell’isola vi era inoltre una linea interna di difesa costituita da trincee e da un muro. Oltre ai Cavalieri, il Gran Maestro poteva contare su 1.200 uomini del Reggimento maltese, su rispettivamente 300 e 400 dei battaglioni da sbarco delle galere e dei vascelli, e su 12.000 della milizia maltese; i pezzi di artiglieria erano 1.400, un numero insufficiente per piazzare batterie costiere senza indebolire le difese della fortezza. Per di più molti cannoni erano antiquati, i carriaggi marci, le munizioni e le polveri mal distribuite e anche, queste ultime, di cattiva qualità. Von Hompesch rifiutò il consiglio dei suoi ufficiali di concentrare tutte le forze all’interno della fortezza della Valletta. Il 10 giugno le truppe francesi effettuarono quattro sbarchi, uno a Gozo e tre a Malta, nelle baie di San Paolo e di San Giuliano e a Marsa Scirocco, incontrando una resistenza solo simbolica, dovuta a molti motivi. La spiegazione apologetica afferma che le regole dell’Ordine impedivano ai Cavalieri di combattere
contro i cristiani. In realtà von Hompesch si dimostrò negligente e privo delle qualità di un comandante, mentre vi era appunto una fazione filo-francese tra i Cavalieri. Infine parte della popolazione maltese spingeva alla resa; elementi della borghesia e del clero maltesi (esclusi dal governo e dai benefici ecclesiastici) erano ostili all’Ordine, al quale si manteneva invece devoto il popolo. Il 12 giugno 1798, a bordo del vascello francese Orient, una delegazione di tre Cavalieri e quattro maltesi firmò con Napoleone una convenzione di otto articoli, uno dei quali cedeva alla Francia la sovranità sull’arcipelago, ciò che esulava dai poteri dell’Ordine, poiché essa in ultima analisi spettava al Re di Sicilia. Domenica 2 settembre la popolazione maltese si sollevò contro i nuovi padroni. La scintilla della révolte des campagnes, come fu chiamata dai francesi, fu data dal tentativo di asportare e vendere all’asta gli arredi della chiesa dei Carmelitani a Mdina, subito dopo che un analogo tentativo era appena stato respinto alla chiesa dei Frati Minori a Rabat. La spoliazione delle
L'arrivo di Napoleone a Malta (wikipedia.org).
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chiese faceva seguito alle misure anticlericali decretate il 13 agosto: espulsione da Malta entro dieci giorni del clero e dei religiosi di entrambi i sessi non nativi dell’arcipelago, con la sola esclusione del Vescovo, i cui poteri erano comunque ridotti, proibizione di prendere i voti prima dei 30 anni, divieto di ordinare nuovi sacerdoti in mancanza di benefici vacanti, ammissione di un solo monastero per ordine, vendita delle proprietà ecclesiastiche, proibizione del ricorso al Papa, istituzione e obbligo del matrimonio civile e cessazione degli effetti civili di quello religioso, sepoltura degli infedeli negli stessi cimiteri dei cattolici, soppressione di fondazioni, confraternite, corpi collegiali, eccetto il Capitolo della Cattedrale (3). Nonostante il vescovo, monsignor Vincenzo Labini, su pressione dei francesi, avesse subito diramato ai parroci una circolare per invitare alla calma, aiutata dalla diffusione della notizia della sconfitta della flotta francese nella battaglia del Nilo nella baia di Abukir a opera dell’ammiraglio Nelson avvenuta il 1° agosto precedente, l’insorgenza s’impadronì in pochi giorni di tutto l’arcipelago, a eccezione delle fortificazioni della Valletta, dove si asserragliò il Generale Claude Henri de Vaubois con 3.053 fanti e cinque compagnie di artiglieri, con ufficiali eccellenti e ben armati, anche se con scarse provviste. Tutti i settori della popolazione, clero, nobiltà, borghesia e popolo sostenevano in grande maggioranza l’insorgenza. Fu costituita un’Assemblea nazionale maltese, composta da notabili e da un comandante di battaglione per villaggio. Alla sua prima riunione, essa proclamò il Re di Sicilia sovrano di Malta e decise anche di chiedere anche l’aiuto inglese. I delegati dell’Assemblea Luigi Briffa e Francesco Ferrugia, diretti a Napoli per sollecitare l’aiuto di re Ferdinando di Borbone (III come Re di Sicilia, IV come Re di Napoli, dal 1816 Ferdinando I come Re delle Due Sicilie), intercettarono al largo della Sicilia la Vanguard, ammiraglia di Nelson. Saliti a bordo, spiegarono di essere delegati a chiedere a Nelson «quale alleato di Sua Maestà il Re delle Due Sicilie di soccorrerli bloccando il gran porto [della Valletta]». L’intervento inglese, necessario per espugnare la cittadella della Valletta, è un tema largamente dibattuto, del quale furono subito chiare le implicazioni per il futuro politico dell’arcipelago. Nelson inviò una squadra portoghese, fornendo ai maltesi 1.062 moschetti con munizioni, e successivamente il vascello Alexander, scortato da una fregata, una corvetta e un brulotto, al comando del capitano di vascello Alexander John Ball, uno degli eroi di Abukir. L’11 aprile 1799 Nelson scrisse al Ministro
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Pagina del trattato di Amiens firmato il 25 marzo 1802 con i sigilli appartenenti ai quattro firmatari (di Jerónimo Roure Pérez da wikipedia.org).
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russo a Palermo: «Malta, mio caro Signore, è nei miei pensieri giorno e notte». Il 9 dicembre 1799, circa 800 uomini del 30° e 89° reggimento dell’esercito britannico, giunti da Minorca sulle navi Northumberland e Culloden agli ordini del commodoro Troubridge, sbarcarono nella baia di San Paolo. All’assedio della cittadella partecipò anche un contingente di truppe siciliane, al comando del colonnello Gianbattista Fardella; Sua Maestà borbonica fornì anche un ingente contributo di armi (tra l’altro 5.000 fucili), munizioni, viveri, denaro ed equipaggiamenti. Secondo un rapporto del capitano Ball del 6 marzo 1801, durante l’assedio gli inglesi non ebbero né morti né feriti. La capitolazione della fortezza della Valletta fu firmata il 4 settembre 1800. Alla firma dell’atto di resa i britannici non ammisero alcun rappresentante di re Ferdinando, il cui regno, pur riconquistato nei domini continentali grazie alla più famosa delle insorgenze, quella dell’Armata della Santa Fede guidata dal cardinale Fabrizio Ruffo di Bagnara, era in realtà protetto dalla flotta di Lord Nelson. La protesta del Sovrano era quindi priva di peso. Il 10 settembre 1798 lo zar Paolo I aveva pubblicato un manifesto dichiarando deposto von Hompesch e il 27 ottobre aveva assunto il titolo di Gran Maestro, fondando anche un secondo Gran Priorato russo, di rito ortodosso scismatico. Fu riconosciuto da gran parte dei Cavalieri e dal sacro romano imperatore Francesco II, ma non ottenne mai il breve di approvazione del Papa. Lo zar Alessandro I, succeduto al padre assassinato nel 1801, si limitò ad assumere il titolo di «Protettore dell’Ordine» e nel febbraio 1803, alla morte di Hompesch, fu eletto Gran Maestro il Balì Fra’ Giovanni Tommasi. Lo Zar sostenne la restaurazione dell’Ordine a Malta e tutte le potenze mediterranee, l’Impero ottomano, pur alleato di Londra, la Spagna e ovviamente la Francia premettero affinché la Gran Bretagna abbandonasse Malta. Il 1° ottobre 1801 furono firmati a Londra i preliminari di pace tra il Regno Unito e la Francia. L’art. 4 prevedeva che le truppe britanniche abbandonassero Malta e vi fosse restaurato l’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme. Per garantire l’assoluta indipendenza dell’isola dalle due parti contraenti, Malta sarebbe stata posta sotto la garanzia e la protezione di una terza potenza, da designare nel trattato definitivo. In effetti la sorte di Malta fu una delle questioni più dibattute durante i negoziati del Trattato di Amiens, firmato il 27 marzo 1802 da Regno Unito, Francia, Spagna, Repubblica Batava (ossia i Paesi Bassi). Il lungo art. 10, composto di 13 paragrafi, di tale effimera pace (4) fu interamente dedicato all’arcipelago maltese, dove veniva restaurato il Principato dei Cavalieri, con una serie però
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di norme volte a garantire la «perpetua neutralità» dell’Ordine e dell’arcipelago (peraltro sempre esistite), sancita esplicitamente nel paragrafo 7. Entro tre mesi dalla ratifica del trattato, le truppe britanniche dovevano lasciare l’arcipelago, la cui indipendenza era posta sotto la protezione e la garanzia di Gran Bretagna, Francia, Austria, Russia, Spagna e Prussia (elencate in quest’ordine nel paragrafo 6). Il Re di Sicilia era invitato a fornire una guarnigione di duemila uomini per le diverse fortezze, finché l’Ordine non avesse arruolato una forza in grado di svolgere tale compito. Il trattato di Amiens è stato descritto come un edificio di argilla costruito sulla sabbia e poco più di un anno dopo la sua firma, la Gran Bretagna fu nuovamente in guerra con la Francia, in gran parte a causa della sua perdurante occupazione di Malta. Inizialmente Londra non era interessata a mantenere l’isola. Nelson scrisse all’ammiragliato: «a dire la verità il possesso di Malta da parte dell’Inghilterra sarebbe inutile ed enormemente costoso […] Io non gli attribuisco alcun valore per noi». Egli riteneva più utile tenere Minorca (riconquistata dall’Inghilterra nel 1798), poiché Malta era un’isola troppo piccola e arida per sostenersi da sola e troppo lontana dalle sponde del Mediterraneo sia orientale che occidentale. Perciò Londra aveva reagito freddamente alla petizione presentata nel febbraio 1802 da sei maltesi per chiedere che la Gran Bretagna «non solo proteggesse Malta, ma la possedesse». L’atteggiamento di Nelson però successivamente cambiò. Il futuro di Malta dipendeva dalla grande strategia navale britannica. Londra aveva restituito Città del Capo agli olandesi, nella speranza che con la pace i Paesi Bassi riacquistassero la loro indipendenza dalla Francia e la
rotta verso l’India rimanesse quindi libera. Le truppe francesi rimasero però nei Paesi Bassi e apparve chiaro che la Repubblica Batava restava vassalla della Francia, che avrebbe così indirettamente controllato Città del Capo. Per di più, nel gennaio 1803 fu pubblicato un rapporto sui piani francesi di riconquista dell’Egitto, ancora occupato dalle truppe britanniche. Le linee di comunicazione con l’India sia attraverso il Mediterraneo sia attraverso gli oceani sarebbero quindi state esposte alla minaccia francese. Quasi contemporaneamente lo zar Alessandro I cambiò posizione e offrì un’alleanza alla Gran Bretagna, invitandola a rimanere a Malta. «La pace o la guerra dipende da Malta» dichiarò Napoleone, che durante i negoziati per la pace di Amiens aveva detto all’ambasciatore britannico che avrebbe preferito vedere gli inglesi a Parigi nel Faubourg St. Antoine piuttosto che a Malta. Lord Nelson cambiò ora idea: «io ora dichiaro — scrisse l’Ammiraglio nel giugno 1803 — di considerare Malta fortificazione verso l’India, che ci darà grande influenza nel Levante e in verità in tutta l’Italia meridionale. Da questo punto di vista spero non la abbandoneremo mai». Sotto l’aspetto commerciale, Malta era considerata un eccellente scalo marittimo, che nel 1806 sarebbe divenuto ancora più importante quando Napoleone, ora imperatore dei Francesi, chiuse tutti i porti europei al naviglio britannico. Il 3 aprile 1803 Londra chiarì la sua posizione: supremazia marittima britannica nel Mediterraneo e rinuncia della Francia ai Paesi Bassi e alla Svizzera. Dieci giorni dopo, la Gran Bretagna propose di rimanere a Malta dieci anni, il tempo necessario a fortificare l’isola di Lampedusa. La Francia contro-propose una permanenza britannica a Malta di tre-quattro
Gaspar Adriaansz van Wittel, Il porto di La Valletta verso il 1750. National Maritime Museum, Greenwich London.
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anni e, all’ultimo momento, accettò i dieci anni in cambio della sua occupazione di Otranto e Taranto per lo stesso periodo. La guerra scoppiò il 18 maggio 1803. Nel trattato anglo-russo dell’11 aprile 1805 lo Zar, nel contesto di un tentativo di raggiungere un assetto durevole in Europa, ottenne che, se fosse risultato impossibile per Napoleone accettare il possesso britannico di Malta, Londra lasciasse l’arcipelago e fosse concesso alla Russia di presidiare le isole. Nell’aprile 1807 la Gran Bretagna dovette fronteggiare a Malta una ribellione guidata da un avventuriero francese, Montjoye, che si faceva chiamare Conte di Froberg, che aveva arruolato un reggimento di stranieri che prestava servizio con l’esercito britannico. I ribelli innalzarono la bandiera russa, ma non ricevettero alcun appoggio da San Pietroburgo. Sconfitta da Napoleone a Friedland il 14 giugno 1807, il successivo 7 luglio la Russia firmò a Tilsit un trattato di pace e un’alleanza con la Francia, che durò fino all’invasione del 1812. Dopo quest’ultima, la Russia, alleata con la Gran Bretagna, non dimostrò ulteriore interesse per Malta. Il 15 giugno 1802 i maltesi avevano approvato una Dichiarazione dei Diritti nella quale si esprimeva il desiderio di essere sudditi del Re d’Inghilterra, purché questi garantisse la protezione della religione cattolica e concedesse un regime rappresentativo. Orgogliosi di aver liberato da soli gran parte della propria isola e di averne offerto liberamente la sovranità all’Inghilterra, i maltesi si sentirono da allora ancor più legittimati a pretendere un regime politico degno di un popolo europeo ricco di storia. Tuttavia, sebbene il ministro delle colonie e futuro primo ministro Lord Liverpool avesse riconosciuto che l’autorità britannica su Malta era stata
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stabilita in circostanze «senza paragone con qualsiasi altro esempio nella storia moderna» dell’Inghilterra, una commissione parlamentare istituita a Londra nel 1812 concluse drasticamente che sarebbe stata una «follia» concedere un governo rappresentativo a «gente ignorante e superstiziosa» come i maltesi. Per gli inglesi «superstizioso» era sinonimo di «cattolico».
Malta britannica Caduto Napoleone, l’art. 7 del primo Trattato di pace di Parigi (30 maggio 1814) stabilì che «l’isola di Malta e sue dipendenze apparterranno, in completa proprietà e sovranità, a S. M. britannica». La questione non fu riaperta al Congresso di Vienna, nonostante la richiesta di restituzione presentata dai plenipotenziari dell’Ordine, appoggiata dalla Santa Sede e, con minore convinzione, dal Re di Sicilia. Fu comunque chiaro che la Gran Bretagna non aveva alcuna intenzione di lasciare Malta e il ministro degli Esteri Lord Castlereagh «si mise a ridere» quando il Principe di Castelcicala, ministro plenipotenziario a Londra di Ferdinando III Re di Sicilia, chiese un compenso per la perdita dell’isola. La Malta dei Cavalieri era stata un «microcosmo dell’Europa», ora gli inglesi le promettevano un futuro di «emporio del Mediterraneo» e di baluardo strategico non più della cristianità, ma dell’Impero britannico (5). L’isola avrebbe potuto riacquistare una funzione religiosa universale se, negli anni 60 dell’Ottocento, si fossero realizzati i progetti di ospitarvi Pio IX minacciato nei suoi Stati dall’Italia liberale; i maltesi manifestarono comunque sempre la loro fedeltà al Papa e in quel decennio 25 di loro si arruolarono nell’Esercito pontificio (6). L’Ordine Gerosolimitano non aveva lasciato in ere-
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dità a Malta solo una fede profonda e militante, ne aveva pure trasformato l’economia e la qualità della vita, assicurando la prosperità dell’arcipelago anche dopo la sua partenza. L’Ordine era l’ultimo rappresentante dell’epoca delle Crociate; ciò costituiva la sua grandezza ma anche la sua debolezza e il suo anacronismo, nel secolo dei Lumi. I Cavalieri di San Giovanni erano portatori di un messaggio di fede, di purezza, di intransigenza, coniugato a un’etica cavalleresca e nobiliare. Nell’epoca, annunciata dalla Rivoluzione francese, di democrazia, di livellamento egualitario e di irreligiosità l’Ordine doveva trasformarsi, o meglio ritornare alla ispirazione caritativa, peraltro mai abbandonata, che ne aveva promosso la fondazione: Fratres in servitium venientes pauperum. Malta divenne la maggiore base della Mediterranean Fleet, la squadra principale della Royal Navy. Il Mediterraneo era un «lago britannico», dove Londra controllava, oltre a Malta, Gibilterra e fino al 1863 le Isole Ionie, cedute in quell’anno al Regno di Grecia. Il Regno Unito acquisì però il controllo del Canale di Suez e nel 1878 di Cipro. In occasione della prima crisi egiziana del 1831-33, quando Mehmet Ali pascià d’Egitto sfidò il Sultano ottomano, protetto dal Regno Unito soprattutto in funzione anti-russa ma anche antifrancese, il ministro degli Esteri Lord Palmerston autorizzò l’ambasciatore britannico a Costantinopoli a chiamare in aiuto in caso di necessità la Mediterranean Fleet senza chiedere l’autorizzazione preventiva di Londra, per garantire un intervento più rapido. Nel 1839 la Mediterranean Fleet sbarcò truppe in Libano per fermare l’avanzata di Ibrahim, figlio di Mehmet, durante la seconda crisi egiziana. La Mediterranean Fleet fu coinvolta in alcuni momenti cruciali del Risorgimento italiano. Lo sbarco di Garibaldi a Marsala fu protetto da due navi militari britanniche; il comportamento a Palermo del vice comandante della flotta Sir Rodney Mundy, pur mantenendo una neutralità formale tra Borbonici e Garibaldini, favorì questi ultimi. Il contributo maggiore al successo di Garibaldi fu la non adesione di Londra alla proposta di Napoleone III di impedirgli di passare sul continente. La Gran Bretagna diede in generale un sostegno convinto al Risorgimento italiano, ma più di una volta offrì
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di ospitare a Malta papa Pio IX, una mossa che da un lato avrebbe lasciato Roma in mano agli italiani dall’altro avrebbe attirato sull’Inghilterra le simpatie dei cattolici. Era un esercizio di equilibrismo che però non riuscì, poiché Pio IX e i suoi successori rifiutarono sempre di abbandonare la Città Eterna. Dalla fine di agosto 1870 ai primi del 1871 la corazzata HMS Defence fu ormeggiata a Civitavecchia, con la motivazione ufficiale di proteggere i sudditi britannici nelle circostanze dell’invasione dello Stato Pontificio, ma con il compito effettivo di accogliere a bordo Pio IX e di trasportarlo dove volesse. Fino alla Grande guerra il dominio britannico a Malta non incontrò problemi con la popolazione locale. Potenza con identità protestante, il Regno Unito rispettò pienamente la forte impronta cattolica dell’arcipelago. Nel 1889-90, dopo alcuni mesi di negoziati a Roma condotti dall’ex governatore generale Sir John Lintorn Arabin Simmons, fu concluso un accordo con la Santa Sede che dava a Londra il diritto di dare un parere vincolante sulle nomine dei due vescovi dell’arcipelago. All’inizio della Grande guerra, la Mediterranean Fleet cercò senza successo di intercettare la flotta tedesca nel Mediterraneo, comprendente l’l'incrociatore da battaglia Goeben e l'incrociatore leggero Breslau, che, trasferite alla marina turca, riuscirono a riparare a Costantinopoli. Il caso contribuì all’entrata in guerra dell’Impero Ottomano contro la Triplice Intesa. La maggiore operazione navale della Royal Navy nel Mediterraneo durante la Prima guerra mondiale fu il tentativo di forzamento dei Dardanelli, il cui fallimento provocò le dimissioni di Winston Churchill da Primo Lord dell’ammiragliato. Dopo la Grande guerra, il dominio britannico a Malta entrò in una nuova fase. Nel giugno 1919 disordini repressi dalle truppe britanniche causarono la morte di sette cittadini e nel 1921, il Governo di Londra ritenne i tempi maturi per concedere un Governo rappresentativo ai maltesi, approvando una nuova costituzione. Negli stessi anni 20 del XX secolo, giungeva a un punto critico un’evoluzione di lungo periodo. Le isole maltesi erano di religione cattolica e di cultura italiana; italiano e inglese erano le lingue ufficiali della colonia, mentre il peculiare idioma mal-
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Nave militare britannica, probabilmente la SERAPIS, costruita nel 1866, in porto con la HMS HERCULES vista dietro (collezione Frank-Lea Ellis da culturemalta.org).
tese, semitico con influssi arabi e siciliani, era parlato dal popolo. Alla luce dell’instaurazione in Italia del regime fascista, che negli anni 30 avrebbe rivendicato apertamente l’italianità di Malta, il Governo britannico intese rafforzare l’impronta britannica sulle isole, mentre una delle due forze politiche locali, il partito nazionalista, intendeva invece difenderne l’identità latina o tout court italiana, della quale il cattolicesimo era fondamento. La Chiesa nell’arcipelago maltese si trovò quindi coinvolta nelle contese politiche, anche perché la costituzione le assegnava in tale campo un ruolo istituzionale. La Costituzione del 1921, che all’art. 1 proclamava il «Cattolicesimo romano» religione di Stato e con l’art. 56 sanciva la tolleranza religiosa e la libertà per tutti i culti, prevedeva infatti un Parlamento bicamerale con un Senato di diciassette membri, dei quali solo sette elettivi; tra quelli nominati due rappresentavano il clero ed erano designati dal Vescovo di Malta. Questo quadro politico-istituzionale fu reso esplosivo dall’irruzione in scena di un personaggio che, pur cattolico, si rese fortemente inviso alla Chiesa in
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Malta e alla Santa Sede: Sir Gerald Strickland (poi Lord), nato alla Valletta da un capitano di fregata della Royal Navy e da una nobildonna maltese, educato in Inghilterra in un collegio protestante, capo del partito costituzionale filo-britannico e Primo Ministro dal 1927 al 1932. Conseguenze di una lunga controversia, che qui non può essere esaminata in dettaglio, furono l’abbassamento di livello delle relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e il Regno Unito per quasi tre anni (1930-33), nei quali Londra fu rappresentata solo da un incaricato d’affari, e la sospensione per due volte della Costituzione del 1921, poi definitivamente revocata. Poiché le crisi politico-costituzionali a Malta continuavano, con al centro sempre la questione linguistica, il governatore assunse nuovamente i pieni poteri. Anche per lo scoppio della Seconda guerra mondiale, che pose Malta in prima linea, fino al 1947 la carica di Primo Ministro fu abolita e l’arcipelago fu governato come una colonia della Corona. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale, il timore di un attacco italiano indusse Londra a trasferire la base
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principale della Mediterranean Fleet ad Alessandria d’Egitto. Con le forze aeree e navali ivi stazionate, Malta restò però una spina nel fianco dei paesi dell’Asse italo-tedesco, una «portaerei inaffondabile» secondo la definizione di Churchill, e per questo pesantemente bombardata. Il 15 aprile 1942 il re Giorgio VI accordò la George Cross all’isola in riconoscimento dell’eroica resistenza del suo popolo; la George Cross figura tuttora sulla bandiera nazionale e navale. L’Asse preparò l’invasione di Malta [operazione C3 (7)] che, rinviata, fu cancellata dopo la definitiva perdita di Tobruk nel novembre 1942. Ottemperando agli ordini ricevuti a seguito dell’armistizio «breve» del 3 settembre, la flotta italiana mosse verso le destinazioni indicate dagli anglo-americani, tra le quali soprattutto Malta, dove il 29 settembre fu firmato l’armistizio «lungo», che di fatto poneva fine alla guerra navale nel Mediterraneo.
Malta sede di comandi NATO
della struttura di comando nella regione meridionale fu più difficile da risolvere» che in altri settori. La proliferazione di comandi nel Mediterraneo rifletteva non tanto l’importanza dei loro ruoli, quanto i contrasti e la confusione sui loro compiti: titoli altisonanti come Allied Forces Southern Europe e Allied Forces Mediterranean riflettevano sovrabbondanza e sforzi sprecati, con poca sostanza (8). L’ultima evento bellico in cui fu coinvolta la Mediterranean Fleet fu l’operazione Musketeer a Suez nel novembre 1956, canto del cigno dell’Impero britannico. Nel 1964 Malta divenne indipendente, conservando la regina Elisabetta II come capo di Stato fino a quando, dieci anni dopo, divenne una repubblica, continuando ad aderire al Commonwealth. A seguito del generale ridimensionamento delle responsabilità strategiche britanniche, il 5 giugno 1967 AFMED fu sciolto e un Ammiraglio italiano assunse l’incarico di Commander Allied Naval Forces Southern Europe (COMNAVSOUTH) (9), con sede a Malta e dal 1971 a Nisida. La condizione di Malta, Stato indipendente che ospitava un Comando della NATO, della quale non faceva parte, era alquanto anomala. Il presidente del Consiglio italiano Aldo Moro e il ministro degli Esteri Amintore Fanfani il 20 e 21 dicembre 1967 ebbero colloqui con
Nei primi anni 50, nel quadro dell’istituzione dei Comandi integrati della NATO, il Regno Unito volle un compenso per aver dovuto lasciare il Comando Supremo dell’Atlantico a un Ammiraglio statunitense. Oltre all’Allied Command Channel, Londra ottenne per un proprio Ammiraglio l’incarico di Commander in Chief Allied Forces Mediterranean (CINCAFMED), a pari livello del Commander in Chief, Allied Forces, Southern Europe (CINCSOUTH) e direttamente dipendente dal Supreme Allied Commander Europe (SACEUR). Nel marzo 1953 si insediò quindi a Malta come titolare dell’incarico l’ammiraglio Lord Mountbatten of Burma. L’Italia ottenne il comando delle Forze alleate del Mediterraneo centrale (AFMEDCENT), di livello inferiore, spesso affidato al Comandante in capo della Squadra navale. Nel suo rapporto sui primi cinque anni della Malta 1967. La più lontana è la portaerei della Royal Navy HMS VICTORIOUS (R38). Al centro, da destra NATO, il segretario generale Lord a sinistra, si trova il cacciatorpediniere missilistico INTREPIDO (D571) della Marina Militare italiana. In primo piano nave da sbarco della Marina degli Stati Uniti (wikimedia.org). Ismay osservò che «il problema
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una delegazione del Governo di Malta, guidata dal primo ministro Giorgio Borg Olivier, del partito nazionalista, di orientamento conservatore. I maltesi lamentavano una situazione «umiliante», poiché la NATO «non li informava di nulla»; ciò confermava, nei riguardi dell’Alleanza, «lo status coloniale che Malta aveva in precedenza» ed esponeva il Governo a forti critiche da parte dell’opposizione. Fanfani offrì il suo interessamento presso il Segretario Generale della NATO, l’italiano Manlio Brosio, mentre Moro garantì «appoggio al massimo possibile alle aspirazioni maltesi» a «una forma di associazione» che tenesse «conto della sua sovranità» (10). Nel 1971 la vittoria elettorale a Malta del partito laburista e la conseguente nomina a primo ministro di Domenico «Dom» Mintoff, un radicale di sinistra aduso a metodi e linguaggi violenti che nel corso della sua lunga carriera politica lo misero in contrasto con il suo stesso partito, fece precipitare la situazione. Da poco insediato, definì il COMNAVSOUTH, ammiraglio di squadra Gino Birindelli MOVM, «noto militarista» e «persona non grata» (11). Era già stato deciso il trasferimento del Comando a Nisida e nel 1972 Mintoff, minacciando di affittare la base navale alla Marina sovietica, ottenne di concludere con la NATO un contratto di affitto della base a 14 milioni di sterline annue, per un periodo di 7 anni. Alla scadenza del contratto, nel 1979, Mintoff non volle assolutamente rinnovarlo e la flotta atlantica dovette lasciare Malta. Contemporaneamente il Governo maltese si avvi-
cinò alla Libia, le cui forniture di petrolio venduto a prezzo di favore compensavano le perdute somme dell’affitto incassato per le basi militari della NATO. Militari libici erano presenti nell’isola e gestivano perfino la torre di controllo dell’aeroporto internazionale di Luqa. A questa pericolosa deriva terzomondista pose fine il trattato bilaterale del 15 settembre 1980, l’Accordo sul Riconoscimento e la Garanzia della Neutralità di Malta, firmato dall’Italia, che ancora una volta giocò un ruolo chiave nelle vicende maltesi (12).
Conclusione: Malta oggi Il ruolo militare di Malta, sotto il Principato dei Cavalieri, come colonia britannica e sede di Comandi NATO, costituisce ormai solo un glorioso passato, testimoniato dalle imponenti fortificazioni e da molti pregevoli edifici religiosi. Date la sua ridotta estensione e la sua neutralità, lo Stato maltese possiede Forze armate di modeste dimensioni, su base volontaria e struttura unificata. La componente marittima (13) è formata quasi esclusivamente da motovedette e pattugliatori; la nave «ammiraglia», costruita da Fincantieri nei cantieri del Muggiano, entrata in servizio nel 2005, è un pattugliatore classe «Diciotti» modificato. Malta è sovente oggetto di critiche per la sua politica restrittiva verso l’immigrazione illegale proveniente dalle coste africane. Con una densità demografica di ben 1.376 abitanti per km², la più alta dell’intera Unione europea e una delle più alte del mondo, la sua posizione è certamente comprensibile. 8
NOTE (1) In Insegnamenti pontifici, a cura dei Monaci di Solesmes, vol. V, La pace internazionale, parte prima, La guerra moderna, Roma 1958, pp. 23-24. (2) Cfr. D. Gregory, Malta, Britain and the European Powers, 1793-1815, Londra 1996; P. Mackesy, The War in the Mediterranean 1803-1810, Londra 1957. (3) Cfr. E. Gentile, L’insurrezione di Malta contro l’occupazione militare dei Francesi, in Archivio Storico di Malta, 1935, pp. 71-86 e 1936, pp. 169-189; A. Savelli, Storia di Malta dai primordi ai giorni nostri, Milano 1943, capp. XII e XIII. (4) Il testo completo del trattato è disponibile in inglese all’indirizzo internet www.napoleon-series.org/research/government/diplomatic/c_amiens.html . (5) Cfr. M. de Leonardis, Malta da feudo Gerosolimitano a colonia britannica (1798-1815), in Melitensium Melitensior. Studi in memoria dell’ambasciatore Lorenzo Tacchella (1922-2008), a cura di C. Carcereri de Prati e G.B. Varnier - Turku 2012, pp. 91-106. (6) Cfr. M. de Leonardis, L’Inghilterra e la Questione Romana (1859-1870), Milano 1980, pp. 123-30. (7) M. Gabriele, Operazione C3: Malta, Roma 1965. (8) Lord Ismay, The First Five Years, 1949-1954, Parigi 1955, p. 73; L.S. Kaplan-R.W. Clawson, NATO and the Mediterranean Powers in Historical Perspective, in L.S. Kaplan-R.W. Clawson-R. Luraghi (eds.), NATO and the Mediterranean, Wilmington (De.) 1985, pp. 7-8. (9) Nel Diario di Amintore Fanfani (allora ministro degli Esteri), Senato della Repubblica, Roma, del 13-12-1966 si registra una riunione con il ministro della Difesa Roberto Tremelloni e il capo di Stato Maggiore della Difesa generale Giuseppe Aloja, che proponevano di ritirare la flotta italiana dalla struttura NATO qualora la Grecia non avesse accettato il comandante italiano, mentre Fanfani invitò a evitare minacce e a costruire un consenso al nostro Comando. (10) Archivio Fanfani, Senato della Repubblica, Roma, Sez. 1, Serie 5, Busta 40, Fasc. 40. (11) Si veda la testimonianza del suo aiutante di bandiera Guido Venturoni (futuro Capo di Stato Maggiore della Marina e della Difesa e presidente del Comitato militare della NATO), Birindelli ammiraglio scomodo, in La Stampa, 8-8-2008. (12) F. Atzei, La neutralità di Malta e l’Italia: Cronistoria dei rapporti italo-maltesi 1976-1985, in Rivista di Studi Politici Internazionali, vol. 52, No. 3 (207) (Luglio-Settembre 1985), pp. 409-440. (13) https://web.archive.org/web/20110714024448; http://www.maltaspotting.com/maritimesquadronafm.htm.
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PRIMO PIANO
La svolta navale di Israele Lorenzo Vita
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l Mediterraneo orientale rappresenta uno dei teatri più interessanti e che pongono più interrogativi per i suoi potenziali sviluppi strategici. Le scoperte di nuovi giacimenti di gas, le rotte commerciali che legano Oceano Indiano e Mediterraneo, l’ascesa di antiche e più recenti potenze regionali, il ripensamento strategico delle grandi potenze come Russia e Stati Uniti e l’inserimento di una nuova forza, quella cinese, nel contesto mediorientale e del Levante, hanno imposto all’attenzione del mondo un’area che sembrava contraddistinta dalla sua conflittualità rivierasca.
Giornalista professionista. Laureato in Giurisprudenza, ha conseguito un master in Geopolitica e sicurezza globale presso l’Università La Sapienza di Roma. Ha seguito corsi di specializzazione su terrorismo internazionale e guerre ibride presso la SIOI e su paesi ad alto rischio e sicurezza personale presso ISPI. Nella redazione de il Giornale e InsideOver dal 2017, si occupa di politica estera e internazionale. È autore del libro L’onda turca. Il risveglio di Ankara nel Mediterraneo allargato (Historica-Giubilei Regnani, 2021).
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uesta miscela esplosiva fatta di vecchie e nuove sfide (e tensioni) ha condotto a una recente dinamicità da parte degli Stati che si affacciano sul bacino orientale del Mediterraneo e che hanno concentrato i loro sforzi sulle opportunità e sui pericoli di questa regione. Basti pensare alla Turchia, attore che sta promuovendo la sua marittimità attraverso l’assertiva dottrina di «Mavi Vatan» («Patria blu»); o all’Egitto, che sta confermando il rafforzamento della propria potenza navale insieme a un rinnovato interesse per le problematiche regionali. Infine, non va dimenticata la nascita di una nuova piattaforma di cooperazione, se non di una vera e propria alleanza, tra Grecia, Cipro, Israele ed Egitto. Un’alleanza che si è costruita in larga parte per tutelare gli interessi sul gas e in contrapposizione alle ambizioni turche nell’area e che ha ottenuto il sostegno di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, oltre che il placet statunitense e in parte francese e dell’Unione europea. Queste attività strategiche più recenti, unite a un già delicato equilibrio mediorientale, hanno fatto sì che
tutta l’area del Mediterraneo orientale si sia ritrovata coinvolta in una fase di profonda e pericolosa instabilità. Una condizione in cui Israele, per la sua posizione di principale partner occidentale dell’area esterno alla Nato, assume un ruolo estremamente importante. Ruolo fondamentale non solo per la centralità dello Stato ebraico negli annosi problemi di sicurezza che coinvolgono tutto il Medio Oriente, ma anche perché Gerusalemme si trova a essere una sorta di termometro geopolitico della sicurezza del Mediterraneo orientale, rappresentando di anello di congiunzione tra i rischi connessi tradizionalmente al territorio del Vicino Oriente e le nuove sfide connesse al Mare Nostrum nel contesto del «secolo blu».
L’ascesa della Marina tra le Forze armate israeliane La Marina dello Stato ebraico è la cartina di tornasole di un paese che si è aperto definitivamente al mare dopo decenni in cui sembrava essere profondamente ancorato a una proiezione terrestre e alle logi-
Formazione navale della Marina israeliana (idf.il).
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che tipiche delle guerre che lo coinvolgevano e da cui è circondato. La Marina dello Stato di Israele è stata considerata per molti decenni come la terza forza, in ordine di importanza, delle Israel Defense Forces (IDF). Per diverso tempo la Heil HaYam HaYisraeli è stata ritenuta importante ma con compiti di esclusiva difesa delle proprie coste se non simili a quelli di un corpo di controllo delle acque territoriali. E una prova di questa scarsa rilevanza nell’agenda dei governi è data dal fatto che, come ricordato da Giovanni Martinelli su Analisi Difesa: «dei 22 capi di Stato Maggiore della Difesa israeliani, ben 21 sono provenuti dalle fila dell’Esercito e uno dall’Aeronautica» (1). Nessuno dei vertici della Difesa israeliana ha avuto quindi un passato nella Marina. Le ragioni, dal punto di vista storico, sono molteplici. A livello tecnologico e finanziario, Israele nella sua prima fase di esistenza dopo il 1948 non aveva le capacità né le conoscenze per creare e gestire una flotta moderna e già in grado di combattere. Costruire una Marina, pur con l’aiuto di diversi partner internazionali, non è un qualcosa che si può inventare da un momento all’altro. Tuttavia, se gli ostacoli fossero stati meramente quelli della ricerca di finanziamenti e di «know-how», questi sarebbero stati molto probabilmente superati qualora le esigenze dei primi governi israeliani si fossero dovuti concentrare sul dominio marittimo. La necessità di affrontare un problema e dominarlo è, infatti, la chiave per qualsiasi tipo di
evoluzione bellica in seno a uno Stato. Ed è chiaro che l’approccio strategico di un qualsiasi paese vari a seconda del tipo di minaccia che si deve affrontare e delle azioni che devono essere introdotte per evitare che l’ostacolo — sia esso un nemico o un problema di natura strutturale — possa limitare il perseguimento degli interessi nazionali. Israele, come confermato anche dal nodo del nucleare, quando ha potuto e voluto consolidare le proprie aspirazioni e imporre una propria posizione dominante all’interno del quadrante mediorientale, lo ha fatto in tempi rapidi e con un imponente dispiegamento di mezzi e di uomini. Ma sul fronte marittimo, la necessità di una rapida crescita delle Forze armate israeliane non sembrava essere un’urgenza. E quello che ha reso per certi versi secondario lo sviluppo di una Marina molto efficiente, quantomeno alla pari di esercito e aeronautica, è stato principalmente il tipo di nemici che doveva affrontare lo Stato ebraico nei primi anni di vita e nei decenni successivi. Israele si è considerato per molto tempo minacciato nella propria esistenza esclusivamente in rapporto ai vicini che lo circondavano, cioè gli Stati arabi. E questo pericolo consisteva, come poi del resto avvenuto, in possibili invasioni via terra. Erano i confini a nord, a est e a sud a risultare i più a rischio per gli strateghi israeliani, o al limite il fronte interno palestinese. E questo ha fatto sì che le risorse
La motovedetta per missili guidati della marina israeliana INS HETZ classe «Sa'ar 4.5» (wikipedia.org).
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del paese fossero messe al servizio di un efficientamento complessivo della componente terrestre e aerea e dell’intelligence. Forze che potessero fornire immediatamente capacità di contrasto alle truppe degli Stati arabi, di controllo dello spazio aereo e di prevenzione delle minacce esterne e terroristiche. Inoltre, gli Stati con cui Israele si interfacciava come avversari erano in larga parte privi di flotte tali da potere essere ritenute minacce di fondamentale importanza. Il bacino del Levante si presentava con forze tendenzialmente legate al fattore terrestre, al limite costiero, ma difficilmente esistevano Marine utilizzate come veri «game-changer» nella politica regionale.
e non in grado di sostenere l’economia israeliana attraverso gli scambi commerciali. Israele deve dunque rivolgersi all’esterno della cerchia dei vicini. E per farlo, l’unica via è quella marittima: in particolare quella del Mediterraneo. Un dato che può essere ben sintetizzato dai numeri. Secondo quanto affermato dal ministero dei Trasporti, il 98% del commercio israeliano con l’estero avviene via mare, in particolare attraverso i porti di Haifa, Ashdod ed Eilat. E, spiega sempre il Governo di Gerusalemme, «nell’ultimo decennio la quantità di merci che passa attraverso i porti israeliani è raddoppiata e si può presumere che questa tendenza continuerà con l’ulteriore espansione del commercio internazionale» (2).
Il fattore commerciale L’importanza della Marina israeliana si è così evoluta in base ai cambiamenti che hanno caratterizzato da un lato gli stessi interessi nazionali di Gerusalemme, che nel tempo si sono modificati aprendosi proprio al dominio marittimo, dall’altro lato gli avversari dello Stato ebraico. Per quanto riguarda il primo fattore, cioè quello degli interessi economici di Israele nel Mediterraneo, è possibile evidenziare in particolare due tipi di esigenze che nel tempo si sono rivelate sempre più centrali nelle logiche degli strateghi israeliani: quella commerciale e quella energetica. Dal punto di vista commerciale, Israele è uno Stato che dipende dall’import-export via mare. Gli Accordi di Abramo hanno avviato una fase di trasparenza e rasserenamento dei rapporti con molti paesi arabi, in particolare quelli del Golfo, e hanno evidenziato un nuovo approccio nelle relazioni tra Israele e alcuni dei principali attori regionali. Ma a livello di vicinato, i problemi di Gerusalemme sono quelli di non riuscire a costruire delle relazioni stabili con paesi attraverso cui dovrebbero passare le infrastrutture per soddisfare il proprio fabbisogno. E oltretutto, di dovere interloquire con economie che non rappresentano né mercati né potenze tali da alimentare in modo sensibile il commercio del paese. Queste due condizioni implicano che i governi della Stella di Davide si trovino necessariamente a dover fare i conti con paesi con cui hanno rapporti complessi, se non in parte conflittuali,
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Il gas del Levante A questa esigenza di carattere commerciale, che ha portato Israele a dover rendersi sempre più consapevole della sicurezza del traffico marittimo e dei porti, si è aggiunta poi di recente la scoperta dei giacimenti di gas nel bacino del Levante. La presenza di giacimenti quali Leviathan, Tamar, Tanin, Karish, Mari-B e Noa, oltre al conteso campo di Gaza Marine di fronte alle coste della Striscia di Gaza, ha modificato radicalmente l’approccio di Israele nei confronti del Mediterraneo, dal momento che ora il controllo di quell’area è un punto fondamentale dell’intera agenda strategica del paese. Importanza data innanzitutto dallo sfruttamento diretto delle risorse estratte allo scopo di soddisfare il proprio fabbisogno energetico, visto che, come scrive un’analisi di Ispi, «l’attuale riserva offshore di gas di Israele è stimata a circa 900 miliardi di metri cubi (bcm), in grado di rendere il paese autosufficiente dal punto di vista energetico per diversi decenni» (3). Ma in secondo luogo, il controllo di quei giacimenti e lo sviluppo delle capacità di estrazione è importante anche in ottica di vendita di quanto racchiuso nei fondali, non solo per motivazioni economiche, ma anche al fine di blindare l’asse con la vicina Europa, i clienti nordafricani e mediorientali e anche con quelli attraverso cui dovrebbe transitare l’oro blu estratto nel bacino del Levante. Basti pensare che proprio grazie alla scoperta del gas nei giacimenti dell’area marittima sotto il proprio controllo, Israele ha potuto siglare un accordo con
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l’Egitto per esportare gas naturale verso il paese nordafricano che ha rivoluzionato i rapporti politici ed economici della regione. Fino ad alcuni anni fa era Il Cairo a cedere il proprio gas naturale al vicino (4). E questo dimostra come la scoperta di questi nuovi giacimenti
shore per l’estrazione del gas. Un tema centrale per l’economia israeliana, tanto che non a caso negli ultimi anni la propaganda del partito-milizia libanese ha più volte fatto riferimento proprio ai giacimenti israeliani come possibili obiettivi di attacchi missilistici.
possa rovesciare anche delle logiche e delle gerarchie regionali che sembravano ormai cristallizzate. Dal momento che l’energia, soprattutto in questa fase storica, è una chiave essenziale per comprendere le logiche geopolitiche che alimentano le decisioni dei governi mondiali, dal tema dei rapporti con la Russia e la diversificazione delle fonti energetiche europee, fino alla transizione ecologica, va da sé che il controllo e la successiva messa in sicurezza delle aree estrattive — per altro così importanti — non può che essere considerata prioritaria per qualsiasi esecutivo dello Stato ebraico.
Avere un oggetto così prezioso e alla mercé degli attacchi implica per i decisori israeliani la necessità di difendere a ogni costo quelle piattaforme. L’arsenale missilistico di Hezbollah, unito alle capacità di guerriglia navale che possono applicare sia Hamas che la Jihad islamica, possono essere armi estremamente letali contro i sistemi di estrazione e trasporto del gas nelle acque israeliane. Pericoli cui si aggiungerebbero anche quelli derivanti dalle milizie dei Pasdaran iraniani, delle forze Quds, che sono presenti in particolare in territorio libanese insieme al «Partito di Dio» ma anche nella non lontana Siria. A queste minacce, si uniscono anche gli interessi che, proprio sul fronte gasiero, dividono (o hanno diviso) lo Stato ebraico dai vicini in cui vivono queste organizzazioni. Sul lato palestinese, la questione di Gaza Marine, il giacimento al largo della Striscia, rappresenta un punto interrogativo non secondario nei rapporti tra Israele e l’Autorità nazionale palestinese ma soprattutto sul futuro delle relazioni tra gli sponsor dei Territori palestinesi e della pacificazione con Gaza. Mentre per quanto riguarda la disputa sul gas al confine delle acque territoriali libanesi e israeliane, il recente processo di negoziati per risolvere la controversia tra Beirut e Gerusalemme (pare col placet di Hezbollah) implica che nel Partito di Dio il tema dello sfrutta-
Le minacce più prossime al territorio israeliano La tutela degli interessi strategici israeliani nel Mediterraneo si unisce, inevitabilmente, ai problemi legati ai nemici dello Stato ebraico e all’evoluzione che essi hanno avuto anche nel contesto marittimo. Un primo livello di minacce è rappresentato da quelle che sono le entità nemiche più prossime al territorio israeliano, e cioè le milizie e le organizzazioni terroristiche che circondano il paese. Hamas, la Jihad islamica e Hezbollah, in modo diverso e con differenti approcci, hanno dimostrato di poter minacciare lo Stato di Israele non solo dai tradizionali bastioni in Libano e nei territori palestinesi, ma anche dal mare verso il territorio nazionale e dalle coste verso le postazioni off-
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mento del gas nel mare non è sconosciuto. E quindi la sicurezza del Mediterraneo orientale può diventare una leva negoziale di non poco conto. Proprio per questi motivi, Israele ha iniziato da diverso tempo a riflettere su uno strumento di prote-
dubbio ritagliato la Repubblica islamica dell’Iran. Ed è anche per i pericoli connessi alle attività navali iraniane che la Heil HaYam HaYisraeli si è dovuta dotare di una nuova dottrina strategica capace di tutelare i propri asset marittimi. Nel corso degli ultimi anni, la Ma-
Il giacimento di gas a largo della costa di Gaza, noto come Gaza Marine (infopal.it).
zione della fascia costiera e dei giacimenti offshore del Mediterraneo. Questa pianificazione si è tradotta nel sistema di difesa aerea C-Dome, una versione navale del noto Iron Dome utilizzato per contrastare gli attacchi missilistici sul territorio israeliano. Il sistema C-Dome, testato a febbraio del 2022 (5), è progettato per essere installato sulle corvette di ultima generazione classe «Sa’ar 6». Temi che, come vedremo più avanti, possono dimostrare il mutamento radicale dell’approccio di Israele con il Mediterraneo anche a livello dottrinale.
Il duello con l’Iran Nella lettura delle entità che rappresentano le maggiori minacce strategiche per Israele, è possibile procedere a un’analisi per cerchi concentrici. A un primo livello, come abbiamo già visto, è possibile individuare quelle organizzazioni che si trovano al ridosso dei confini dello Stato ebraico e della sua Zona economica esclusiva. Ma allargando la visuale sugli altri avversari, distanti dalla linea della frontiera ma vicini in termini di rapporti di forza e di interessi, è possibile trovare diverse entità statali che possono mettere a serio rischio l’espansione degli interessi israeliani in mare. In questi anni, un ruolo di primo piano se lo è senza
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rina di Teheran, cui si deve aggiungere quella dei Guardiani della Rivoluzione, ha notevolmente ampliato la propria proiezione di forza, andando a estendere il raggio d’azione in un’area che va ben al di là del Golfo Persico (6). Il bacino che va dal Kuwait allo Stretto di Hormuz rimane inevitabilmente il cuore della dottrina navale iraniana; tuttavia, non va sottovalutato l’allargamento del raggio operativo che si è concretizzato in quella «guerra ombra» tra Gerusalemme e Teheran dal Mare Arabico fino al Mar Rosso allo stesso Mediterraneo orientale. Se la Marina della Repubblica iraniana è un elemento importante e che rappresenta inevitabilmente un fattore decisivo nella tutela degli asset marittimi degli Ayatollah, è però la forza navale dei Pasdaran a essere quella più oggetto di attenzione da parte di Israele, sia a livello navale che di intelligence. Lo dimostrano anche i colpi messi a segno di recente proprio in questo conflitto sotterraneo che si è acceso tra i due paesi. Nel tempo, la divisione dei compiti tra le due marine facenti capo a Teheran si è andata assottigliando. La commistione politica e strategica ha infatti superato le tipiche distinzioni geografiche che hanno codificato le rispettive modalità di azione. E se è possibile osservare delle differenze dottrinali notevoli, specialmente per chi è impegnato nel mare Arabico e nel Golfo di Oman e chi,
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invece, nello Stretto di Hormuz, non va dimenticato che sabotaggi e attacchi tra Israele e Iran hanno coinvolto aree dove prima non operavano le unità dei Guardiani della Rivoluzione (7).
La sfida turca Alla forza dell’Iran, si deve aggiungere poi la crescita di un altro paese dell’area del Mediterraneo orientale, la Turchia. Come attore esterno ma partner dell’Alleanza Atlantica, Israele non può considerare il paese anatolico formalmente un alleato né un nemico. E questo comporta l’osservazione dell’aumento delle attività in mare di Ankara come di un fattore di rischio, se non di minaccia per i propri asset strategici marittimi. In questo senso, è opportuno ricordare come la Turchia, a livello marittimo, giochi su un triplice binario. Di base c’è la volontà di Ankara di ergersi a potenza regionale e marittima riconosciuta dal consesso regionale e internazionale. Una svolta rispetto alla tradizionale concezione «terragna» dell’agenda militare turca che si è estrinsecata nella dottrina nota come «Mavi Vatan». Collegata a questa rivoluzione marittima, si osserva una volontà di estendere sia le alleanze con i paesi un tempo parte dell’orbita ottomana (ma non solo) sia la costruzione di una serie di scudi protettivi per gli interessi nazionali in diverse aree del Mediterraneo, sia centrale che orientale. E questi due elementi, si uniscono a una sempre più evidente attenzione verso le ricchezze dei fondali del Mare Nostrum così come ai percorsi degli attuali e dei futuri gasdotti. Queste diverse esigenze marittime turche hanno rappresentato le premesse per un notevole investimento sulla flotta e in generale sugli assetti militari, soprattutto attraverso l’industria nazionale. E questa proiezione navale di Ankara interessa Israele per due motivi. Innanzitutto, perché pur rappresentando un partner — complicato —, la Turchia ha giocato spesso sulla sponda dei movimenti islamisti, in particolare nella più recente fase di Recep Tayyip Erdogan al potere. La prossimità con Hamas, per esempio, evidenzia un equilibrismo tipico della politica estera turca che comporta per lo Stato ebraico la necessità di considerare l’ascesa di Ankara come quella di un paese non affine ai propri obiettivi. Inoltre, per Israele rimangono il nodo dello
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sfruttamento del gas del Levante e il parallelo passaggio dei gasdotti sui fondali contesi tra Turchia, Cipro e Grecia. L’avversione turca nei confronti del progetto East-Med, idea di gasdotto che ha visto un recente interesse ondivago da parte degli Stati Uniti, ha mostrato quanto Erdogan sia consapevole dell’importanza di questo asset strategico. E ha confermato come per gli interessi nazionali israeliani la svolta navale turca, se non incanalata, possa essere un rischio. Negli ultimi tempi vi sono state delle aperture dell’amministrazione anatolica nei confronti dello Stato di Israele — non ultima la visita del presidente Herzog in Turchia — e anche degli apparati strategici; aperture che dimostrano il desiderio di ricomporre la vecchia sinergia tra i due Stati tuttavia, i campanelli d’allarme hanno indotto il Governo israeliano a considerare una complessiva instabilità del Mediterraneo orientale anche per l’ascesa dell’antica potenza ottomana.
Il «problema» egiziano Sebbene l’Egitto sia considerato ormai a tutti gli effetti un partner di Israele, non deve essere sottovalutato, come nel caso della Turchia, il nodo insito nel riarmo del Cairo. Un fenomeno che deve essere letto alla luce di tutto il processo che si è innescato nel Mediterraneo orientale. La Marina egiziana, grazie a una serie di contratti con diversi fornitori internazionali, ha avviato da tempo un repentino processo di modernizzazione della propria flotta, rafforzando componenti navali che sembrano anche in parte estranee agli obiettivi pubblicizzati dal Governo nordafricano: cioè quelli della difesa delle risorse energetiche e della lotta al terrorismo. Diversi analisti israeliani hanno precisato che questo riarmo della flotta del Cairo non indicherebbe un rischio diretto per lo Stato ebraico (8). Alcuni però evidenziano che una parte dell’opinione pubblica dei due paesi potrebbe avere dei problemi a considerare il rispettivo e tradizionale rivale regionale come un partner, mettendo in luce quindi i rischi che la crescita delle forze in campo possa provocare delle nuove tensioni politiche. Dall’altro lato, il problema dell’Egitto è legato in particolare
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all’attenzione sui pericoli di un dinamismo del paese nordafricano in un’area che per Israele è di vitale importanza, coinvolgendo in particolare il Mediterraneo, Suez e il Mar Rosso. Un Egitto che punta a essere una potenza del Mediterraneo allargato potrebbe innescare indirettamente delle minacce anche alla sicurezza israeliana, che deve necessariamente considerare come un problema qualsiasi tipo di escalation che possa coinvolgere l’area di riferimento per i traffici marittimi dello Stato ebraico e per le sue risorse energetiche. Il prossimo completamento di diversi programmi navali, sia per la componente di superficie che subacquea, unito alla costruzione di un nuovo porto militare al confine con la Libia e alle crescenti tensioni con i vicini della dorsale africana del Mar Rosso, potrebbero essere segnali di una possibile, per quanto non affatto certa, instabilità che coinvolgerebbe l’Egitto. Questione che, se per qualche esperto è già di suo pericolosa, lo sarebbe ancora di più nel caso in cui l’Egitto decidesse per una svolta da «forza trainante del mondo arabo» (9).
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La svolta dei «Dakar» e della classe «Sa’ar 6» La scelta di blindare gli interessi strategici in mare attraverso una crescita della forza navale si sostanzia, per Israele, attraverso due recenti sviluppi: il rafforzamento della componente sottomarina e la ricerca di una flotta di superficie sempre più adeguata alle nuove esigenze del paese. Per quanto riguarda la parte dei sottomarini, la storia più recente di questa fondamentale arma dell’arsenale israeliano si traduce negli accordi con il colosso tedesco ThyssenKrupp Marine Systems. A gennaio di quest’anno, infatti, in un modo anche abbastanza sorprendente per gli addetti ai lavori, il Governo di Naftali Bennett e l’azienda tedesca hanno concluso il contratto per la fornitura di tre nuovi battelli che fa seguito a una intesa giunta nel 2017 (10). Queste unità,
La nuova corvetta israeliana classe «Sa'ar 6» in navigazione a largo delle coste di Haifa (Reuters/Ilan Rosenberg).
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che compongono la nuova classe «Dakar», andranno a sostituire i più vecchi sottomarini — sempre tedeschi — di classe «Dolphin» e si uniranno a quelli prodotti in anni più recenti sempre da ThyssenKrupp e che costituiscono i «Dolphin-II». In base agli studi dei più importanti analisti del settore, basati in larga parte sulle informazioni filtrate da Israele e dalle grafiche pubblicate dalla TKMS, è possibile notare alcune importanti differenze rispetto ai Dolphin-II (11). Una in particolare risalta di più all’occhio, e cioè la dimensione della vela: elemento che secondo molti esperti potrebbe essere la conferma che questi sottomarini trasporteranno missili balistici, per alcuni probabilmente armati con testate nucleari. Tuttavia, spiega a tal proposito l’analista H.I. Sutton, sulle dimensioni di questa vela «interpretazioni alternative includono una qualche forma di hangar per minisottomarini e veicoli subacquei senza equipaggio. Oppure missili più piccoli o velivoli senza equipaggio». Ipotesi che però lo stesso esperto ritiene meno probabili rispetto a quella dei missili balistici (12). Alla svolta della classe «Dakar» si deve aggiungere poi quella precedente, e per certi versi anche più importante, delle nuove corvette classe «Sa’ar 6». Il programma ha una storia lunga, le cui radici affondano
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probabilmente già nei primi anni duemila. Ma come abbiamo visto in precedenza, è stata soprattutto la svolta delle scoperte dei giacimenti del Levante l’evoluzione delle flotte mediterranee a imporre l’accelerazione ai governi israeliani. E si può supporre, in base ai tempi di consegna delle navi, che il programma sarà completato nel 2024. Secondo uno studio del Begin-Sadat Center for Strategic Studies, le nuove navi classe «Sa’ar 6» sarebbero non solo un elemento-chiave della modernizzazione della flotta, ma un vero e proprio simbolo della più recente e innovativa dottrina strategica di Israele (13). «Con la nuova strategia», spiega Yaakov Lappin nella sua analisi, «la Marina svolgerà un ruolo significativamente maggiore nel rilevare e ingaggiare rapidamente obiettivi nemici a terra. Il progetto Magen rappresenta quindi un balzo in avanti nelle capacità di difesa navale di Israele e un concetto di strategia navale evoluto progettato per il panorama delle minacce del 21esimo secolo». L’idea di base, infatti, è che l’arrivo delle nuove corvette rappresenterebbe in modo concreto l’avvento di una nuova strategia basata sul concetto di «Brown Water»: non più quindi una Marina che ha come dottrina strategica il colpire in mare aperto, nave contro nave, ma incentrata in larga parte su operazioni mare-
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Rendering del sottomarino classe «Dakar» (ThyssenKrupp Marine Systems).
terra, quindi per difendersi e colpire le minacce provenienti dalla terraferma basandosi sulla totale interconnessione dei sistemi navali con quelli aerei. A tal proposito, sono le armi e i sistemi a bordo delle classe «Sa’ar 6» a definire in modo più pratico questa idea. Le unità di fabbricazione tedesca sono infatti armate, oltre che con alcuni elementi internazionali, soprattutto con alcuni sistemi dell’industria bellica dello Stato ebraico, in particolare il C-Dome, appunto la «Cupola di ferro navale», il sistema missilistico Barak 8, e i missili anti-nave Gabriel V. A questi sistemi autoctoni si deve aggiungere la presenza dei più moderni sistemi per la guerra elettronica che consentono non
solo lo scambio di dati con le altre Forze delle IDF ma anche una quasi completa capacità stealth. Lo scopo non è solo quello di armare una nave in modo da renderla il più possibile letale, ma creare le premesse per unità di superficie che siano in grado di operare in modo perfettamente integrato con le Forze aeree e terrestri, diventando non più solo imbarcazioni, ma vere e proprie piattaforme capaci di colpire obiettivi terrestri come elementi di un corpo unico quale appunto le IDF. Obiettivi che, viste le sfide che circondano Israele e soprattutto le sue risorse nel Mediterraneo, sono a questo punto considerati le minacce prioritarie per l’agenda strategica della Stella di Davide. 8
NOTE (1) www.analisidifesa.it/2021/11/saar-6-e-reshef-levoluzione-della-flotta-di-superficie-della-marina-israeliana. (2) www.gov.il/en/departments/topics/large-vessels/govil-landing-page. (3) www.ispionline.it/it/pubblicazione/israele-la-nuova-politica-estera-parte-dal-gas-29356. (4) https://www.bloomberg.com/news/articles/2022-02-15/israel-to-boost-gas-supply-to-egypt-by-up-to-50-this-month. (5) https://www.defensenews.com/training-sim/2022/02/22/israel-successfully-tests-naval-version-of-iron-dome. (6) Come spiega un’analisi del centro studi Iari, in base agli studi dell’ammiraglio Ramoino è possibile ritenere che «l’attuale modus operandi della Marina iraniana è riconducibile alla strategia teorizzata dall’ammiraglio francese Théophile Aube (1826-1890), denominata «Strategia del trinomio». Essa era incentrata su: 1) difesa costiera, assicurata dal naviglio e dalle fortificazioni; 2) guerra di corsa, demandata agli incrociatori; 3) impiego delle corazzate». Non potendo l’Iran attuare, almeno nell’immediato, «forme credibili di sea-control, attua una strategia di sea-denial», tuttavia la graduale uscita dal «guscio» del Golfo Persico vista nella guerra in Siria, così come in operazioni scenografiche che hanno coinvolto il Mar Rosso, o addirittura il Venezuela e la Russia, individua nei comandi di Teheran un’evoluzione nella concezione del mare. Cosa che comporta anche una inevitabile rimodulazione dell’impegno israeliano nel Mediterraneo. (7) www.haaretz.com/israel-news/israeli-owned-ship-attacked-off-oman-u-k-defense-ministry-says-1.10056957. (8) www.defensenews.com/global/mideast-africa/2018/01/10/make-egypt-great-again-israeli-experts-question-neighbors-military-buildup. (9) www.defensenews.com/global/mideast-africa/2018/01/10/make-egypt-great-again-israeli-experts-question-neighbors-military-buildup. (10) www.agi.it/estero/news/2022-01-20/israele-sottomarini-tedeschi-chiusa-intesa-costo-doppio-15302104. (11) https://www.ilgiornale.it/news/mondo/israele-sottomarini-classe-dakar-produzione-2021-1661660.html (12) www.hisutton.com/Israel-Dakar-Class-Submarine.html. (13) https://besacenter.org/saar-6-israel-naval-doctrine.
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PRIMO PIANO
L’impatto degli Accordi di Abramo sul Nord Africa, analisi e prospettive Intervista a Michela Mercuri, esperta di Medio Oriente Roberto Sciarrone
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el 1949 Fernand Braudel pubblica il saggio Il Mediterraneo. L’opera ha rappresentato un momento di rottura nella storiografia dell’epoca, Braudel è stato il principale rappresentante della cosiddetta seconda generazione dell’École des Annales, fondata da Lucien Febvre e Marc Bloch alla fine degli anni Venti a partire dalla rivista Annales d’histoire économique et sociale, una rivista dalla quale nascerà un modo nuovo di studiare la storia, senza dubbio il più rivoluzionario di tutto il Novecento. Secondo l’École des Annales la storia deve «aprirsi» alle altre discipline,
lo storico può finalmente iniziare a occuparsi anche di fatti che lo coinvolgono in prima persona, il racconto storiografico passa dunque dallo studio degli «eventi» a quello delle ricorrenze, delle connessioni, guardando al passato come a un «flusso». L’opera di Braudel dedicata al Mediterraneo costituisce quindi un’eccezionale sintesi di questo nuovo approccio storiografico. Alla domanda Che cosa è il Mediterraneo? Braudel rispondeva così: «Mille cose insieme. Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un mare, ma un susseguirsi di mari. Non una civiltà, ma una serie di
È nato a Messina nel 1981. Già ricercatore in Storia dell’Europa orientale presso il Dipartimento di Storia Culture Religioni di Sapienza Università di Roma, ha conseguito il Dottorato di ricerca in Storia d’Europa nel 2013. Si occupa di politica estera italiana dall’Unità alla Seconda guerra mondiale e ha pubblicato monografie e saggi su riviste scientifiche nazionali e internazionali. È iscritto all’Albo dell’Ordine dei Giornalisti del Lazio (2016). Collabora con Rivista Militare, Geopolitica.info, America Oggi, The Post Internazionale, Formiche.
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civiltà accatastate le une sulle altre, insomma, un crocevia antichissimo. Da millenni tutto vi confluisce, complicandone e arricchendone la storia: bestie da soma, vetture, merci, navi, idee, religioni, modi di vivere». Mi piace quindi partire dalla definizione che Braudel da del Mediterraneo per introdurre l’intervista a Michela Mercuri, esperta di Medio Oriente, sull’impatto che gli Accordi di Abramo hanno avuto sull’area del Nord Africa. Considerando quindi la «lunga durata» dei fenomeni, la loro estensione geografica, nonché l’aspetto di reciprocità che mostra il perenne e reciproco influenzarsi di ciascun sistema il «Mediterraneo allargato» — definizione data oggi dell’area — occupa la regione ricompresa tra la linea GibilterraGolfo di Aden, il Medio Oriente e la sponda nord del Mediterraneo. Lo stesso, con il raddoppio del canale di Suez è divenuto un medio-oceano, arteria di collega-
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mento tra Indo-Pacifico e Atlantico dalla quale viaggia un terzo del commercio marittimo mondiale. L’accresciuta interdipendenza tra i paesi di questa macro-regione fa sì che una crisi in uno di essi si ripercuota inevitabilmente sulla sicurezza e la crescita degli altri. La penisola italiana come sappiamo, al centro del Mediterraneo, è la più esposta tra i paesi europei. L’impatto degli Accordi di Abramo sulla regione del Nord Africa: il Marocco, unico paese nordafricano firmatario degli accordi. A un anno e mezzo dalla loro firma, quale valutazione possiamo tracciare in merito alla cooperazione People-to-People in riferimento al rapporto tra Israele e Marocco? Quali i settori e le iniziative più importanti lanciate? E poi Algeria e Libia, dossier «caldi», che ruolo gioca Israele nel conflitto libico? Ne ho parlato con Michela Mercuri, docente ed esperta di geopolitica del Medio Oriente.
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L’impatto degli Accordi di Abramo sul Nord Africa, analisi e prospettive - Intervista a Michela Mercuri, esperta di Medio Oriente
L’impatto degli Accordi di Abramo sulla regione del Nord Africa. Partiamo da una domanda sul Marocco, unico paese nordafricano firmatario degli Accordi di Abramo. Quali sono le ragioni che secondo lei hanno spinto Rabat a entrare negli accordi? Le motivazioni sono molte. La prima è forse una delle più discusse ed evidenti, gli Stati Uniti di Trump hanno garantito al Marocco la sovranità sul Sahara occidentale, un territorio da sempre con il Fronte Polisario, organizzazione militante che ha avuto il supporto anche dell’Iran. Questa sicuramente è una chiave di lettura importante per interpretare l’adesione del Marocco a questi accordi, ma anche dell’opposizione dell’Algeria. Non possiamo però pensarla soltanto in questi termini, cioè in termini strumentali, secondo me è importante anche il fatto che Israele abbia puntato sul Marocco perché ci sono stati dei rapporti storicamente molto stretti tra le due comunità — l’apertura dei voli diretti ce lo dimostra — ma non soltanto per questo. Il Marocco è un paese che permette a Israele di avere un punto d’appoggio importante, il Nord Africa, cosa che in realtà è molto utile non soltanto per una proiezione geopolitica su un «mare nuovo» se vogliamo, un tratto di mare Mediterraneo per Israele, anche se storicamente ha avuto già diversi rapporti con i paesi nordafricani. Il Marocco è un paese che è una sorta di «collante» tra l’Africa e l’Europa e quindi può garantire da questo punto di vista a Israele una importante proiezione geostrategica. Questi sicuramente sono motivi importanti così come per il Marocco lo è la questione del Sahara Occidentale, nonostante la regione sia abbastanza desertica lì ci sono tante materie prime importanti come i fosfati, come il ferro, possibili giacimenti petroliferi quindi diverse prospettive di sviluppo economico, oltre agli investimenti che già conosciamo come quello degli Stati Uniti — circa 5miliardi di dollari — per sviluppare infrastrutture, energie rinnovabili, portualità. Tutto questo è molto importante anche per l’Italia. Leggendo il testo degli Accordi, a fianco al piano strettamente politico-strategico, nelle intenzioni dei paesi firmatari sembra esserci il tentativo di dare grande importanza alla cooperazione Peopele-to-People, ovvero tra rispettive comunità nazionali. A un anno e mezzo dalla loro firma, quale valutazione pos32
siamo tracciare su questa dimensione, in riferimento al rapporto tra Israele e Marocco? Quali sono i settori e le iniziative più importanti che sono state lanciate? Indubbiamente l’apertura delle sedi diplomatiche è stata simbolicamente uno degli aspetti fondamentali, questo ha portato anche a scambi culturali, a numerosi incontri e quando ci si incontra — come nella vita — si sa è molto più facile «sciogliere» i nodi della politica. Ci sono in questo momento circa venti accordi commerciali tra i due paesi, l’interscambio tra Israele e Marocco nel 2021 è aumentato de 50%, poi non dobbiamo dimenticare gli accordi militari che sono comunque importanti. Basti pensare che il 30 giugno scorso un C-130 marocchino è atterrato in Israele per fare delle esercitazioni militari congiunte. Poi ci sono stati i famosi accordi del 24 novembre scorso, primo accordo militare tra lo Stato di Israele e un paese arabo, scambio di informazioni, di intelligence, di sicurezza. Questo è molto importante perché Israele ha una grande esperienza. Il Marocco, così come i vicini regionali, è stato scosso dalle «primavere arabe» che hanno reso i confini di queste aree molto porosi, fomentando anche un pò i movimenti terroristici, quindi sicuramente anche sistemi di controllo e scambio di informazioni possono essere molto utili per ripristinare la stabilità nell’area. Anche il discorso culturale è poi importante, le due comunità hanno avuto in passato degli attriti, riavvicinarle da un punto di vista religioso e culturale potrebbe essere importante per loro, ma potrebbe essere anche un «apri pista» interessante per altri paesi del Mediterraneo. Allargando la prospettiva, da molti mesi ormai l’Algeria ha sospeso le relazioni diplomatiche con il vicino Marocco. Tra le ragioni di questa decisione sembra esserci anche l’ingresso di Rabat negli Accordi di Abramo? Come dobbiamo leggere questa situazione? Purtroppo questa situazione non può essere letta in maniera molto positiva. L’Algeria lo ha considerato un vero e proprio tradimento, d’altra parte Algeri sostiene il Fronte Polisario ormai da tantissimi anni, ha dato anche ospitalità al popolo sahraui. Questa contrapposizione può essere letta da tanti punti di vista. In primis da quello energetico poiché sappiamo che l’Algeria ha «chiuso i rubinetti» al gasdotto Maghreb-Europa che Rivista Marittima Aprile 2022
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portava il gas da Algeri alla Spagna, passando appunto per il Marocco. La Spagna stessa ricava il 47% del fabbisogno di gas dall’Algeria quindi si possono immaginare quante e quali possono essere le frizioni. Frizioni che poi si riverberano da un punto di vista geopolitico, perché la Spagna e la Francia — in qualche modo — sono più vicine alle posizioni marocchine, mentre la Russia sembra voler fare affari con l’Algeria sia per quanto riguarda l’energia sia per la possibile vendita di armi. Ci sono stati poi attriti interni nell’ottobre scorso, per esempio dopo l’uccisione di tre camionisti algerini, il Governo di Algeri ha dato subito la colpa al Marocco senza colpo ferire e questo ha creato ulteriori tensioni tra i due paesi che potrebbe rappresentare un «neo» per gli Accordi di Abramo che però dovrà essere risolto. Il presidente Mattarella si è poi recato in Algeria per cercare di capire come risolvere la situazione che rimane ancora incandescente nell’area. Un altro dossier caldo è la Libia. Nelle ultime settimane abbiamo assistito a frequenti viaggi di esponenti delle diverse fazioni libiche in Israele. Prima si è parlato di Saddam Haftar, figlio di Khalifa Haftar, leader politico-militare della Cirenaica. Notizie non confermate, successivamente, hanno riferito di un incontro avvenuto ad Amman tra il capo del Mossad e il primo ministro libico Dbeibah. Che ruolo gioca Israele nel conflitto libico? E come mai le diverse fazioni libiche, tra loro in conflitto, si stanno rivolgendo in eguale misura allo Stato ebraico? Israele ha un ruolo fondamentale nella regione e lo sappiamo, il riconoscimento di Tel Aviv di una due fazioni in lotta per il potere in questo momento in Libia è il punto nodale di tutta la faccenda. In questo momento in Libia abbiamo due presidenti — da un lato c’è Abdul Hamid Mohammed Dbeibeh che non vuole dimettersi ed è il leader riconosciuto dall’ONU, dall’altro, di recente, è stato eletto Fathi Bashagha ex ministro dell’Interno libico — prima ancora però si stavano preparando le elezioni mai svolte del 24 dicembre 2021 e in quel momento Khalifa Haftar e Abdul Dbeibeh erano i due contendenti principali dell’est e dell’ovest. Quindi entrambi puntavano al supporto di Israele attraverso queste visite, riconoscimento e supporto di Israele che era molto importante e lo è in prospettiva futura per questi attori Rivista Marittima Aprile 2022
per vincere appunto le elezioni all’interno del paese. Israele ha poi una lunga storia di luci e ombre con la Libia, spesso ha accusato Gheddafi di finanziare alcuni movimenti terroristici palestinesi poi però le relazioni si sono ammorbidite dopo la sua morte e sono arrivati gli accordi con Haftar, accordi informali con l’Egitto, per evitare che le armi libiche passassero attraverso i territori egiziani verso lo Stato di Israele. Rapporti importanti quindi tra Libia e Israele che possono essere implementati in ottica futura, pensando a una stabilizzazione dell’area tutta ancora da conquistare. Infine, vorremmo da lei un ultimo commento sugli effetti che la nascita del framework di Abramo stanno avendo sull’equilibrio regionale da una prospettiva italiana ed europea. Dobbiamo aspettarci una stabilizzazione o meno del Nord Africa e degli effetti positivi o negativi su alcuni dossier cari all’Italia, come per esempio contrasto al terrorismo e all’immigrazione illegale? Dicevamo come Israele con il suo know how, dal punto di vista della sicurezza e da quello tecnologico, può essere di grande supporto anche per controllare le frontiere. Lo sta facendo, seppur in maniera meno formale rispetto al Marocco, con l’Egitto per controllare l’arrivo di armi e di jihadisti e potrebbe, quindi, essere molto d’aiuto per questi paesi. Il Marocco dopo le primavere arabe — così come la Tunisia e soprattutto la Libia — ha visto i suoi confini divenire molto più porosi rispetto alle infiltrazioni jihadiste ma anche rispetto alle organizzazioni criminali che lucrano sul traffico dei migranti. Quindi la collaborazione, anche da questo punto di vista, può migliorare i sistemi di controllo e fornire un argine alla criminalità organizzata che lucra sul traffico dei migranti che sono diretti anche verso l’Italia. In questo caso, è importante che ci sia non soltanto una collaborazione tra Israele e Marocco per sigillare le frontiere con i nuovi sistemi d’arma, i droni etc., ma anche che l’Unione europea, e non solo l’Italia, riscopra una sua dimensione unitaria per far fronte al tema migratorio — quello della rotta del Mediterraneo centrale — che è di estrema complessità. La rotta, parte dell’Africa, passa per il Sahara e arriva in Libia. Vi sono poi anche le partenze dall’Algeria da cui sono aumentati gli sbarchi diretti verso la Spagna. Un problema quindi che ha una complessità decisamente maggiore. 8 33
PRIMO PIANO
La dimensione marittima del Marocco: una potenza in divenire Giuseppe Dentice
Responsabile del Desk Medio Oriente e Nord Africa del CeSI - Centro Studi Internazionali. È cultore della materia in «Storia delle civiltà e delle culture politiche» e «International History: The Wider Mediterranean area» presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. I suoi campi di analisi si concentrano sulle relazioni internazionali in Medio Oriente e sulle politiche di esteri e sicurezza dei principali attori regionali, con particolare riferimento a Egitto, Israele e monarchie del Golfo. È commentatore sulle principali questioni mediorientali per i più importanti media italiani e stranieri.
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n un trend globale che vede una generale riscoperta della dimensione marittima, anche il Marocco ha mostrato un grande interesse nella promozione di una propria visione di «geopolitica del mare». Una concezione nuova nella storia del Regno, che si muove in continuità con gli sforzi promossi anche da altri Paesi rivieraschi mediterranei (si pensi a Turchia, Israele, Grecia, Egitto o Algeria). Una visione strategica che, quindi, punta a fornire nuove opportunità di sviluppo (industriale e commerciale) attraverso il mare, ma che allo stesso tempo mira a sfruttare pienamente tale dimensione per accrescere il proprio status e leverage regionale e internazionale tra Africa, Mediterraneo e Oceano Atlantico. Infatti grazie ai suoi quasi 3.500 chilometri di costa, il Marocco punta a ritagliarsi un ruolo conclamato di potenza marittima in grado di creare opportunità per la pesca, la logistica navale, il commercio e il trasporto marittimo. In questo scenario, Rabat lavora per svolgere nel lungo periodo un ruolo cruciale nelle dinamiche interne al Mediterraneo e di collettore di interessi e sviluppi che giungono fino al Golfo di Guinea. Sfruttando la sua naturale posizione geografica di cardine tra due mari e due continenti, Rabat punta, dunque, ad assumere una funzione strategica di cardine trans-regionale nelle interazioni marittime (commerciali e di sicurezza) nord-sud. Lo sguardo al mare, così come è emerso in maniera più o meno definita dal 2007 dopo l’inaugurazione del grande progetto di Tangeri-Med, ha rappresentato un cambio di prospettiva notevole, soprattutto considerando lo storico rapporto che il Marocco ha tenuto con la montagna (il Rif e l’Atlante) e l’entroterra (e quindi il deserto) per garantirsi profondità strategica e spazi di azione. Questa presa di coscienza ha spinto sostanzialmente un attore tradizionalmente tellurico a ricercare una nuova dimensione talassocratica al fine di ridefinire il suo rapporto con il mare e di rafforzare le sue ambizioni geopolitiche e strategiche proprio in virtù del mare. A differenza però di altri attori e competitor di area nordafricana che hanno in-
La fregata della Marina reale marocchina MOHAMMED VI (701) transita nell'Oceano Atlantico durante l'esercitazione «Lightning Handshake» (wikipedia.org).
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vestito molto nella dimensione militare (si vedano per esempio i casi di Algeria (1) ed Egitto (2)), il Marocco ha inteso, almeno allo stato attuale, capitalizzare gran parte delle sue risorse e dei suoi sforzi politici in uno spazio strategico civile. Una visione nella quale la pesca, il commercio via mare e la logistica e le infrastrutture portuali diventano dei tasselli strutturali per una coerente politica marittima. In questa visione, la posizione geo-strategica del paese a cavallo tra Mediterraneo e Atlantico, così come le profonde trasformazioni che hanno interessato la più ampia regione euro-africana hanno creato nuove opportunità e sfide politico-securitarie non procrastinabili per un attore in ascesa come il Marocco. Infatti, la crisi libica, le tensioni con la Spagna sulle éxclaves (3) di Peñón de Vélez de la Gomera, Ceuta e Melilla e le contestazioni confinarie e marittime su Gibilterra e Canarie, o l’irrisolta questione del Sahara occidentale con l’Algeria, sono elementi di apprensione emersi come paradigmi del caos contemporaneo che attraversa questo quadrante tra Mediterraneo occidentale e Oceano Atlantico. Questa convergenza di situazioni ha sì decretato una maggiore conflittualità tra i principali player di area, ma ha anche definito una nuova corsa al mare nella quale anche il Marocco ha rivendicato ruoli e ambizioni. Gli eventi succitati e le nuove recenti tensioni con l’Algeria sul Sahara occidentale hanno sottolineato ancora una volta quanto il Regno nordafricano sia esposto all’instabilità nel suo estero vicino terrestre (il Maghreb e l’Africa Occidentale) e marittimo (Mediterraneo occidentale e Oceano Atlantico centrale). Proprio in
virtù della sua posizione geografica, delle implicazioni (dirette e non) alla sua stabilità e delle rinnovate proiezioni politiche tra Mediterraneo, Atlantico e Africa occidentale, il paese ha pianificato, anche attraverso un crescente coinvolgimento nella marittimità, un rafforzamento di strategie e piani nazionali volti ad aumentare il peso marocchino di attore politico ed economico marittimo trans-continentale (4). Un successo che potrebbe essere garantito soprattutto dallo sfruttamento delle retrovie, in particolare dal suo affaccio sull’Atlantico centrale. Infatti i quasi 3000 km di costa oceanica potrebbero rappresentare, più che lo stesso Mediterraneo, un grande game changer nelle strategie di Rabat, in virtù della costruzione di nuove infrastrutture portuali, dell’istituzione di Zone Economiche Esclusive (ZEE) (5) e della definizione di politiche economiche ad hoc che potrebbero aprire altre opportunità di sviluppo, facendo del Marocco un hub intermodale (geograficamente in senso verticale e orizzontale) per l’integrazione e il commercio nella regione mediterraneo-africana. Una condizione che può essere ulteriormente sviluppata anche in virtù delle recenti evoluzioni relative alla questione sahrawi e al riconoscimento dei detti territori sotto sovranità marocchina (6). In questa prospettiva, gli orientamenti prevalenti del Regno puntano per lo più allo sviluppo di un’economia marittima e di infrastrutture portuali di collegamento, con investimenti importanti nella pesca e nella desalinizzazione dell’acqua di mare, facendo, in particolare, del progetto Dakhla-Atlantique, un cardine nella «strategia meridionale» del paese. Pensato per agire in connessione con Tangeri-Med e Nador West Med, il
Porto di Dakhla Atlantique (impresedelsud.it).
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porto in costruzione nel Sahara occidentale è stato concepito con la volontà di mettere in comunicazione le Americhe (soprattutto le aree del Centro e del Sud) con l’asse mediterraneo-africano. Oltre a garantire una riqualificazione territoriale e un’area di sviluppo economico in più settori (pesca, estrazione mineraria, energia, turismo e agricoltura), con gli investimenti a Dakhla, il Regno marocchino ha puntato a costruire un terzo hub con l’idea di farne un epicentro nei traffici transcontinentali e nei trasporti intermodali in Africa occidentale. Tutti elementi che potrebbero concorrere a favorire un cambio di scenario geo-strategico per il Marocco, anche in virtù del concomitante emergere di nuovi attori nell’area atlantica (Brasile, Sud Africa, Nigeria e persino Angola), di trend globali positivi (economie emergenti, produzione e commercio offshore di idrocarburi, riscoperta della dimensione marittima) e minacce transnazionali (fenomeni migratori, pirateria nel Golfo di Guinea, terrorismo islamista nel Sahel). Non a caso, grazie alla sua peculiare posizione geografica, a interventi e riforme mirate e con politiche lungimiranti nella logistica e nella portualistica, il Marocco si troverebbe non solo a intercettare queste tendenze chiave che interessano l’economia e la sicurezza globali, ma a fungere da collettore delle relazioni Nord-Sud e Sud-Sud del mondo, offrendo al contempo un’alternativa strategica alle rotte e ai traffici da e verso l’Europa passanti per Suez e il corridoio tra Mediterraneo orientale-Mar Rosso (7). Contestualmente alla dimensione navale civile, il Marocco ha investito anche molte risorse nell’ammodernamento e nel potenziamento della propria flotta militare in un contesto geopolitico di crescente competizione regionale, in virtù anche delle minacce costanti alla sicurezza in termini marittimi (e conseguentemente alle infrastrutture collegate a questa dimensione) che hanno assunto una nuova centralità strategica. Già dal 2014, il Marocco detiene una FREMM francese e negli anni ha portato avanti un piano di diversificazione dei suoi acquisti militari — data la sua dipendenza storica dagli Stati Uniti (il 91% dei suoi acquisti) e dalla Francia. Sempre in questo contesto, l’olandese Damen Group è riuscita a vincere la gara per la vendita di due motovedette per la sor-
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veglianza marittima e attualmente sta lavorando al rimodellamento delle infrastrutture nel porto di Casablanca. Al contempo, dopo aver congelato dalla spagnola Navantia l’ordine per un pattugliatore d’altura classe «Avante 1800», Rabat sarebbe in trattative con l’italiana Fincantieri per l’acquisto di due FREMM nella versione anti-sommergibile (8). La specificità di questi acquisti, però, sottolinea anche una necessità precisa da parte della Marine Royal marocchina di modernizzare la sua flotta militare e rafforzare le sue capacità di manovra. Come stabilito dal nuovo programma OMEGA, il Marocco ambisce a elevarsi ad attore navale anche nel settore della Difesa con chiari obiettivi da perseguire nell’affrontare le nuove sfide alla sicurezza nelle sue due frontiere marittime situate nel Mediterraneo (base navale di KsarSghir) e nell’Atlantico (base navale di Safi) (9). La strategia marocchina, come già anticipato in precedenza, in parte è stata dettata anche dalla corsa militare lanciata da tutti i paesi rivieraschi nel Mediterraneo e in particolare da Algeria e Egitto. Queste due sono realtà accomunate da un poderoso sviluppo della dimensione marittima militare negli ultimi anni. Infatti entrambi i paesi possono contare su delle marine militari tra le più equipaggiate e forti dell’intero Mediterraneo, a cui sono legati grandi investimenti, anche internazionali. Tuttavia, esiste una differenza sostanziale nello sviluppo di tale strategia da parte di Algeri e Il Cairo. Se per il primo dietro al rafforzamento di una marina militare vi è un chiaro disegno di deterrenza e proiezione regionale anche e soprattutto nei confronti del Marocco — principale competitor di area per i tanti dossier che vede entrambe i paesi coinvolti —, per l’Egitto gli investimenti nella cantieristica navale militare fungono invece da traino per un tentativo più articolato di sfruttare il dominio marittimo anche a livello civile. In questo senso, sono molto importanti ma differenti gli investimenti, per esempio, portati dal Governo di Algeri per rilanciare queste sue ambizioni. Non solo grazie all’acquisto di sottomarini e armamenti (per lo più dalla Russia, visto lo storico legame che lega i due paesi sin dalla Guerra Fredda e in chiave anti-coloniale — ben intendendo in ciò il rapporto avuto con l’Unione Sovietica), ma anche rilanciando esercitazioni
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navali congiunte (sempre con Mosca) e sviluppando intorno all’area di Orano una zona di sicurezza marittima in grado garantire le ambizioni algerine di attore militare nel Mediterraneo (10). Diversamente, per l’Egitto gli investimenti nell’economia del mare non guardano solo al campo militare, benché questi siano il principale contesto di destinazione delle risorse. L’idea di fondo egiziana è quella di sfruttare il dominio marittimo nel Mediterraneo Orientale e nel Mar Rosso per securitarizzare i propri interessi e renderli impermeabili alle minacce transnazionali legati a fattori asimmetrici (pirateria e terrorismo per lo più) e/o di attori regionali ambiziosi (tipo la Turchia). Ciononostante, Il Cairo, anche grazie agli investimenti veicolati dal Golfo (soprattutto dagli Emirati Arabi Uniti), ha puntato a strutturare una marina militare in grado di essere anche al servizio della dimensione civile e quindi di poter sfruttare tale raggio d’azione per proteggere e rilanciare le sue ambizioni geo-economiche nelle partite internazionali della messa in sicurezza delle rotte del commercio globale e delle forniture di energia lungo la direttrice Mediterraneo Orientale-Mar Rosso (11). In altre parole, l’Egitto si pone come una sorta di terza via tra il processo soprattutto civile intrapreso dal Marocco e quello puramente militare dell’Algeria, nel quale comunque Il Cairo scorge alcune affinità geografiche e strategiche nel modello di Rabat. Al di là del riarmo generalizzato dell’area (12), quel che però desta maggiore interesse della nuova marittimità del Regno è soprattutto la crescita esponenziale dei piani di sviluppo infrastrutturali legati alla portualità. Una politica decisamente nuova e strategicamente aggressiva in quanto è stata capace nell’arco di pochi anni di ridefinire i rapporti di forza fra gli scali dell’area trans-continentale euro-africana e del bacino mediterraneo. Una forza garantita dall’attrazione di investimenti e capitali esteri, tra cui quelli estremamente robusti forniti dalla Cina (11) che, grazie ai suoi importanti investimenti in tecnologia, logistica e commerci, ha contribuito a rimodellare forma e sostanza della politica marittima marocchina. Alla base delle considerazioni strategiche marocchine vi è appunto il concetto di una migliore connettività, ritenuto come il pilastro fondamentale per
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garantire sviluppo economico all’intero paese. In questo caso, infatti, i porti sarebbero solo la parte terminale di una strategia ad ampio spettro che mira a collegare da un punto di vista aereo, stradale e ferroviario l’intero Regno al suo interno e nella sua dimensione esterna africana, con il chiaro compito di migliorare l’ambiente imprenditoriale, ridurre i costi extra legati ai trasporti, così come diffondere benessere economico e coesione sociale a livello nazionale, anche verso quelle aree meno densamente abitate e più isolate come quelle meridionali. Egualmente tale discorso si sovrappone con la portualità e la logistica marittima, concepite e pensate come strumenti di governance e di politica economica adatti a migliorare la connettività via mare al fine di garantire al Marocco un’integrazione più funzionale con le catene di approvvigionamento regionali e globali. Ecco perché gli investimenti incessanti nei porti mirano non solo a definire un reale processo di industrializzazione a medio e lungo termine sul piano domestico, ma anche a permettere al paese di sfruttare pienamente il mare, le sue risorse e le potenzialità ancora inesplorate in termini di welfare. Al contempo, un sistema di infrastrutture moderne e funzionali può garantire una maggiore fruibilità di servizi, anche attraverso meccanismi di trasporto multimodali, dove la dimensione marittima è assolutamente cruciale nell’efficientamento del processo (12). Pertanto per comprendere appieno il valore aggiunto di questo cambio di prospettiva bisogna fare un passo indietro e tornare al 2005, con l’istituzione della legge «15-02», che ha previsto una riforma generale del sistema portuale in Marocco (13). Tale dispositivo è stato motivato da differenti cause riconducibili per lo più alla sostenibilità finanziaria, all’efficientamento economico, alla necessità di aggiornare e potenziare il quadro giuridico di riferimento, nonché nello stabilire un quadro normativo e politico trasparente e adatto per incoraggiare gli investimenti privati al fine di fornire all’operatore pubblico un set di elementi utili alla gestione dell’esercizio e al rafforzamento della competitività. Grazie alla «legge 15-02», vennero istituiti due nuovi enti: l’Agenzia Nazionale Portuale (ANP) e la Compagnia per la gestione portuale (SODEP). Il primo è
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Il porto marittimo del Marocco di Tangeri Med (wikipedia.org).
un ente di vigilanza dello Stato, con una sua personalità giuridica e autonomia finanziaria, mentre il secondo è l’operatore attivo in tutti i porti del Regno, tranne che nel porto di Tangeri-Med. Fin da subito, quindi, emerge una chiara volontà di rafforzare con strumenti idonei la portualità e gli investimenti a essa collegati, in quanto tale comparto è una componente strutturale e rilevante della strategia di Rabat. Come sottolineato da Hicham Bouchartat, Abdelali Hajbi e Hassan Abbar, il sistema portuale così pensato può condurre «to a better understanding and decisionmaking of the investment in order to provide different ports with the necessary tools to match operators’ requirements and changing conditions of shipping and packaging. This process is therefore organized in several steps from the genesis of projects to the post-assessment, passing by studies of the project accomplished by specialized committees at both local and central levels» (14). In altre parole, esiste una stretta correlazione tra investimento e processo decisionale che mira a modificare il ruolo dell’operatore e dei servizi che può offrire in questo settore in un’ottica di competitività e concorrenzialità, tanto interna che esterna al paese. Azioni e investimenti sono realizzati per soddisfare una domanda o un’esigenza espressa che mette in comunicazione l’entroterra marocchino con la costa, fornendo al contempo più porti di servizio. Rispondono a questa logica gli investimenti nel terzo terminal container del porto di Casablanca, il terminal polivalente di Jorf Lasfar, il nuovo porto di Safi, oltre ai mega-hub di Nador West Med, Dakhla-Atlantique e Tangeri-Med (15). Quest’ultimo, il fiore all’occhiello della strategia marittima marocchina, è costituito da tre porti (Tangeri-
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Med 1 e 2 e Tangeri-Med passeggeri) e collegato a 186 porti globali in 77 paesi. È il primo hub per navi portacontainer in Africa e per il trasbordo nel Mediterraneo, tanto da movimentare oltre 7 milioni di TEU nel 2021, in aumento del 24% rispetto al 2020 (16). Situato sulla direttrice marittima est-ovest, Tangeri-Med ha assunto nel giro di pochi anni una centralità assoluta grazie alla pianificazione introdotta dalle autorità centrali. A garantire questo successo ha contribuito anche il fattore fiscale. L’agenzia speciale Tangeri-Med (TMSA), che è stata creata come autorità portuale speciale, beneficia di numerose esenzioni in termini di imposta sul reddito, IVA, tasse di registrazione, imposta sulle imprese, con il chiaro intento di fare del porto un pilastro per lo sviluppo della regione settentrionale. Grazie a questa fiscalità vantaggiosa, nell’area sono stati richiamati investimenti esteri e numerose aziende di diversi comparti. Per esempio, la francese Renault ha aperto uno dei suoi principali stabilimenti al mondo; il colosso digitale cinese Huawei ha annunciato la sua volontà di costruire un centro logistico regionale nell’area di Tangeri-Med. Anche il gruppo Emirates Logistic Group, in collaborazione con Adidas, ha aperto nel distretto industriale del porto un centro logistico di 13.000 m2. A Tangeri sono presenti, tra gli altri, anche altri operatori dello shipping (Maersk, CMA-CGM, Hapag Lloyd), della logistica (DHL, CEVA Logistics, Nippon Express), dell’industria (Varroc, Hands Corporation, Siemens, Valeo, PSA, Magneti Marelli), così come del tessile (quali Decathlon e Ikea) (17). Da questa rapida panoramica, emerge chiaramente come le attività di implementazione legate alla portualità e all’hub di Tangeri-Med sono state soddisfatte in una visione olistica
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che ha combinato attività portuali e industriali con il dichiarato intento di sostenere un nuovo sviluppo sociale ed economico territoriale (creazione di posti di lavoro, crescita economica, trasferimento tecnologico, ecc.). Sulla scia di questo successo, le autorità marocchine hanno programmato altri investimenti nella portualità e nella marittimità affinché Tangeri-Med non sia una mera eccezione nella pianificazione nazionale. Rabat ha infatti approntato un piano portuale definito Strategia 2030 — ideata nel 2012 — per trasformare il paese in una realtà marittima consolidata di primo piano in Africa e nel Mediterraneo. Il settore portuale in Marocco è composto da 13 porti internazionali, 19 per la pesca e 7 per il turismo. De facto, il Regno possiede una trentina di infrastrutture portuali che vedono un traffico annuale combinato di 92,3 milioni di tonnellate di merci. La strategia portuale nazionale del Regno per il 2030 (18), guidata dall’ANP ha previsto investimenti per quasi 7,5 miliardi di dollari per espandere, potenziare e gestire lo sviluppo di tutti i porti localizzati lungo i 3.500 km di costa tra Atlantico e Mediterraneo. Gli investimenti del Marocco hanno raggiunto ogni parte della sua industria marittima, compresa la costruzione di navi, il dragaggio e l’integrazione dei porti con le operazioni quotidiane della città trainati anche dalla costituzione di una Zona Economica Esclusiva (ZEE) di oltre un milione di km2. Allo stesso tempo, gli aumenti previsti nei volumi commerciali richiederanno maggiori investimenti per meglio collegare sia le regioni economiche interne al paese, sia queste aree con i mercati internazionali al fine di definire un coerente potenziale di sviluppo dell’industria marittima marocchina. A spiegare bene questo processo vi sono due dati: il 95% degli scambi commerciali marocchini avviene via mare; benché l’economia nazionale sia percepita come essenzialmente agricola, le diverse attività legate al mare (dai trasporti alla pesca, passando per il turismo) contribuiscono quasi al 20% del PIL nazionale (19). Tra queste, la pesca resta un settore preponderante per il Marocco, che, secondo le statistiche del Dipartimento nazionale per la pesca, occupa il 17° posto tra i produttori ittici mondiali e il primo in Africa, pescando e raccogliendo un totale di circa 1,5 milioni di tonnellate di frutti di mare l’anno. L’industria ittica rappresenta circa il 2% del PIL nazionale e contribuisce a quasi al 10% delle esportazioni na-
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zionali e al 36% delle esportazioni agro-alimentari. È proprio per rafforzare queste cifre che il Governo ha varato nel 2009 il piano Halieutis (rinnovato nel 2020), con l’obiettivo di sviluppare l’intero settore entro il 2030, ammodernare gran parte dei 19 porti pescherecci (20) disseminati lungo i 3.500 km di costa e aumentare il numero delle unità di lavorazione e degli allevamenti, nonché dei posti di lavoro nel settore ittico (21). Se, quindi, la modernizzazione dei porti marocchini ha migliorato il settore logistico del paese attraverso una maggiore cooperazione con attori privati per aumentare l’efficienza nel lungo periodo della sua catena del valore, è altrettanto vero che le attività economiche legate al mare hanno partecipato a migliorare il tenore di vita della popolazione, dando nuovo impulso all’economia e contribuendo a riconfigurare la stessa proiezione esterna del Regno tra i due mari. Ciò significa che il Marocco punta a sfruttare le opportunità geostrategiche che gli si sono presentate per assumere un ruolo di leadership nel commercio e nella logistica marittima in Africa e nel Mediterraneo e a rafforzare la sua posizione nello scenario internazionale (22). Pertanto, il Marocco punta a configurarsi come una moderna potenza talassocratica, ove le ambizioni geopolitiche rispondono — o quanto meno mirano a collegarsi direttamente — con le necessità più propriamente geoeconomiche del Regno. Nel far ciò, Rabat ha messo in pratica una buona pianificazione di lungo periodo volta a soddisfare i principali obiettivi relativi alla competiti-
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La dimensione marittima del Marocco: una potenza in divenire
vità, alle risorse della catena logistica, alla sicurezza degli approvvigionamenti strategici, alle variabili economiche e all’adattamento ai cambiamenti (geopolitici) a livello regionale e internazionale. Questa maggiore presenza e ruolo navale nel Mediterraneo occidentale e nell’Atlantico centrale, però, deve essere sostenuta in maniera adeguata alle capacità e alle opportunità al fine di evitare un’overstretch che rischierebbe paradossalmente di indebolire e minare le posizioni guadagnate a livello globale. In questa nuova proposta di marittimità, dunque, il Regno tenta di presentare una visione industriale, economica e politica coerente in grado di garantire sostenibilità e adattabilità del sistema, in modo da divenire anche uno strumento per soft power strategico e di deterrenza. Nel far ciò sarà però molto importante portare in parallelo un piano di investimenti anche nella flotta militare, con il compito dichiarato di garantire sicurezza nei trasporti e nelle merci via mare, ma anche per mettere al riparo il paese da possibili nuove tensioni confinarie marittime con Stati rivieraschi o minacce asimmetriche transnazionali. Sebbene l’obiettivo di lungo periodo del Marocco non sia la competizione con i grandi player internazionali, è vero che attraverso una strategia oculata che combini il giusto potenziale marittimo con gli strumenti più idonei per perseguire determinati obiettivi, il Regno nordafricano può ambire a posizionarsi come un solido attore continentale nel trasporto marittimo e nella logistica portuale. 8
La nuova corvetta israeliana classe «Sa'ar 6» in navigazione a largo delle coste di Haifa (Reuters/Ilan Rosenberg).
NOTE (1) F. Troisi, Deterrenza e proiezione regionale: lo sviluppo della Marina nazionale algerina in un’ottica mediterranea, Brief Review, Centro Studi Internazionali (CeSI), 1 marzo 2021, www.cesi-italia.org/articoli/1277/deterrenza-e-proiezione-regionale-lo-sviluppo-della-marina-nazionale-algerina-in-unottica-mediterranea. (2) Dentice G., Matrouh: Egypt’s Linchpin in North Africa and the Mediterranean in E. Ardemagni, N.W. Torornto & G. Dentice (eds. by), The Egypt’s Military Under Sisi: Unravelling Factional Politics, Dossier, ISPI & Carnegie Middle East Center (CMRAS), December 6, 2020, www.ispionline.it/it/pubblicazione/egypts-militaryunder-al-sisi-unravelling-factional-politics-28501. (3) Per una riflessione più approfondita sulle rivendicazioni confinarie e le controversie legate alla sovranità territoriale si rimanda alla lettura del seguente articolo: Maritime boundaries between Spain and Morocco, International Institute for Law of the Sea Studies (IILSS), 19 May 2021, http://iilss.net/maritime-boundaries-between-spain-and-morocco. (4) J. Machrouh, Enjeux et perspectives géo-maritimes du Maroc, Policy Brief, 46/21, Policy Center for the New South, November 2021, www.policycenter.ma/sites/default/files/2022-01/PB_46-21_Machrouh.pdf. (5) L’approvazione in via parlamentare delle leggi «37-17» e «38-17» nel febbraio 2020, rispettivamente relative alla delimitazione, in via unilaterale, dei confini marittimi e all’istituzione di una Zona Economica Esclusiva (ZEE) di 200 miglia nautiche, ha creato forte tensioni tra Marocco, Fronte Polisario, Spagna e Portogallo. Per maggiori info: Rising tensions escalate after Morocco extends its territorial waters, MENA Associates, February 5, 2020, www.menas.co.uk/blog/rising-tensionsescalate-after-morocco-extends-its-territorial-waters. (6) Nel dicembre 2020, il Marocco ha normalizzato gradualmente le sue relazioni con Israele soltanto dopo che gli Stati Uniti hanno riconosciuto le rivendicazioni marocchine di sovranità territoriale verso il Sahara occidentale. L’intesa pur non direttamente collegata all’apparato degli Accordi di Abramo, rientra all’interno di questo meccanismo di normalizzazioni dei rapporti tra Israele e mondo arabo-musulmano allargato. (7) Per approfondire la posizione geopolitica e atlantica del Marocco, si veda: Y. Tobi, La maritimisation du monde et l’espace atlantique africain: quelle place pour le Maroc?, Policy Paper, 05/22, Policy Center for the New South, mars 2022, www.policycenter.ma/sites/default/files/2022-03/PP_05-22_Tobi.pdf. (8) A. Sanz, Morocco strengthens its military fleet and diversifies its military purchases in Europe, Atalayar, July 12, 2021, https://atalayar.com/en/content/moroccostrengthens-its-military-fleet-and-diversifies-its-military-purchases-europe. (9) M.J. el-Kanabi, Le Maroc diversifie sa flotte militaire et se tourne vers l’Italie, 2 FREMM en perspective, Hespress, 10 juillet 2021, https://fr.hespress.com/213898le-maroc-diversifie-sa-flotte-militaire-et-se-tourne-vers-litalie-2-fremm-en-perspective.html. (10) F. Troisi (2021), cit. (11) F. Troisi, L’Egitto e il potenziamento della Marina nazionale: la risposta del Cairo alle nuove sfide del Mediterraneo e del Mar Rosso, Brief Review, Centro Studi Internazionali (CeSI), 15 aprile 2021, http://www.cesi-italia.org/articoli/1319/legitto-e-il-potenziamento-della-marina-nazionale-la-risposta-del-cairo-alle-nuove-sfidedel-mediterraneo-e-del-mar-rosso. (12) Per maggiori approfondimenti si veda: V. Talbot e F. Borsari, La spesa militare nei paesi del Medio Oriente e Nord Africa, ISPI per Osservatorio di Politica Internazionale, Nota, 93, Aprile 2021, www.parlamento.it/application/xmanager/projects/parlamento/file/repository/affariinternazionali/osservatorio/note/PI0093Not.pdf. (13) Chiaramente nella prospettiva cinese, il rafforzamento della sua presenza negli scali portuali marocchini risponde alle esigenze della rotta atlantica della Belt and Road Initiative. (14) Morocco continues its transformation into a regional and international transport hub, Oxford Business Group, https://oxfordbusinessgroup.com/overview/meeting-point-kingdom-advances-its-agenda-becoming-regional-and-international-transit-hub. (15) Per maggiori approfondimenti, si veda il documento ufficiale: http://aut.gov.ma/pdf/Loi_n_15-02_relative1.pdf. (16) H. Bouchartat, A. Hajbi, H. Abbar (2011) Governance of the Maritime and Port Sector: Morocco as Example, Journal of US-China Public Administration, 8:7, 769. (17) A. Babounia, O. el-Imrani, K. Azougag (2016) Port reform in Morocco: which governance?, International Journal of Advance Research in Computer Science and Management Studies, 4:8, 191-202. (18) M Belli, A Tangeri-Med oltre 7 mln di teu nel 2021, Messaggero Marittimo, 13 gennaio 2022, www.messaggeromarittimo.it/a-tanger-med-oltre-7-mln-di-teu-nel-2021. (19) C. Ndongo, Tanger Med: les dessous d’un pari royal réussi, Jeune Afrique, 16 juin 2021, www.jeuneafrique.com/1188662/economie/port-de-tanger-med-lesdessous-dun-succes-africain. (20) www.equipement.gov.ma/ports/Strategie/Pages/Strategies-portuaires-et-maritimes.aspx. (21) Per ulteriori dati sull’economia marittima marocchina si veda il seguente sito: https://unctadstat.unctad.org/countryprofile/maritimeprofile/en-GB/504/index.html. (22) Secondo la classificazione dell’ANP, 10 porti sono destinati alla pesca regionale (Ras Kebdana, El Jedha, M’diq, Larache, Mehdia, El Jadida, Essaouira, Sidi Ifni, Tarfaya e Boujdour), mentre gli altri 9 sono su base locale (Cala Iris, Sidi Hssaaine, Chmaala, Fnideq, Ksar Sghir, Assilah, Salé, Souiria Lakdima e Imesouane). (23) www.cfcim.org/wp-content/uploads/2019/09/Peche2.pdf. (24) Y. Tobi (2022), cit., p. 12.
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PRIMO PIANO
L’Algeria tra sviluppo militare e politica estera equilibrata Il «nuovo modello» del paese nordafricano nel contesto mediterraneo
Mario Savina
D
opo l’Indipendenza, ottenuta nel 1962 a seguito di un complicato e sanguinoso conflitto con la Francia, l’Algeria ha basato il suo approccio di politica estera su una serie di principi che hanno caratterizzato il suo profilo internazionale per
lungo tempo. Ispirato alla lotta contro Parigi e il sistema coloniale, Algeri ha adottato la difesa della sovranità degli Stati e l’opposizione contro gli interventi militari di paesi terzi come mezzo diplomatico indirizzato al raggiungimento di una maggiore influenza geopolitica e
Analista ricercatore, si occupa di Nord Africa, Mediterraneo e flussi migratori. Dopo aver ottenuto la laurea triennale in Lingue straniere presso l’Università di Bologna e la laurea magistrale in Cooperazione internazionale e Sviluppo presso la Sapienza di Roma, ha conseguito un Master II in Geopolitica e Sicurezza Globale, sempre presso la Sapienza, e un Master II in Politiche e Management in Medio Oriente e Nord Africa presso la Luiss di Roma. Nel corso degli ultimi anni ha collaborato con diversi centri, come l’Istituto Affari Internazionali, il Centro Studi Roma 3000 e il Centro Studi Amistades. Attualmente, oltre a far parte del desk dell’area Mena del Centro Studi Geopolitica.info, è coordinatore dell’area Nord Africa dell’Osservatorio sul Mediterraneo dell’Istituto di studi politici «S.Pio V». Inoltre, è analista dell’Associazione Italiani Rimpatriati dalla Libia (Airl Onlus) e redattore della rivista Italiani di Libia.
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Portaelicotteri KALAAT BÉNI ABBÈS 474 classe «San Giorgio» della Marina algerina (di Messaoud Mesbouk by fr.wikipedia.org).
geostrategica, in particolar modo nel continente africano. Il difficile evolversi degli eventi nell’area mediterranea, in generale, e nel contesto domestico, in particolare, hanno sollecitato un cambio di rotta nella visione sia a livello regionale che internazionale. Dopo un decennio di terrorismo in casa e venti anni di presidenza Bouteflika è parso necessario per la «nuova» Algeria del presidente Abdelmadjid Tebboune tentare di abbandonare quella retorica idealista — difficilmente praticabile — per un’agenda dal carattere molto più realista (1). Per troppo tempo gli sforzi diplomatici algerini si
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sono ridotti a una semplice cooperazione con i paesi vicini in una chiave indirizzata alla prevenzione del terrorismo. Anche nel bel mezzo dei disordini che hanno caratterizzato la regione nordafricana e subsahariana negli ultimi anni, Algeri ha sempre optato per una chiara politica di non intervento, come dimostrata sia dal caso libico che da quello maliano. Tuttavia, le chiare ambizioni di Tebboune (spinto dall’apparato militare) di aumentare il peso del paese all’interno della regione trovano riscontro nella volontà di un maggiore coinvolgimento delle sfere diplomatiche e militari (2). In tale direzione va la modifica della Costituzione, approvata con il referendum del novembre 2020, che ha modificato gli articoli 28 e 29 per consentire operazioni militari transfrontaliere (3). La preoccupazione di Algeri per i propri confini è evidente ed è diventata particolarmente accentuata con la ribellione dei Tuareg nel Mali qualche anno fa, con i diversi attacchi terroristici alle città algerine e, anche, con il conflitto civile libico alle porte che si protrae ormai da oltre un decennio. Oggi l’Algeria è consapevole della necessità di un impegno che vada oltre la mera azione diplomatica nei confronti dei conflitti regionali, con il fine di affermare il proprio ruolo e, al contempo, difendere il proprio territorio da eventuali azioni esterne. Nell’ambito della lotta al terrorismo regionale, mantenere un esercito forte all’interno dei propri confini era diventato alquanto inutile per Algeri, in particolar modo con l’aumento delle possibilità di attacchi connessa alla crescita geopolitica di alcuni gruppi terroristici, su tutti AQMI (Al-Qaeda nel Maghreb islamico) o Jund al-Khilafah (gruppo affiliato allo Stato Islamico). Quindi, da un punto di vista strategico, consentire ai militari algerini di partecipare alle operazioni di mantenimento della pace all’estero significa anticipare e attaccare tali gruppi in patria e nelle zone contigue (4). La scelta della modifica costituzionale è stata definita, da molti osservatori, come pragmatica. La regione è alquanto instabile, e l’Algeria è circondata da paesi, principalmente Mali, Niger e Mauritania considerati «stati fragili», oltre al confine libico che rimane una zona calda da tenere sempre sotto controllo. Nella nuova architettura regionale caratterizzata da una serie di minacce, l’Algeria cerca quindi di riposizionarsi mo43
L’Algeria tra sviluppo militare e politica estera equilibrata
dificando i suoi rigidi principi non interventisti. Ciò servirà da deterrente, scoraggiando potenzialmente attori, statali e non, dall’intraprendere azioni indesiderate o impegnarsi in aggressioni militari contro vicini diretti. Ancora più importante, consentirà ad Algeri di proiettare la propria potenza militare e assumere un ruolo guida in future azioni militari sovranazionali. In quest’ottica potrebbe essere vista la visita a Mosca, nel giugno del 2021, di Saïd Chengriha, capo di Stato Maggiore dell’esercito algerino, al fine di potenziare ulteriormente nell’area saheliana la già consolidata cooperazione militare russo-algerina. Il ritiro francese dal Sahel potrebbe suggerire una evidente opportunità per un maggiore impegno del paese maghrebino. Mentre le relazioni economiche si sono sviluppate in modo abbastanza discreto, la cooperazione militare è centrale nelle relazioni tra Mosca e Algeri. A oggi, il mercato mondiale delle armi rimane ancora dominato da Washington e Mosca, nonostante la svolta francese negli ultimi anni. L’Algeria è il sesto importatore al mondo con il 4,3% sul mercato globale (5). L’aumento delle importazioni algerine si spiega con un espresso desiderio di modernizzazione dell’esercito in un contesto regionale sempre più instabile e caratterizzato da forti tensioni. L’Algeria è un prezioso cliente dell’industria militare russa. Dopo l’India (25% delle esportazioni russe) e la Cina (16%), l’Algeria è il terzo cliente
più grande di Mosca (14%). L’Algeria, da sola, acquista circa la metà delle armi russe esportate nel continente africano. Con il 69% delle importazioni algerine, la Russia è di gran lunga il principale fornitore dell’Algeria. Inoltre, i due paesi condividono priorità e interessi comuni nel settore energetico e nel contesto geopolitico regionale. Tale partnership potrebbe giustificare la posizione assunta da Algeri durante le due sedute all’Assemblea generale delle Nazioni unite (UNGA) indette per votare contro l’invasione Russia dell’Ucraina (astensione) e a favore della sospensione della Russia dal Consiglio dei diritti umani (voto contrario). Proprio con la Russia, l’Algeria condivide la stessa flessibilità in un contesto geopolitico mediorientale alquanto delicato. Algeri segue l’esempio russo — ossia il rifiuto delle logiche e delle alleanze di blocco — e cerca di mantenere buone relazioni con quasi tutti gli attori: dagli Emirati Arabi Uniti alla Libia, dall’Arabia Saudita alla Turchia, per finire all’Iran. Tuttavia, laddove Mosca ritiene che una maggiore flessibilità in politica estera sia uno strumento di potere e un vettore di opportunità economiche, l’ex colonia francese la inquadra come un meccanismo di protezione utile al raggiungimento e alla protezione degli interessi vitali del paese. L’apertura dell’Algeria alla Cina è un chiaro segno del perseguimento di una propria strategia e di un bilanciamento nelle relazioni che il paese maghrebino ha
Ad Algeri compagnie cinesi stanno terminando il nuovo grande terminal dell’aeroporto internazionale, lo stadio e sono in via di realizzazione sei nuove raffinerie, strade e autostrade (ilsole24ore.com).
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L’Algeria tra sviluppo militare e politica estera equilibrata
instaurato con i vari poli di influenza a livello globale. Algeri e Pechino sono partner storici e il crescente sviluppo delle relazioni è legato in particolar modo al Piano quinquennale per la cooperazione strategia CinaAlgeria (2014) e al Memorandum of Understanding nell’ambito del progetto cinese Belt and Road Initiative (2018) (6). L’impegno di Pechino con Algeri, in linea con la politica intrapresa dal Dragone rosso nel continente africano, è multidimensionale e comprende la sfera politica, economica, diplomatica, energetica, militare e culturale. Tra il 2001 e il 2016, la Cina è passata dall’essere appena registrata nel commercio estero dell’Algeria a superare la Francia come prima fonte di importazioni dell’Algeria. La vera forza della Cina è da collegare al massiccio disavanzo della bilancia commerciale tra i due paesi. Mentre quella con Stati Uniti e Unione europea si è equilibrata nel corso degli ultimi anni, con la Cina la differenza tra import ed export è ancora alquanto evidente. Oggi, il gigante asiatico è di gran lunga il primo esportatore nel mercato algerino con il 17,6% raggiunto nel 2019: una crescita impressionante se comparata al 2000 dove si registrava un povero 2,2%. Le relazioni si sono particolarmente intensificate anche nel settore militare. Infatti, attualmente, il 13% delle importazioni militari algerine proviene dalla Terra di Mezzo. Negli ultimi anni, infatti, Algeri si è rivolta a Pechino per l’acquisto sia di equipaggiamenti terrestri che di piattaforme navali. Nonostante Russia e Cina siano diventati partner strategici, l’Unione europea (UE) rimane il principale partner commerciale dell’Algeria. L’insieme dei paesi membri europei rappresenta infatti circa il 67% delle sue esportazioni e oltre il 40% delle sue importazioni (dati 2019). Per Bruxelles, e per le altre capitali europee, Algeri rimane un partner affidabile, caratterizzato da una stabilità sicuramente maggiore rispetto ai vicini. Nonostante il malcontento popolare, che negli ultimi anni è sfociato nel movimento Hirak, Tebboune e l’establishment militare sono riusciti a presentare il paese come un attore su cui poter fare affidamento; ciò anche grazie allo scoppio della pandemia di Covid-19 che ha permesso al Governo di impedire manifestazioni di piazza. In tale contesto il ruolo dell’Armée Nationale Populaire (in arabo )يبعشلا ينطولا شيجلا, l’istituzione più or-
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ganizzata e influente del paese, è stato fondamentale nel mantenimento dello status quo. Negli ultimi anni, l’ANP si è concentrato sulla sua professionalizzazione e modernizzazione, nonché sulla cooperazione con partner strategici. Nel 2022, secondo Global FirePower (7), l’esercito algerino si classifica al 31° posto su 142 eserciti nel mondo. È il terzo esercito più potente in Africa dopo l’Egitto e il Sud Africa, con il personale militare che raggiunge la cifra di 465mila unità. L’apparato militare conta una forza aerea di circa 550 unità aeromobili; sul fronte terrestre sono circa 2.200 i carri armati in dotazione e quasi 6.500 i veicoli corazzati. Nel settore navale, l’Algeria ha in dotazione oltre 200 unità, di cui cinque fregate (alcune ancora in fase di consegna), sei corvette (alcune ancora in fase di consegna), sei sottomarini e 25 navi da pattuglia. Il Governo di Algeri ha aumentato il suo budget per la difesa fino a raggiungere quasi i 10 miliardi di dollari (cifra confermata anche nel 2022). La crescita della spesa militare in relazione al PIL è particolarmente evidente nell’ultimo decennio. Infatti, se nel 2010 l’Algeria spendeva circa il 3,5% del Pil in spesa militare, dal 2015 in poi — con eccezione degli anni 2017-18 — il paese maghrebino ha dedicato costantemente oltre il 6% del Pil al settore difesa (8). Con l’obiettivo di potenziare l’arsenale, il Governo ha firmato accordi multimiliardari per l’acquisto di attrezzature militari con Russia, Cina, Italia, Germania e Regno Unito. Il paese ha investito nello sviluppo della sua industria difensiva costruendo impianti di produzione per armi leggere e munizioni e si è impegnata in joint venture con società degli Emirati Arabi Uniti, della Germania e della Serbia. L’esercito ha anche investito in una formazione di qualità, nelle sue accademie militari, per l’uso di sofisticate attrezzature e tecniche antiterrorismo nelle sue numerose accademie militari, nonché all’estero con paesi membri della NATO, come Francia e Regno Unito. Tuttavia, la cooperazione, come già ricordato precedentemente, segue più direttive. Basta citare l’avvio delle prime esercitazioni congiunte tra Algeria e Russia nell’Ottobre del 2021 in Ossezia del Nord, presso la base militare di Tarsky, al fine di permettere a entrambe le forze di condividere conoscenza ed esperienza militare.
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Come nel caso degli altri rami militari algerini, anche la marina è stata costruita grazie al supporto e all’assistenza dell’ex Unione Sovietica durante il periodo della Guerra Fredda. Negli anni successivi la Russia è rimasta un partner importante, ma l’Algeria, come detto, ha cercato sempre più fonti aggiuntive per diversificare il suo approvvigionamento. La Marina nazionale algerina (in arabo )�ةيرئازجلا ةيرحبلا تاوقلا opera da più basi lungo i quasi 1.000 km (620 miglia) di costa del paese, svolgendo il suo ruolo principale di monitoraggio e difesa delle acque territoriali da tutte le intrusioni militari o economiche straniere. Altre missioni includono la guardia costiera e le missioni di sicurezza marittima, nonché una proiezione delle forze marine. Le forze algerine sono un attore importante nel Mediterraneo occidentale e sono la più grande forza navale africana in quella zona di mare. Il potenziamento della Marina va inserito nel quadro complessivo
e Marocco. Al contempo, il progressivo disimpegno degli Stati Uniti dal Mediterraneo ha fatto emergere, per la maggior parte dei paesi costieri, un necessario maggiore controllo del proprio spazio acquifero. In un importante discorso tenuto nell’agosto del 2020, il già citato capo di Stato Maggiore Saïd Chengriha ha evidenziato l’ambizione algerina di aumentare le capacità di combattimento della marina nazionale e ripristinare la sua passata reputazione. Dalle parole del militare algerino si è dedotto chiaramente che l’obiettivo non è solo quello di garantire la sicurezza e la difesa delle acque algerine, ma anche quello di riportare la marina al livello del suo «glorioso passato», quando controllava vaste aree del Mediterraneo. Questa strategia — aumentare la presenza nel Mediterraneo — è testimoniata anche dalla decisione algerina di delimitare una propria ZEE (Zona Economica Esclusiva) nel Mare Nostrum. L’iniziativa
La corvetta EL FATEH 921 classe «Adhafer-C28A»della Marina algerina (di Ataf Dahloumi by fr.wikipedia.org).
di modernizzazione dell’intero apparato militare del paese avviato nel primo decennio del nuovo millennio. Il salto in termini di capacità acquisite è avvenuto tra il 2015 e il 2017 con l’acquisto di tre corvette cinesi classe «Adhafer-C28A». A queste, negli stessi anni, si sono aggiunti svariati acquisti tra cui due navi multipurpose-combination Meko A-200, di produzione tedesca. La spiegazione di una maggiore attenzione dedicata al settore navale è da ricercarsi nell’urgente necessità di controbattere alla recente espansione navale di altri importanti player regionali, su tutti Egitto
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unilaterale — a seguito del decreto presidenziale del 2018 — è al centro di una disputa con l’Italia, dato che il disegno algerino va a sovrapporsi alla zona italiana a largo della Sardegna. Nonostante ciò, le relazioni tra Roma e Algeri sono rimaste stabili e produttive. Da una parte, l’Algeria è un partner essenziale in chiave energetica per l’Italia — in particolar modo dopo lo scoppio del conflitto russo-ucraino —; dall’altra, il paese europeo rimane un alleato importante per lo sviluppo militare algerino, in particolar modo per quanto riguarda la Marina.
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L’Algeria tra sviluppo militare e politica estera equilibrata
La direzione dello sviluppo algerino — e della sua politica — si riflette chiaramente anche nella storica disputa con il Marocco. Dietro questa lunga storia di relazioni poco amichevoli si nascondono conflitti di natura ideologica e di competizione per l’influenza regionale. A ciò va aggiunto anche il conflitto per la demarcazione territoriale che vede protagonisti il Marocco e il Fronte Polisario per il controllo sul Sahara Occidentale. In tale conflitto, Algeri ha sempre sostenuto il Frente Popular de Liberación de Saguía el Hamra y Río de Oro nella sua lotta per l’autodeterminazione. Negli ultimi anni alcuni eventi hanno contribuito a incendiare ancora di più la situazione. Il riconoscimento statunitense della sovranità marocchina sul Sahara occidentale ha inferto un duro colpo agli sforzi algerini e a quelli del Fronte Polisario. L’Algeria è anche estremamente diffidente nei confronti della crescente cooperazione israelo-marocchina (9). Algeri rimane un convinto sostenitore ideologico della causa palestinese ed è stata estremamente critica nei confronti della decisione di Rabat di normalizzare le relazioni con lo Stato ebraico. Ancora, la scelta del Parlamento marocchino a inizio 2020 di votare due leggi volte alla delimitazione della giurisdizione marocchina sul suo demanio marittimo e alla creazione di una zona economica speciale che si estende per 200 miglia nautiche al largo delle coste marocchine ha provocato l’indignazione di Spagna, Algeria e Fronte Polisario. L’escalation ha portato, nell’agosto del 2021, l’Algeria a interrompere le relazioni con il Marocco in risposta alle «azioni ostili» marocchine. Da novembre, Algeri ha interrotto anche la fornitura di gas naturale a Rabat attra-
verso il gasdotto MEG (Maghreb-Europe Gas) che collega il paese nordafricano alla Spagna (10). In conclusione, questioni come la crisi libica, la lotta per il potere nel Mediterraneo orientale, la crescente influenza della Cina in Africa, la graduale perdita di influenza della Francia in Africa, nonché l’instabilità e la lotta contro le organizzazioni armate nell’Africa Subsahariana hanno messo in discussione il ruolo dell’Algeria. La posizione geografica, le risorse naturali, la popolazione giovane e numerosa e il forte esercito aumentano il peso di Algeri in questo contesto. L’influsso della nuova dottrina militare sull’orientamento della politica estera è evidente in alcuni casi particolari, come nel mantenimento delle ostilità strategiche con il Marocco, nelle relazioni limitate con la Francia e nella spinta per un maggiore avvicinamento alla Russia come partner strategico. Il Governo è fin troppo desideroso di riconquistare un ruolo regionale e internazionale, ma ciò rimane complicato senza una seria legittimità popolare che a oggi sembra non esserci. L’Algeria nel breve-medio termine continuerà a fungere da partner di sicurezza valido e affidabile per la comunità internazionale, e per l’Europa in particolare. Il promettente mercato energetico potrebbe essere utile per aumentare il peso sulla scena mondiale, ma anche in tale quadro Algeri dovrà approfondire le sue potenzialità e capacità al fine di ottenere maggiori risultati in termini di sviluppo economico (11). L’Algeria rimarrà vulnerabile se non risolverà i suoi problemi interni. L’influenza regionale sarà sostenibile solo se sarà supportata da istituzioni vitali e stabili, un obiettivo che a oggi appare ancora non realizzabile. 8
NOTE (1) Dekhakhena A., «Why Is Algeria Considering Changing its Military Doctrine?», in Journal of Military and Strategic Studies, Vol 20, Issue 3, (2021). (2) Ghilés F. e Kharief A., «Updating Algeria’s Military Doctrine», in Middle East Institute, (2017). (3) La Costituzione modificata è consultabile su: www.constituteproject.org/constitution/Algeria_2020.pdf?lang=en. (4) Per maggiori dettagli consultare il Rapporto Algeria 2020 Crime & Safety redatto dall’OSAC: https://www.osac.gov/Country/Algeria/Content/Detail/Report/aceef5eaf045-453b-8fc9-18e3d2222273. (5) Si veda il rapporto annuale del SIPRI - Stockholm International Peace Research Institute. (6) Calabrese J., «The New Algeria and China», in Middle East Insititute. (7) Si veda: https://www.globalfirepower.com/country-military-strength-detail.php?country_id=algeria. (8) Si veda: https://www.statista.com/statistics/810312/ratio-of-military-expenditure-to-gross-domestic-product-gdp-algeria. (9) Le reazioni alla normalizzazione delle relazioni tra Marocco e Israele sono state contrastanti tra gli altri paesi nordafricani. L’Algeria non ha perso tempo a strumentalizzare gli Accordi di Abramo usando una retorica aggressiva e anti-israeliana per giustificare le sue controversie con il Marocco. Per un approfondimento si veda: Mezran K. & Pavia A., «Morocco and Israel are friendlier than ever thanks to the Abraham Accords. But what does this mean for the rest of North Africa?», in Atlantic Council, (2021). Consultabile su: https://www.atlanticcouncil.org/blogs/menasource/morocco-and-israel-are-friendlier-than-ever-thanks-to-the-abraham-accords-but-what-does-this-mean-for-the-rest-of-north-africa/. (10) Savina M., «Algeria-Marocco: il non-evento della rottura diplomatica», in Osservatorio sul Mediterraneo, (2021). Consultabile su: https://www.osmed.it/2021/10/27/ algeria-marocco-il-non-evento-della-rottura-diplomatica. (11) Savina M., «Il settore energetico in Algeria: criticità e prospettive future», in Osservatorio sul Mediterraneo, (2022). Consultabile su: https://www.osmed.it/ 2022/03/04/il-settore-energetico-in-algeria-criticita-e-prospettive-future/?_thumbnail_id=1918.
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La liquidità dei processi mediterranei Cenni su alcune dinamiche geoeconomiche sottese al controllo dei porti strategici mediterranei
Alessandro Mazzetti
Dinamiche a geometria variabile Poter pensare che le nazioni rivierasche del Mediterraneo al di fuori delle organizzazioni internazionali possano da sole tentare di esercitare una significativa sorta di proiezione politica, economica o militare è abbastanza improbabile e comunque non sarebbe alla lunga sostenibile. Dunque, sarà utile partire da alcune considerazioni generali che ci possano aiutare a realizzare una analisi abbastanza coerente con l’attuale situazione mediterranea che storicamente è sempre stata complessa e altrettanto in divenire. Per cui sarà bene iniziare prima da valutazioni e considerazioni geoeco-
nomiche secondo le quali il mondo geopolitico oramai si muove quasi integralmente lungo le rotte commerciali, noli marittimi e le realizzazioni di strutture logistiche fortemente integrate. Quindi, per quanto possa sembrare paradossale, oggigiorno per esercitare una vera ed efficace pressione e penetrazione politica ed economica non basterebbe più la considerazione fatta dal professor Chabot secondo la quale «era facile fare la politica estera nell’ottocento con l’esercito guglielmino alle spalle o la Royal Navy» (1). Verrebbe allora da chiedersi che cosa sia cambiato dall’Ottocento a oggi. In realtà, più che un cambiamento, occorrerebbe
Dottore di ricerca in Storia delle relazioni internazionali. Collabora con le Cattedre di storia contemporanea e sociologia dell’Europa dell’Università di Salerno.
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Navi portacontainer in transito nel canale di Suez (wkipedia.org).
ragionare in termini di trasformazioni-accelerazioni determinate dal progressivo sviluppo della logistica e del trasporto marittimo che dai primi lavori di Suez hanno fortemente caratterizzato tutto il periodo contemporaneo, imprimendo un carattere mercantilistico, ma più genericamente marittimo al sistema economico mondiale. Proprio il processo economico ci consente di cogliere le grandi differenze non solo nel lungo periodo, ma anche nel breve. Che le mutazioni, i cambiamenti e le accelerazioni siano ancora in atto viene dimostrato dalla profonda modifica del sistema economico attuale, anche se si registra la persistenza a definirlo solo come Neoliberista. Una lettura che potremmo ritenere ancora valida, da un certo punto di vista, solo fino al 2015, ossia fin ai secondi lavori di Suez. L’apertura del canale
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nel 1869 ebbe un effetto immediato e fondamentale sui traffici mondiali e il Mediterraneo tornò a essere il centro del commercio mondiale. Ci fu poi la Grande Guerra, durante la quale le flotte dei belligeranti si fronteggiarono prevalentemente nei mari europei e le potenze alleate dell’Intesa vinsero il conflitto perché riuscirono ad assicurarsi anche le comunicazioni marittime e i fondamentali rifornimenti strategici. Alla fine delle ostilità la definitiva apertura del canale di Panama sottrasse la centralità dell’antico mare africoasiatico-europeo, divenendo il pivot del potere navale e marittimo degli Stati Uniti i quali uscirono dalla Grande Guerra con una flotta del tutto paragonabile a quella della Royal Navy. Comunque, se dal punto di vista commerciale Panama aveva rilanciato fortemente il commercio nel Pacifico, durante il ventennio che precedette il secondo conflitto mondiale, il Mediterraneo si dimostrò comunque un mare al centro delle attenzioni da parte di tutte le grandi potenze navali (2). Questo fatto non deve assolutamente sorprendere, infatti tra il 1921 e il 1936 si dette vita a una serie molto importante di conferenze sul disarmo navale. In pratica le potenze navali vincitrici della Grande Guerra, per limitare i tanti attriti lasciati aperti e insoluti dalla pace di Parigi, si riunirono per ridurre consistentemente le proprie flotte cercando di eliminare i contrasti tra loro nei vari mari e diminuire considerevolmente la spesa militare. Anche in questa circostanza il Mediterraneo dimostrò la sua importanza, poiché nonostante le considerevoli riduzioni di naviglio e il forte abbattimento dei costi di manutenzione l’antico mare poteva contare una presenza di navi militari di tutto rilievo tanto da poter rivaleggiare con i più importanti oceani, nonostante i suoi spazi limitati. In pratica già dalla fine del primo conflitto mondiale si comprese bene come questo «Mare tra le Terre» aveva una proiezione economica e geopolitica ben superiore a quella più risicata della dimensione geografica. Naturalmente questa sua importanza non diminuì certo con la fine della Seconda guerra mondiale (3). Anzi il bacino del Mediterraneo continuò ad essere un luogo dove si registrarono crescenti interessi economici e politici incrociati anche al di fuori degli schieramenti e delle alleanze tradizionali. Man mano che il vecchio continente compiva la sua
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opera di ricostruzione con il conseguente aumento di produzione e dei consumi, il Mediterraneo segnava significativi aumenti nello scambio commerciale. Tuttavia, nel tempo, era inevitabile che le logiche mediterranee non rispondessero, così come non corrispondono, sempre alla polarizzazione del mondo oramai diviso in due blocchi, e ciò lo dimostrò perfettamente la crisi del 1956, ossia quella di Suez. Semplificando al massimo possiamo dire che il rovesciamento della monarchia egiziana e il conseguente allontanamento del Re Faruq, congiuntamente alla nazionalizzazione del canale e i continui attriti con Israele fecero deflagrare il conflitto tra egiziani da un lato e israeliani, francesi e inglesi dall’altro. La possibilità di un intervento diretto al fianco dell’Egitto di Stati Uniti e dell’Unione Sovietica posero fine al conflitto e i due
trapposti — soprattutto poiché questa realizzata a discapito di tre, tra gli alleati più importanti mediterranei di Washington — evidenziò con assoluta chiarezza come le dinamiche economiche e politiche nell’antico mare possano rispondere, anche al giorno d’oggi, a logiche molto differenti da quelle del resto del mondo. A tal riguardo si vedrà poi ulteriormente come con l’indipendenza dell’India, il canale di Suez assumerà sempre maggiore importanza per il trasporto del petrolio. Neanche il graduale costituirsi e in qualche modo consolidarsi del progetto «Europa Unita» modificherà la progressività della sempre maggiore fluidità dei processi mediterranei, tanto che si è parlato di vera e propria «liquidità» dell’Europa in geopolitica (6). Anzi, in vero, la Comunità europea sottostimerà sempre la necessità di una vera e propria proiezione navale comu-
alleati europei di Washington e Tel Aviv dovettero ritirarsi in buon ordine (4). Il paradosso fu nel quasi surreale comune interesse tra Washington e Mosca. In effetti si trattò di un avvicinamento non facilmente comprensibile il quale non poteva, come non può in alcun modo, essere spiegato se non tramite il periodo di distensione tra i due blocchi causato dal processo di «destalinizzazione» iniziato dal nuovo segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica Nikita Sergeevič Chruščëv (5). Proprio l’inusuale e per molti aspetti improbabile intesa tra i due blocchi con-
nitaria. Naturalmente a questa logica non troppo assennata non sarà, quindi, immune neanche un mare così importante come il Mediterraneo. In pratica, possiamo osservare che un certo interesse rimase vivo finché il neonato progetto europeo è stato a guida franco-americana. Questo dato non deve certo stupire, considerando i molteplici interessi francesi nel continente africano e quello mediorientale. In fin dei conti la stessa cosa è capitata per la dimensione nucleare europea con il progetto del Euratom, sempre supportata dagli interessi francesi. Ma, con lo spostamento della
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guida da quest’ultima a quella americo-tedesca, la neonata Comunità europea vedrà perdere gradatamente e totalmente interesse per il Mediterraneo. Un assurdo se si pensa alla sua grande importanza geostrategica sia in ambito economico che in quello politico. Una miopia che non si è certo risparmiata anche verso tutte le altre dinamiche navali degli altri mari. In fondo Berlino aveva altre mire, e si potrebbe dire, in una parola, altre priorità (7). Durante lo scorrere degli anni le continue accelerazioni storiche ed economiche hanno reso sempre più liquidi i processi mediterranei, che a differenza di altre regioni del mondo pagano la molteplicità delle diversità dei tanti paesi rivieraschi. Una verità ancor più complessa poiché, è sempre bene ricordarlo, le nazioni mediterranee afferiscono a ben tre continenti diversi. Passate le tante instabilità determinate dalle
congiuntamente allo scioglimento dei ghiacci a nord del mondo, hanno accelerato, l’attivazione delle due Rotte Artiche. Per cui la Belt and Road Initiative e il Northeast Passage costituiscono, alla fine, un unico complesso di rotta marittima capace di circumnavigare tutto il continente euroasiatico interessando fortemente quella costa nord orientale dell’Africa oggetto di grande sviluppo economico, tecnologico e naturalmente logistico. È sufficiente un semplice sguardo alla carta geografica mondiale per rendersi conto che proprio il Mediterraneo, anche nelle sue più recenti e interessanti analisi (8), diviene la cerniera di questa complessa struttura fatta non solo di navi, porti e rotte, ma anche di strade ferrate, autostrade, aeroporti e naturalmente network per le comunicazioni. Questa lunga premessa ci consente di cogliere le tante trasformazioni
rivolte arabe e giunti a un precarissimo equilibrio, i nuovi lavori di Suez hanno agito come un vero e proprio detonatore economico e quindi geopolitico, imprimendo un’ulteriore accelerazione che cambierà per moltissimo tempo il mondo del trasporto marittimo. Infatti si sono aperte nuove dimensioni del sistema neoliberista mondiale congiuntamente al poderoso ingresso della Cina nei mari europei sbaragliando gli antichi equilibri. Le nuove strategie ora sono soggette ai poderosi cambiamenti delle logiche di penetrazione geoeconomiche. L’apertura della Nuova via della Seta,
e dinamiche mediterranee che hanno interessato l’iper attivismo di nazioni come la Russia, la Turchia e una grande potenza come la Cina che da anni ha fatto di quest’antico mare il perno della sua politica espansiva verso occidente. Infatti erroneamente in precedenza si è pensato che la realizzazione della Belt Road Intiative fosse stata determinata dai lavori di Suez del 2015, che oltre a consentire il doppio flusso adesso permette il transito alle giganti del mare (9). In realtà la realizzazione della «Nuova via della Seta» era stata pensata in precedenza della realizzazione dei nuovi lavori sul ca-
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nale. Infatti gli interessi cinesi nel Mediterraneo sono precedenti ai lavori di ristrutturazione di Suez. In pratica la Cina dalla dissoluzione dell’Impero dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche ha ben compreso che per divenire una potenza di caratura mondiale si sarebbe dovuta trasformare da potenza tellurocratica in potenza talassocratica. Una trasformazione che avrebbe comportato quel salto di qualità indispensabile per tramutare la Cina da realtà geopolitica regionale in mondiale. Per cui l’interessamento cinese per i paesi rivieraschi mediterranei è ben precedente ai lavori di Suez. Il motivo è duplice, infatti se da un lato l’antico mare romano è il trait de union tra Atlantico ed Indo-Pacifico e snodo principale tra Rotta Artica Orientale e Nuova via della Seta, dall’altra rappresenta un mare che ha registrato importantissimi tassi di crescita di scambio commerciale. Quindi non solo un motivo meramente geografico, ma anche, se non soprattutto, economico. Per tale ragione abbiamo assistito a una vera e propria corsa all’acquisizione dei più importanti porti nel bacino mediterraneo. Una gara che ha visto come protagonisti proprio i cinesi i quali si sono insediati con forza e tenacia nei più strategici ancoraggi dell’antico Mare Nostrum: Pireo, Valencia, Casablanca, Vado Ligure, Bilbao, Ambarli, Marsiglia, Port Said, Tanger Med. A questi si aggiungono Cherchell in Algeria, Haifa e Ashdod in Israele tramite i tre principali colossi dello shipping cinesi, Cosco Shipping Ports, China Merchants Port Holdings (CMPort) e Qingdao Port International Development (QPI). A questa già lunga lista di porti bisogna aggiungere anche l’acquisizione di Tripoli e di spazi portuali importanti a Taranto tramite un accordo con la turca Yilport per la gestione dell’ex area Belleli. Per poi non parlare dell’importante acquisizione del 35% delle azioni dell’Hamburger Hafen und Logistik AG (Hhla) di Amburgo che detiene le azioni del porto di Trieste. In poche parole è evidente l’interesse della Repubblica Popolare Cinese, tout court, verso gli spazi marittimi (10). Naturalmente i porti sono solo la punta dell’iceberg di una strategia che ha modificato profondamente il grande gioco della geopolitica. Infatti nel mondo della seconda globalizzazione o del sistema economico post-neoliberista, chi controlla lo spostamento delle merci controlla tutto l’apparato commerciale. Per cui complessi snodi e reti logistiche divengono il fulcro della nuova azione internazionale con cui ampliare enormemente la proiezione degli Stati e delle potenze. In pratica, le complesse strutture logistiche sono capaci di esercitare sia il soft che l’hard power. In fondo sembra quasi banale ricordare che se si controllano le reti di trasporto di una nazione se ne controlla il commercio e quindi l’economia. A questo punto è bene ricordare la massima del grande Ottone von Bismark secondo la quale «Wer den Daumen auf dem Beutel hat, hat die Macht» (ovvero «Chi ha il pollice sulla borsa, detiene il potere»). Per cui si spiega come proprio la realizzazione delle nuove e complesse reti logistiche intermodali consentono anche la possibilità di esercitare hard power. Proprio la creazione di nuove rotte, di hub e di
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nuove linee di comunicazioni terrestri modificano fortemente il valore geografico dei luoghi, regioni e di intere nazioni. In pratica se la studiamo in chiave geoeconomica o semplicemente in base alla realizzazione dei nuovi e complessi hub logistici sembra coerente poter affermare che anche la geografia diviene una scienza a geometria variabile. Per semplificare al massimo quanto affermato possiamo fare l’esempio di un porto con il fondale insabbiato. Tale struttura se pur collocata in posizione geografica vantaggiosa avrà un valore economico e geopolitico sicuramente diverso da quello che avrebbe con un fondale efficiente. Per cui si comprende bene come i porti e le loro retrostrutture, ma più genericamente tutte le reti logistiche, siano oggetto d’interesse delle potenze emergenti. È un dato inconvertibile che il nuovo millennio è stato caratterizzato dalle mutazioni economiche e commerciali le quali hanno fatto della logistica il perno dell’economia e della politica. In questa chiave di lettura proprio il Mediterraneo diviene il centro d’interesse di tutte le potenze emergenti poiché crocevia di scambi e noli marittimi fondamentali. Non sorprende quindi come la Cina si sia interessata a questo mare già prima della realizzazione dei nuovi lavori di Suez puntellandosi, per così dire, in zone strategiche di assoluto interesse e di certo sviluppo come nel caso del Libano.
Cina e Libano L’interesse cinese per questo stretto lembo di terra, capace però di collegare l’Asia minore all’Africa e al Medioriente è stato oggetto di particolare attenzione sin dai primissimi anni dal governo di Pechino. Una lunga e se vogliamo serrata corte che potremmo far partire addirittura dal 2000 quando i due governi, quello di Pechino e di Beirut, decisero d’intensificare le loro relazioni commerciali ed economiche. Questi rapporti portarono cinque anni dopo alla realizzazione di un completo e molto ampio pacchetto di accordi e collaborazione in campo turistico. Un’intesa che si volle subito stringere in maniera poderosa tant’è che nell’antica Berito (11) iniziarono a comparire i primi corsi di lingua mandarino all’università di Beirut. Certo i possibili investimenti cinesi, sin d’allora facevano gola al governo libanese, il quale ha sempre sofferto d’una economia stagnante e di divisioni interne che hanno storicamente prodotto problemi di stabilità. Queste relazioni economiche e diplomatiche si sono andate sempre più rafforzandosi con continui accordi bilaterali. Tant’è che Pechino già dal 2013 diviene il maggior partner commerciale in Libano. Sistemi di riscaldamento solare, rete di telecomunicazione, aiuti nei campi profughi, la realizzazione di centrali elettriche e la possibilità di sviluppare una linea ferroviaria lungo la costa sono solo una parte degli investimenti cinesi nell’area che al 2019 sono stati stimati in circa 12,5 miliardi di dollari. Si comprende facilmente,
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quindi, come proprio il Libano sia sempre stato da subito il centro ed il nucleo di una strategia di penetrazione economica, commerciale e politica cinese nel Mediterraneo. Alcuni elementi fanno proprio del Libano il partner ideale per le strategie dell’antico impero celeste che vanno anche al di là della, se pur fondamentale, posizione geografica. Il Libano era ed è un paese a scarso sviluppo economico e tecnologico, afflitto da conflitti interni ed esterni, sempre bisognoso d’energia elettrica, di acqua potabile e di liquidità economica con un grande porto come quello di Beirut capace di soddisfare tutte le caratteristiche fondamentali per la catena infrastrutturale ipotizzata e parzialmente realizzata dalla classe dirigente cinese. Una catena sempre più poderosa che si snoda sia per via marittima che terrestre. Proprio la sua posizione geografica garantisce enormi vantaggi per Pechino sia in ambito navale che per sviluppare poderose vie di comunicazioni terrestri. Infatti il governo cinese ha ideato una possente catena di comunicazione interna che attraversando l’Iran, l’Iraq e la
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Siria si snoda sia verso la Turchia sia verso il Libano. In più è bene ricordare come proprio negli ultimi anni si è intrapreso il progetto della realizzazione della ferrovia e autostrada capace di collegare la provincia cinese dello Xinjiang fino al porto pakistano di Gwadar a ridosso del Golfo Persico. Una realtà nata per garantire l’approvvigionamento terrestre del greggio a Pechino senza dover circumnavigare l’India e passare dallo stretto di Malacca saldamente controllato dagli Stati Uniti e i suoi alleati. In pratica non è difficile comprendere il disegno delle doppie linee di comunicazioni realizzate da Pechino che rilancia con forza la sua leadership nell’area dove il Libano con Beirut diviene sia punto d’arrivo che di partenza di una struttura complessa che si snoda in tutto il Mediterraneo sino a giungere in Cina. Paradossalmente al di là dell’importanza strategica del porto di Beirut, la forte penetrazione economica, politica commerciale consentirebbe la realizzazione di quella via ferroviaria terrestre tesa a unire il Libano ai porti d’Israele Ashdod e Haifa, Alessandria in Egitto sino
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a giungere a Tripoli già da tempo nelle attenzioni di Pechino. In più proprio il controllo di Beirut del suo porto e delle sue ferrovie sarebbe fondamentale per la realizzazione della ricostruzione della vicina Siria altro perno della strategia cinese. Per far ciò la Cina può anche contare sulle sue ottime relazioni con le altre due potenze interessate ad ampliare la propria proiezione nel Mediterraneo ossia: la Turchia e la Russia. Volendo parafrasare il buon lavoro di Luca Riccardi (12) possiamo dire che in qualche modo Turchia, Russia e Cina sono Alleati non amici, ma al momento, grazie anche ai stravolgimenti determinati dal conflitto russo-ucraino in atto sarebbe difficilissimo ipotizzare una qualsiasi forma contenitiva da parte di Ankara e Mosca. Anzi proprio il caso turco è assolutamente emblematico. Infatti il governo di Ankara è fortemente intenzionato a rilanciare gli antichi confini della Sublime Porta se non con il controllo territoriale almeno con la realizzazione di una fittissima rete di relazioni internazionali e di accordi commerciali con gli Stati del Nord Africa e dei Balcani.
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Ma la Turchia si muove lungo lo spazio geopolitico concordato con Mosca e lasciato libero dalle nazioni europee incapaci ancora oggi di esercitare una vera e propria proiezione nell’antico mare romano e grazie anche, se non soprattutto, ai finanziamenti cinesi per cui è improbabile che in questo frangente possa escogitare qualsiasi misura contenitiva nei confronti di Pechino. Ora leggendo la cartina ci si accorge che Beirut diviene una pietra triangolare della strategia cinese, poiché se le colonne d’Ercole sono controllate dall’hub di Tanger Med, il canale di Suez da Alessandria, Port Said e Haifa e l’ingresso dei Dardanelli con il porto Amberli, Beirut rappresenta lo snodo dove collegare linee terrestri a quelle marittime direttamente con la madre patria. Allora ci si rende facilmente conto come con i porti di Ambarli, Port Said, Haifa, Tripoli, Pireo, Taranto, Marsaxlokk, Ashdod e naturalmente Beirut non solo consentono il pieno controllo del Mediterraneo centrale e levantino, ma costituirebbero una poderosa linea difensiva per la protezione delle linee di comunicazione terrestri. In
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questo quadro non è possibile non notare la presenza della Cina Merchants Holdings International che opera all’interno della Malta Freeport nella Baia di St. George’s a Malta. Una concentrazione e un consolidarsi nel Mediterraneo levantino spiegabile anche dal punto di vista economico poiché gli scambi transitanti da Suez sono maggiori rispetto a quelli di Gibilterra (13), ma certamente il dato geopolitico è quello di maggior rilievo. In più un diretto controllo del Libano consentirebbe di fare, se pur indirettamente, tutta una serie di pressioni per quanto soft su Israele. Non è certo un segreto che allo Stato ebraico manca un retro spazio geopolitico. In più Pechino avrebbe anche l’opportunità di realizzare importanti impianti di desalinizzazione come quello che avrebbe dovuto costruire già due anni fa in Israele e saltato a causa della ferma contrapposizione dell’amministrazione degli Stati Uniti, sotto Trump, e dei continui viaggi dell’allora segretario di Stato Mike Pompeo. La realizzazione di tali impianti legherebbe definitivamente le sorti di quelle nazioni nell’area ai destini cinesi. Accessibilità alle fonti di acqua potabile, energia e processi di desertificazione saranno e già lo sono dei grandissimi poli attrattivi per tutto il Medio Oriente e l’Africa. Per cui gli accessi al mare avranno sempre più un valore crescente, cosa ben nota a Pechino. Per quanto con una economia e la lira in totale default il controllo economico e quindi politico del Libano consentirebbe maggiori relazioni anche con il governo di Tel Aviv pietra miliare della politica americana in Medio Oriente. Il controllo di strutture o addirittura di una nazione tramite il default certo
non sarebbe una novità per il governo di Pechino, infatti a tal riguardo abbiamo diversi esempi come: il Montenegro, il porto di Hambantota nello Sri Lanka, l’Angola sono solo alcuni dei casi possibili. Certo l’esplosione del porto di Beirut, il crack economico, l’instabilità politica sono dei poderosi deterrenti, ma per quanto scritto e analizzato sembrerebbe difficile pensare a un disinteresse cinese nell’opera di ricostruzione portuale ed è probabile che Pechino, visto anche i suoi tanti feedback in quella nazione, riuscirà probabilmente a sopravanzare la concorrenza degli altri paesi sia mediorientali che occidentali. Un consolidamento cinese in quell’area, che al momento sembrerebbe inevitabile, causerebbe un grave danno alla proiezione navale nazionale. In fondo non è certo un segreto che l’Italia non è interessata a espandere la propria emanazione verso occidente. Per ciò il Bel paese è fortemente legato alle dinamiche adriatiche e quindi balcaniche per poi finalmente proiettarsi verso il levante. Un rafforzamento cinese così ideato non solo nuocerebbe notevolmente agli interessi nazionali, ma anche e soprattutto europei, poiché l’Unione troverebbe definitivamente chiusa quell’area di assoluta importanza di sviluppo. Per cui si ravvisa una volta di più la necessità della realizzazione di Istituti comunitari e nazionali capaci di coordinare poderose strategie di medio e lungo periodo. In pratica è il momento che l’Europa dimostri le sue tante capacità inespresse dotandosi di vere e proprie strategie marittime poiché è del tutto evidente che chi controlla le rotte le infrastrutture logistiche navali controlla il potere. 8
NOTE (1) F. Chabod, L’Idea di Europa e la politica dell’equilibrio, Milano, Il Mulino, 1995. (2) A. Mazzetti, Marina Italiana e Geopolitica Mondiale, Roma, Aracne, 2017. (3) Già nel periodo tra le due guerre mondiale lo Stato Maggiore della Regia Marina sviluppò il concetto di Mediterraneo Allargato. Sull’argomento si veda: G. Fioravanzo, Il Mediterraneo, centro strategico del mondo, Roma, 1943. (4) M. Campanini, Storia dell’Egitto contemporaneo. Dalla rinascita ottocentesca a Mubarak, Roma, Edizione Lavoro, 2005. (5) G. Boffa, L’URSS dopo Stalin, in La storia - I grandi problemi dal Medioevo all’età contemporanea, X, L’età contemporanea. (5) Problemi del mondo contemporaneo; Indici, Milano, Garzanti, 1994. (6) Tra i molti, cfr. D. Ceccarelli Morolli, L’Europa e la geopolitica «liquida», in Rivista Marittima. (Dicembre 2018), pp. 37-41. (7) Per comprendere meglio le dinamiche tedesche si veda: B. Benocci, La Germania necessaria. L’emergere di una nuova leading power tra potenza economica e modello culturale, Franco Angeli, 2017. (8) G. Poddighe, Infinito Mediterraneo, Analisi Difesa, 3 dicembre, 2020. (9) A. Mazzetti, La Via della Seta: una nuova strategia economica marittima, Il Nautilus, 11 Aprile, 2019. (10) Cfr. D. Ceccarelli Morolli, Appunti di Geopolitica, Roma, Editore Valore Italiano, 2018, pp. 263 ss. (11) Berito è il primo nome e forse il più antico che ebbe la capitale libanese. In epoca ellenistica il suo nome mutò in Laodicea per poi giungere finalmente a quello attuale. (12) L. Riccardi, Alleati non Amici. Le relazioni politiche tra l’Italia e l’Intesa durante la prima guerra mondiale, Morcelliana 1992. (13) R. Pavia, Porti: Grandi manovre nel Mediterraneo, ISPI, 22 ottobre 2021.
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A guardia del Canale e non solo: la Marina egiziana Michele Cosentino
Contrammiraglio (r) del Genio Navale. Ha frequentato l’Accademia navale nel 1974-78 e ha successivamente conseguito la laurea in Ingegneria navale e meccanica presso l’Università «Federico II» di Napoli. In seguito, ha ricoperto vari incarichi a bordo dei sottomarini Carlo Fecia Di Cossato, Leonardo Da Vinci e Guglielmo Marconi e della fregata Perseo. È stato successivamente impiegato a Roma presso la Direzione generale degli armamenti navali, il segretariato generale della Difesa/Direzione nazionale degli armamenti e lo Stato Maggiore della Marina. Nel periodo 1993-96 è stato destinato al Quartier generale della NATO a Bruxelles; nel periodo 2005-11 ha lavorato al «Central Office» dell’Organisation Conjointe pour la Cooperation en matiere d’Armaments (OCCAR) a Bonn. Ha lasciato il servizio a settembre 2012, è transitato nella riserva della Marina Militare e nel 2016 è stato eletto consigliere nazionale dell’ANMI per il Lazio settentrionale. Dal 1987 collabora con numerose riviste militari italiane e straniere (Rivista Marittima, Storia Militare, Rivista Italiana Difesa, Difesa Oggi, Tecnologia & Difesa, Panorama Difesa, Warship, Proceedings, ecc.) e ha pubblicato oltre 600 fra articoli, saggi monografici, ricerche e libri su tematiche di politica e tecnologia navale, politica internazionale, difesa e sicurezza e storia navale.
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a alcuni anni a questa parte, il Levante mediterraneo è diventato un teatro di competizione e confronto fra nazioni geograficamente presenti nell’area e fra soggetti statuali che, seppur fisicamente assenti da esso, hanno sviluppato e stanno attuando un’agenda politica e militare modellata su ben precisi interessi geostrategici. Questo scenario è stato ravvivato dalla scoperta di immense risorse di idrocarburi sui fondali marini facenti parte anche di aree marittime contese fra due o più nazioni, elevando la valenza degli interessi nazionali in gioco e facendo emergere l’importanza di disporre di Forze navali adeguate a proteggere tali risorse. Naturalmente, tutto ciò ha un impatto non indifferente sugli equilibri di potenza in un teatro caratterizzato da frontiere liquide in cui anche le Marine di nazioni non aderenti ad alcuna organizzazione internazionale, in sostanza NATO e Unione europea, giocano un ruolo cruciale: fra esse, una posizione peculiare è occupata dalla Marina egiziana —
ufficialmente nota come al-Quwwāt al-Bahareya alMiṣriyya — impegnata su due «fronti» operativi suddivisi da uno dei più importanti passaggi obbligati del commerci marittimi planetari, il Canale di Suez.
Nuove sfide su due fronti La protezione del Canale, intesa come l’impedimento del blocco dei traffici marittimi provocati da azioni militari palesi e/o occulte, è stato il principale mantra della Marina egiziana per un lungo scorcio di un’esistenza che ha ufficialmente origine nel 1921 (1). Nel secondo dopoguerra, i conflitti periodicamente combattuti contro Israele hanno dimostrato quanto vale la libertà di navigazione del Canale di Suez, un aspetto d’importanza non secondaria anche durante il periodo di «amicizia» fra l’Egitto e l’ex-Unione Sovietica, sostanzialmente conclusasi negli anni Ottanta e a cui è subentrata una nuova amicizia, questa volta con gli Stati Uniti: di questo quadro, un ruolo preminente
Le fregate BERNEES (in primo piano) e AL GALALA (ex-SPARTACO SCHERGAT) all’ormeggio nella base navale di Ras-el-Tin; l’ingresso in linea delle due unità ha rappresentato un significativo salto di qualità per la Marina egiziana (MoD Egypt). Qui in basso a destra la bandiera della Marina egiziana, Forza armata ufficialmente nota come Al-Quwwāt al-Bahareya al-Miṣriyya (Flags of the World).
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hanno giocato gli accordi di Camp David (2), che hanno anche portato alla stabilizzazione delle relazioni fra Egitto e Israele, con tutte le conseguenze in materia di politica di sicurezza e difesa e pianificazione militare del Cairo. Alla presidenza di Hosni Mubarak, succedutosi al potere per ben trent’anni (1981-2011) e artefice di una forte influenza dell’Egitto in tutto il quadrante mediorientale, è seguito un periodo di incertezza, culminato nel 2012 con l’elezione alla presidenza della Repubblica di Muḥammad Mursī ʿĪsā al-ʿAyyāṭ, leader di quel partito dei Fratelli Musulmani propugnatore di una politica confessionale e spesso accusato di assumere posizioni favorevoli alle organizzazioni terroristiche islamiche radicate nella regione. L’elezione di Morsi venne salutata con favore dai sostenitori interni ed esterni del fenomeno delle Primavere arabe (3), fenomeno con un impatto non indifferente sugli scenari sociopolitici interni di diverse nazioni arabe, dal Marocco all’Egitto lungo la sponda africana del Mediter-
raneo, nonché su Siria e Yemen. Nonostante la larga partecipazione popolare, le Primavere arabe si sono rivelate illusorie per le prospettive di sviluppo degli strati meno abbienti delle popolazioni coinvolte, dando piuttosto vita a circostanze e situazioni conflittuali interne sfociate nella guerra civile in Libia, in Siria e nello Yemen — con tutte le conseguenze di ciascun caso, con non poche colpe e responsabilità attribuibili all’allora inquilino della Casa Bianca — e nel riallineamento delle posizioni nelle monarchie del Golfo: ciò ha innescato nuove situazioni di instabilità riverberatesi in tutto il Levante mediterraneo e ha favorito l’assertività di attori militarmente non secondari quali Turchia e Russia e il loro conseguente insediamento su nuove sponde mediterranee. In questo quadro di gravi crisi e conflitti nazionali e regionali, lo scenario egiziano ha visto dapprima (2013) l’esecuzione di un colpo di Stato militare e successivamente l’elezione (maggio 2014) alla Presidenza della Repubblica del feldmaresciallo
I giacimenti di gas naturale scoperti sui fondali al largo della costa mediterranea egiziana, nel deserto occidentale egiziano e lungo la costa occidentale della penisola del Sinai: in rosso sono indicati i giacimenti affidati all’ENI, mentre gli altri colori indicano quelli su cui lavorano altre compagnie petrolifere (ENI).
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Abdel Fattah al-Sisi, uomo forte del regime militare e che grazie a provvedimenti ben mirati ha consolidato progressivamente il proprio potere nell’intento di ripristinare la stabilità nel paese. Questa breve analisi dell’evoluzione politica nella storia recente dell’Egitto è funzionale all’affermazione che l’elezione di al-Sisi ha rappresentato un deciso spartiacque della strategia nazionale egiziana, segnando un deciso riavvicinamento a Washington e all’Occidente in genere e l’adozione di una politica estera e di sicurezza di netto contrasto alle mire espansionistiche, assertive e aggressive, ancora di Turchia e Russia. Tutto ciò non poteva prescindere da un deciso rafforzamento delle capacità militari egiziane, attraverso un processo di sostituzione di mezzi e sistemi già di provenienza sovietica e cinese con materiali di provenienza occidentale che ha ovviamente interessato anche la Marina egiziana. A tal proposito è opportuno rammentare che l’Egitto ha un’estensione costiera di circa 2.450 chilometri (4), suddivisi fra il Mediterraneo e il Mar Rosso, con interessi geopolitici focalizzati non solo sul già citato Canale di Suez, ma anche sullo Stretto di Bab el-Mandeb: al netto della protezione diretta del Canale di Suez (5), fino a qualche tempo fa i compiti della al-Quwwāt al-Bahareya al-
Miṣriyya si potevano dunque sintetizzare nella protezione di queste estensioni costiere (con diversi obiettivi vulnerabili ad attacchi missilistici dal mare e dall’aria) e dei traffici marittimi che abbracciano il Levante mediterraneo e il Mar Rosso e nella cooperazione con altre Potenze marittime amiche e alleate per assicurare la stabilità della regione. A questi compiti si è come noto aggiunta una nuova e importante dimensione, derivante dalla scoperta di immensi giacimenti di gas naturale concentrati nella zona di mare a nord e a nord-est del Delta del Nilo e comunque all’interno della Zona Economica Esclusiva egiziana; a questi giacimenti — che coprono il 40% del fabbisogno nazionale di gas (6) — se ne aggiungono altri, seppur di minor consistenza, situati all’estremità meridionale del Golfo di Suez e nell’entroterra egiziano. Gli unici terminali regionali tuttora esistenti per l’esportazione di gas naturale provenienti dai giacimenti mediterranei — al cui sfruttamento partecipa in maniera rilevante l’ENI — sono quelli di Damietta e Idku, in Egitto, verso i quali Il Cairo punta a convogliare anche il gas proveniente dai giacimenti israeliani. A partire dal 2018, la cooperazione energetica fra Il Cairo e Gerusalemme si è notevolmente ampliata: per
Oleodotti e gasdotti nella Vicino Oriente: in rosso quelli in esercizio (fra cui il gasdotto EMG fra Askelon, in Israele e El Arish, in Egitto), in verde quelli in costruzione e in viola quelli in programma (Infrastructures Solutions).
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l’Egitto, questa cooperazione rappresenta una componente chiave di una più ampia strategia regionale avente come obiettivo l’assurgere al ruolo di attore principale nello sfruttamento di tutti i giacimenti di gas naturale presenti nei fondali nel Mediterraneo orientale. E l’obiettivo principale dell’Egitto è quello di assicurarsi la governance di questo hub regionale del gas, sfruttandolo per soddisfare la domanda interna e importando quello proveniente dai giacimenti gestiti da Israele e Cipro e riesportarlo verso altre nazioni, con evidenti vantaggi economici: a tal scopo, negli ultimi anni, aziende israeliane ed egiziane hanno acquistato il condotto sottomarino — in precedenza inutilizzato che collega Ashkelon, in Israele, con El-Arish, sulla costa settentrionale del Sinai — e lo stanno impiegando per trasportare il gas naturale dallo Stato Ebraico all’Egitto (7), mentre di più lungo termine è la costruzione di una rete di gasdotti per collegare i giacimenti egiziani e israeliani con le nazioni potenziali «clienti» dell’Europa mediterranea. Il rafforzamento dei legami energetici fra Il Cairo e Gerusalemme ha avuto come corollario un atteggiamento diffidente nei confronti di nazioni concorrenti, in primis la Turchia: di conseguenza, nel gennaio 2019, l’Egitto ha convocato il primo Forum del gas del Mediterraneo orientale (EMGF, poi diventata un’organizzazione intergovernativa ufficiale con sede al Cairo), un consorzio regionale composto da Egitto, Israele, Giordania, Autorità palestinese, Cipro, Grecia e Italia, destinato a consolidare le politiche energetiche regionali e a ridurre i costi estrattivi dai giacimenti. La Turchia, che ha dispute storiche con Grecia e Cipro, ulteriormente alimentate dagli scenari energetici nel Mediterraneo orientale, è considerata un rivale dei paesi dell’EMGF, anche a causa dell’espansione politica e militare di Ankara in Tripolitania: non è un caso che questa contrapposizione sulle sponde meridionali del Mediterraneo sia stata favorita dall’accordo sui confini marittimi che l’allora governo di Tripoli firmò con la Turchia alla fine del 2019. Il Governo egiziano ha definito l’accordo «illegale e non vincolante», mentre quello israeliano ha affermato che esso potrebbe «mettere a rischio la pace e la stabilità nell’area (8)». In coerenza con il principio di azione e reazione, nel 2020 Egitto e Grecia hanno firmato un accordo di zona economica esclusiva — generalmente
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visto come una risposta al predetto accordo fra Ankara e Tripoli — in un’area del Mediterraneo contenente anch’essa riserve di petrolio e gas, con la Turchia che naturalmente rivendica questa zona affinché ricada nell’area della sua piattaforma continentale (9). Un ulteriore aspetto degno di considerazione concerne l’esistenza in Egitto di una buona Marina mercantile, che con un totale di circa 400 unità di bandiera occupa la 46° posizione nella graduatoria mondiale, disponendo altresì di un patrimonio infrastrutturale addestrativo moderno e di tutto rispetto (10). Dalla sintesi di questo complessivo e complesso scenario geopolitico risulta dunque evidente il ruolo della Marina egiziana nell’assicurare anche la protezione dei propri giacimenti di gas naturale e delle relative infrastrutture, in autonomia o in cooperazione con altre forze navali mediterranee aventi interessi politici ed economici coincidenti.
La Marina egiziana: numeri e capacità Secondo fonti autorevoli, la Marina egiziana ha una consistenza complessiva di 32.500 uomini, di cui 18.500 effettivi in servizio attivo e a cui si affiancano 14.000 uomini della riserva (11). In base a una graduatoria delle Marine di tutto il mondo redatta da non pochi portali web gestiti da appassionati, la Marina egiziana viene classificata fra le prime 10 al mondo perché in possesso di 245 unità navali: si tratta di una classificazione alquanto arbitraria e che lascia il tempo che trova, ove si pensi che in uno di questi portali (12) la Marina egiziana si trova in dodicesima posizione e la Marina Militare al quindicesimo posto, preceduta dalle Forze navali di nazioni quali Corea del Nord, Sri Lanka e Thailandia. In realtà, la situazione è ben diversa, ma considerando diversi elementi — numeri, tipologia ed età del naviglio, sistemi imbarcati e cantieri di provenienza, ecc. — la Marina egiziana è certamente al primo posto fra le Forze navali della regione MENA (Middle Est and North Africa), se non addirittura fra tutte le Marine non NATO del Mediterraneo. Se si pensa che fino a circa 10 anni fa consistenza e capacità della flotta egiziana facevano ancora affidamento su materiali di origine per lo più russa, è evidente che l’avvento di al-Sisi al vertice dell’Egitto si è tramutato in una salto di qualità in materia di procurement militare in generale, e navale in particolare. Da
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questo punto di vista, fino al primo decennio del XXI secolo, le unità più moderne della Marina egiziana erano le quattro fregate classe «Sharm El Sheikh», vale a dire l’unità eponima, più Toushka, Taba ed Eskendria, tutte ancora in linea; in realtà, si tratta di fregate ex-statunitensi della classe «Perry» entrate in linea nell’US Navy nei primi anni Ottanta e cedute all’Egitto quindici anni dopo a causa del riorientamento strategico e dottrinario delle forze militari di Washington attuato dopo la fine della Guerra Fredda. Del resto, della cessione delle «Perry» hanno beneficiato diverse Marine di nazioni amiche e alleate degli Stati Uniti, ma si tratta di unità che non hanno impressionato più di tanto né l’US Navy né le Marine beneficiarie delle cessioni perché in molti casi, fra cui quello dell’Egitto, il loro trasferimento è avvenuto più per fini politici e di prestigio che non per soddisfare determinati requisiti operativi e tattici. Da rilevare che nello stesso periodo, l’US Navy cedette al Cairo anche due cacciamine classe «Osprey», realizzate su progetto degli italiani «Lerici»: essi rappresentano le risorse più moderne della Marina egiziana in un particolare settore, quello delle contromisure mine, che dovrebbe essere potenziato con materiali più moderni.
Antecedenti alla cessione delle «Perry» fu quelle di due fregate classe «Knox», sempre di provenienza statunitense ma più obsolete delle prime, propulse da un impianto a vapore e da un unico asse: a esse si aggiungono due corvette classe «Descubierta» cedute dalla Marina spagnola nella prima metà degli anni Ottanta, nonché alcune unità lanciamissili veloci e pattugliatori in esemplari unici di varia provenienza ma di valore militare ridotto e tuttora in linea. Certamente più prestanti sono le quattro corvette lanciamissili classe «Ezzat», a cui si ci riferisce anche come classe «Ambassador Mk III»: in servizio dal 2015, si tratta di naviglio moderno, realizzato da un cantiere statunitense e acquistate dalla Marina egiziana tramite il meccanismo dei Foreign Military Sales; il progetto riflette in qualche modo il concetto della concentrazione della massima potenza di fuoco offensiva e difensiva su una piattaforma di dimensioni ridotte, secondo una logica seguita fino a qualche tempo anche da altre Marine mediterranee, in primo luogo quella israeliana. Si tratta dunque di un nucleo di unità concepite per il contrasto antinave in acque prevalentemente costiere e quindi idonee a operare nel Mar Rosso, a ridosso del Canale
L’unità lanciamissili veloce egiziana SOLIMAN EZZAT, appartenente alla classe «Ambassador III» ripresa nel Mar Arabico durante un’esercitazione congiunta con l’US Navy. Il progetto di queste unità incorpora diversi accorgimenti tecnologici per minimizzare le segnature radar, acustica, magnetica e all’infrarosso (US Navy).
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di Suez e anche nel Golfo Persico, per tener lontane poinoltre di «travasare» con relativa facilità unità navali tenziali minacce da infrastrutture militari di valore. da una flotta all’altra, un aspetto d’intrinseca flessibilità A parte ciò, la Marina egiziana è stata per lungo non trascurabile. tempo la cenerentola delle Forze armate nazionali, una condizione avvalorata dall’avere in inventario — fino Una crescita a 360° a 15-20 anni fa — numerose unità di superficie e suIl già citato spartiacque della politica e della stratebacquee certamente non adeguate ai mutati scenari gia nazionale egiziana ha avuto degli ovvi riflessi geopolitici del Mediterraneo orientale. Ciò ha indotto anche sulla al-Quwwāt al-Bahareya al-Miṣriyya, con i governanti del Cairo a dare il via all’attuazione di una l’avvio di numerosi programmi di nuove costruzioni vera e propria strategia organizzativa e materiale Sopra la nave d’assalto anfibio GAMAL ABDEL NASSER è l’ex-VLADIVOSTOK cofinalizzata ad ammodernare e potenziare la flotta struita in Francia per la Marina russa e venduta a quella egiziana — assieme alla geANWAR EL SADAT, ex-SEVASTOPOL — a seguito delle sanzioni imposte a egiziana attraverso una serie di programmi di ac- mella Mosca dall’Unione europea dopo l’invasione della Crimea (MoD Egypt). quisizione che hanno interessato tutto lo spettro Sotto elicotteri Ka-52K «Katran» e AH-64E «Apache» si preparano al decollo dall’unità d’assalto anfibio GAMAL ABDEL NASSER nel corso dell’esercitazione «Friendship delle categorie di naviglio militare di superficie Bridge 2019» (MoD Egypt). subacqueo. Prima di analizzare quest’ultimo aspetto, va ricordato che all’inizio del 2017 risale la decisione, per certi versi storica, di suddividere le Forze navali egiziane in due flotte, una settentrionale e una meridionale, di cui la prima — con quartier generale a Ras-el-Tin, ad Alessandria — responsabile della condotta di operazioni nella regione mediterranea finalizzate a fronteggiare minacce provenienti da nord e da ovest: con quartier generale a Safaga (circa 55 km a sud di Hurghada), la flotta meridionale è invece focalizzata sul Canale di Suez e sulla regione del Mar Rosso, con una postura dunque orientata sulle minacce provenienti da meridione e da levante. Secondo alcuni commentatori locali (13), la suddivisione delle forze navali ha accresciuto la peculiarità operativa delle singole flotte: quella settentrionale è principalmente responsabile della protezione degli interessi economici nazionali, primi fra tutti i già citati giacimenti di gas, nonché di combattere, in verità con risultati discutibili, il flusso dei migranti illegali verso l’Europa. Alla flotta meridionale è assegnato il compito di dissuadere eventuali minacce derivanti dai conflitti simmetrici e asimmetrici in corso nello Yemen e nella regione del Corno d’Africa, con particolare riguardo alla protezione dei flussi commerciali marittimi da possibili attacchi terroristici. In linea di principio, il controllo del Canale di Suez permette
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affidati per lo più ad aziende europee, un approccio definibile come bilanciato che non disdegna peraltro l’acquisizione di materiali anche di provenienza russa. E proprio da una querelle franco-russa è maturato l’arrivo delle due grandi unità d’assalto anfibio Gamal Abdel Nasser e Anwar el Sadat: esse non sono altro che le unità in configurazione LHD (cioè con ponte di volo esteso per tutto la lunghezza dello scafo) che la società francese DCNS era pronta a consegnare alla Marina
russa come Vladivostok e Sevastopol: la consegna fu bloccata dopo l’imposizione delle sanzioni a Mosca a seguito dell’invasione della Crimea del 2014 e dalle unità furono rimossi tutti i sistemi imbarcati di produzione russa. Il contenzioso fra Mosca e Parigi fu risolto con il pagamento al Governo russo dei costi per la costruzione delle navi e con il trasferimento alla Marina egiziana di due unità che, grazie alle loro caratteristiche, hanno incrementato in maniera esponenziale le capacità di trasporto e assalto anfibio di una Sopra la cerimonia del varo della corvetta LUXOR, l’ultima delle quattro corvette della classe «El-Fateh» entrata in servizio con la Marina egiziana e realizzata nei cantieri di componente che fino a quel momento aveva Alessandria (MoD Egypt). fatto affidamento su un pugno di mezzi da Sotto la corvetta PORT SAID, ormeggiata a Porto Said e anch’essa appartenente alla classe «El Fateh»: per favorire la standardizzazione operativa e logistica, le unità di sbarco di valore assai limitato. Costruite sul proquesta classe e le future fregate classe «El Aziz» saranno equipaggiate con il medegetto francese «Mistral» (tre esemplari in servisimo nuovo sistema di missili superficie-aria a corto raggio (Naval News). zio nella Marine Nationale), le due unità egiziane sono infatti equipaggiate con sistemazioni aeronautiche per far operare 16 elicotteri, ponte garage con una superficie di 2.560 mq per il parcheggio di mezzi ruotati e cingolati, bacino allagabile lungo 57 metri in cui trovano spazio sei mezzi da sbarco e sistemazioni logistiche per un contingente di 450 uomini, più 180 circa di equipaggio. I passi successivi in materia di approvvigionamenti navali militari sono stati indirizzati verso la sostituzione del naviglio di superficie e subacqueo obsoleto. A questo punto, è scesa nuovamente in campo la Francia, con il Governo di Parigi pronto a supportare vigorosamente la commessa per la costruzione di quattro corvette classe «El Fateh», realizzate da Naval Group secondo un progetto — noto come «Gowind 2500» — finalizzato esclusivamente per l’esportazione secondo declinazioni dimensionali differenti legati ai requisiti dei clienti. Con El Fateh e Port Said (già in servizio), El Moez e Luxor (in allestimento), la Marina egiziana è diventata così il cliente di lancio per il progetto «Gowind 2500», che oltre a far entrare in servizio unità idonee alle proprie esigenze ha potuto acquisire una preziosa esperienza grazie alla costruzione di tre unità dai cantieri navali di Alessandria, naturalmente con l’assistenza francese. Con un dislocamento a pieno carico di 2.600 tonnellate, le corvette classe «El Fateh» sono delle
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unità principalmente destinate al contrasto antinave (8 riodo 2016-21: con un dislocamento in immersione di missili «Exocet MM 40»), con capacità secondarie di circa 1.600 tonnellate, essi sono identificati solamente da contrasto antisom, grazie al sonar a profondità variabile sigle alfanumeriche da S41 a S44, possono impiegare sie a una sistema propulsivo CODLED (COmbined Dieluri e missili antinave e hanno una moderna dotazione di sel-eLEctric and Diesel) in cui due motori elettrici assisensori elettroacustici. curano la navigazione a velocità di crociera e altrettanti Dopo l’ingresso in linea della fregata Tahya Misr, il motori diesel si aggiungono alla catena propulsiva per gli Governo francese ha incrementato la pressione sul spunti di velocità. Oltre ad aver spianato la strada per Cairo per favorire l’esportazione di naviglio e sistemi l’adozione di corvette tipo «Gowind» a cura di altre Marealizzati dalle proprie industrie, agendo in stretta sinerrine, quella egiziana è stata anche il cliente di lancio del gie con quest’ultime: l’obiettivo palese era infatti la cosistema missilistico superficie-aria per la difesa di punto struzione di altre fregate classe «Aquitaine» per l’Egitto, e ravvicinata «VL MICA» — presente appunto sulle «El seppur depotenziate come descritto sopra, oppure di Fateh» — che impiega la munizione di nuova geSopra il sottomarino egiziano S 43, ripreso durante le prove nel Mare del Nord. Terzo nerazione «MICA NG/New Generation». La co- esemplare di una classe comprendente quattro unità «Type 209/1400», il battello è entrato in servizio nella Marina egiziana a metà circa del 2020 (THB info Behling). struzione delle nuove corvette avrebbe dovuto Sotto la fregata TAHYA MISR (ex-NORMANDIE) lascia la base navale di Brest con deessere seguita da un deciso salto di qualità desti- stinazione la base navale egiziana di Ras-el-Tin/Alessandria: la foto è stata scattata il 22 luglio 2015 (DCNS, ora Naval Group). nato a materializzarsi con l’acquisizione di fregate: approfittando del contratto per le «El Fateh» e auspicando che l’Egitto volesse ricevere almeno un’unità di prestazioni superiori in coincidenza dell’inaugurazione del tratto di Canale di Suez sottoposto ad ampliamento, il Governo francese decise di offrire al Cairo la fregata Normandie, all’epoca in allestimento per conto della Marine Nationale sotto l’egida del programma italo-francese FREMM e dunque uno degli esemplari della classe «Aquitaine». Trasferita alla Marina egiziana nel giugno 2015, dalla fregata — ridenominata Tahya Misr — furono sbarcati sistemi «sensibili» quali i lanciatori verticali per i missili da crociera, il sistema di guerra elettronica e quello destinato alle comunicazioni satellitari (14). Quasi contestualmente al programma «El Fateh», è partito quello per rinnovare una flotta subacquea che aveva quali elementi di punta un paio di vecchi sommergibili realizzati nella Repubblica Popolare Cinese attraverso la clonazione del vecchio progetto «Romeo» di origine sovietica: seppur ammodernate negli anni Novanta con alcuni sistemi di provenienza occidentale, queste unità erano palesemente inadeguate alle esigenze di una Marina del XXI secolo. Realizzati dal consorzio tedesco TKMS, quattro moderni sottomarini «Type 1400» sono stati immessi in linea nel pe-
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altri prodotti simili nel frattempo in corso di sviluppo. A questo scenario di politica industriale si è però associato uno scenario geopolitico nel quale l’Egitto ha rafforzato le relazioni con altre nazioni mediterranee, un percorso che non poteva essere disgiunto dal rafforzamento delle relazioni militari con tali nazioni e tradottosi su una più frequente cooperazione fra Forze armate in generale e Marine militari in particolare. Sempre più assidue sono state dunque le esercitazioni e le attività addestrative in cui la Marina egiziana si è confrontata con altre Forze navali del Mediterraneo, compresa la Marina Militare, potendo così apprezzare sul campo — cioè sul mare — la qualità delle fregate classe «Berga-
mini», segmento italiano del programma FREMM. Il risultato di almeno un paio d’anni di consultazioni e dialoghi riservati a vari livelli politici e industriali è stato l’arcinoto trasferimento alla Marina egiziana delle due ultime fregate classe «Bergamini» in corso di allestimento per la Marina Militare, vale a dire Spartaco Schergat ed Emilio Bianchi: ribattezzata Al Galala (FFG 1002), la prima fregata è stata consegnata alla Marina egiziana il 22 dicembre 2020 e otto giorni dopo ha raggiunto Alessandria d’Egitto. Una procedura simile è stata riservata anche alla seconda unità, battezzata Bernees (FFG 1003), arrivata nella base navale egiziana nell’aprile del 2021. Diventati i gioielli della corona della Marina Sopra le fregate CARLO MARGOTTINI e TAHYA MISR riprese nel corso di attività addestrative congiunte svoltesi nel Mediterraneo orientale alla fine del 2018 (Maristat). egiziana, le due nuove fregate meritano un’analisi Sotto la fregata egiziana BERNEES (ex-EMILIO BIANCHI) in manovra all’interno della più approfondita, anche per la forte presenza a base navale della Spezia (Foto G. Arra). bordo di prodotti italiani: esse sono state realizzate nella configurazione «General Purpose, GP» e dunque ottimizzate principalmente per operazioni antisuperficie e il loro armamento balistico comprende una torre da 127/64 «LightWeight, LW» con impianto di caricamento automatizzato per impiegare diversi tipi di munizionamento, una torre «Super Rapido» da 76/62 nella configurazione «Strales» per impiegare munizionamento atto a contrastare missili antinave e minacce asimmetriche, e due cannoni da 25 mm per la difesa ravvicinata. In tema di capacità antiaeree e antimissili, Al Galala e Bernees sono equipaggiate con il sistema missilistico di difesa aerea «Surface AntiAir Missile-Extended Self-Defense, SAAM-ESD», principalmente articolato sui due moduli ottupli «A50» per il lancio verticale di missili superficie-aria della famiglia «Aster» e sul radar multifunzionale tridimensionale attivo MFRA, noto anche come «Kronos Grand Naval», sistemato in cima all’albero principale: dell’armamento missilistico fanno parte anche ordigni antinave, sistemati a centronave. La dotazione elettronica è completata dai radar di sorveglianza di superficie/aerea e di navigazione, dal sistema di sorveglianza all’infrarosso «Silent Acquisition & Surveillance System, SASS», dalla suite IFF e da due direzioni del tiro «NA-25X». Anche la propul-
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sione delle fregate egiziane è affidata a un sistema in configurazione CODLAG (COmbined Diesel-eLectric And Gas), articolato su una turbina a gas, due motori elettrici reversibili e altrettanti assi con eliche a passo variabile. Seguendo la logica della diversificazione degli approvvigionamenti militari, il programma navale più recente riguarda l’acquisizione di 4 fregate tipo «A-200EN», più piccole dei tipi «Bergamini» e realizzate dal gruppo tedesco TKMS: denominate classe «El Aziz» dalla Marina egiziana, due di esse risultano già in costruzione in Germania, mentre per le altre è previsto il coinvolgimento dei cantieri navali di Alessandria. Si tratta di unità non dissimili da quelle realizzate sempre in Germania per la Marina algerina e dovrebbero quindi rispecchiarne la configurazione generale. La panoramica relativa ai programmi di ammodernamento navale egiziano si chiude ricordando che a luglio 2021 sono entrati in linea 10 pattugliatori costieri realizzati nei cantieri tedeschi Lurssen, con 9 unità da 40 e una da 60 metri: il potenziamento più significativo potrebbe tuttavia riguardare l’acquisizione di altre due fregate classe «Bergamini», mentre devono trovare conferma le voci sulla realizzazione di altre corvette realizzate in cantieri cinesi e locali.
Il potenziamento delle infrastrutture Con una prospettiva concretizzata verso una flotta comprendente circa 30 moderne unità navali — e alcune delle quali con dimensioni significative —, la Marina egiziana ha opportunamente pianificato un potenziamento delle infrastrutture ispirato anche dalle potenziali direttrici di provenienza delle minacce alla sicurezza del paese. Il bacino mediterraneo ha naturalmente avuto la priorità, anche in virtù delle più recenti attività addestrative svolte dalla Marina egiziana: in tal senso, il culmine è al momento rappresentato dall’esercitazione «Hazm 2020», eseguita nell’estate del 2020 quale reazione a un possibile conflitto su larga scala fra le Forze militari regolari e irregolari fedeli al Governo di Tripoli e quelle stanziate in Cirenaica sotto il controllo del maresciallo Haftar, alleato ufficioso dell’Egitto nell’ingarbugliato scenario libico (15). Di maggior rilievo, è stata invece l’esercitazione «Qader», che nel luglio 2021 ha avuto come palcoscenico ideale l’inaugurazione della nuova base navale di Ras Gargoub, presso Marsa Matruk e dunque a circa 140 km
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dal confine con la Cirenaica e a 240 km dall’arsenale di Alessandria (16): la nuova base si estende su una superficie di oltre 10 chilometri quadrati, è dotata di una banchina lunga 1.000 metri e con un fondale di 14 metri, idoneo dunque ad accogliere unità navali di grosse dimensioni, mentre le infrastrutture comprendono anche un eliporto, un centro di comando e controllo interforze e altri edifici per attività addestrative e manutentive. Sul versante del Mar Rosso, il primo passo in direzione del potenziamento infrastrutturale è stato — all’inizio del 2017 — l’inaugurazione a Safaga del nuovo quartiere generale per la componente della flotta ivi dislocata, quest’ultima comprendente una delle due unità d’assalto anfibio classe «Nasser» e altre unità lanciamissili veloci con cui contrastare le operazioni dei ribelli Houti più a sud, al largo delle coste yemenite e a ridosso dello Stretto di Babel-Mandeb. Il secondo passo ha invece riguardato il potenziamento della base militare interforze di Berenice, forse più nota come Ras Banas, situata a circa 80 km a nord del confine con il Sudan e che già ai tempi dell’idillio fra Il Cairo e Mosca era stata oggetto di ampliamento: negli anni Ottanta, la posizione strategica di Ras Banas suscitò anche l’interesse degli Stati Uniti, ma a causa di disaccordi fra Washington e Il Cairo il progetto di farne una base disponibile anche per Forze militari statunitensi fu abbandonato. Completato all’inizio del 2020, il potenziamento di Berenice/Ras Banas ha riguardato sia le installazioni aeronautiche sia Una fase della cerimonia d’inaugurazione della nuova base navale di Gargoub, presso Marsa Matruk; visibili in banchina la fregata BERNEES e un corvetta classe «El Fateh» (Mod Egypt).
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quelle portuali, con la realizzazione di una nuova banchina su fondali elevati e in grado di accogliere unità navali di superficie e subacquee (17); da ricordare inoltre che questa mossa, necessaria a dotare la Marina e le altre Forze armate egiziane di una base moderna e funzionale al centro del Mar Rosso, riveste anche un’importanza strategica legata alle iniziative della Russia e della Turchia, entrambe attive a stabilire una presenza stanziale nell’area, rispettivamente a Port Sudan e a Suakin.
Considerazioni conclusive La disponibilità delle nuove basi di Gargoub e a Berenice è funzionale a un incremento sia delle attività operative vere e proprie sul versante mediterraneo e del Mar Rosso a cura della Marina egiziana, in autonomia o in collaborazione con altre Forze militari e navali estere aventi interessi condivisi, sia di esercitazioni ed eventi similari finalizzate a dimostrare le capacità d’intervento e proiezione della al-Quwwāt al-Bahareya al-Miṣriyya a diversi soggetti statuali e non che operano nell’intera regione mediorientale, Corno d’Africa compreso. Un interrogativo molto spesso sorto analizzando i progressi materiali fatti dalle Forze armate egiziane negli ultimi 10 anni riguarda la fonte dei finanziamenti per l’acquisizione di unità navali, velivoli, mezzi terrestri e così via: la risposta alla domanda ha diverse sfaccettature, in primo luogo la crescita industriale che, assieme a una ripresa
dei flussi turistici, ha permesso una crescita del PIL pari a 3,6% nel 2020 e 3,3% nel 2021. Un aspetto altrettanto determinante è stato il ruolo politico di primo piano giocato dal Cairo nella risoluzione di diversi contenziosi nell’area, primi fra tutti la sponsorizzazione di una soluzione diplomatica per la crisi interna libica e l’accordo per la tregua fra Israele e Hamas: non vanno inoltre dimenticate le partnership politiche e militari con Arabia Saudita, Emirati Arabi e Kuwait, che favoriscono gli investimenti e rafforzano dunque l’economia del paese. Esistono tuttavia fattori negativi di rilievo, per esempi un PIL procapite molto basso (di poco superiore ai 4.000 dollari nel 2020) e un tasso di povertà nel 2021 pari a circa il 30% della popolazione (ma in calo rispetto all’anno precedente) (18): come segnalato da Omar Kamal Othman Khalifa, «la doppia sfida per il paese risiede quindi nel continuare il consolidamento fiscale e allo stesso tempo aumentare gli investimenti nei settori chiave e nello sviluppo del capitale umano di 102 milioni di persone (19)». In conclusione, per la Marina egiziana il raggiungimento di un adeguato livello di capacità operative alturiere appare legato non solo al grado di familiarizzazione degli equipaggi con nuovi e moderni materiali ma anche al superamento di evidenti problemi socio-economici interni, due aspetti che si coniugano in un unico obiettivo strategico che i governanti del Cairo sono chiamati a perseguire con la massima determinazione. 8
NOTE (1) Fino a quel momento, l’Egitto era stato un protettorato britannico, con la guardia al Canale di Suez assicurata dalla Royal Navy. Tuttavia, essa mantenne e rafforzò questo compito fino al 1948, quando ebbe inizio il progressivo sganciamento delle Forze militari britanniche dal Mediterraneo. (2) https://www.treccani.it/enciclopedia/camp-david-accordi-di_%28Dizionario-di-Storia%29/. In virtù degli Accordi di Camp David, la Marina Militare è impegnata sin dal 1982 nel pattugliamento del Golfo di Tiran, nell’ambito della Multinational Force of Obserbers e impiegando quattro pattugliatori costieri. (3) www.limesonline.com/tag/primavera-araba. (4) https://web.archive.org/web/20181224211210/https://www.cia.gov/library/publications/the-world-factbook/geos/eg.html. (5) Come noto, i lavori per il raddoppio di una parte del Canale sono stati completati nel 2015, raddoppiando così la quantità di navi che possono transitare giornalmente lungo la via d’acqua, Nuovo Canale di Suez, i tre vantaggi per gli operatori, Il Sole 24 ore, 6 agosto 2015. Il caso dell’incaglio della portacontainer Ever Given ha comunque dimostrato la vulnerabilità del Canale di Suez a eventi accidentali e non. (6) www.cesi-italia.org/en/articoli/1325/egypt-and-the-development-of-its-national-navy-how-cairo-is-responding-to-the-new-challenges-of-the-mediterranean-andthe-red-sea. (7) www.reuters.com/article/us-israel-egypt-idUSKCN1VT07H. (8) Turkey-Libya Maritime Deal Rattles East Mediterranean, Reuters, December 25, 2019. (9) Egypt and Greece Sign Agreement on Exclusive Economic Zone, Reuters, August 6, 2020. (10) Cfr. https://www.aast.edu/en/colleges/comt/. (11) International Institute for Strategic Studies, The Military Balance 2021, London, Routledge. p. 334. Il termine «riserva» non deve trarre in inganno perché, sulla scorta di una tradizione di origine anglosassone, il personale in questa posizione svolge comunque determinati incarichi a tempo pieno, permettendo di destinare il personale in servizio attivo agli equipaggi delle unità navali, o a importanti funzioni a terra d’altro tipo. (12) www.globalfirepower.com. (13) Dalia Ziada, The Egyptian Navy’s Journey from Surviving to Thriving, Majalla, 9 luglio 2021. (14) Il nome Normandie è stato successivamente assegnato a una fregata di nuova costruzione realizzata per la Marina francese in sostituzione della precedente. (15) Fra le unità maggiori presenti all’esercitazione, l’unità d’assalto anfibio Anwar el Sadat con un contingente di elicotteri d’attacco e la sua dotazione di mezzi da sbarco, la fregata Tahya Misr, due fregate classe «Sharm el-Sheikh» e altre unità. (16) All’esercitazione hanno partecipato, fra l’altro, le due fregate classe «Al Galala» e le due unità d’assalto anfibio classe «Nasser». (17) www.ispionline.it/en/pubblicazione/berenice-red-sea-rebus-whats-still-vague-egypt-saudi-alliance-28507. (18) www.ispionline.it/it/pubblicazione/egitto-tutti-i-rischi-del-regime-di-al-sisi-30475. (19) https://ilcaffegeopolitico.net/936773/legitto-fra-ripresa-economica-e-aspirazioni-geopolitiche.
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Una marittimità rimossa La Marina libica e le coste tripoline dalla guerra corsara dei regni barbareschi all’odierno conflitto civile Leonardo Palma
Dottorando in Storia delle relazioni internazionali, si occupa di Guerra Fredda, armi nucleari, diplomazia europea nel XIX secolo e storia del Mediterraneo. Dopo aver frequentato l’Accademia Militare di Modena si è laureato all’Università di Roma Tre in Scienze politiche e relazioni internazionali, trascorrendo poi un periodo di studio in Inghilterra al King’s College (War Studies) dove è stato assistente di ricerca di J.A. Maiolo. Attualmente lavora presso l’Ufficio analisi e situazione di Leonardo MedOr. Suoi contributi su temi di diplomazia, affari internazionali, storia militare e racconti di viaggio sono stati pubblicati su Strife, Le Grand Continent, Ispi e The Salisbury Review. Per Historica ha pubblicato Gheddafi. Ascesa e caduta del rais libico.
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ochi forse sanno che l’inno dello United States Marine Corps, musicato e scritto intorno al 1827, fa un esplicito riferimento alla Libia per marcare l’estensione della propria capacità di azione. From the Halls of Montezuma/ to the shores of Tripoli/ we fight our country’s battle (1). La Libia, grande piattaforma al centro del Mediterraneo e del Nord Africa, ha visto il proprio sviluppo urbano concentrato sulle fasce costiere ma gli immensi deserti che ne determinano la vasta profondità hanno talvolta oscurato la marittimità dei suoi principali centri urbani e commerciali. Il soprannome di Tripoli, d’altronde, non è la «regina dei deserti» ma, per via del suo mare turchese e dei suoi palazzi stuccati di bianco, «la Sposa del Mare» o «la Sirenetta», in arabo Arūsat al-Baḥr. Il suo porto fu fondato dai Fenici nel VII secolo a.C. e utilizzato da Greci e Romani insieme a quello di Bengasi (fondato dalle comunità greche di Cirenaica, passato agli Egizi e chiamato Berenice in ricordo della moglie di Tolomeo III) e Misurata (il cui ampliamento portò alla scoperta dei resti di bagni termali romani, parte della stazione Cephalae Promontorium) (2). Gli Stati Uniti di Thomas Jefferson combatterono insieme alla Svezia di Gustavo IV Adolfo la loro prima guerra al di fuori dei confini nazionali proprio nelle acque antistanti la Libia, affrontando i regni barbareschi di Algeria, Tunisi e Tripoli. Sebbene formalmente sottoposti al dominio della Sublime Porta, queste reggenze (eyalet nel caso libico fino
Scuna USS ENTERPRISE contro la polacca TRIPOLI durante la Prima guerra barbaresca, dipinto di William Bainbridge Hoff 1878 (National Archives Military Records, US Navy).
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al 1902, al Jaza’ir in quello algerino fino al 1830) godevano di una autonomia tale da rasentare la sovranità ed esercitavano il proprio controllo sulle acque antistanti attraverso la guerra corsara (3). Fino a quando le colonie americane avevano fatto parte dei territori inglesi d’oltremare, il naviglio mercantile nordamericano era stato protetto dalla Royal Navy che, negli anni, era riuscita a intavolare un precario accordo con i corsari. La dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti privò quest’ultimi di tale protezione e, per scongiurare gli attacchi, il nuovo Governo americano decise di piegarsi a pagare un tributo ai vari pascià locali. Quando nel 1801 l’elayet di Tripoli pretese una quota più alta rispetto a quella pattuita in precedenza, il presidente Jefferson si rifiutò di pagare e la risposta tripolina fu l’abbattimento dell’asta della bandiera del consolato americano (l’assalto ad ambasciate e consolati sarebbe rimasto una costante della storia libica, anche durante il regime del colonnello Muhammar Gheddafi). Il gesto equivalse a una dichiarazione di guerra e segnò l’inizio
del conflitto che si concluse nel 1805 dopo un blocco navale e la presa della città di Derna con lo sbarco anfibio dei Marines (4). Sebbene dunque la Libia non abbia mai potuto vantare nel corso della sua storia recente una marina mercantile o da guerra in alcun modo rilevante, nondimeno il valore strategico dei suoi porti ne certifica un innegabile potenziale marittimo. D’altronde, anche la vittoria italiana nella guerra del 1911-12, che avrebbe strappato la Tripolitania (all’epoca trasformata in vilayet, una sorta di provincia) all’Impero ottomano e aperto la strada alla colonizzazione, fu possibile grazie alla superiorità della Regia Marina (5). Da quelle stesse colonie, proprio la Marina italiana avrebbe successivamente attinto gli equipaggi marittimi conosciuti come ascari di marina, una decisione frutto anche della disattenzione del Governo di Roma rispetto alle richieste di incremento degli organici delle forze navali (6). Paradossalmente, infatti, l’Italia avrebbe finito per porre in secondo piano la dimensione marittima della Libia:
La Battaglia di Derna, 1805, dipinto di Charles Waterhouse (archivio autore).
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USS PHILADELPHIA nella prima guerra barbaresca, dipinto di Edward Moran, 1897, Naval History Heritage (US Naval History and Heritage Command).
mentre i Governi dell’Italia liberale si accontentarono di mantenere un controllo sostanziale sulla costa e uno più formale nel resto del paese (per ragioni economiche ma anche per il repentino mutamento di priorità con lo scoppio della Grande guerra), il fascismo concentrò i propri sforzi sulla repressione della ribellione in Cire-
naica e sul consolidamento del potere italiano all’interno del paese. Il risultato fu che la base navale di Tobruk venne classificata dalla Regia Marina tra quelle di «seconda classe», mentre Tripoli e Bengasi addirittura relegate tra quelle «temporanee» (7). Eppure, durante la Seconda guerra mondiale proprio le rotte dall’Italia verso la Libia, che incrociavano quelle della direttrice Gibilterra-Malta-Suez, diventarono il teatro principale della Battaglia del Mediterraneo mentre nel Golfo antistante le coste libiche furono combattute la prima e la seconda battaglia della Sirte tra le Marine italiana e britannica (1941-42) (8). La storia moderna della Marina di Libia comincia con la fine della presenza italiana e l’indipendenza del paese sotto la monarchia senussita di re Idriss, ascetico sovrano di una confraternita orientale che aveva il suo principale riferimento e protettore politico nella Gran Bretagna. Nata ufficialmente nel novembre 1962 sotto il comando dell’ammiraglio Mansour Badr e tenuta a battesimo da ufficiali formati dagli inglesi al Dartmouth Naval College, la Al-Quwwāt al-Baḥriyya alLībiyya era una tipica marina costiera di piccole dimensioni, dotata di scarse capacità di autodifesa e pressoché nessuna di proiezione. Poche fregate, qualche corvetta e alcuni pattugliatori, tutto venduto da paesi terzi. Le prime unità, due dragamine classe «Ham», furono consegnate nel 1966 dal Governo di Sua Maestà britannica che si incaricò di continuare a fornire l’addestramento necessario agli equipaggi, gli armamenti e i pezzi di ricambio (9). Con la fine della monarchia e l’avvento del regime di Gheddafi (1 settembre 1969), la Libia divenne uno dei principali acquirenti d’armamenti al mondo (10). In pochi anni, le Forze armate di Tripoli raggiunsero l’ipertrofia: in alcuni settori, paesi come Egitto e Algeria (con una popolazione rispettivamente quindici e sei volte più grande della Libia) arrivarono a possedere meno di 1/3 delle unità Porto di Tripoli, 1930 (Hesham Tajouri Archive).
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libiche. Le principali motivazioni che spinsero Gheddafi a spese militari compulsive erano la sopravvivenza del regime, la deterrenza e il prestigio, sebbene non sempre in quest’ordine. Il risultato fu l’accumulazione del più grande e giacente arsenale d’Africa: aerei da combattimento francesi, batterie di missili terra-aria, carri armati russi, artiglieria contraerea, tutto rimase avvolto per anni nella plastica dentro qualche polveroso deposito a causa della scarsità di manodopera specializzata. In Libia non mancavano infatti solo piloti o carristi ma anche meccanici, strumentisti, tecnici e chiunque potesse mantenere e manutenere quell’enorme apparato (11). Anche per questo, il regime cominciò presto a considerare la possibilità di dotarsi di armi nucleari e avviò un costoso programma di ricerca che sarebbe durato quasi vent’anni senza però giungere ad alcun risultato concreto (12). Rispetto all’esercito, all’aviazione, ai servizi segreti o alle unità paramilitari come i Guardiani della rivoluzione, la Marina continuò a ricevere soltanto le briciole e la sua forza effettiva rimase limitata al naviglio più piccolo. Nel 1970 le dogane e la polizia portuale furono accorpate alla Marina per accrescerne gli organici e includere tra i compiti della Forza armata anche il contrasto ai traffici illegali e i controlli doganali. Con questo espediente, il regime riuscì a portare gli equipaggi marittimi a circa 8000 effettivi. Nel decennio successivo, pur professando il non-allineamento, Gheddafi diventò un assiduo cliente dell’Unione Sovietica nel Mediterraneo e lucrò sulla possibilità di un suo scivolamento verso il blocco orientale per esercitare pressione psicologica sugli americani e sugli europei e costringerli a venire incontro alle sue pressanti richieste anche in tema di armamenti (13). I sovietici vendettero al colonnello quattro corvette classe «Nanuchka» e sei sottomarini classe «Foxtrot 641» che, sebbene mediamente funzionanti e
bisognosi di costante manutenzione, rappresentavano comunque una minaccia per la Sesta flotta americana nel Mediterraneo. L’ambiguità di Gheddafi rispetto ai suoi rapporti con Mosca suscitava sospetti e faceva immaginare la possibilità che l’Eskadra navale sovietica potesse un giorno non solo ottenere il permesso di attraccare nei porti libici ma anche stabilirvi delle basi permanenti. Lo stesso Stalin, del resto, durante le discussioni sul futuro delle colonie africane dell’Italia, aveva manifestato interesse per una trusteeship sovietica sulla Libia (14). Tuttavia, l’opacità del colonnello in merito ai suoi rapporti con i russi fu strumentale agli interessi di molti Governi, incluso quello di Roma, desiderosi di rafforzare i propri rapporti economico-commerciali con Tripoli nascondendosi dietro all’alibi del contenimento sovietico. Un appunto riservato del SISMI in merito all’utilizzazione dei porti libici da parte dei russi, datato maggio 1979, dimostra come, sebbene il Servizio non escludesse in assoluto tale possibilità, nondimeno la ritenesse tutto sommato remota (15). Maggiori preoccupazioni destava il rischio, forse più concreto, che di fronte a un irrigidimento italiano Gheddafi potesse decidere di finanziare organizzazioni terroristiche come le Brigate Rosse (16). L’Italia contribuì dunque ad armare la Marina libica vendendo, tra le altre, quattro corvette classe «Assad» equipaggiate con Otomat Mk.I e dotate di capacità antisom con sonar e siluri leggeri (17). La piccola flotta libica solcò di rado i mari, molte unità rimasero inattive o alla fonda, ma nel 1986 alcune di esse furono coinvolte in una battaglia aerea e navale nel Golfo della Sirte. A causa del sostegno che Gheddafi garantiva a formazioni terroristiche e in seguito a una serie di attentati negli aeroporti di Fiumicino e Vienna nel 1985, gli Stati Uniti decisero di aumentare la pressione militare sulla Libia. La Sesta flotta schierata nel Mediterraneo centrale fu incaricata di svolgere una serie di esercitazioni navali in prossimità della linea della morte, un immaginario Sottomarino classe «Foxtrot» della Marina libica in navigazione nel Mediterraneo, 1982 c.a. (Defense Imagery).
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quest’ultimi risposero attaccando le postazioni radar sulla terraferma; a quel punto, unità della Marina libica, corvette e pattugliatori, tentarono di intervenire ma furono intercettate e distrutte (18). In risposta ai bombardamenti del mese seguente, Gheddafi avrebbe poi ordinato il lancio di due missili Scud contro un’installazione del sistema di radionavigazione LORAN della Nato, situato Corvetta lanciamissili classe «Assad» della Marina libica, 1982 c.a. (Defense Imagery). sull’isola di Lampedusa. Sebbene il Governo italiano pensasse inizialmente a confine marittimo tracciato arbitrariamente dal colonuna rappresaglia militare contro la base di lancio libica, nello nel 1973 nel Golfo della Sirte. L’escalation di tenla reazione finale fu improntata alla prudenza e alla desione aveva già provocato nel 1981 uno scontro aereo terrenza: a una nota formale di protesta diplomatica conclusosi con l’abbattimento di due Mig libici da fece seguito l’invio di unità paracadutiste a difesa delparte di intercettori americani. Nel marzo 1986, un l’isola, il rischieramento di reparti di volo e il pattumese prima dei bombardamenti su Tripoli ordinati da gliamento dello stretto di Sicilia a opera di una Squadra Ronald Reagan come rappresaglia per un attentato in navale composta da incrociatori missilistici, fregate e Germania, il contrasto in quelle contestate acque tra la cacciatorpediniere (19). US Navy e la Marina libica degenerò nuovamente in Il pessimo stato di salute della Marina si aggravò nei una battaglia aeronavale. In risposta all’attraversasuccessivi anni Novanta quando, dopo che Gheddafi fu mento americano della linea della morte, siti antiaerei accusato di essere il mandante della strage di Lockerbie libici aprirono il fuoco contro velivoli statunitensi e e di quella del deserto del Teneré, la comunità internazionale sottopose la Libia a un embargo totale. Gli effetti furono devastanti e il paese rischiò il collasso economico e sociale. Consapevole che anche la propria permanenza al potere era in pericolo, il colonnello decise di abbandonare l’ideologia in nome della sopravvivenza: rescisse i suoi legami con il terrorismo internazionale, si riappacificò con i propri vicini africani, sconfisse una ribellione islamista in Cirenaica, consegnò i presunti responsabili della strage di Lockerbie affinché fossero processati all’Aja e si accordò per compensazioni economiche alle famiglie delle vittime. Dopo gli attentati dell’11 settembre capì inoltre che avrebbe potuto sfruttare la guerra al Corvetta libica classe «Nanuchka» in fiamme dopo lo scontro nel Golfo della Sirte, 24 marzo 1986 (Navy Site Cruise Books).
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Vessillo della marina libica 1977-2011 (archivio autore).
terrorismo americana per riabilitarsi e agli inizi del 2003, dopo aver garantito il supporto del suo brutale apparato di sicurezza nella lotta contro Al-Qa‘ida, accettò di chiudere il proprio programma nucleare e disarmare (20). Tuttavia, il ritorno della Libia nella comunità internazionale, favorito dal continuo aumento
dei prezzi del petrolio e dalle possibilità di investimento che quell’industria poteva offrire, corrispose a una corsa al riarmo. Dietro alla retorica della modernizzazione, delle riforme e della rinascita libica, continuavano a perpetuarsi vecchie logiche mercantiliste: armi in cambio di petrolio, investimenti nei settori finanziario, infrastrutturale, commerciale e marittimo (in quest’ultimo caso attraverso la General National Maritime Transport Company, affidata al più pericoloso dei figli del leader: Hannibal, detto «il Capitano») (21). L’accumulazione di armamenti tornò così al centro degli interessi del colonnello e a novembre 2010, a poche settimane dall’inizio delle rivolte, la Marina libica poteva vantare nuovamente una piccola, sebbene solo parzialmente funzionale, flotta. Oltre a due sottomarini Al-Kyhber classe «Foxtrot», Tripoli schierava 2 fregate classe «Koni», 2 corvette classe «Bykov», 14 pattugliatori costieri e d’altura (alcuni armati con Mk2 Otomat SSM), 4 cacciamine classe «Natya», 4 navi da Fregata AL-GHARDABIA nel porto de La Valletta, 2005 (archivio autore).
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sbarco (LST) e 12 unità di supporto logistico a cui si aggiungevano 7 elicotteri SA-321 Super Frelon (22). Nel febbraio 2011, nella città di Bengasi iniziarono le proteste contro il regime che in breve si diffusero nel resto della Cirenaica trasformandosi in una rivoluzione. La brutale risposta repressiva di Gheddafi, gli interessi di alcuni paesi del Golfo ed europei a un cambio di regime, così come la pressione dell’opinione pubblica internazionale di fronte all’ipotesi che Bengasi si trasformasse in un’altra Srebrenica, crearono le condizioni affinché la Nato potesse intervenire con mandato del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (23). Negli otto mesi di guerra che seguirono, fino alla caduta di Tripoli in agosto e l’uccisione del colonnello in ottobre, la campagna aerea alleata distrusse buona parte della flotta libica che il regime aveva utilizzato per bersagliare i civili e i ribelli asserragliati nelle città costiere e supportare la controffensiva lealista (24). La speranza che la caduta del regime avrebbe potuto favorire una
transizione alla democrazia fu rapidamente disattesa e nel 2012 il paese sprofondò in una guerra civile che contrappose il Governo di Tripoli a quello di Tobruk, entrambi sostenuti da un complesso mosaico di milizie, gruppi armati e potentati locali sorti durante la rivoluzione. La Libia fu dunque soggetta a una divisione de facto che ne martoriò le istituzioni politiche, economiche e l’integrità territoriale stessa. L’intervento di potenze straniere, l’invio di armi e mercenari, insieme alla diffusione di formazioni affiliate all’ISIS, contribuì ad aggravare e prolungare il conflitto (25). Quel che rimaneva della Marina si schierò con i vari governi che si succedettero a Tripoli, operando per arginare il traffico illegale di petrolio da parte delle milizie o per favorirlo in base ai mutevoli interessi del momento. Ironicamente, il collasso delle istituzioni produsse, in negativo, la riscoperta della marittimità della Libia, divenuta il centro di smistamento, detenzione e transito delle rotte dell’immigrazione e del traffico di esseri umani dal-
Mappa delle principali infrastrutture libiche e attori sul terreno - aprile 2022 (Petroleum Economist 2022).
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Porto di Tripoli, Libia (archivio autore).
l’Africa subsahariana verso il Mediterraneo. Gli approdi nei dintorni di Tripoli tornarono così al centro dell’interesse delle potenze europee che organizzarono e finanziarono missioni navali per cercare di contenere la crisi migratoria e impedire l’afflusso di armi nella ex colonia italiana. Nel 2015, grazie alla firma degli Accordi di Skhirat (Marocco) mediati dalle Nazioni unite, si insediò a Tripoli un Governo di Accordo Nazionale (GNA) retto dal primo ministro Fayez al-Serraj che, tuttavia, non riuscì ad assicurarsi l’appoggio della Camera dei Rappresentanti (HOR) di Tobruk guidata da Aguila Saleh. La Libia restava così divisa, sebbene dotata di un Governo riconosciuto dalla comunità internazionale che poté beneficiare del supporto di diversi paesi europei e della UE: quest’ultimi finanziarono la ricostruzione della Guardia costiera e della Marina, garantendo assistenza, addestramento e logistica. La Guardia costiera sarebbe presto stata accusata di lucrare, piuttosto che contrastare, sui traffici illegali e sull’immigrazione clandestina, rendendosi responsabile anche di detenzioni di massa e torture nei confronti dei migranti in transito (26). Parimenti, il GNA subiva la pressione esercitata non solo da altri gruppi armati ma soprattutto dall’autoproclamato Esercito Nazionale Libico (LNA) guidato dal maresciallo Khalifa Haftar (sostenuto da attori esterni tra cui Egitto, Russia, EAU, Arabia Saudita e in parte dalle forze politiche di Tobruk) (27). Nascondendosi dietro al paravento della lotta contro gli islamisti, quest’ultimo lanciò una offensiva contro la Tripolitania
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che si sarebbe dovuta concludere con la vittoriosa conquista della capitale nella primavera del 2019. L’offensiva si tramutò invece in un sanguinoso assedio che servì soltanto a protrarre la presenza di potenze straniere nel paese: di fronte al rischio della capitolazione, il GNA si rivolse alla Turchia che garantì l’aiuto militare necessario a resistere in cambio di un accordo sulla ridefinizione delle rispettive ZEE marine. Quella intesa servì al Governo di Ankara per intralciare la realizzazione del corridoio energetico cipriota (EastMed), una manovra parte di una più articolata diplomazia delle cannoniere intesa a contestare i confini marittimi definiti dalla c.d. Mappa di Siviglia (28). L’arrivo a Tripoli dei generali di Erdogan, seguiti da mercenari siriani, droni e artiglieria, permise al GNA di sopravvivere al costo di accendere un’ipoteca sulla Tripolitania. Aziende, imprenditori, società e operai turchi avrebbero presto fatto la loro comparsa nella capitale mentre i due Governi si sarebbero accordati sulla possibilità per la Turchia di impiantare una base navale nel porto di Qasr Ahmed nei pressi di Misurata (uno dei più importanti in Nord Africa, comprendente gli uffici della Libyan Iron and Steel Company) e utilizzare quella aerea di AlWatiya nel distretto occidentale di Nuqat al-Khams. Lo stallo militare su Tripoli rese possibile riprendere i colloqui diplomatici all’interno della cornice della Conferenza di Berlino e di una parallela iniziativa delle Nazioni unite che riunì intorno a un tavolo le principali formazioni militari in conflitto. Le due track negoziali
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permisero la nascita di un provvisorio Governo di Unità Nazionale (GNU) affidato a un nuovo primo ministro, l’imprenditore originario di Misurata Abdul Hamid Dbeiba, cui fu affidato il compito di raggiungere un accordo per redigere una Costituzione e traghettare il paese verso elezioni presidenziali nel dicembre 2021. Veti incrociati, candidature bocciate e interessi contrapposti avrebbero impedito di tenere regolari consultazioni e, con l’avvento del nuovo anno, la Libia sarebbe tornata a dividersi tra un GNS (Governo di Stabilità Nazionale, riconosciuto dalla Camera di Tobruk e affidato all’ex ministro dell’Interno Fathi Bashagha) e il GNU di Dbeiba deciso a restare al potere fino a nuove elezioni. Mentre il GNS poteva contare sull’accordo raggiunto tra Bashagha, il presidente della Camera Saleh e il maresciallo Haftar, la permanenza al potere del GNU continuava a essere garantita dalla Tripoli Protection Force, etichetta anodina dietro cui si nascondevano le principali milizie e gruppi armati a protezione della capitale (29). Di fronte al recidivo caos istituzionale e al potere di ricatto e pressione esercitato dalle milizie e dalle potenze straniere in campo, riforme e investimenti nel settore della sicurezza hanno potuto fare ben poco negli ultimi anni per mettere in piedi una Marina simile a quella di un decennio addietro. Attualmente, sebbene i dati siano difficili da confermare, il GNU avrebbe a disposizione 4 pattugliatori (di cui una FSGM Al-Hani classe «Koni» da anni ferma nel porto di Malta, una classe «Combat-
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tante II» franco-tedesca armata con Otomat Mk2 AshM, due PV30); una LST Ibn Harissa; due AFD e ARS Al Munjed per il supporto logistico (30). A queste unità andrebbero aggiunte quelle della Guardia costiera, la branca della Marina libica che ha ricevuto maggiore sostegno economico da parte dell’Unione europea e di alcuni paesi mediterranei, tra cui l’Italia, per il contrasto all’immigrazione clandestina e ai traffici illeciti. Quest’ultima avrebbe a disposizione un organico di 1000 equipaggi e 9 pattugliatori costieri e d’altura: 1 PCC Damen Stan 2909; 5 PBF (4 Bigliani, 1 Fezzan); 3 PB (1 Burdi ex-Damen Stan 1605, 1 Hamelin, 1 Ikrimah ex FRA RPB20) (31). Alle navi sotto il controllo del GNU si sommano quelle a disposizione dell’LNA di Haftar, per un totale di ulteriori 7 pattugliatori ex-Damen Stan 1605, FRA RPB20 e 1 unità AFD di supporto. Molte di esse, tuttavia, sarebbero inutilizzabili. La Marina libica è dunque un attore minore se non irrilevante nel Mediterraneo, potendo esprimere soltanto residuali capacità di controllo costiero. Ciò nonostante, la guerra civile e la presenza di attori stranieri hanno forzatamente ricondotto la Libia alla sua importanza marittima dimostrando il valore strategico delle sue coste, dei suoi porti, del suo Golfo, dei terminali terrestri e off-shore, delle rotte che transitano davanti a essa per oltre 1770 km. Sia la Russia che la Turchia hanno manifestato il loro interesse a installare basi navali nei porti di Misurata e Sirte, mentre Haftar ha più volte ipotizzato l’ampliamento del porto di Tobruk in Cirenaica. Come sottolineato in precedenza,
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la Libia è una immensa piattaforma al centro del Mediterraneo dotata al tempo stesso di profondità verso l’Africa subsahariana, prossimità a due dei principali attori del mondo arabo e nordafricano (Algeria ed Egitto), e una naturale vocazione marittima delle sue coste. Purtroppo, anni di instabilità e blocchi hanno ridotto le principali aeree portuali del paese (Tripoli, Misurata, Bengasi, Marsa al-Brega, al-Khoms) in condizioni dilapidate, prive degli equipaggiamenti, dei mezzi e delle infrastrutture necessarie a un loro rilancio. Solo la
GNMTC, di proprietà dello Stato libico, possederebbe ancora 21 navi cargo operanti in partnership con alcune delle principali majors petrolifere, tra cui Shell, BP, Chevron, ExxonMobil e Repsol. In un contesto di marittimità forte, solo la crisi politica, istituzionale e securitaria del paese può spiegare la presenza di una marina storicamente debole o indebolita. Non può dunque destare sorpresa l’interesse che le coste della Libia e le sue acque hanno suscitato nei paesi rivieraschi del mondo antico, così come di quello contemporaneo. 8
NOTE (1) A. Collins, Songs Sung, Red, White, and Blue: The Stories Behind America’s Best-Loved Patriotic Songs, Harper Resource, 2003. (2) Sulla marittimità della Libia rimandiamo a P. Matvejevic, Breviario mediterraneo, Garzanti Editore, 2006. (3) R.C. Davis, Christian Slaves, Muslim Masters: White Slavery in the Mediterranean, The Barbary Coast, and Italy, 1500–1800, Palgrave Macmillan, 2003. A. Tinniswood, Pirates of Barbary: Corsairs, Conquests and Captivity in the Seventeenth-Century Mediterranean, Riverhead Books, 2010. Sulla realtà politica e sociale dell’elayet libico, cfr. N. Lafi Une ville du Maghreb entre Ancien Régime et réformes ottomanes. Genèse des institutions municipales à Tripoli de Barbarie (17951911), L’Harmattan, 2002. Miss Tully, Letters written during a ten-year’s residence at the Court of Tripoli, 1783-1795, Hardinge Simpole, 2008. (4) J. Wheelan, Jefferson’s War: America’s First War on Terror, 1801-1805, Carroll & Graf, 2003. W. Ian, Six Frigates: The Epic History of the Founding of the U.S. Navy, W.W. Norton & Company, 2008. E. Joshua E., Victory in Tripoli. How America’s War with the Barbary Pirates Established the U.S. Navy and Shaped a Nation, John Wiley & Sons, Inc., 2005. (5) Per una introduzione alla guerra italo-turca, vedi: L. Micheletta, A. Ungari, L’Italia e la guerra di Libia cento anni dopo, Studium, 2013. (6) A. Volterra, Sudditi Coloniali. Ascari eritrei, Franco Angeli, 2005. (7) S. Brian, A Fleet in Being. The Rise and Fall of Italian Sea Power 1861-1943, in The International History Review, Vol. 10, No. 1 (Feb., 1988), pp. 106-124. (8) Per il ruolo della Regia Marina nella Seconda guerra mondiale, il riferimento rimane: J. Sadkovich, La Marina Militare italiana nella Seconda guerra mondiale, Feltrinelli, 1994. G. Giorgerini, La guerra italiana sul mare. La Marina tra vittoria e sconfitta, Mondadori, 2000. (9) TNA London, Formation of Libyan Navy, 1962-1963, ADM 1/28342, ADMTY 38/63; Provision of ships for Libyan Navy 1962-1964, ADM 1/28051, MII/380/1/62; Arms sales to Libyan navy, FCO 39/419, 1968, NAL 10/12. (10) Per una panoramica generale sulla storia della Libia moderna, cfr. D. J. Vandewalle, A History of Modern Libya, Cambridge University Press, 2002. M. Cricco, Il petrolio dei Senussi. Stati Uniti e Gran Bretagna dall’indipendenza a Gheddafi (1949-1973), Polistampa, 2002. S. Van Genugten, Libya in Western Foreign Policies 1911-2011, London, Palgrave Macmillan, 2016. (11) D. Lutterbeck, Arming Libya. Transfers of Conventional Weapons, in Contemporary Security Policy, 30:3, 2009, 505-528. (12) M. Braut-Hegghammer, Unclear Physics: Why Iraq and Libya Failed to Build Nuclear Weapons, Cornell University Press, 2016. W. Bowen, Libya and Nuclear Proliferation. Stepping Back from the Brink, Routledge, 2017. L. Palma, The Nuclear Delusion. Proliferation Pathways and Failings in Qadhafi’s Libya, in Strife, War Studies Series, King’s College London, 2020. (13) Relations between Libya and Soviet Union, FCO 93/1012 (January-December 1977), FCO 39/1067 (1972), FCO 93/3341 (1983), TNA The National Archives London UK. Cfr. Memorandum. Libya-Soviet Relations, Directorate of Intelligence, June 20, 1975, CREST, General CIA Records, September 26, 2003. Vedi anche: R.B. St. John, The Soviet Penetration of Libya, in The World Today, Vol. 38, No. 4, April 1982, 131-18. (14) S. Mazov, The USSR and the Former Italian Colonies 1945-50, in Cold War History, Vol. 3, Issue 3, 2003, 49-78. (15) Appunto RISERVATO SISMI, Uso dei porti libici da parte dell’URSS, ASILS Archivio Storico Istituto Luigi Sturzo, AGA Archivio Giulio Andreotti, Serie Libia, B. 1300, F. 1979. (16) Intervista dell’autore all’ambasciatore Luigi Guidobono Cavalchini. Roma, 2019. (17) Visita di Abdul Salam Jallud in Italia, ACS Archivio Centrale dello Stato AAM Archivio Aldo Moro, Serie 6, ministero degli Affari Esteri, B. 157. Vedi inoltre: M. Bucarelli, L. Micheletta (a cura), Andreotti, Gheddafi e le relazioni italo-libiche, Studium, 2018. (18) Sullo scontro tra l’amministrazione Reagan e la Libia la letteratura è vasta, ci limitiamo a suggerire: M. Toaldo, The Origins of the US War on Terror: Lebanon, Libya and American Intervention in the Middle East, Routledge, 2015. (19) V. Nigro, «1986. Quando Craxi pensò di attaccare la Libia», in La Repubblica, 31 ottobre 2008. Sul ruolo italiano nello scontro tra USA e Libia, cfr. P. Soave, Fra Reagan e Gheddafi. La Politica Estera Italiana e l’Escalation Libico-Americana degli Anni ’80, Rubbettino, 2017. (20) L. Palma, Gheddafi. Ascesa e caduta del ra‘is libico, Historica, 2021. J. Steinberg, S. Thompson, An Imperial Love Affair. Tony and Lizzie and Bandar and Muammar, in Intelligence Review, March 2011, 30-34. P.V. Jakobsen, Reinterpreting Libya’s WMD Turnaround. Bridging the Carrot-Coercion Device, in Journal of Strategic Studies, 35:4, 2012, 489-512. (21) F.P. Trupiano, Un Ambasciatore nella Libia di Gheddafi, Greco&Greco Editori, 2016. (22) Libya, Middle East and North Africa, The Military Balance 2010, IISS International Institute for Strategic Studies, 262-263. (23) E. Chorin, Exit the Colonel. The Hidden History of the Libyan Revolution, Public Affairs, 2012. A. Pargeter, Libya. The Rise and Fall of Qaddafi, Yale University Press, 2012. C. Blunt, Libya: Examination of Intervention and Collapse and the UK’s future policy options, House of Commons, Foreign Affairs Committee, The Libya’s Inquiry, 2016-17. (24) R. Weighill, F. Gaub, The Cauldron. NATO’s Campaign in Libya, Hurst & Company, 2018. J. Pack, The 2011 Libyan Uprisings and the Post-Qadhafi future, Palgrave Macmillan, 2013. (25) F. Wehrey, The Burning Shores. Inside the Battle for the New Libya, Farrar, Straus, and Giroux, 2017. W. Lacher, Libya’s Fragmentation. Structure and Process in Violent Conflicts, I.B. Tauris, 2020. L. Palma, De Bello Libico. Le Contexte Détaillé d’une Séquence Prête à Exploser, in Le Grand Continent, GEG, ENS Paris, 2020. (26) S. Panebianco, The EU and migration in the Mediterranean: EU borders’ control by proxy, in Journal of Ethnic and Migration Studies, 2020, 1-19. (27) T. Eaton, The Libyan Arab Armed Forces. A Network Analysis of Haftar’s Military Alliance, Research Paper, Middle East and North Africa Program, Chatham House, June 2021. (28) E. Badi, To advance its own interests, Turkey should now help stabilize Libya, in War on The Rocks, May 2021. (29) Sulle milizie libiche, vedi: E. Badi, Exploring Armed Groups in Libya: Perspectives on Security Sector Reform in a Hybrid Environment, DCAF Geneva, 2021. (30) Libya, Middle East & North Africa, The Military Balance 2021, IISS International Institute for Strategic Studies, 353. (31) Ibidem, 354.
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40° anniversario di attività per SI.TE.MAR. SI.TE.MAR è sul mercato dal 1981 nel settore della sicurezza e occupandosi di progettazione, installazione e manutenzione degli impianti antincendio e proprio nel mese di novembre appena trascorso, ha festeggiato i suoi primi quarant'anni di attività. Un traguardo storico e un'emozione forte per un'azienda familiare che rappresenta tutt'oggi un fiore all'occhiello non solo per la provincia spezzina ma anche a livello nazionale ed internazionale. È un momento di festa ma altrettanto importante per chi ha caratterizzato la sua storia: è per questo che oggi abbiamo scelto di intervistare uno dei soci fondatori che ogni giorno entra e lavora in SI.TE.MAR portando l'esempio di quella passione che, quarant'anni fa, ha condotto lui e altri soci a creare con coraggio e un pizzico di fortuna un'azienda prestigiosa. La parola ora, al dottor Andrea Lucchini. Novembre 1981 - Novembre 2021. Quarant'anni di SI.TE.MAR. Vuole raccontarci qualcosa sull'azienda? Era il 9 novembre del 1981 quando insieme ad altri soci, abbiamo costituito SI.TE.MAR. La nostra singola preparazione nel settore antincendio ci ha portato a unire le forze con l'obiettivo di crescere e migliorarci giorno dopo giorno. L'attenzione al dettaglio e alle continue novità del mercato ci hanno permesso di crescere rapidamente sia nel settore terrestre che in quello marittimo. In ambito navale, mi piace ricordare la nostra prima esperienza di installatori di grandi impianti antincendio sulle Navi da Crociera di lusso della Renaissance Cruises: ci siamo distinti subito per preparazione e professionalità e questo ci ha consentito di sviluppare ampiamente le competenze in questo settore tanto da essere oggi un importante
punto di riferimento in ambito navale. Tra i clienti che si avvalgono da svariati anni del servizio SI.TE.MAR, infatti, c'è anche l’importante flotta di navi porta container di MSC (Mediterranean Shipping Company). Un'eccellenza territoriale quindi, ma non solo... Esatto. Abbiamo scelto di operare nel vasto mondo dell'antincendio offrendo ai clienti un servizio completo che comprende progettazione, fornitura, installazione, manutenzione e collaudo di impianti sia nelle aziende che a bordo delle unità navali e per quest’ultime anche a livello internazionale. Vantate anche un consolidato sistema di certificazioni per la gestione della qualità. Vuole ricordarcele? Sì, anche perché questo è un argomento a cui tengo molto. Le nostre certificazioni ci permettono di garantire la serietà, l'affidabilità e la competenza dei nostri servizi: dalla ISO 9001, alle ultime due che abbiamo ottenuto recentemente ovvero la ISO 45001 sulla salute e sicurezza del nostro personale e la ISO 14001 relativa all’ambientale. Inoltre siamo approvati dai principali Enti di Classifica internazionali: RINa, Det Norske Veritas/Germanischer Lloyd, American Bureau Shipping, Bureau Veritas e Lloyd’s Register of Shipping, i quali ci sottopongono periodicamente ad audit per il rinnovo delle certificazioni. In ultimo, SI.TE.MAR è autorizzata ad operare secondo l’articolo 68 del Codice della Navigazione per alcuni Compartimenti Marittimi italiani. Un bel bagaglio di esperienza e professionalità, non c'è che dire! Se dovesse dare un consiglio a un giovane che volesse intraprendere oggi la strada imprenditoriale, cosa potrebbe suggerire? Si suole dire che l'Italia non sia un pese per giovani ma la fiducia che avevo quarant'anni fa quando ho fondato insieme ad altri soci SI.TE.MAR, è la stessa che ritrovo in molti ragazzi che vertono intorREDAZIONALE
no alla nostra azienda e non solo. Non mi addentro in discorsi fiscali, ma resto convinto che il nostro sia un paese con un ecosistema di competenze, talenti e manodopera specializzata che non sono facilmente replicabili. Direi a un giovane di credere sempre nelle proprie idee e non demordere al primo problema perché ogni tempo ha le sue difficoltà ma anche molte opportunità per fare impresa. Inoltre, alcuni principi non vanno mai dimenticati: l'onestà, la pazienza, l'umiltà, la perseveranza e per ultimo ma non meno importante lo studio. Complice la ricorrenza, è emozionante ascoltarla. Come è riuscito in questi anni a seguire l'evoluzione e a stare sempre al passo con le novità aziendali? L'aiuto dei miei figli e delle nuove generazioni è stato fondamentale per tutto quanto attiene all'aspetto tecnologico e digitale. È questo il bello di un mondo del lavoro che "funziona". Io ho sempre avuto voglia di imparare e sono orgoglioso che la formazione rappresenti una caratteristica imprescindibile di SI.TE.MAR e sono anche una persona che continua a mettersi in gioco. Le nuove leve hanno bisogno di esempi e ho sempre cercato di far capire l'importanza della formazione, della fiducia e della collaborazione. Ecco come sono riuscito a seguire l'evoluzione di SI.TE.MAR e, se siamo già arrivati a quarant'anni, ritengo si sia lavorato bene! (sorride) E visti i risultati, ne siamo certi anche noi. L'orgoglio di essere arrivato a questo traguardo si legge negli occhi e si sente nella voce del dottor Lucchini che ringraziamo per averci raccontato storia, aneddoti, servizi e peculiarità di un'azienda che festeggia un compleanno speciale e meritatissimo ma che ne siamo certi, è solo all'inizio di una nuova prossima sfida e guarda avanti con fiducia per continuare a progettarne il futuro. Serena Rondello
PRIMO PIANO
La Tunisia, un paese mediterraneo da tenere in grande considerazione Giacomo Innocenti
Laureato in Scienze politiche e Relazioni internazionali, ha conseguito il Dottorato di ricerca in Istituzioni e Politiche (XXIX ciclo) presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore (Milano). È cultore della materia in Storia delle relazioni internazionali e in Storia delle relazioni tra Nord America ed Europa nella facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Ha recentemente pubblicato il volume: La Gran Bretagna durante il Primo Conflitto Mondiale e il suo intervento sul fronte italiano, Roma 2020. È ufficiale della Riserva Selezionata della Marina Militare e collabora con l’Ufficio Storico MM.
Vista del porto di Tunisi (africaeaffari.it).
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Il Mediterraneo dalla stabilità alla competizione L’affermazione può sembrare pleonastica: il Mediterraneo da molto tempo non è più nostrum, ma oltre a questo è anche un mare sempre più agitato e tale agitazione potrà avere serie conseguenze anche sul nostro paese che, apparentemente, non sembra seguire delle politiche atte ad anticipare gli eventi e agire per dotarsi dei migliori strumenti per «navigare» in acque così turbolente. Il Mediterraneo ha visto durante tutta l’epoca della Guerra Fredda una chiara supremazia degli Stati Uniti e dei loro alleati della NATO. Nonostante i molti conflitti regionali che hanno caratterizzato il periodo compreso tra la fine della Seconda guerra mondiale e la conclusione dello scontro tra Occidente liberal-democratico e l’Oriente del comunismo reale, le capacità militari statunitensi, sopportate dai loro alleati, hanno impedito a qualsiasi altra potenza di contendergli il ruolo di leader di questo mare stretto. Neanche l’allora flotta sovietica sarebbe mai riuscita a erodere tale indiscutibile superiorità. Il motivo per cui in questo relativamente piccolo specchio d’acqua era stata concentrata così tanta potenza navale, era che il Mediterraneo, allora come oggi, è crocevia fondamentale per il commercio e gli scambi internazionali, passaggio obbligato tra Oceano Indiano e Atlantico, attraverso una delle aree più ricche del pianeta. Era quindi indispensabile per le economie occidentali — quindi per la garanzia della stabilità geopolitica dell’Alleanza Atlantica — che fosse libero al transito. Non fu certamente un caso che nonostante le resistenze iniziali fu permesso all’Italia, potenza sconfitta della Seconda guerra mondiale, di entrare nella NATO, tra l’altro come paese fondatore, nonostante non avesse un affaccio sull’Oceano Atlantico (1). La sua adesione era necessaria per rafforzare il fronte sud, il Mediterraneo, in quanto punto fondamentale per la sicurezza di tutta l’Alleanza (2). La conclusione della Guerra Fredda e il progressivo disimpegno statunitense — dovuto anche alla necessità di concentrare le forze per la competizione con una sempre più aggressiva Cina — hanno però aperto la strada ad altri attori che hanno cercato nuove opportunità per estendere la loro influenza, non trovando di fronte a loro una qualche forma di resistenza ben organizzata.
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Non è quindi una novità dire che ultimamente alcuni paesi hanno avviato politiche più aggressive, finalizzate alla creazione di una loro area di influenza in quella che resta una delle più importanti superfici acquee del globo. Allo stesso tempo è aumentata la conflittualità e, a seguito dello scoppio delle cosiddette primavere arabe, l’instabilità regionale. Devono quindi essere analizzati gli attori all’interno del quadro nel quale l’Italia deve operare.
I nuovi attori Un paese con il quale, da anni, l’Italia ha notevoli rapporti, è l’Egitto. Il paese sta cercando, da un lato, di superare le tensioni interne, dall’altro, di prepararsi ad avere un atteggiamento più assertivo nella regione, dotandosi anche di armamento navale di ultima generazione. Molto vicino alle coste italiane risulta essere il problema della Libia, che non solo non sembra essere in grado di superare la sua guerra civile, vittima delle fratture tribali e oggetto degli interessi dei paesi vicini, ma subisce al suo interno anche la presenza sempre più invadente e stabile nell’area della Turchia e della Russia (3). Presenza quest’ultima veramente complessa con cui rapportarsi, visti i recenti sviluppi del conflitto in Ucraina. L’instabilità libica determina per l’Italia, non solo la potenziale difficoltà nell’approvvigionamento energetico, ma anche un maggiore flusso di migranti, spinti a intraprendere il viaggio in mare dal conflitto e dalle diverse crisi africane. Tali flussi migratori sono difficilmente controllabili a causa della mancanza di una vera autorità in Libia con la quale rapportarsi per trovare delle soluzioni condivise. Come detto, nella crisi libica si è anche inserita la Turchia, che ha chiaramente preso il controllo di vaste aree del paese, attuando una politica molto aggressiva nei confronti degli altri Stati, interessati ad avere un ruolo in Libia. Oltre a questo, la Turchia ha un atteggiamento sempre più aggressivo anche in alto mare, dove sta cercando di estendere la sua influenza, tentando di escludere dalle aree di sfruttamento marittimo le navi da pesca di altri paesi e impedendo lo sfruttamento delle risorse sottomarine nelle zone che ritiene essere di suo esclusivo interesse. Vicino alla Libia c’è un altro attore che sta acquisendo sempre più influenza, l’Algeria. Il paese nordafricano è
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Sommergibile classe «Kilo» della Marina algerina (aresdifesa.it).
molto attento a mantenersi il più possibile impermeabile alle influenze esterne, atteggiamento figlio della lunga dominazione coloniale francese e soprattutto della durissima guerra combattuta contro la Francia per conseguire l’indipendenza (1954-61) (4). L’Algeria, paese non allineato durante la Guerra Fredda, quindi ufficialmente equidistante dall’Occidente e dall’Oriente, ma in realtà acquirente di armamento sovietico, ha continuato a «rifornirsi» di sistemi d’arma dalla Russia.
Negli ultimi anni ha avviato una politica volta all’acquisto di unità navali, soprattutto impressionano gli sforzi di Algeri diretti ad ampliare la componente subacquea. L’Algeria ormai ha acquistato diversi sottomarini russi della classe «Kilo», di cui due della vecchia generazione rimodernati e quattro della generazione più recente, con grandi capacità operative, bassa rumorosità e grande autonomia. In particolare, questi sottomarini non hanno propulsione nucleare, ma sono dotati della tecnologia AIP (Air Independent Propulsion) che appunto, come accennato prima, garantisce grande autonomia in immersione riducendone così le necessità di emersione, oltre ad abbassarne di molto la rumorosità. Inoltre le capacità missilistiche di questi mezzi sono impressionanti, in quanto posseggono dei pozzi per il lancio di missili sia antiaerei sia balistici, capacità che fino a pochi anni fa erano appannaggio esclusivamente di britannici, israeliani, statunitensi e russi (5). Le cause e gli effetti di questo riarmo devono anche essere contestualizzati all’interno di altre politiche portate avanti dall’Algeria, che stanno già creando diversi attriti
Mappa illustrativa della ZEE rivendicata dall'Algeria (Shom, giornale ufficiale della Repubblica Democratica Popolare d'Algeria da analisidifesa.it).
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con l’Italia. In particolare, il 28 marzo 2018, Algeri ha creato unilateralmente una ZEE (Zona Economica Esclusiva) che tocca per 70 miglia le acque territoriali italiane a sud ovest della Sardegna (6). Ma, nonostante la sempre maggiore assertività algerina, l’Italia non può correre il rischio che si deteriorino i rapporti con Algeri. Infatti, questo paese non solo è già nostro importante fornitore di gas, ma alla luce della attuale crisi ucraina, Roma molto probabilmente dovrà sopperire alla possibile riduzione di gas russo anche con quello algerino, cosa cui sta al momento cercando di provvedere (7).
Un osservato speciale: la Tunisia Tra questi due paesi «problematici» c’è un altro Stato che merita particolare attenzione, cioè la Tunisia. Il più piccolo degli Stati nordafricani sta attraversando un periodo molto complesso, ma proprio per questo deve essere tenuto in grande considerazione. Per l’Italia le relazioni con la Tunisia sono estremamente importanti e risalgono indietro nel tempo: questo paese fu, infatti, a lungo luogo di destinazione dell’emigrazione italiana (8). Non solo, ma per lungo tempo — prima dell’avvento della Repubblica — entrò nelle mire espansionistiche italiane; Roma desiderava trasformare la Tunisia in una sua colonia, ma tali ambizioni furono però bloccate dalla Francia. Nonostante ciò, l’Italia ha sempre avuto una grande attenzione su tale paese (9).
La situazione politica All’indomani della «Rivoluzione dei gelsomini» (2010-11), le tensioni interne alla Tunisia si sono mantenute costanti e il paese si è caratterizzato da una forte instabilità politica per quasi dieci anni (10). Questa fase è terminata il 25 luglio 2021 con un colpo di mano del presidente Kaïs Saïed, che ha esautorato il Primo Ministro, sospeso il Parlamento e anche la Costituzione del 2014, assumendo i pieni poteri. A questa sua decisione, causata dall’apparente insuperabile instabilità politica, il Presidente ha fatto seguire un altro atto molto divisivo: ha espresso la sua intenzione di estendere il blocco dei lavori del Parlamento fino alle prossime elezioni politiche, previste per il dicembre 2022. Nel frattempo, Saïed ha avviato un processo di riforma elettorale e costituzionale. Ha fatto molta
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impressione la sua scelta di nominare come Primo Ministro una donna, Najla Bouden Romdhane, la prima figura femminile a ricoprire questo ruolo nel mondo arabo. La Tunisia è un paese tradizionalmente tra i più progressisti dell’area, ma qualcuno potrebbe sospettare che la nomina di un Primo Ministro donna possa essere solo un tentativo di cosiddetto pinkwashing attuato dal Presidente per rendersi più presentabile agli occhi della comunità internazionale (11). L’opinione pubblica tunisina si mostra oggi divisa, tra chi apprezza e confida nelle sue riforme, considerandole volte a garantire maggiore stabilità e chi invece teme in una svolta antidemocratica, con uno stabile accentramento dei poteri nelle mani del Presidente. A tutta questa situazione si lega la profonda crisi dei partiti, colpiti da dimissioni di massa e apparentemente incapaci di organizzarsi in modo da garantire un’opposizione efficace alle manovre del Presidente.
I rapporti con l’estero e la situazione economica L’economia del paese soffre di alcuni gravi problemi strutturali, tra questi la forte disuguaglianza tra le regioni costiere, in qualche modo legate alle economie europee, e quelle interne, molto più povere poiché slegate da queste ultime. A questo si aggiunge che la produzione nazionale tunisina, anche quella che viene portata all’estero, è a basso valore aggiunto. Il turismo, una delle maggiori fonti di guadagno del paese è in sofferenza, non solo per le intuibili conseguenze legate alla pandemia da Covid-19, ma anche per la percezione di instabilità dovuta agli attentati del 2015 (Bardo e Susa) e i più recenti del 2020 (12). Le manovre che i decisori politici stanno mettendo in atto da Tunisi mirano a richiedere prestiti da privati e Stati esteri, ma già nel 2021 il debito estero del paese equivaleva al 100% del PIL. Fino a luglio 2021 il Governo tunisino ha rinegoziato un accordo con il Fondo Monetario Internazionale (FMI) per un prestito ma, dopo lo scioglimento del Governo decretato dal presidente Saïed, i negoziati si sono interrotti. In questi mesi le politiche di austerità proposte dal Governo sembrano essere state approvate proprio per cercare nuovamente un accordo con il FMI. Riguardo alla situazione economica è possibile sintetizzare come segue. Tunisi — sempre attenta a tute-
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lare la propria autonomia — godeva già di un buon rapporto con i paesi del Golfo, ma il nuovo corso aperto da Saïed è stato visto con favore da Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti, che si sono anche detti disposti a sostenere politicamente il paese. La Tunisia però è attenta a mantenere buoni rapporti con l’Unione europea e gli Stati Uniti. Cosa estremamente importante, è anche l’impegno che la Tunisia ha dimostrato nel favorire il dialogo intra-libico, sostenendo la parte del Governo di unità nazionale del primo ministro Dbeibah (13). La Tunisia che, come accennato in precedenza, deve già gestire una complicata situazione interna, è chiaramente interessata a favorire una ritrovata stabilità per la Libia. Non si deve dimenticare, infatti, che la guerra civile libica ha privato la Tunisia delle rimesse che giungevano dai suoi cittadini che lavoravano in quel paese. Inoltre, Tunisi si oppone a qualsiasi ingerenza militare esterna in Libia, una politica che incontra anche gli interessi italiani, data la presenza in Libia di forze, come i contractor della Wagner e i turchi, che possono contrastare i tradizionali interessi di Roma nella regione. Infine, la Tunisia ha un forte legame con l’Algeria, ancora una volta confermato dal mancato appoggio all’estensione della missione ONU per il referendum nel Sahara occidentale (Minurso) fino al 31 ottobre 2022 (14). Questo referendum fa riferimento alla lunga contrapposizione tra il Marocco e il Fronte Polisario, che gode dell’appoggio dell’Algeria. La Tunisia tradizionalmente ha appoggiato le richieste di Rabat, ma questa scelta potrebbe indicare il cambio di atteggiamento di Tunisi nell’area.
Cenni circa i rapporti tra l’Italia e la Tunisia, ovvero a mò di conclusione Come accennato, la Tunisia è estremamente gelosa della sua autonomia dalle influenze straniere, ma lo stato di grave sofferenza della sua economia le impone la ricerca di un partner che le faciliti il superamento di questa situazione. Le attuali condizioni tunisine possono essere un’opportunità per l’Italia. L’Italia ha già concordato delle politiche migratorie con la Tunisia, ma è necessario sviluppare dei rapporti ancora più strutturati. Stringere ancora più strette relazioni con lo Stato nord
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africano potrebbe avere delle conseguenze estremamente positive per l’Italia, su tutte il maggiore controllo sullo Stretto di Sicilia aumenterebbe il potere negoziale di Roma nel Mediterraneo, garantendole una base sicura in nord Africa, così da avere un punto d’appoggio per irradiare una maggiore influenza sulla Libia, e fare sentire maggiormente il suo peso all’Algeria. Come detto prima, l’Algeria sta aumentando la sua presenza per la difesa di quelli che ritiene essere i suoi legittimi interessi sul mar Mediterraneo, quindi, sarebbe estremamente utile trovare il modo di mantenere un corridoio aperto tra l’Italia e la Tunisia, soprattutto creare una forma di rapporto privilegiato, e questo può essere conseguito sia usando la leva economica che sfruttando i rapporti tra la Marina tunisina e quella italiana. La Marina tunisina, infatti, può essere considerata la cenerentola delle Forze armate di Tunisi. All’interno di un contesto in generale non particolarmente sviluppato, effettivamente la flotta tunisina è veramente poco consistente, soprattutto considerando i già accennati importanti passi che sta facendo l’Algeria per crearsi una flotta temibile. Al contrario, la flotta tunisina resta una Forza armata concepita principalmente per il pattugliamento costiero. D’altronde, considerando i problemi interni di terrorismo e instabilità, peggiorati con il ritorno nel paese dei cosiddetti foreign fighter tunisini e i sospettati di terrorismo che a breve dovranno essere scarcerati, non stupisce che l’interesse sia maggiore relativamente alla difesa dei confini terrestri da infiltrazioni esterne e sicurezza interna (15). Situazione aggravata anche dalla instabilità libica che potrebbe trasmettersi anche all’interno del territorio tunisino. È chiaro quindi perché ci sia una maggiore attenzione sulle Forze terrestri e aeree, che non a quelle marittime. L’Italia, tra l’altro, ha già un discreto rapporto per quanto concerne le forniture aeronautiche, dato che l’aviazione tunisina possiede diversi velivoli di produzione italiana. Tutto questo a dimostrazione di come il rapporto tra il comparto industriale italiano della Difesa abbia un legame consolidato con la Tunisia, fatto dimostrato anche dai trattati esistenti in questo settore tra i due paesi, quali la Convenzione di cooperazione nel campo militare (16). Non solo, ma in diverse occasioni il Governo italiano ha fatto presente alla controparte
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La Tunisia, un paese mediterraneo da tenere in grande considerazione
Nave BERGAMINI in attività addestrativa con la Marina tunisina.
tunisina che i finanziamenti italiani verso il paese nordafricano sarebbero stati condizionati anche dall’impegno che questo avrebbe dimostrato nei confronti delle politiche migratorie. La reazione della Tunisia a queste richieste è stata molto veloce e favorevole dato che non può perdere quei finanziamenti, considerata la suddetta precaria condizione economica (17). Tutto questo a ulteriore dimostrazione di quanto il nostro paese abbia una voce in quella regione. Però questo dimostra come questa nazione debba dotarsi di un apparato per tutelare le sue coste e controllare maggiormente i flussi migratori. Una condizione che dovrà essere intelligentemente sfruttata per legare meglio la loro Marina alla nostra. La flotta tunisina di fatto possiede solo un numero ridotto di pattugliatori costieri, più o meno recenti, prodotti da diversi paesi, tra questi francesi, tedesche, olandesi statunitensi e cinesi. L’industria cantieristica italiana ha fornito circa una dozzina di piccole unità alla Tunisia, proprio in base agli accordi per il monitoraggio dei flussi migratori (18). Esistono anche diversi programmi di cooperazione che legano la Tunisia alla NATO. L’Alleanza Atlantica ha creato infatti dei programmi di formazione per il personale tunisino, e, soprattutto, gli Stati Uniti hanno organizzato diversi incontri con elementi della Marina tunisina (19). È chiaro quindi che la Tunisia guardi all’Occidente per migliorare le capacità della sua Difesa. La flotta tunisina ha una lunga tradizione di rapporti con la nostra Marina Militare, rapporti che si sono forse un pò incrinati durante le più recenti crisi migratorie, ma che comunque non si sono interrotti. L’Italia ha già avviato dei programmi di formazione per il per-
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sonale tunisino a diversi livelli e alcuni programmi di cooperazione, come la Commissione Militare Mista. In generale, i rapporti tra le nostre Marine sono buoni e nonostante le tensioni riguardanti i diritti di pesca (20) e le superabili incomprensioni relative alla gestione dei flussi migratori, continuano gli scambi di visite da parte delle nostre navi in Tunisia e gli attracchi di unità tunisine in Italia (21). La componente navale tunisina però risulta essere antiquata, con la maggioranza delle sue navi «maggiori» che sono state prodotte — all’estero — negli anni 70, mentre alcune unità addirittura risalgono al decennio precedente. L’Italia potrebbe impegnarsi in uno sforzo volto a fornire alla Tunisia non solo aiuti economici, ma anche battelli ed equipaggiamenti moderni, così da legare maggiormente Tunisi a sé, garantendosi in questo modo anche un nuovo partner che possa aiutarla nella disputa delle ZEE, soprattutto nei confronti dell’Algeria. Un programma di questo genere avrebbe dei tempi di realizzazione medio-lunghi, con un impegno consistente di risorse, sia in termini economici che politici. I risultati però potrebbero essere estremamente vantaggiosi per l’Italia, se fosse portata avanti con decisione questa strategia. La formazione di un qualche stabile partenariato con la Tunisia, garantirebbe all’Italia non solo una migliore gestione dei flussi migratori, ma anche una base per tutelare meglio i suoi interessi in Libia. Soprattutto, come detto in precedenza, un ottimo rapporto con la Tunisia darebbe a Roma un maggiore controllo sul Canale di Sicilia. Questa condizione permetterebbe all’Italia di godere di una posizione nel Mediterraneo tale da poter esercitare un ruolo di maggior peso nell’area, esprimendo una propria strategia, senza subire le iniziative di altri attori. In questo modo l’Italia potrebbe diventare un paese determinante nella gestione dei rapporti all’interno di questo mare, che per quanto stretto, resta un fondamentale snodo negli equilibri economici e geopolitici mondiali. 8 87
La Tunisia, un paese mediterraneo da tenere in grande considerazione NOTE (1) L’ingresso o meno nella NATO aprì un forte dibattito in Italia, tra chi appunto appoggiava l’ingresso del paese nell’Organizzazione e chi al contrario avrebbe preferito che l’Italia mantenesse un profilo di neutralità. La posizione geografica, insieme a considerazioni politiche spinsero infine il paese a chiedere di entrare nella NATO come membro fondatore. Tra gli altri, cfr.: M. de Leonardis, Guerra Fredda e interessi nazionali, Soveria Manelli, Rubbettino, 2014; AA.VV., L’Italia del dopoguerra. Il trattato di pace con l’Italia, ministero della Difesa, Roma, 1998; AA.VV., L’Italia del dopoguerra. Le scelte internazionali dell’Italia, ministero della Difesa, Roma, 1999; AA.VV., L’Italia del dopoguerra. L’Italia nel nuovo quadro internazionale. La ripresa (1947-1956), ministero della Difesa, Roma, 2000. (2) Anche se a posteriori può sembrare difficile da credere, ma a spingere per un ingresso dell’Italia nella NATO sarà soprattutto la Francia, che voleva rafforzare il fronte mediterraneo, anche per favorire il suo controllo sull’Algeria. Parigi riteneva il paese nord Africano non come colonia, ma come territorio metropolitano, di conseguenza voleva che anche questa fosse protetta dalla NATO. (3) Cfr.: A. De Sanctis, Se perdiamo lo Stretto, in Limes n. 2, 2021, pp. 65-68. (4) Come altri conflitti di decolonizzazione la guerra d’Algeria fu molto cruenta, ma lo scontro che contrappose Francia e il fronte d’indipendenza algerino fu particolarmente duro e gli strascichi si sono portati molto avanti negli anni. (5) Per un approfondimento sui progressi militari e gli interessi algerini cfr.: T. Della Ragione, Algeri alle porte, in Limes n. 2, 2021, pp. 203-210. (6) F. Caffio, Una ZEE per l’Italia, in Limes n. 2, 2021, pp. 113-114. (7) I. Lombardo, Gas, l’Italia stringe un patto con l’Algeria: in arrivo 9 miliardi di metri cubi, in La Stampa, 12-04-2022; AA.VV., Eni e Sonatrach concordano l’aumento delle fornitura gas dall’Algeria attraverso Transmed, 11-04-2022. (8) Per un approfondimento cfr.: M. Sembolini, Gli italiani di Tunisia. Storia, evoluzione e integrazione della comunità italiana, in Africana. Rivista di studi extraeuropei, n. 26, 2020, pp. 143-152. (9) In quegli anni la lotta per l’acquisizione di aree in terra d’Africa era estremamente intensa, ma oltre a questo nello stesso periodo si stava profilando l’annosa questione della contrapposizione tra Italia e Francia, dove la prima avviava un percorso per affermarsi nello scacchiere europeo e coloniale, mentre la seconda cercava di garantire che non nascesse ai suoi confini una potenza che potesse in qualche modo competere con lei. Sempre di questi anni sono le famose «guerre doganali» tra Italia e Francia che furono appunto una delle manifestazioni di questa contesa. (10) Sulla situazione in Tunisia, cfr.: Messina P., La Tunisia è in caduta libera, in Limes n. 2, 2021, pp. 199-202. (11) Per un approfondimento sulle politiche tunisine nei confronti delle donne, cfr.: A. M. Tripp, Seeking Legitimacy: Why Arab Autocracies Adopt Women’s Rights, Cambridge, Cambridge University Press, 2019, pp. 231-260. (12) In particolare questi attentati sono andati a colpire luoghi fortemente frequentati da turisti occidentali, cfr.: AA.VV., Strage di turisti in spiaggia: 39 morti in Tunisia, 27-06-2015, in La Stampa, www.lastampa.it/esteri/2015/06/27/news/strage-di-turisti-in-spiaggia-39-morti-in-tunisia-1.35255970; AA.VV., Attentato in Tunisia, muore un agente. La polizia uccide tre sospetti, 06-09-2020, in La Repubblica https://www.repubblica.it/esteri/2020/09/06/news/agente_accoltellato_in_tunisia_la _polizia_spara_a_tre_sospetti-266408411. (13) Cfr. L. Frugati, Tunisia: la democrazia diretta secondo Saied, Focus Mediterraneo Allargato, in ISPI, n. 18, 08-02-2022. (14) Cfr. Security Council extends mandate of United Nations Mission in Western Sahara, Adopting Resolution 2602 (2021) by 13 Votes in favour, 2 in Abstentions, 29-10-2021 in www.un.org/press/en/2021/sc14681.doc.htm. (15) Dei circa 2200 detenuti accusati di terrorismo, la maggioranza sarà rilasciata nei prossimi tre anni, cfr.: L. Frugati, Tunisia: la democrazia diretta secondo Saied, cit. (16) Cfr.: www.difesa.it/SMD_/schede_approfondimento/Pagine/Cooperazionetecnicomilitare9.aspx. (17) S. Colombo, Italia-Tunisia: relazioni sempre più tese, in Affarinternazionli, 14-08-2020. (18) Si tratta di piccole unità di dimensioni comprese tra i 27 e 35 metri, cfr.: AA.VV., Cantiere Vittoria, nuovo ordine dalla Marina tunisina, in The Medi Telegraph, 19-11-2015. (19) Per esempio, la Marina tunisina ha partecipato a esercitazioni organizzate dalla NATO Science for Peace and Security, ma anche con la Marina Militare italiana. Cfr.: Marina Militare, OASIS 17: La Marina italiana si addestra con la Marina tunisina, in Difesa online, 26-10-2017; AA.VV., USNS Trenton and Tunisian Navy Exercise Maritime Security Capabilities, 21-01-2021; AA.VV., USNS Trenton and Tunisian Navy Exercise Maritime Security Capabilities, 21-01-2021. (20) La contesa per lo sfruttamento dei tratti più pescosi del mare in realtà ha contrapposto a lungo Italia e Tunisia, prima addirittura dell’indipendenza tunisina dalla Francia. I pescatori italiani hanno spesso subito attacchi da parte di motovedette tunisine e ancora oggi non si è riusciti a trovare una soluzione definitiva a questo problema. Per un approfondimento, tra gli altri: P. Messina, La guerra del gambero, in Limes n. 2, 2021, pp. 89-100. (21) Fatto dimostrato dai recenti attracchi di navi tunisine in Italia, come la nave scuola che ha attraccato a Trieste, cfr.: AA.VV., Trieste, ormeggiate sulle rive navi-scuola tunisine. Il Comune riceve i comandanti, in Il Piccolo, 17-03-2022. FONTI AA.VV., Cantiere Vittoria, nuovo ordine dalla Marina tunisina, in The Medi Telegraph, 19-11-2015. AA.VV., Italia-Tunisia, addestramento per le rispettive Marine Militari al Centro Addestramento Aeronavale MARICENTADD di Taranto, in Report Difesa, 9-02-2019. AA.VV., L’Italia del dopoguerra. Il trattato di pace con l’Italia, ministero della Difesa, Roma, 1998. AA.VV., L’Italia del dopoguerra. Le scelte internazionali dell’Italia, ministero della Difesa, Roma, 1999. AA.VV., L’Italia del dopoguerra. L’Italia nel nuovo quadro internazionale. La ripresa (1947-1956), ministero della Difesa, Roma, 2000. 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STORIA E CULTURA MILITARE
La guerra civile spagnola e Gibilterra Ovvero: «Lessons from the past» per riflettere sull’attualità del Mediterraneo allargato Patrizio Rapalino
Contrammiraglio (ris.), già comandante del Secondo Gruppo contromisure mine della NATO tra il 2009 e il 2010. Ha diretto la Rivista Marittima dal 2011 al 2014. È stato addetto per la Difesa in Libia da giugno 2015 a settembre 2019.
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Una doverosa premessa Dopo qualche anno di missioni nel Mediterraneo allargato, tra cui la Libia, aiutato dalla distanza sociale imposta dal Covid-19, finalmente ho avuto il tempo di riflettere, aiutato anche dalle magnifiche trasmissioni di RAI Storia a favore degli studenti, e così addivenire ad alcune constatazioni, semplici nella loro esposizione concettuale e credo altrettanto evidenti nella disamina concreta dei fatti.
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La prima constatazione: lo studio della storia, per quanto ben illustrata e ricca di dettagli, non sempre tiene debitamente conto della geografia. Qualora, inoltre, siano effettuate deduzioni di carattere strategico, mostrando carte geografiche, spesso il mare continua a essere assente e raramente si fanno considerazioni in cui vengano tenuti in dovuto conto gli stretti, ossia i punti focali in cui le linee di comunicazioni marittime debbano, a risparmio di tempo e denaro, concentrarsi in passaggi obbligati vicino alle coste e quindi facilmente controllabili e ostruibili. La seconda constatazione: non c’è crisi, guerra civile, invasione o fenomeno di qualsiasi natura interno a uno Stato qualunque del Mediterraneo allargato, che non comporti gravi squilibri sulla scena internazionale fino ad arrivare alla guerra. Se alla guerra non si arriva grazie alla mediazione di organizzazioni internazionali, ciò che ne consegue potrebbe essere, per assurdo, addirittura peggio della guerra stessa: uno stato di crisi cronico che si può protrarre per decenni in cui, rispetto a una guerra terminata con un vincitore dopo una sanguinosa battaglia decisiva, non vi sono vincitori, ma solo vinti e i caduti non sono soldati ma intere popolazioni civili che di generazione in generazione raggiungono un numero di vittime maggiori rispetto a una guerra combattuta in tempi brevi con conseguenti migrazioni di massa. Gli esempi sono numerosi e vanno dallo Stretto di Gibilterra al Golfo Persico considerando che anche il Kuwait, invaso nel 1990 dall’Iraq, ricade nell’area che consideriamo appartenente al Mediterraneo allargato. Oggi il regime di Saddam Hussein non esiste più, ma possiamo ritenere la partita chiusa? La crisi israelo-palestinese da quanti decenni si protrae? Possiamo considerare l’area stabile? La crisi libica, dopo la guerra contro Gheddafi, comincia a raggiungere i dieci anni di instabilità. Il conflitto in Somalia ha generato il fenomeno della pirateria in prossimità dello Stretto di Bab el-Mandeb. L’area del Corno d’Africa che sempre rientra nel Mediterraneo allargato ha raggiunto la stabilità? Il conflitto del Kosovo parrebbe invece un raro esempio di crisi risolta in modo positivo; ma il Kosovo può essere considerata un’area periferica rispetto al Mediterraneo 91
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allargato, senza accesso diretto all’Adriatico, con un mare ormai stabilizzato dopo anni di crisi e operazioni di embargo con dispositivi NATO e nazionali in perenne pattugliamento nel Canale di Otranto e in Adriatico. La terza constatazione: le potenze che intervengono a favore di una delle fazioni in conflitto in un paese situato nel Mediterraneo allargato finiscono in genere per insabbiarsi in una continua e crescente fornitura di aiuti quasi sempre a fondo perduto, non sempre giustificati dall’esito finale della guerra, qualora ci sia una fine. Quarta constatazione: il carattere delle popolazioni che vivono lungo le coste del Mediterraneo, a prescindere dal lato nord o sud, è in genere fiero e presenta una marcata gelosia della propria sovranità. Le ingerenze esterne vengono mal viste. Tuttavia, gli aiuti di tipo militare vengono sollecitati senza remore dai belligeranti. In sintesi, ciò che risulta evidente è che non vi sia isola o Stato, o parte di questo, che si trovi lungo quella che era la scorciatoia imperiale britannica che congiungeva la Gran Bretagna all’India (Gibilterra-Suez), che in caso di rivoluzione o fenomeni destabilizzanti, non abbia effetti negativi sul sistema geopolitico mondiale. Di fatto, eventi di questo tipo hanno sempre comportato l’intervento, diretto o indiretto, delle potenze mondiali che normalmente usano il Mediterraneo come via di accesso e canale di comunicazione. Ovvio? Non so fino a che punto lo sia visto che l’approfondimento della storia in Italia continua, in diversi casi, a essere separato da quello della geografia e dell’economia. Si potrebbero fare diversi esempi anche di attualità; invito tuttavia il lettore a fare un passo indietro nel passato, per esaminare un esempio storico da manuale che aiuta a riflettere: la guerra civile spagnola del 1936-39. Qui, in embrione, troviamo tutto quello che oggi abbiamo in altri Stati rivieraschi: la presenza di uno Stretto di importanza strategica (Gibilterra), materie prime, diseguaglianze sociali, lotte ideologiche intestine e fomentate dall’esterno, anche di natura religiosa, militari politicizzati, interessi strategici opposti delle potenze dell’epoca; in sostanza i fattori che, interpretando in maniera estensiva il pensiero di Mahan, influenzano l’evoluzione del potere marittimo di una nazione, tra cui i più soggettivi sono il carattere della nazione e del Governo (1). Inoltre, allora, era già presente una orga-
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nizzazione internazionale come la Società delle nazioni che ricorda le Nazioni unite e addirittura un Comitato di Londra noto come Comitato di controllo del non intervento che rammenta l’applicazione delle regole di embargo moderne, fino ad arrivare ai volontari delle Brigate internazionali, che pur avendo combattuto duramente con notevoli perdite, erano animati e ci richiamano, in embrione, i valori di libertà e lo spirito di militanza pacifista oggi secondo alcuni rappresentati in diverse organizzazioni non governative.
Il fattore scatenante interno: El pronunciamiento I fatti sono abbastanza noti: il 17 luglio 1936 scoppia la rivolta militare guidata da un gruppo di generali contro il governo di Madrid, governo insediatosi in modo legittimo, grazie alla vittoria, anche se per pochi voti, della sinistra del Fronte Popolare. Le dinamiche politiche della Spagna che hanno portato a una guerra sanguinosa di tre anni, con milioni di morti, sono altrettanto note. Per ragioni di spazio, a favore del lettore ci limitiamo a sintetizzare che si trattò di un conflitto tra la Spagna più industrializzata con una forte matrice operaia e sindacale, guidata da intellettuali progressisti e anticlericali che, almeno nelle intenzioni, volevano traghettare la nazione verso il futuro e un gruppo di militari politicizzati e reazionari legati ai latifondisti e alla Chiesa, che volevano conservare lo status quo, compresi i loro privilegi, differenziandosi sensibilmente, soprattutto a livello ideologico, con il più moderno fascismo di stampo italiano (militare, clericale, reazionario il franchismo; incentrato su movimenti di massa, popolari e populisti, il fascismo) e nessuna ingerenza esterna durante la preparazione e fino al giorno della rivolta. Si ebbe subito il massimo successo nel Marocco spagnolo grazie al controllo del generale Franco sulle fedeli truppe marocchine. Per la cronaca, i soldati di religione musulmana giocheranno un ruolo chiave per ristabilire in Spagna il cattolicesimo più tradizionalista contro gli assalti e le profanazioni di chiese e conventi perpetrati dai tragici eccessi dei repubblicani. Il 19 luglio, il Primo ministro spagnolo Giral inviò un telegramma, con cui richiedeva aiuto contro la rivolta militare, al collega francese Leon Blum, an-
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La nave sovietica KURSK al porto di Alicante, dicembre 1936 (wikipedia.org).
ch’esso a capo di un governo di sinistra del Fronte Popolare (strategia politica voluta da Mosca per arginare il fascismo e il nazismo dilaganti in Europa). Aiutare il governo spagnolo per Blum era un preciso dovere morale, giustificato dai comuni ideali e dall’odio per le forze reazionarie di destra filofasciste. Vi erano, inoltre, anche questioni di carattere strategico-militare che, anche se personalmente estranee alla cultura di un leader socialista dichiaratamente pacifista come Blum, non potevano che avere un peso rilevante all’interno del gabinetto, dove erano presenti i radicali, molto più attenti alle questioni di carattere militare (2). Pertanto, i ministri degli Esteri, della Difesa e dell’Aeronautica, rispettivamente Delbos, Daladier e Cot, tutti radicali, anche se titubanti per le possibili implicazioni internazionali, si unirono ai colleghi socialisti, nell’aiutare il governo di Madrid. Una Spagna nazionalista, con un governo autoritario di destra, veniva percepita
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come potenzialmente ostile alla Francia, che avrebbe dovuto presidiare anche il confine dei Pirenei. Un’alleanza tra Germania, Italia e Spagna, con una Gran Bretagna che dava continue dimostrazioni di voler restare neutrale, veniva considerata come la peggiore situazione strategica che si potesse verificare, sempre contrastata con forza nel passato, a prescindere dal tipo di governo, repubblicano o monarchico che fosse. Anche una situazione di neutralità non benevola della Spagna nei confronti della Francia, così come poi si verificò, avrebbe potuto spingere la Germania e l’Italia a osare di più di quello che già stavano facendo. In sostanza, per la Francia non si trattava soltanto di salvaguardare le proprie vie di comunicazione marittime nel Mediterraneo occidentale, visto che i convogli, a parte le necessità più urgenti dei primi giorni di guerra, sarebbero stati dirottati nel più sicuro oceano Atlantico, bensì di evitare l’accerchiamento strategico, di secolare memoria.
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Ingerenze esterne e attività diplomatica Per la Francia, aiutare ufficialmente Madrid significava rischiare il conflitto in Europa. Non aiutare la Spagna, al contrario, significava rischiare l’accerchiamento e ritardare soltanto il pericolo di guerra. Tra le due vie estreme si cercò un compromesso: aiutare di nascosto il governo spagnolo, tramite paesi terzi, società private e altri sotterfugi. Queste considerazioni portarono alla politica del non intervento proposta dallo stesso Blum alle altre potenze. Altri imprevisti, alla consegna dei primi aiuti francesi, furono provocati dai rappresentanti del governo di Madrid a Parigi. L’ambasciatore Càrdenas, si dimise, in quanto simpatizzante per la causa nazionalista; ma prima di andarsene fece di tutto per ritardare la spedizione di un importante carico di armi, creando problemi di carattere burocratico. Il 25 luglio, quando nonostante i disaccordi presenti all’interno del governo, Blum decise ugualmente di far consegnare le armi, il consigliere dell’ambasciata di Spagna e l’addetto militare si rifiutarono di firmare i documenti necessari e l’assegno di pagamento. Dopo aver presentato le dimissioni, dettero alla stampa la notizia sulle manovre segrete del governo di Parigi. In Italia, il Duce era inizialmente contrario ad aiutare i nazionalisti per le implicazioni negative che si potevano avere nel quadro generale della politica estera italiana, appena chiusa la partita con la conquista dell’Etiopia ancora da consolidare. Mussolini respinse decisamente la prima richiesta di aiuti formulata da Franco il 20 luglio, pervenuta tramite l’addetto militare a Tangeri, maggiore Luccardi. Ulteriore risposta negativa ricevette l’emissario di Franco, Louis Bolin, il 23 luglio a Roma. Tuttavia, il giorno dopo, Ciano telegrafò a De Rossi del Lion Nero, Console d’Italia a Tangeri, ordinando di chiedere a Franco di elencare gli aiuti di cui aveva bisogno e di inviare un rapporto dettagliato sulla situazione per valutare le possibilità di successo della rivolta. De Rossi rispose subito fornendo un quadro dal punto di vista militare e dettagliando le richieste di materiale bellico: 12 aerei da trasporto, 10 caccia, 10 ricognitori, 1.000 bombe da aereo da 100 kg, 2.000 da 50 kg, 40 cannoni contraerei da 13 o 25 mm. Secondo De Rossi e l’addetto militare, Franco, con il sud-
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detto materiale, forniva garanzie più che sufficienti per conseguire il successo. Al contempo, l’addetto navale a Parigi fu testimone oculare dei tentennamenti francesi di quei giorni, tant’è che, oltre a numerosi telegrammi, inviò una lettera, il 25 luglio (3), che forniva un quadro chiaro della situazione con allegati gli articoli dei giornali sulla questione. Comunicava che il governo francese sembrava voler modificare l’atteggiamento iniziale molto favorevole al governo spagnolo. Nel frattempo, i treni carichi di armi partiti per Marsiglia, per poi raggiungere via mare la Spagna, il 23 luglio non erano ancora arrivati a destinazione.
Savoia-Marchetti SM.81 dell'Aviacion del Tercio durante un bombardamento nella guerra civile spagnola (1936-39). Gli aeroplani sullo sfondo sono FIAT CR.32 del XVI gruppo (wikipedia.org).
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Via libera agli aiuti militari In Italia Mussolini — di fronte al ripensamento di Blum a soccorrere la Repubblica Spagnola, alla neutralità manifestata dalla Gran Bretagna, alle valutazioni positive sulle buone possibilità di successo della rivolta pervenute da parte di De Rossi, tenuto conto che le richieste di aiuto erano abbastanza contenute — il 28 luglio decise di inviare i primi aiuti richiesti (4). Si riteneva che pochi aerei, lautamente pagati in anticipo, sarebbero stati sufficienti per agevolare il trasferimento delle truppe marocchine in Spagna e determinare la caduta di Madrid in pochi giorni. Inoltre, se Franco avesse ottenuto la vittoria soltanto grazie all’aiuto della
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Germania, (aiuto deciso prima dell’Italia, il 25 luglio), Mussolini avrebbe perso un’ottima occasione per una futura penetrazione economica nella penisola iberica, tutta a favore dei tedeschi. Tra il 27 e il 28 luglio i 12 trimotori S.81 furono pagati, dal ricco finanziere spagnolo Juan March, al prezzo di oltre 1 milione di sterline. Considerando che sarebbero stati sufficienti 12 aerei, per di più pagati in valuta pregiata, per guadagnarsi un nuovo alleato in una posizione geostrategica determinante per gli interessi italiani, Mussolini dovette ritenere che valesse la pena di correre qualche rischio. Occorre considerare, che con la guerra etiopica si erano incrinati i tradizionali rapporti di amicizia con la Gran Bretagna. Il pericolo di uno scontro tra la Marina italiana e quella britannica forniva alle isole Baleari un’ulteriore valenza strategica, non soltanto come minaccia alle rotte mediterranee francesi, ma anche come potenziale indebolimento della più importante via di comunicazione dell’impero britannico, che collegava la Gran Bretagna all’India attraverso Gibilterra e il Canale di Suez. Senza contare che la base di Gibilterra avrebbe perso qualsiasi importanza operativa se si fosse giunti a un’alleanza militare italo-spagnola. Tale alleanza avrebbe comportato la realizzazione di un sogno, che sicuramente apparteneva a Mussolini e al fascismo, ma che evidentemente favoriva da un punto prettamente militare strategico anche la Regia Marina. In pratica, ciò avrebbe assicurato una decisiva egemonia dell’Italia nel Mediterraneo e il libero accesso all’oceano; tutto ciò senza combattere. Mussolini aveva già combattuto e vinto «la sua guerra» per dare all’Italia l’orgoglio dell’impero. Ora gli si era presentata l’occasione di restituire all’Italia in chiave ideologica il «Mare nostrum», altro mito del fascismo, tutto ciò con poco rischio. I dodici velivoli S.81 al comando del tenente colonnello pilota Ruggero Bonomi decollarono dall’aeroporto di Elmas alle ore 05.35 del 30 luglio 1936, senza munizionamento a bordo per diminuire il peso e aumentare l’autonomia, considerando la notevole distanza da percorrere senza scalo (750 miglia), ai limiti delle possibilità operative dei mezzi (5). Le condizioni meteo avverse e venti contrari causarono un maggior
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consumo di carburante di quello previsto con il risultato che un aereo si perse in mare all’altezza di Orano, mentre altri due, di cui uno si capottò causando la morte di 4 membri dell’equipaggio, effettuarono un atterraggio di fortuna in territorio francese a pochi chilometri dalla frontiera con il Marocco spagnolo, mettendo il Governo italiano, fino a quel momento neutrale, in un grave imbarazzo, senza contare gli attacchi della stampa francese (6). Gli equipaggi dei nove aerei arrivati a destinazione furono arruolati nel Tercio, ossia la legione straniera spagnola; tutto ciò che serviva per renderli operativi, supporto logistico, personale specialista, armamento e munizioni, fu imbarcato con grande discrezione a La Spezia a bordo del piroscafo Emilio Morandi che giunse a Melilla il 3 agosto. I nove S.81, operativi dal 3 agosto, furono indispensabili per fornire copertura aerea al convoglio del 5 agosto, ossia al convoglio della vittoria. Il generale Franco, infatti, effettuò un’operazione valutata molto rischiosa considerando che la Marina spagnola era
quasi tutta nelle mani dei repubblicani (a Cartagena gli equipaggi si erano ammutinati, uccidendo quasi tutti gli ufficiali sospetti di essere nazionalisti). Più che per l’apporto operativo in sé, i bombardieri trimotori italiani furono utili per il morale delle truppe; a essi vennero attribuite prestazioni tecniche superiori alle reali capacità, tipo la possibilità di centrare una nave con una precisione di 2 metri. Le truppe marocchine si imbarcarono a Ceuta tra la notte del 4 e il 5 agosto a bordo di mercantili spagnoli (7). Gli S.81, insieme agli aerei spagnoli disponibili, furono impiegati in missioni di sorveglianza della rada di Tangeri, dove erano ancora alla fonda le navi repubblicane, (nonostante le pressioni di Franco nei confronti dei paesi facenti parte del Comitato internazionale di controllo) e dello Stretto di Gibilterra. Il convoglio scortato soltanto dalla cannoniera Dato, uscì e fu intercettato dal cacciatorpediniere Alcalà Galiano. La cannoniera serrò le distanze a tutta velocità sparando contro il più potente cacciatorpediniere, mentre arriva-
A sinistra lo schema di trasferimento degli equipaggi in formazione da Elmas a Nador. A destra il colonnello Ruggero Bonomi, fondatore e comandante dell’Aviazione del Tercio (bonomiprensa.blogspot.com).
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vano gli S.81. Dopo aver rischiato di essere colpito da due scariche successive di bombe, lanciate dagli aerei italiani ed esplose vicino alle fiancate, l’Alcalà Galiano, comandato da un comitato di sottufficiali e ufficiali ingegneri, interruppe l’attacco e si allontanò a tutta forza verso Malaga (8). Grazie al pieno successo dell’operazione, il giorno 6 agosto, il generale Franco poté trasferirsi in aereo a Siviglia (9). Il 4 agosto l’ammiraglio Wilheim F. Canaris, capo dell’Abwher (il servizio segreto militare tedesco), si era incontrato a Roma con il generale Roatta per coordinare l’intervento tedesco con quello italiano (10) e il 7 agosto l’Italia inviò ulteriormente: 27 aerei da caccia, 5 carri armati, 40 mitragliatrici, 12 cannoni contraerei con bombe, munizioni, carburante e lubrificante per aerei. Da metà agosto, ai bombardieri S.81 italiani, si aggiunsero i trimotori da trasporto Junkers 52 tedeschi che, solo a iniziare da quel periodo, attivarono quello che è considerato da molti esperti il primo vero ponte aereo della storia, trasferendo con successo migliaia di soldati e di equipaggiamenti in poche settimane.
Il piano di non intervento francese Contemporaneamente alle vicende già descritte, i diplomatici francesi erano impegnati a far accettare, alle maggiori potenze, una proposta di piano di non intervento, pur continuando, durante le trattative, a inviare segretamente aiuti militari alla repubblica spagnola. Anche l’Italia, mentre esaminava il progetto dell’accordo di non intervento, provvedeva a rifornire Franco di armi e munizioni, e come abbiamo visto, le navi destinate in Spagna iniziavano ad assumere un comportamento sempre meno neutrale; ufficialmente avrebbero dovuto limitarsi ad assistere i profughi italiani e stranieri, il personale diplomatico di stanza in Spagna e a garantire la sicurezza del traffico italiano in entrata e uscita dallo Stretto di Gibilterra, ma allo stesso tempo condussero operazioni di scorta, limitatamente al Mare di Alboran e in prossimità dello Stretto, di mercantili carichi di armi destinate ai nazionalisti, missioni che peraltro non avrebbero rischiato di compromettere più di tanto la posizione internazionale dell’Italia. L’accordo di non intervento prevedeva un embargo collettivo di armamenti per le due parti in lotta con aree
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di pattugliamento marittimo dal confine franco spagnolo in Mediterraneo a quello franco spagnolo in Atlantico assegnate alla Marina italiana, tedesca, francese e britannica. La Francia faceva lo stesso utilizzando anche le vie di comunicazione terrestri. Il governo inglese approvò l’adesione al comitato di non intervento il 4 agosto, in ragione delle seguenti considerazioni: se i nazionalisti avessero vinto grazie agli aiuti degli italo-tedeschi, avrebbero rischiato di trovarsi di fronte a un’alleanza tra spagnoli, tedeschi e italiani che avrebbe potuto mettere in pericolo le comunicazioni vitali sia nell’oceano Atlantico, sia nel Mediterraneo. Nel caso in cui avessero vinto i repubblicani, la situazione politica interna spagnola avrebbe potuto degenerare fino al punto da rendere possibile l’instaurazione di una dittatura comunista, specialmente in caso di intervento dell’Unione Sovietica con aiuti materiali e con consiglieri politici e militari. In quest’ultimo caso il Portogallo di Salazar si sarebbe trovato in grave pericolo, con la possibilità concreta di un intervento da parte britannica per salvaguardare i propri interessi strategici e per far fronte agli impegni che questa aveva con il secolare alleato. Inoltre, la posizione strategica di Gibilterra sarebbe stata fortemente indebolita sia nel primo che nel secondo caso. Occorreva tenere conto della politica interna inglese dove, mentre i conservatori simpatizzavano per i nazionalisti, i laburisti appoggiavano apertamente la Repubblica. Pertanto, considerando il problema spagnolo sul piano interno e internazionale, l’unica scelta indolore possibile era quella di rispettare la più assoluta neutralità, perfettamente in linea con la politica di appeasement che si voleva adottare per evitare qualsiasi coinvolgimento in una guerra europea. L’Unione Sovietica si trovava in una posizione particolarmente imbarazzante. Da una parte i dirigenti dell’Internazionale comunista (Comintern) desideravano soccorrere il Fronte Popolare spagnolo; mentre dalla parte opposta Stalin che temeva una futura aggressione tedesca e non voleva rischiare di essere trascinato in una guerra europea, in considerazione della contemporanea pressione esercitata dai giapponesi in Estremo Oriente. Allo stesso tempo — questo era il timore sovietico — la neutralità sovietica poteva anche essere interpretata come un tradimento nei confronti del comunismo mon-
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diale e quindi essere sfruttata dalla propaganda trotzkista, basata sull’internazionalismo proletario e sulla esportazione della rivoluzione permanente, contro il regime stalinista. Quindi, la proposta francese non poteva che essere accolta in modo favorevole dal governo sovietico che aderì formalmente il 23 agosto. Questo non impedì all’Unione Sovietica di inviare via mare, nei mesi successivi, grandi quantitativi di armi, compresi velivoli e carri armati, indispensabili per salvare Madrid dal vittorioso Franco. Questi ingenti quantitativi di armi portarono Franco a chiedere l’intervento della Marina italiana in periodi ben circoscritti con l’impiego in assoluto segreto di sommergibili e siluranti italiani. Sta di fatto che alla fine del mese tutte le potenze europee, tranne il Portogallo, avevano accettato la proposta francese. L’accordo era costituito da un complesso di dichiarazioni e mere intenzioni formulate dai singoli governi (27 in totale) unilateralmente, che non poteva essere considerato come un trattato unico, e pertanto non trovava alcun precedente storico. Il governo francese propose di formare un Comitato di controllo per il non intervento che si doveva riunire periodicamente a Londra, ossia nella capitale europea, considerata la più neutrale nel conflitto spagnolo. Gli ambasciatori dei paesi aderenti all’accordo di non intervento sarebbero stati i membri del Comitato, ossia di una sorta di foro internazionale in cui poter discutere i problemi relativi alla guerra civile spagnola, evitando pericolose escalation, sotto la presidenza moderatrice di un britannico, lord Plymouth. Il Comitato si riunì la prima volta il 9 settembre 1936 (11).
Chi comanda in teatro? In relazione al completo isolamento delle Baleari dal resto della penisola iberica, Mussolini ritenne di poter osare più di quanto non fece nel resto della Spagna. A Palma de Maiorca, Ciano inviò un suo uomo, il console della milizia Arconovaldo Bonacorsi, detto il conte Rossi, con il compito di inquadrare militarmente la falange locale, armandola e mettendola in grado, in breve tempo, di affrontare il nemico interno e esterno all’isola. I cospicui aiuti provenienti dall’Italia, la presenza delle navi della Regia Marina in rada, con tutto il supporto
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logistico necessario, in termini di uomini e mezzi, avrebbero dovuto rendere questa specie di capitano di ventura in camicia nera particolarmente potente nonché in grado di accattivarsi la simpatia della popolazione maiorchina, favorendo la penetrazione degli ideali fascisti nell’isola a favore dell’Italia. Non fu esattamente così una volta respinto il corpo di spedizione inviato dal governo repubblicano da Barcellona. Un altro personaggio italiano che ebbe un ruolo di spicco sulle vicende di Maiorca fu il capitano di fregata Carlo Margottini, comandante dell’esploratore Malocello. Di sua iniziativa e al solo scopo di fare gli interessi dell’Italia, senza ordini specifici, inviò parte dell’equipaggio a terra ad allestire una pista di atterraggio di fortuna per far decollare i caccia arrivati con il mercantile Emilio Morandi il 27 agosto, smontati e rimontati a terra anche con l’aiuto dei meccanici di bordo (12); coordinandosi con il console italiano Facchi e con lo stesso Bonacorsi, contribuì a sollecitare e organizzare l’arrivo degli aiuti dall’Italia (13). L’attività svolta da Bonacorsi, non fu comunque determinante per la condotta delle operazioni, e fu seguita
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L'esploratore MALOCELLO che arrivò a Palma di Maiorca il 17 agosto 1936 comandato dal capitano di fregata Carlo Margottini (USMM).
gelosamente dagli ufficiali spagnoli, che poco sopportavano le intromissioni del fascista italiano. Bonacorsi finì per inimicarsi le autorità locali che consideravano in modo molto negativo le sue ingerenze, sopportate soltanto per non alienarsi gli aiuti italiani. Il futuro ammiraglio Luigi Sansonetti, uomo di un’integrità encomiabile, a cui l’Italia deve molto (fu colui che, in qualità di Sottocapo di Stato Maggiore della Marina, l’8 settembre del 1943 assicurò l’obbedienza della flotta secondo le direttive del ministro De Courten), nel suo ruolo di comandante dell’incrociatore pesante Fiume, in un promemoria inviato al capo di Gabinetto del ministero della Marina il 3 settembre 1936, scrisse a tale proposito: «Il console Bonacorsi è stato effettivamente prezioso nei giorni più critici. Ma le sue deficienze di equilibrio, di misura, di metodo, di ordine, di forma e la scarsa competenza tecnica (è stato ufficiale inferiore degli Alpini durante la Grande guerra e basta) diventano ogni giorno più appariscenti
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e non giovano al nostro prestigio. Nella posizione di ordinatore delle Falangi sarebbe tutt’altra cosa. Comunque, credo indispensabile la presenza di un moderatore che lo vigili e abbia autorità su di lui. Questo compito non può essere fatto dal comandante della nave presente senza compromettere la propria apparente neutralità, specialmente ora che sono tornate le navi estere. D’altra parte il console Bonacorsi dice di avere avuto istruzioni da S.E. Ciano e di doverne rispondere solo a lui» (14). Sansonetti in questo rapporto criticò anche il comportamento dell’Aeronautica, sia in termini di addestramento, visto che i piloti avevano sprecato cinque tonnellate di bombe senza riuscire a colpire un mercantile, sia in termini di comportamento: «Fra l’altro, tanto il Bonacorsi quanto gli aviatori, eccitati dagli applausi e non abituati alle relazioni con l’esterno, si compromettono nelle forme meno prevedibili: intervento in massa in chiesa con fazzoletti tricolore al collo (15) allocuzioni in italiano eccetera» (16). A Palma di Maiorca operavano contemporaneamente i rappresentanti ufficiali e ufficiosi di tre differenti autorità italiane, il ministro degli Esteri Ciano, e i due sottosegretari Cavagnari e Valle. Sansonetti lamentava che il coordinamento non poteva essere fatto dai comandanti e che i contatti con le navi in rada dovevano essere ridotti al minimo: «Ho dato istruzioni al comandante Margottini perché torni a mantenere i contatti solo attraverso l’agente consolare e senza eccessiva frequenza. Egli avrà inoltre un ottimo informatore nel capitano del porto che ogni sera, tardi, lo metterà al corrente dei retroscena. Ma anche Margottini, magnifico di attività, di acume, di dinamismo, e, per il momento, insostituibile, ha bisogno ogni tanto di freno. Però delle sue promesse di prudenza mi fido» (17). Si legge tra le righe del rapporto, che Margottini si era imbarcato in una missione al di sopra delle sue competenze, che nessuno gli aveva assegnato espressamente, nell’intento di effettuare in prima persona quell’opera di coordinamento che in campo militare nessun altro era in grado di fare. Per risolvere il problema, Sansonetti auspicava l’invio immediato di un «coordinatore dell’aiuto italiano», che potesse risiedere a terra e che avesse esperienza di relazioni con
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l’estero. Considerando che la rivolta era capeggiata da militari dell’Esercito, occorreva che questo coordinatore fosse per lo meno un ex ufficiale superiore delle forze di terra, con indiscussa esperienza bellica.
L’incremento del coinvolgimento Alla fine di agosto, Germania e Italia decisero di inviare una missione militare italo-tedesca in Spagna, con il compito di offrire consulenza tecnica allo staff del generale Franco e di coordinare le richieste di aiuti militari in funzione delle reali esigenze. I nazionalisti si limitavano, infatti, a chiedere aiuti piuttosto disordinatamente, senza precisare le reali priorità. Il 28 agosto l’ammiraglio Canaris tornò a Roma per incontrarsi con il generale Roatta e prendere accordi sulle modalità di dettaglio. I due alti ufficiali concordarono di mantenere le forniture militari di entrambi i paesi su un piano di parità e di limitarsi a inviare lo stretto numero di soldati necessario per addestrare gli spagnoli nell’impiego e nella manutenzione delle apparecchiature e delle armi fornite. Questi uomini erano autorizzati a partecipare alle operazioni belliche, pur restando sotto il comando operativo degli spagnoli (18). In tal modo, intorno alla necessità di armare Franco e nonostante i sospetti reciproci, nacquero le premesse di una prima intesa tra Germania e Italia che portò in seguito alla nascita dell’Asse Roma-Berlino. In previsione degli eventuali arrivi di massicci aiuti sovietici, i nazionalisti si resero conto della necessità di disporre al più presto di una Marina da guerra in grado di ostacolare il traffico mercantile diretto verso i porti delle coste repubblicane. A causa del limitato numero di mezzi e uomini disponibili, la Marina nazionalista non era in grado di operare contemporaneamente nel Mar Cantabrico e nel Mediterraneo. Occorrevano pertanto aiuti ingenti anche nel settore navale, dove le carenze erano molto più marcate rispetto al settore terrestre e aeronautico. Lo Stato Maggiore franchista era formato quasi esclusivamente da ufficiali dell’Esercito, senza nessuna competenza sulla guerra marittima. L’ammodernamento della futura flotta franchista avrebbe costituito un’ottima occasione per favorire l’industria nazionale con commesse all’estero e per
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scalzare l’egemonia britannica nella fornitura di apparecchiature navali. Se non lo avesse fatto l’Italia ci avrebbe sicuramente pensato la Germania, portandosi via un altro potenziale mercato. In questo delicato contesto fu deciso di inviare in Spagna il capitano di vascello Giovanni Ferretti, nome convenzionale cavalier Rampoldi, con il compito di consigliere militare della Marina nazionalista. Il 3 ottobre Ferretti giunse a Cadice e iniziò il suo determinante lavoro di capo della missione navale in Spagna fino alla fine della guerra civile, lavorando a fianco del capitano di vascello Francisco Moreno de Alboran, capo della flotta nazionalista. Ben presto gli aiuti e la consulenza sovietici, uniti al gran numero di uomini disponibili in campo repubblicano, affiancati dalle Brigate internazionali giunte in Spagna per combattere per la libertà, arrestarono l’avanzata dei nazionalisti. Quando agli inizi di dicembre del 1936 Franco si accorse che per vincere aveva bisogno anche di uomini e non solo di mezzi accettò le offerte di Roma e Berlino, che facevano un esplicito riferimento a due divisioni, una tedesca e una italiana. Il 22 dicembre sbarcò a Cadice dalla nave passeggeri Lombardia il neo costituito Corpo truppe volontarie: 83 ufficiali, 177 sottufficiali, 3.186 militari di truppa, tutti in abiti civili. Franco non riuscì però a imporre che il contingente fosse integrato nel Tercio, mantenendo comandanti spagnoli. In questo modo ogni eventuale successo militare conseguito dalle truppe italiane sarebbe stato un successo italiano e non nazionalista; ciò aumentava ulteriormente il debito, già alto, che la futura Spagna franchista avrebbe dovuto pagare all’Italia alla fine della guerra. Fortuna per Franco che la sconfitta italiana a Guadalajara ridimensionò il contributo italiano alla vittoria. Tuttavia questa sconfitta non impedì all’Italia di continuare a rifornire i nazionalisti di armi e munizioni, anche nonostante l’adesione al sistema di controllo delle frontiere terrestri e marittime previsto dal Comitato di non intervento. Mussolini era costretto a mantenere le truppe italiane in Spagna e a rifornirle fino alla fine della guerra, costasse quel che costasse. Il costo degli aiuti forniti alla Spagna dopo 3 anni di guerra civile sarà enorme in termine di caduti e mezzi
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La nave passeggeri LOMBARDIA (USMM).
ceduti, comprese navi e sommergibili, e soltanto gli aiuti iniziali vennero pagati.
Gibilterra non ha prezzo Dopo tanto sforzo che cosa avrebbe ottenuto, da un punto di vista strategico militare, l’Italia in cambio di questi enormi sacrifici? Qualcosa di più importante del semplice utilizzo di una base aeronavale a Maiorca. In un eventuale conflitto Mediterraneo, lo schieramento di Franco a fianco dell’Italia, avrebbe comportato il conseguente abbandono di Gibilterra da parte degli inglesi e la penetrazione italiana in molti settori dell’economia spagnola, a svantaggio britannico. A tal proposito, nell’agosto del 1937, l’ammiraglio Iachino, comandante del gruppo «San Giorgio», nel periodo in cui era dislocato nelle acque di Tangeri, realizzò uno studio accurato sulla base navale di Gibilterra, in cui constatava che la guerra civile spagnola stava modificando la situazione geostrategica dello Stretto a favore degli interessi italiani: «È soltanto quest’anno che, col pretesto della guerra civile, il go-
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verno di Salamanca ha potuto abbandonare una simile politica remissiva [nei confronti di Londra, n.d.a.], e ha provveduto a sistemare alcune importanti batterie sulle coste dello Stretto» (19). Iachino, dopo aver esaminato singolarmente le varie batterie poste nello Stretto, riferiva che ve ne era una in particolare, formata da obici da 305 mm, di notevole importanza: «Il vero significato di tale batteria appare soltanto quando si consideri che, approfittando della natura collinosa del terreno circostante, gli obici sono stati piazzati in modo da risultare perfettamente defilati da Gibilterra, mentre essi possono, col tiro curvo, battere in pieno la città e il porto inglese. In realtà questa batteria si trova al limite della gittata per un simile tiro su Gibilterra, e ciò è stato fatto per non dare troppo nell’occhio agli inglesi lasciando loro credere che gli obici abbiano soltanto il compito di battere le acque dello Stretto. Ma esistono degli studi per lo spostamento di tale batteria in posizione più ravvicinata a Gibilterra, e per il piazzamento di batterie dello stesso genere in altre posizioni dalle quali si domini completamente il
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possedimento inglese; una di tali posizioni si trova nella Sierra Carbonera a soli 6 km dal porto di Gibilterra e in posizione ideale per batterne le acque». Mentre le batterie dei dintorni di Algesiras erano quasi tutte dominate dal tiro dei forti della Rocca e quindi non avrebbero potuto durare a lungo in caso di conflitto anglo-spagnolo, le postazioni esaminate da Iachino non potevano essere controbattute dai cannoni inglesi. Le posizioni e il mascheramento dei pezzi li rendevano quasi invulnerabili anche agli attacchi aerei. «Essi sarebbero del resto probabilmente difesi da cannoni a-a, ed è inoltre da tenere presente che Gibilterra non può essere base di grandi forze aeree». Pertanto, in caso di guerra, due o tre batterie di obici di grosso calibro avrebbero potuto, fin dall’inizio, e del tutto indisturbate «bombardare intensamente il porto, l’arsenale di Gibilterra, provocando gravi danni e rendendoli praticamente inservibili alla flotta inglese sia per i necessari turni di riposo sia per i rifornimenti e le riparazioni». In altre parole una futura alleanza con la Spagna di Franco avrebbe automaticamente messo fuori gioco l’importante base navale di Gibilterra, chiudendo le vie di comunicazione britanniche attraverso il Mediterraneo e aprendo l’accesso all’Atlantico alle forze navali italiane. Con l’adesione di Franco al Patto Anticomintern (20), alla fine della guerra civile sembrava che un’alleanza a tre fosse ormai sul punto di nascere, venendosi a realizzare il sogno di una egemonia sul Mediterraneo da parte della politica di potenza fascista (21). Ma ciò che Mussolini non aveva apprezzato era che l’ostilità della Spagna nei confronti della Gran Bretagna non era così netta; Londra, con il suo comportamento soltanto apparentemente neutrale, aveva finito per agevolare il Governo nazionalista e non quello repubblicano. Senza contare che Franco avrebbe poi utilizzato con abilità il rapporto ambiguo con la Gran Bretagna per scrollarsi di dosso le ingerenze degli italo-tedeschi. Basti pensare che nel febbraio del 1939, le trattative per la resa di Minorca furono tenute a bordo dell’incrociatore britannico Devonshire, con disappunto dell’Italia (22). La Spagna, che durante tutta la Seconda guerra mondiale, ha assunto un comportamento, tutt’altro che neutrale, noto come «non belligeranza attiva» che esprimeva de facto un favore verso delle potenze
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dell’Asse; ciò la riparò dall’ entrare in guerra e, comunque, non ordinò mai agli obici — che tanto stavano a cuore a Iachino — di aprire il fuoco sul porto di Gibilterra (23). A riprova di ciò risiede il vertice di Bordighera, del 12 febbraio 1941, in cui Mussolini tentò di
Mappa di Gibilterra dalla Spagna guardando a sud, 1939 (wikipedia.org).
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convincere Franco a entrare in guerra, il cui risultato fu un insuccesso per la politica fascista anche grazie al bombardamento di Genova e Livorno avvenuto la mattina del 9 febbraio da parte della flotta britannica basata, proprio a Gibilterra. La vigilia dell’incontro di
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Bordighera, la Forza H faceva rientro alla base senza aver subito alcun danno.
Considerazioni finali Come ben noto, dopo 3 anni di sanguinosa guerra civile la Spagna riuscì a non farsi coinvolgere nella Seconda guerra mondiale. Franco morì nel suo letto nel 1975. Il paese, conservando l’istituzione monarchica, si è poi trasformato in una democrazia moderna, importante per l’Unione europea. Gibilterra è rimasta inglese ma la Spagna conserva il parziale controllo dello Stretto grazie anche a Ceuta e Melilla sul continente africano. La Francia non riuscì a evitare l’accerchiamento sulle sue frontiere e fu travolta dall’esercito tedesco nel maggio del 1940. Tuttavia dopo la Seconda guerra mondiale, grazie al suo immenso impero coloniale e a un leader carismatico, come Charles De Gaulle, si è risollevata e oggi è l’unica potenza dell’UE con diritto di veto nel consiglio di sicurezza dell’ONU, dotata di armi nucleari. Conserva come territori d’oltremare buona parte delle isole e degli arcipelaghi del passato distribuiti su area globale, che le offrono la più grande estensione in termini di sovranità marittima al mondo. La Germania, grazie alla guerra in Spagna, riuscì, in parte, a distrarre l’opinione pubblica mondiale dal suo riarmo. L’impegno in quel conflitto le permise di mettere a punto armi e tattiche belliche utili successivamente. Non riuscì però a portare Londra all’armistizio prima di avventurarsi nell’invasione dell’Unione Sovietica. Si ritiene che la perdita di Gibilterra, dopo la caduta della Francia, avrebbe potuto dare una spinta significativa verso l’armistizio da parte della Gran Bretagna. L’Unione Sovietica aiutò la Spagna repubblicana quanto necessario per rafforzare il mito del comunismo internazionale contro il fascismo, con l’unico scopo di ritardare per quanto possibile un attacco alle sue frontiere occidentali. Nel corso della Seconda guerra mondiale il suo contributo alla sconfitta della Germania nazista fu poi essenziale, comportando un costo di enormi sacrifici in termini di vite umane. L’Italia si impegnò significativamente con uomini e mezzi nell’aiutare Franco, arrivando a utilizzare, nel Mediterraneo, sommergibili e siluranti in modo clandestino. L’obiettivo militare strategico più importante
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sarebbe stato l’abbandono di Gibilterra da parte britannica, vero centro di gravità della guerra in Mediterraneo. Senza Gibilterra e con adeguate Forze aeronavali in Eritrea, Malta sarebbe stata anch’essa abbandonata e il Canale di Suez sarebbe stato utilizzato dagli italiani per mantenere i collegamenti con l’Africa orientale e non dai britannici per armare l’VIII Armata. Così non fu e questo è storia. L’entrata in guerra del regime fascista al fianco della Germania nazista, nella Seconda guerra mondiale, portò alle disastrose conseguenze che tutti ben conosciamo. Al termine della Seconda guerra mondiale, nonostante ne uscisse vittoriosa, la Gran Bretagna ha perso buona parte della sua rilevanza internazionale, a fronte degli Stati Uniti, vera superpotenza vincitrice. Londra, tuttavia, grazie al possesso di Gibilterra ottenuta dalla pace di Utrecht del 1713 sancente la fine della lunga
guerra di successione spagnola, sembrò inizialmente poca cosa rispetto agli altri vincitori, ma invece è risultata una scelta strategicamente lungimirante, poiché grazie ad una rocca brulla e senza alcuna risorsa l’Impero Britannico ha mantenuto il controllo sul nodo d’accesso al Mediterraneo. Oggi: la Germania riunificata è considerata da molti la nazione più importante dell’UE; l’Unione Sovietica collassando non esiste più mentre la Russia è diventata sempre più una potenza regionale assertiva; i britannici, che conosco bene il potere marittimo sono però presenti con le loro navi in tutti i mari del mondo e si ha ragione di credere che le possibilità che Londra rinunci alla sovranità su Gibilterra a favore della Spagna sia pari a quella di un ritorno del papato ad Avignone. Questo perché gli stretti non hanno prezzo e gli inglesi lo sanno bene e continuano a studiarlo. 8
NOTE (1) I fattori del Mahan che influenzano la realizzazione del potere marittimo sono: la posizione geografica, la conformazione fisica, l’estensione del territorio, l’entità della popolazione, il carattere della nazione e il carattere del Governo. Alfred T. Mahan, L’influenza del potere marittimo nella storia, Roma, USMM, 1994. Oltre alle opere citate in nota, si suggerisce la seguente bibliografia: Ennio Di Nolfo; Storia delle relazioni internazionali, Laterza 1994, pp. 213-232; Alberto Rovigni, Filippo Stefani, La partecipazione italiana alla guerra civile spagnola 1936-1939, Edizioni Ufficio Storico Italiano, SME, vol. I, Roma 1993; Franco Bargoni, Impegno navale italiano durante la guerra civile spagnola 1936-1939, Ufficio Storico Marina Militare, Roma 1992; Vincenzo Giura, Tra politica ed economia. L’Italia e la guerra civile spagnola, Esi, Napoli 1998. (2) F. Mayeur, La vie politique sous la troisième République 1870-1940, Edition du Seuil, Paris 1986, p. 356. (3) AUSMM, Fondo OMS, B 53, F1. (4) G. Ranzato, L’eclissi della democrazia, la guerra civile spagnola e le sue origini 1931-1936, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 307-308. (5) La delicata operazione di trasferimento degli S.81 fu seguita dal generale Valle in persona a bordo di un idrovolante Cant. Z 506. F. Pedriali, Guerra di Spagna e Aviazione Italiana, USAMI, Roma 1992, p. 34. (6) Ibidem, p. 35-36. (7) F. e S. Moreno de Alboran, La guerra silensiosa y silenciada, Historia della campaña naval durante la guerra de 1936-1939, Graficas Lormo, Madrid 1998, p. 68. (8) F. Pedriali, ibidem, p. 42-45. (9) F. e S. Moreno de Alboran, ibidem, p. 687-701. (10) J. Coverdale, I fascisti italiani alla guerra di Spagna, Laterza, Bari 1977, p. 82. (11) J. Coverdale, ibidem, p. 89. (12) AUSMM, Fondo OMS, B 5 F 12. (13) Per avere un’idea del lavoro del comandante Margottini, basti pensare che si interessò anche di questioni amministrative del personale italiano nelle Baleari, tipo il pagamento dello stipendio di Bonacorsi e del console Facchi. Il 21 settembre del 1936 il comandante telegrafava al gabinetto del ministero della Marina: «Mi permetto anche insistere per la questione finanziaria Bonacorsi. Ponini mi ha detto che a Roma il segretario non ha denari per pagare il fitto dell’ufficio. Non è possibile mettere un individuo in queste condizioni. Lui, Bonacorsi, non mi ha mai veramente parlato di ciò ma mi sembra indispensabile che al più presto la sua questione economica sia risolta escludendo in modo assoluto che sia al soldo degli spagnoli. Anche l’aviazione aspetta ancora! E a proposito del console Facchi: da inizio rivoluzione est completamente privo comunicazioni dal suo ministero et da suo superiore gerarchico Barcellona». Richiedeva di assicurare tramite un telegramma indirizzato alla nave l’avvenuto pagamento degli assegni alla sua famiglia a Roma. AUSMM, B 58 F 396. (14) AUSMM, Fondo OMS, B 5 F 12. (15) Sansonetti si riferisce alla messa tenuta nella cattedrale di Palma il 30 agosto a cui parteciparono gli aviatori con la divisa della legione straniera. Al termine della messa i tre CR.32 effettuarono spettacolari manovre acrobatiche sulla città tra le ovazioni della popolazione. F. Pedriali, op. cit., p. 78. (16) AUSMM, Fondo OMS, B 5 F 12. (17) AUSMM, Fondo OMS, B 5 F 12. (18) J. Coverdale, op. cit., p. 93-94. (19) AUSMM, Fondo OMS, Studio dell’ammiraglio Iachino del 20 agosto 1937 sulla zona di Gibilterra e il porto di Tangeri in un futuro conflitto mediterraneo, B 7 F 41 SF 1. (20) Patto siglato tra la Germania e il Giappone il 25 novembre 1936 a cui si unì l’Italia, il 6 novembre 1937. (21) A tal proposito Ciano riporto nel suo diario: «il Duce è molto contento della decisione di Franco di aderire all’Anticomintern. L’avvenimento è di una importanza fondamentale e influirà nel futuro su tutte le vicende europee. Dopo tre secoli di inerzia la Spagna torna a essere un fattore vivo e dinamico e, quel che più conta, in funzione anti-francese. I fresconi, che hanno tanto trovato da ridire del nostro intervento in Spagna, capiranno forse un giorno che sull’Ebro, a Barcellona e a Malaga si son messe le vere basi dell’Impero mediterraneo di Roma», G. Ciano, Diario 1937-1943, Rizzoli, Milano 1980, 22 febbraio 1939, p. 255. (22) J. F. Coverdale, op. cit., p. 350. (23) Tuttavia, il 14 giugno 1940, dopo 4 giorni dall’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania in seguito al crollo della Francia, Franco occupò la città internazionale di Tangeri.
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La crisi ucraina: il rientro della Turchia nel «grande gioco» diplomatico Ci vorrà tempo — una volta che la polvere degli scontri e degli indiscriminati bombardamenti russi si sarà posata (e invero l’obiettivo di una pace durevole o, quanto meno, di un credibile «cessate il fuoco» sembra ancora lontano) — per cogliere appieno le implicazioni di medio-lungo periodo sul terreno geo-politico dell’aggressione russa all’Ucraina e le loro interazioni sui più diversi versanti: da quello del futuro, più o meno brillante dell’ordine internazionale «basato su regole», a quello delle forme che prenderà negli anni a venire il confronto tra le democrazie e il composito ( ma saldo nel rigetto dei nostri valori…) fronte delle autocrazie, a quello delle prospettive di sopravvivenza del modello di «globalizzazione» come lo abbiamo sinora conosciuto. Tutto lasciando ritenere nel caso di specie (vicenda del gas russo «docet») che si andrà con ogni probabilità verso un accorciamento/regionalizzazione e una crescente diversificazione delle catene di approvvigionamento in una logica di riduzione della loro «vulnerabilità» a imprevedibili fattori esterni pur se a costo, in molti casi, di un aumento dei prezzi delle forniture con evidenti implicazioni anche sul terreno socio-economico che andranno anticipate e sapientemente gestite. Tra le ricadute che già si delineano — in aggiunta, per non citarne che alcune, all’incoraggiante prova di coesione offerta dall’asse «euro-atlantico» in un’ottica
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di accresciuta complementarietà tutt’altro che scontata alla vigilia, e a un mutamento di fondo nella posizione di Berlino in materia di spese per la Difesa — ve ne è una che mi sembra meritevole di attenzione da parte italiana se non altro alla luce della nostra posizione centrale nello scacchiere mediterraneo. Mi riferisco al rientro della Turchia di Erdogan nel grande gioco diplomatico, e al ruolo che Ankara si sta ritagliando quale attore centrale negli sforzi mediatori avviati per porre fine (auspicabilmente in tempi ravvicinati) alla tragedia in atto ai confini orientali dell’Unione europea. Le voci che continuano a rincorrersi di un possibile vertice Putin-Zelensky sul suolo turco a poche settimane dal confronto interlocutorio, ma pur sempre importante, ad Antalya dei due ministri degli Esteri e da quello successivo (29 marzo) a Istanbul tra le delegazioni incaricate dei due paesi costituiscono ulteriore riprova del ritorno in prima linea della diplomazia turca. Traguardo, quello di un prossimo contatto russoucraino al più alto livello, ufficializzato nei giorni scorsi dallo stesso Erdogan al ritorno da una visita in Uzbekistan: «Ho intenzione di avere nuovi colloqui con i presidenti Putin e Zelensky. Il nostro obiettivo è organizzare un incontro con i leader di Russia e Ucraina il prima possibile. Sulla base della fiducia che entrambi ripongono nella Turchia, spero che saremo in grado di concordare una data». Zelensky ha non a caso riconosciuto gli sforzi di Erdogan che ha definito «un vero amico grazie al quale vengono concordati altri passi verso la pace». Né va sottovalutato — pur con tutte le cautele del caso… — quanto dichiarato il 2 aprile scorso dal capo negoziatore ucraino, David Arakhamia (citato da Interfax), secondo il quale «la bozza d’intesa tra Kiev e Mosca è in fase avanzata,
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tanto da poter gettare le basi per un incontro tra i due Presidenti». Con un’intesa asseritamente raggiunta, sempre secondo la parte ucraina, su tutti i punti «a eccezione della questione della Crimea». Più riservata, ma non negativa, la posizione di Mosca. Nel corso della stessa giornata il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, aveva infatti parlato di «negoziati non facili ma che proseguiranno, non importa se a Istanbul o altrove» (l’ipotesi più accreditata è che Mosca starebbe pensando alla Bielorussia, quale sede per la prosecuzione del dialogo: scenario che la delegazione di Kiev persisterebbe invece a ritenere inaccettabile). Altro segnale importante dell’attivismo turco è fornito, in queste ore, dalla disponibilità manifestata da Ankara a mettere a disposizione le proprie navi per un’evacuazione, via mare (d’Azov), dei civili da Mariupol sulla base di quanto sarebbe stato concordato dai rappresentanti di Mosca e di Kiev ai citati colloqui di Istanbul. Anche in questo caso purtroppo però la cautela è d’obbligo, visti i fallimenti sinora dei tentativi di messa in salvo a opera di parti terze di quella martoriata popolazione. Le carte di cui la Turchia dispone per accreditarsi come credibile mediatore per una soluzione negoziata della crisi ucraina (e non è un caso che il paese anatolico figuri, in quasi tutte le ricostruzioni, tra quelli contemplati come possibili garanti della futura «neutralità» ucraina — qualunque veste giuridica quest’ultima sia destinata ad assumere — ove i negoziati in corso anche sotto traccia portino prima o poi all’esito auspicato) sono in effetti molteplici. Con la Federazione Russa Ankara mantiene notoriamente, da sempre, un rapporto speciale a luci e ombre: fatto di ripetuti conflitti dal periodo ottomano a oggi ma anche di momenti di proficua collaborazione, sullo sfondo di un retaggio storico che è quello di una «competizione tra imperi» per il controllo di territori e il mantenimento di zone di influenza in Europa (scacchiere balcanico «in primis»), in Medio Oriente, nel Caucaso e in Asia Centrale. Condiviso DNA «imperiale» che, se da un lato, concorre a spiegare le ricorrenti pulsioni revisioniste dei due paesi in chiave anti-occidentale (nonostante l’appartenenza della Turchia alla NATO) e anti-europea nelle aree immediatamente al di là delle rispettive fron-
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tiere; dall’altro, è all’origine della contrapposizione tra le due capitali su una pluralità di teatri: militare in Libia e in Siria, politico-diplomatica anche attraverso i rispettivi «clientes» (Armenia e Azerbaigian) nella regione caucasica, indiretta in Africa tra l’altro attraverso i colpi di Stato etero-diretti che si stanno moltiplicando da qualche tempo a questa parte nell’area sub-sahariana. Resta il fatto che tanto il Presidente turco quanto il suo omologo russo (al quale Erdogan, secondo quanto è dato sapere, non poco deve anche sotto il profilo del suo mantenimento al potere in occasione del fallito «colpo di Stato» in Turchia dell’estate del 2016) sanno ormai come impostare i loro rapporti. E sin dove è loro consentito spingersi per evitare lo scontro diretto (basti pensare alla tregua raggiunta nel Caucaso dopo il recente rinnovato conflitto armenoazero per il Nagorno-Karabah, con una forza di interposizione russa dispiegata lungo la linea del fronte e una Turchia — principale alleato e protettore di Baku — impegnata da qualche tempo a questa parte in un tentativo di normalizzazione delle proprie relazioni con l’Armenia, certo non sgradito a Mosca). Recep Tayyip Erdogan è d’altra parte, anche per i motivi di cui sopra, tra coloro che meglio conoscono le leve del potere in Russia e (ammesso che ciò sia possibile…) il modo di ragionare di Vladimir Putin. Altri «dossier» pesanti che legano le due capitali sono quelli del noto e controverso acquisto da parte di Ankara del sistema di difesa anti-missile S-400 e della costruzione in corso nel paese anatolico della centrale nucleare di Akkuyu (ideata e gestita al 100% da Rosatom, il gigante russo del nucleare). Non può dunque stupire — anche senza menzionare il fatto che, come recentemente ricordato dallo stesso Erdogan, la Turchia importa circa la metà del proprio gas dalla Russia — Ankara si sia sinora astenuta dall’aderire alle sanzioni occidentali nei confronti di Mosca, e abbia deciso di mantenere aperto il proprio spazio aereo ai voli civili russi così come alle attività e investimenti in Turchia di quegli uomini d’affari (compresi gli oligarchi più vicini a Putin alla sola condizione, come ha tenuto a sottolineare il ministro degli Esteri Cavusoglu, che esse si svolgano «nel rispetto della legge turca e della normativa internazionale»).
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Scelta, quella ostile a qualsiasi restrizione agli investimenti russi nel paese, cui non è certo estranea — a poco più di un anno dalla cruciale scadenza presidenziale e legislativa del 2023 — la congiuntura particolarmente difficile che sta attraversando l’economia turca. Ma — per tornare ai fattori che contribuiscono a conferire alle potenzialità mediatorie della Turchia una credibilità per molti versi superiore a quella di altri paesi (resta naturalmente l’incognita Cina: quanto vorrà e potrà mediare Pechino?) — Ankara intrattiene una stretta collaborazione anche con Kiev: capitale nella quale lo stesso Erdogan si è recato all’inizio dello scorso febbraio per la firma di un importante accordo di libero-scambio. Oltre a essere la Turchia dal 2020 il principale investitore straniero in Ucraina (con una proiezione commerciale concentrata in settori strategici quali la telefonia, le infrastrutture e la logistica) intensa è, per esempio, la cooperazione nel comparto della Difesa: dalla fornitura da parte turca a quelle Forze armate dei droni da combattimento Bayraktar Tb2 (che tante perdite hanno inflitto, e stanno continuando a infliggere, alla Forza di invasione russa) alla prevista co-produzione — che gli eventi in atto potrebbero però compromettere — del motore per l’aereo da guerra a pilotaggio remoto (Mius) che Ankara, tra le altre cose, intenderebbe dispiegare sulla portaerei leggera Anadolu, allo sviluppo di tecnologia comune nei campi aerospaziale e missilistico. Senza contare l’apporto dell’importante gruppo turco Onur alla realizzazione (anch’essa ormai in larga misura compromessa dall’invasione in corso) della riqualificazione della tratta autostradale Kiev-Odessa: tassello cruciale nel collegamento stradale tra tutti i porti del Mar Nero perseguito da Ankara ma osteggiato da Mosca. Tanto che, osserva Daniele Santoro in un suo bel saggio sull’argomento nell’ultimo numero di Limes, la micidiale manovra a tenaglia condotta dal Cremlino lungo la costa meridionale dell’Ucraina avrebbe come obiettivo anche quello di «separare fisicamente Turchia e Ucraina, per incrinare un asse che Mosca percepisce come una crescente minaccia alla propria sicurezza». In realtà, è stato giustamente osservato, la Turchia di Erdogan (ma ritengo che su questo terreno via sia
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una consonanza di fondo con i sentimenti dell’altra metà del paese: quella di ispirazione kemalista) aspira a essere contestualmente tre cose, nessuna delle quali incompatibile a ben guardare con gli interessi occidentali e «atlantici»: 1) una «camera di compensazione» per la Federazione Russa (con la quale qualcuno deve pur mantenere aperto un canale di dialogo, indispensabile per pervenire nei tempi che si riveleranno necessari all’avvio di un serio negoziato tra le parti): Ankara, come detto, non applica infatti le sanzioni — ciò che avrebbe tra l’altro certamente portato a un veto di Mosca verso qualsiasi suo ruolo mediatorio — e lascia aperto il suo spazio aereo ai vettori russi; 2) un «gatekeeper» che controlla gli Stretti (elemento cruciale e motivo di rassicurazione per la NATO) che ha chiuso dallo scorso 28 febbraio — anche, a quanto è dato sapere, sulla base di ripetute sollecitazioni da parte di Kiev e in linea con quanto consentito dalla Convenzione di Montreux — al traffico delle unità militari degli Stati «belligeranti» (fatto salvo, ancora una volta in linea con il Trattato, il ritorno alle basi di partenza nel Mar Nero del naviglio militare russo); 3) una «parte terza» in grado, in quanto tale, di offrire i propri buoni uffici per la individuazione tra le parti di una via di uscita negoziale al conflitto. Resta il fatto, come rileva con riferimento alla Turchia un recente editoriale di The Economist, che «non è facile essere al tempo stesso membro della NATO e amico di Vladimir Putin». Ma è proprio questo il nodo cui la Turchia e il suo Presidente si trovano confrontati dallo scorso 24 febbraio e che Ankara sta cercando di sciogliere al meglio. Come recentemente riconosciuto, del resto, dallo stesso Macron il quale — nonostante le gravi incomprensioni registratesi tra lui e Erdogan nel corso dei due ultimi anni — ha definito il posiziona-
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mento turco in relazione alla crisi ucraina «un elemento positivo in un contesto pesante». Se questa è la tela di fondo degli sforzi di mediazione portati avanti da Ankara relativamente alla crisi russo-ucraina, spero mi siano consentite in chiusura brevi riflessioni di più ampia valenza sul recente riorientamento della politica estera di Erdogan. A poco più di un anno, come sopra anticipato, dalla per lui cruciale doppia scadenza parlamentare e presidenziale del 2023. Anno che segnerà, per di più, il «centenario» della fondazione di quella Repubblica turca, i cui fondamentali — sul piano dei valori di riferimento — egli ha così profondamente intaccato nel corso del suo ventennale esercizio del potere: ciò che conferirà con ogni probabilità carattere ancor più acceso e denso di implicazioni emotive… agli appuntamenti elettorali in parola. Dal punto di vista del posizionamento internazionale, Erdogan aveva due opzioni davanti a sé in vista dell’appuntamento in parola: 1) quella di un rinnovato appello alle frange più radicali del suo elettorato e, soprattutto, del suo principale alleato: il «Partito Nazionalista» (MHP) di Devlet Bahceli; 2) quella, che appare a oggi e fortunatamente, la più credibile (salvo, mai da escludere, inversioni di rotta), di una Turchia che gestisce in maniera matura l’accresciuta influenza conquistata, in un modo o nell’altro, sul piano regionale e non solo, nel corso degli ultimi due decenni. Gestione matura e responsabile che riflette naturalmente anche la consapevolezza, maturata più di recente dalla attuale dirigenza turca, delle ricadute fortemente negative che non mancherebbe di produrre sulle possibilità di una conferma di Erdogan alle presidenziali del 2023 — e di un soddisfacente risultato per l’AKP alle contestuali elezioni legislative — la scelta di una rotta di collisione con gli obiettivi perseguiti in politica estera dalla presidenza Biden.
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Da circa un anno si assiste infatti — dopo le forzature in chiave neo-ottomana e nazionalista degli anni immediatamente successivi al tentato colpo di Stato dell’agosto 2016 — a un per molti versi inatteso ritorno alle linee di politica estera elaborate e a lungo praticate dall’ex-ministro degli Esteri (2009- 2014) e quindi primo ministro di Erdogan (agosto 2014-maggio 2016), Ahmet Davutoglu: il teorico del cosiddetto «soft power» turco e fondatore, dopo la sua rottura con lo stesso Erdogan, del «Partito del Futuro» (formazione pur sempre di orientamento islamico-conservatore ma, attualmente, all’opposizione). Linee di politica estera — non dissimili, «mutatis mutandis», da quelle a suo tempo propugnate e messe in pratica da Kemal Ataturk — che si possono riassumere nella formula di: «Una Turchia geo-politicamente centrale ma in pace con i vicini». Numerosi sviluppi confortano a mio avviso questa percezione (anche al di là del ruolo costruttivo e proattivo che Ankara sta, come sopra descritto, svolgendo per tentare con altri di porre fine alla brutale aggressione all’Ucraina della Russia di Putin). Sviluppi tra i quali rientra il superamento in atto dei contrasti a lungo registratisi tra la Turchia di Erdogan e i paesi della regione ostili alla «Fratellanza Mussulmana»: non solo gli Emirati Arabi Uniti (EAU) ma anche l’Arabia Saudita pur se nei confronti di Riad il percorso non è ancora concluso. Oltre alla Siria di Bashar al-Assad l’Egitto di Al-Sisi resta il solo interlocutore arabo con il quale — anche se le due capitali si stanno a partire dallo scorso anno adoperando per un loro miglioramento — le relazioni continuano a essere caratterizzate da un certo numero di incomprensioni per una pluralità di motivi. Motivi che vanno, per non citarne che alcuni, dal conclamato sostegno a suo tempo fornito da Erdogan al predecessore di Al-Sisi, il deposto presidente Mohamed Morsi (esponente di spicco della Fratellanza), ai progressi ancora da compiere — nonostante si siano registrati nei mesi scorsi incoraggianti passi avanti — in materia per esempio di sfruttamento dei ricchi giacimenti di gas e delimitazione delle Zone Economiche Esclusive (ZEE) nel Mediterraneo orientale: dossier questi ultimi, dalle pesanti implicazioni economiche,
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relativamente ai quali il Cairo si è sinora sostanzialmente schierato con Atene e Parigi. È lecito ritenere che un salto di qualità nelle relazioni tra due paesi — come Egitto e Turchia — cruciali per la stabilità della regione mediterranea potrà aversi solo quando ciascuno dei due avrà maturato il convincimento di avere ottenuto dall’altro concessioni durevoli sui versanti di rispettivo prioritario interesse: per l’Egitto, una sostanziale riduzione del sostegno turco alla Fratellanza; per la Turchia, una minore ostilità egiziana alla promozione da parte di Ankara dei propri interessi nel Mediterraneo orientale. Tra le dinamiche che confortano la sensazione di una dirigenza turca desiderosa di scrollarsi di dosso — si tratterà poi di comprendere se si tratti di scelta tattica o strategica — l’immagine, acquisita in particolare nel corso dell’ultimo decennio, di «leadership» fonte più di problemi che di soluzioni per lo scacchiere mediterraneo rientrano naturalmente anche altri avvenimenti: dalla recente significativa visita in quel paese (9-10 marzo u.s.) del capo dello Stato israeliano Herzog dopo una disputa più che decennale tra le due capitali innescata, come noto, nel 2010 dalla vicenda della «Mavi Marmara»; alla visibilità conferita anche da parte turca alla tappa a Istanbul lo scorso 13 marzo (con relativo pranzo di lavoro con Erdogan, centrato sulla risposta comune da fornire alla crisi ucraina) del primo ministro greco, Kyriakos Mitsotakis; alla ripresa di costruttivi contatti, a margine del vertice NATO straordinario dello scorso 24 marzo, dello stesso Erdogan con il presidente Macron nonché dopo le incomprensioni dello scorso anno, con il nostro Primo Ministro. Senza dimenticare — per tornare alla centralità e alle potenzialità del ritrovato rapporto con lo Stato ebraico — l’intendimento, manifestato nei giorni scorsi da Erdogan al suo rientro da Taskent, di discutere subito dopo
il Ramadan con il primo ministro israeliano Bennett «dei passi da compiere immediatamente per portare gas di Israele in Europa tramite la Turchia». Parole nelle quali più d’uno ha, ritengo non a torto, voluto leggere un tentativo dello stesso Erdogan di far parte della soluzione anche sul terreno della riduzione della dipendenza energetica dell’Europa dalla Federazione Russa. Vanno nella stessa direzione di un «ritorno in gioco» di una Turchia diplomaticamente meno aggressiva — e comunque partner ineludibile a fronte dei drammatici sviluppi in corso in Ucraina, non foss’altro che per il suo ruolo strategico per il controllo dell’accesso al Mar Nero — le visite compiute di recente in quella capitale dal cancelliere tedesco Olaf Scholz e dal primo ministro olandese Mark Rutte. Vi è ovviamente da augurarsi che tali dinamiche si consolidino nei mesi a venire e che gli sforzi di mediazione turchi (così come quelli di altri attori più discreti ma animati dalle migliori intenzioni, a cominciare dalla Santa Sede e dal nostro Governo: presidente Draghi in primis…) possano sfociare in tempi stretti — pur se verosimilmente in via incrementale, data la straordinaria complessità del dossier — nei risultati che noi tutti auspichiamo. Risultati, e concludo, che mi auguro possano contribuire a dare sostanza all’auspicio espresso in una recente densa intervista al Corriere della Sera dall’intellettuale e dissidente russo Masha Gessem. Quello secondo il quale per l’Ucraina «la storia (e, mi permetto di aggiungere, la geografia) non significa destino». Mentre, prosegue Gessem nella stessa intervista, «la volontà di Putin è, invece, proprio quella di dimostrare all’Ucraina di essere il suo destino». Gabriele Checchia, Circolo di Studi Diplomatici
L’ambasciatore Gabriele Checchia è nato ad Ancona il 23 marzo 1952. Conseguita la maturità classica, si laurea, nel 1974, in Scienze Politiche al “Cesare Alfieri” con successivo corso di specializzazione in Diritto internazionale alla «Johns Hopkins». Nel 1978, a seguito di esame di concorso, entra al ministero degli Esteri ricoprendo negli anni numerosi incarichi alla Farnesina e all’estero. È stato Ambasciatore d’Italia in Libano (2006-10), alla NATO (2012-14) e all’OCSE (2014-16). A riposo, per limiti di età, dal dicembre 2016. È, attualmente, «Senior Advisor» della Luiss per le tematiche di internazionalizzazione e Presidente del «Comitato Atlantico» di Napoli. Il Circolo di Studi Diplomatici è un’associazione fondata nel 1968 su iniziativa di un ristretto gruppo di ambasciatori con l’obiettivo di non disperdere le esperienze e le competenze dopo la cessazione dal servizio attivo. Il Circolo si è poi nel tempo rinnovato e ampliato attraverso la cooptazione di funzionari diplomatici giunti all’apice della carriera nello svolgimento di incarichi di alta responsabilità, a Roma e all’estero.
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O SSERVATORIO La Marina russa: aspirazioni e obiettivi Le aspirazioni marittime russe, connesse con le successive dichiarazioni di Putin a partire di quella alla Munchen Security Conference del 2007 (inizialmente nota con il nome di Internationale Wehrkunde Begegnung) sono state codificate nella Dottrina Marittima del 2015 la quale, concentrandosi sulle «acque dell’Oceano Mondiale», individuava successivamente le «aree prioritarie regionali» russe come l’Atlantico (incluso il Baltico, il Mar Nero e il Mediterraneo), l’Artico, il Pacifico, l’Oceano Indiano e l’Antartide. Queste, in termini più ampi, ricordano quello che disse lo zar Nicola I nel 1825, appena un mese dopo la sua intronizzazione: «La Russia deve diventare la terza potenza navale mondiale dopo Gran Bretagna e Francia e deve essere più forte di ogni altra coalizione di potenze navali minori». In particolare, i punti salienti per l’area prioritaria regionale dell’Oceano Pacifico evidenziavano: «L’importanza dell’area prioritaria regionale dell’Oceano Pacifico per la Federazione Russa è enorme e continua a crescere» (Punto 62); «L’estremo oriente russo ha risorse colossali, soprattutto nella Zona Economica Esclusiva e sulla piattaforma continentale» (punto 62); «Sviluppo delle forze e del sistema delle basi militari della Flotta del Pacifico» (Punto 65b); «Una componente importante della politica marittima nazionale nell’area regionale dell’Oceano Pacifico è lo sviluppo di relazioni amichevoli con la Cina» (Punto 63). Rispetto alla Dottrina Marittima del 2001, le novità del 2015 sono state il passaggio dalla «Costa del Pacifico» all’«Oceano Pacifico» quindi, al di là della semplice modifica verbale, si tratta di un ampliamento del concetto operativo, ovvero il passaggio dalle «brown waters» (acque litoranee o fluviali) alle «blue waters» (alto mare) che erano, viste le circostanze, un limite dovuto alla ritirata della ex Unione Sovietica dallo scenario internazionale. Con ciò sono state saltate direttamente le «green waters» (acque costiere), facendo un vero e proprio salto in avanti, e sono state identificate le installazioni di basi militari per la Flotta del Pacifico e il riconoscimento della partnership strategica con la Cina, che in prospettiva potrebbe risultare pericolosissima per gli interessi nazionali russi, viste le reali ambizioni di Pechino nei riguardi della Siberia. Per quanto riguarda i
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INTERNAZIONALE punti salienti del documento più recente della Dottrina Marittima, quella del 2021, per l’Oceano Indiano esse includono: 1) «Lo sviluppo di relazioni amichevoli con l’India è l’obiettivo più importante della politica marittima nazionale nella regione dell’Oceano Indiano» (punto 68); 2) «Periodicamente o secondo necessità, assicurrare la presenza navale della Federazione Russa nell’Oceano Indiano» (Punto 69b). A tale riguardo possiamo notare come rispetto alla Dottrina Marittima del 2001 e quella del 2015, vi sia stato nel 2021 il riconoscimento della partnership strategica con l’India nell’Oceano Indiano. Ulteriormente al riguardo, nel tempo, come si sono confrontati i due scacchieri dell’Oceano Pacifico e dell’Oceano Indiano in considerazione dei differenti parametri economici, politici e strategici? In primo luogo occorre notare come il Pacifico aveva la prevalenza dimensionale e concettuale mentre l’Oceano Indiano, viste le buone relazioni con New Dehli, restava minoritario (in sintonia con la percezione dell’Occidente). In secondo luogo, nel 2001, sempre il Pacifico era identificato per importanza come già «enorme» e destinato a «crescere» in misura maggiore. In terzo luogo, le capacità della flotta russa del Pacifico erano identificate come richiedenti una crescita quantitativa e qualitativa. In quarto luogo, l’area prioritaria regionale dell’Oceano Pacifico comprendeva la parte orientale dell’Artico all’interno delle rotte verso il Mare del Nord e l’Atlantico. La Dottrina Marittima del 2015 prevedeva, inoltre, il rafforzamento delle strutture logistiche sulla linea costiera russa e sulle isole lungo il Mar del Giappone e il Mar di Okhotsk (l’area di lancio principale da parte degli SSBN russi); mentre, la presenza della Russia nell’Oceano Indiano era prevista attraverso solo «dispiegamenti navali periodici». Politicamente, mentre la cooperazione con l’India era «l’obiettivo più importante» per la Russia nell’Oceano Indiano, le relazioni amichevoli con la Cina erano una «componente importante» per la politica marittima russa nel Pacifico. Tutto ciò ignorando un ulteriore problema della Russia di una crescente concorrenza tra Cina e India e le relative frizioni nell’Oceano Indiano e nel Mar Cinese Meridionale. Le basi a terra, come sempre, sono elementi fonda-
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«Onyx» sono state piazzate a Matua dal dicembre 2021. All’estremità sud della catena, sono stati posizionati i sistemi missilistici S-300V4 «Iturup» nel dicembre 2020, mentre i test missilistici terra-aria dei missili S-300V4 ad alte prestazioni, dall’isola di Etorofu nel marzo 2022, sono stati presi come un pesante avvertimento contro Stati Uniti e Giappone. Sono in corso inoltre studi per attivare una nuova base nelle Isole Curili, con accesso immediato alle acque profonde del Pacifico nord-occidentale e con la capacità di penetrazione nella acque libere del Pacifico settentrionale. Il sostegno del Giappone alle sanzioni Il sistema missilistico di difesa costiera mobile russo K-300P «Bastion-P» (wikipedia.org). contro la Russia per la guerra in mentali per la piena operatività di una forza navale. La Ucraina ha portato a un aumento dell’azione militare flotta russa del Pacifico ha sede a Vladivostok ma, si è russa nella catena delle Curili, la «prima linea» della stabilita in un nuovo complesso militare intorno alla Russia a est. baia di Vladivostok, nella città (off-limits) di Fokino. Più a sud, nel 2014, alla Russia è riuscito di ottenere Verso nord, lungo la costa si trova la base di Sovetuna maggiore via d’accesso alla baia di Cam Rahn (Vietskaya Gavan, dopo di che la costa corre oltre l’isola nam), ma non ai suoi vecchi diritti sulla base, posseduti russa di Sakhalin e curva intorno al Mare di Okhotsk, nell’era sovietica, che erano amplissimi. Al riguardo, alsotto il controllo russo dalla penisola di Kamchatka e cuni analisti considerano che l’accondiscendenza del dalle Isole Curili. A Komsomolsk-on-Amur, il cantiere Vietnam, estremamente ostile alle mire espanisve cinesi navale di Amur ha recuperato il suo precedente valore nel sud-est Asiatico, sia un pegno affinché Mosca porti dell’epoca sovietica come principale arsenale per la Pechino a più miti consigli nella regione. Questo conflotta del Pacifico. Importanti forze russe si trovano temporaneamente da parte del Vietnam, segue l’aver stanella penisola della Kamchatka, vicino a Petropabilito un rapporto positivo con il nemico del vlovsk, presso la base dei sottomarini nucleari di Rydecennio1963-73, gli Stati Uniti, che hanno ugualmente bachiy, che è stata ammodernata nel 2015 per ospitare accesso alla medesima installazione. Ancora più a sud, i nuovi SSBN (Project 955), classe «Borei». La connell’Oceano Indiano, la Russia ha stabilito legami più centrazione di sottomarini russi nel Mare di Okhotsk stretti con il Myanmar e la sua leadership, rinforzatisi riflette un approccio offensivo deliberato all’antemusoprattutto dopo il colpo di Stato militare. Tali legami rale occidentale, in primis gli Stati Uniti, in misura seincludono la cooperazione navale nell’ambito del più condaria, Giappone, Corea del Sud e a seguire le ampio accordo di cooperazione firmato nel 2016 e un Filippine, la Polinesia e la Caledonia francesi e infine, ulteriore accordo nel gennaio 2018 per l’ingresso di navi Australia e Nuova Zelanda. All’estremità settentrionale da guerra russe nei porti di quel paese. L’opportunità di della catena, le unità missilistiche di difesa mobile coun accordo di sostegno logistico reciproco è stata prostiera K-300P «Bastion-P» con missili anti-nave posta nella dichiarazione congiunta del vertice annuale
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Russia-India, nel dicembre 2021. Un tale accordo vedrebbe le navi russe vicino alle basi indiane intorno al Golfo del Bengala, comprese le isole Andamane e Nicobare (punto assai sensibile della strategia navale indiana). Nonostante abbia perso le sue basi dell’era sovietica nella strategica area del Corno d’Africa (Somalia, Yemen del nord e del sud ed Etiopia), la Russia ha riguadagnato una certa presenza nel Mar Rosso, attraverso l’annuncio nel novembre 2020 di un accordo per costruire un supporto logistico e una struttura di manutenzione in Sudan. Si tratta di un evidente gioco di potere a sostegno delle operazioni russe nel Mediterraneo orientale e la creazione di una porta per l’Oceano Indiano occidentale (e una pesante ipoteca sul traffico commerciale, che, attraverso l’ampliato Canale di Suez, connette l’Oceano Indiano e Pacifico al Mediterraneo). A seguito del colpo di Stato militare in Sudan dell’ottobre 2021, condannato in Occidente, il nuovo leader sudanese Abdel al-Burhan ha riaffermato i principi generali di tale accordo; così come il vice capo di Stato Mohamed Dagalo, che ha visitato Mosca il 24 febbraio, il giorno in cui le forze russe sono entrate in Ucraina. Risorse e assetti sono un tema controverso. Nel 2022 la flotta russa del Pacifico sarebbe composta da circa cinquanta unità, di cui: un incrociatore missilistico, quattro fregate antisommergibili, due caccia antiaerei, sette corvette, otto piccole navi antisommergibile, undici unità motomissilistiche e una decina di unità antimine, quattro navi da sbarco e cinque mezzi da sbarco, e infine, ben 23 sottomarini : 4 SSBN, 6 SSGN, 4 SSN, 9 SSK/SS. Numericamente, questa flotta è sicuramente minore della passata flotta sovietica del Pacifico e un quarto della 7th US Pacific Fleet. Tuttavia, essa dimostra un concreto miglioramento rispetto alla flotta degli anni 80 e 90, durante i quali le navi arrugginite erano una vista comune nelle basi russe. I piani per il rafforzamento e il dispiegamento di nuove grandi unità nella flotta russa sono stati annunciati all’inizio del 2010. Tuttavia fino al 2020 l’attenzione delle costruzioni navali ha privilegiato l’impostazione di unità leggere e sotto-
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marini, con massicci programmi di ammodernamento sulle vecchie unità dei sistemi d’arma a bordo, soprattutto nel settore dei missili superfice-superfice, con l’installazione dei sistemi «Uran» e «Kalibir» (questi ultimi famosi per essere stati lanciati da navi e sottomarini con tiri spettacolari, dal Mar Nero e Mar Caspio, su bersagli in mano a terroristi dello Stato Islamico e Al-Qaeda in Siria). Questo aggiornamento è iniziato con il ritorno in servizio del «Marshal Shaposhnikov» nel maggio 2021 e con l’«Admiral Vinogradov», prossimo all’entrata in linea. Anche i sottomarini della classe «Oscar» (SSGN) a propulsione nucleare (Progetto 949A) sono in fase di modernizzazione, con i loro missili «Granit» destinati alla sostituzione con missili «Kalibr». Il sottomarino «Irkutsk» guida il programma di ammodernamento, anche se lentamente, per un ritorno nel Pacifico entro il 202223, seguito dal «Chelyabinsk». Infine, al maresciallo «Shaposhnikov» e all’«Irkutsk» sono forniti lanciatori universali per i temibili missili ipersonici 3M22 «Zirkon». La flotta del Pacifico riceverà sei nuovi sottomarini d’attacco diesel-elettrici SSK della classe «Kilo» migliorati (Progetto 636.3) entro il 2024. Il «Petropavlovsk-Kamchatsky» e il «Volkhov» hanno già operato nell’Oceano Indiano nell’ottobre 2021, mentre il prossimo in linea è il «Magadan», impostato il 1 novembre del 2019 e attualmente in viaggio verso Vladivostok. Il grande sottomarino nucleare della classe Belgorod per scopi speciali (Progetto 09852), completo di droni nucleari subacquei (sistema UUV Poseidon), dovrebbe essere consegnato alla flotta del Pacifico entro l’estate
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2022. Tre nuove fregate della classe «Gorshkov» (Progetto 22350) dovrebbero unirsi alla flotta del Pacifico: l’«Admiral Amelko» nel 2023 e le altre due entro il 2025. La ricostruzione della flotta del Pacifico, iniziata nel 2011 presso il cantiere di Severnaya Verf, di San Pietroburgo e proseguita nel cantiere di Amur ha visto l’ingresso in linea di quattro nuove corvette della classe «Gremyashchy» (Progetto 20385), in grado di utilizzare missili ipersonici «Zirkon». Il cantiere navale Amur ha anche prodotto corvette polivalenti della classe «Steregushchy» (Progetto 20380) in grado di utilizzare i missili antinave «Uran-M». I punti salienti del programma di potenziamento dei sottomarini della flotta russa del Pacifico sono stati gli arrivi dei sottomarini SSBN della temuta classe «Borei» (Progetto 955): l’«Alexander Nevsky» nel 2015 e il «Vladimir Monomakh» nel 2016. Nel dicembre 2021 è stata annunciato un incremento del programma relativo ai sottomarini. In primo luogo, la flotta del Pacifico ha ricevuto il suo primo progetto 885M «Yasen» (SSGN), il «Novosibirsk», con altri tre al seguito. Infine, un terzo SSBM della classe «Borei-A», il «Generalissimus Suvorov», è stato varato per entrare il servizio con la flotta del Pacifico. In tutto questo, resta una pesante criticità, particolarmente grave per una flotta come quella russa che ha ambizioni globali: la mancanza di una forza aeronavale imbarcata. L’unica portaerei russa, l’«Admiral Kuznetsov», continua a essere parte della Flotta del Nord (senza considerare il suo stato, a dir poco precario, che lascia fortissimi dubbi su un suo realistico rientro in servizio). Di fatto, la Flotta del Pacifico è senza una portaerei per affrontare la US Pacific Fleet (da cui dipendono la III e la VII Flotta), che ne dispone di sette (questo senza considerare le analoghe necessità delle altre flotte russe). In termini di schieramenti, la Marina della Federazione Russa ha ampliato il suo raggio operativo spingendosi più in profondità nel Pacifico e, più ampiamente, nel sud-est asiatico e nell’Oceano Indiano, ma anche nell’estremo nord, anche se con risorse limitate. Le principali manovre (Ocean Shield 2020) si sono svolte nel Mare di Bering nell’agosto 2020, le prime dall’epoca sovietica. Ciò ha coinvolto oltre 40 unità della flotta del Pacifico, accompagnate dalla simbolica e minacciosa emersione del SSN
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«Omsk» al largo delle coste dell’Alaska. È stato particolarmente curato anche l’addestramento anti-areo in Artico, che è un obiettivo crescente per i sottomarini della flotta russa del Pacifico che operano nella rotta del Mare del Nord che collega l’Asia e l’Europa. In un altro chiaro segnale per gli Stati Uniti, la Marina russa ha condotto esercitazioni su larga scala (fino a 20 unità combattenti di superficie, sottomarini e navi di supporto, incluso ancora l’apparentemente instancabile, incrociatore «Varyag»), a circa 4.000 km nella «zona marittima lontana» del Pacifico centrale, circa 300 miglia a ovest delle Hawaii, con il dichiarato obiettivo di esercitarsi nella pianificazione della distruzione dei gruppi d’attacco delle portaerei. Come accennato, la flotta russa del Pacifico è riapparsa nelle acque del sudest asiatico, con un massiccio incremento di visite nei paesi della regione, specialmente a partire dal 2014. L’attivismo navale russo si è riflesso più recentemente nell’esercitazione «Arnex» tenutasi con gli stati dell’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico (ASEAN) nel Mar Cinese Meridionale nel dicembre 2021, concretizzatosi con l’invio di un cacciatorpediniere ASW e conseguente ricca dose di simbolismo. Risulta evidente come gli schieramenti russi nello schacchiere, incluso l’Oceano Indiano, sono tesi a fronteggiare in maniera flessibile compiti multidirezionali. A volte, le flotte russe del Nord, del Baltico e del Mar Nero inviano navi dal Mediterraneo all’Oceano Indiano. Altre volte, la flotta del Pacifico schiera sue unità nell’Oceano Indiano. Questi dispiegamenti includono esercitazioni congiunte con l’India dal 2003, operazioni antipirateria nel Golfo di Aden dal 2008 e esercitazioni bilaterali e trilaterali con Iran e Cina dal 2019. Le unità della flotta del Pacifico sono state dispiegate anche più a ovest, fino al Mediterraneo, un’estensione testimoniata per la prima volta nel 2013 con l’invio di una flottiglia guidata da un cacciatorpediniere, accompagnato da due navi anfibie, e un rifornitore d’altura per unirsi ad altre unità delle flotte del Mar Nero e del Nord. Questo modello di spiegamento della flotta del Pacifico, dall’Oceano Indiano al Mediterraneo è stato ripetuto con la Task Force «Varyag» nel 2016 e, ancora, nel 2022. In termini di partnership regionale, la Russia ha un buon livello di cooperazione marittima con India, Iran e Cina. Rinnovando gli storici legami
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dell’era sovietica, le unità delle flotte russe del Mar Nero e del Pacifico hanno iniziato esercitazioni semestrali «Indra» con l’India nel maggio 2003. Queste sono state effettuate nel Golfo del Bengala (2003, 2005, 2015, 2018), Mar Arabico (2003, 2009, 2019), Mar del Giappone (2007, 2017) e Mar Baltico (2021). Tuttavia, permangono alcune limitazioni, soprattutto nel settore logistico. Infatti, una squadra dell’Indian Navy in arrivo a Vladivostok non è stata in grado di svolgere l’esercitazione «Indra» del 2021 perché la flotta russa del Pacifico non aveva navi disponibili. Un accordo logistico per le loro due marine sembrerebbe vicino, ma è stato posticipato a data da destinarsi, probabilmente a causa della crisi ucraina. Ulteriormente, l’annuncio dalla Russia, formulato nel gennaio di quest’anno che le prossime esercitazioni navali «Indra» si terranno nel Mar Nero nell’autunno 2022, resta da confermare alla luce delle note vicende internazionali. Un accordo di cooperazione navale con l’Iran nell’agosto 2019 è stato seguito dall’invio di due unità della flotta baltica per esercitazioni trilaterali con Iran e Cina nel dicembre 2019 e, in un formato ripetuto, nel gennaio 2022. Nel frattempo, sono state condotte esercitazioni bilaterali con l’Iran nel febbraio 2021 alle quali hanno preso parte unità sia della flotta del Baltico sia di quella Pacifico. È significativo osservare che la cooperazione terrestre Russia-Cina sia accompagnata da una crescente cooperazione marittima, e non poteva essere diversamente vista l’enfasi che Pechino assegna a questo settore. Le esercitazioni bilaterali annuali «Joint Sea», avviate nel 2012, sono aumentate progressivamente in termini di complessità, interoperabilità e portata. Queste sono state effettuate nel Mar Giallo nel 2012 (e 2019), nel Mar del Giappone nel 2013 (2015 e 2017), nel Mar Cinese Orientale nel 2014 e nel Mar di Okhotsk nel 2017. Una esercitazione particolarmente significativa è stata quella dell’ottobre 2021, che includeva la navigazione intorno alla costa orientale del Giappone. Probabilmente, per tipologia e dispiegamento di mezzi, le esercitazioni congiunte nel Mar Cinese Meridionale nel 2016 hanno avuto un maggior ritorno addestrativo per la Cina; mentre quelle nel Mediterraneo e nel Mar Nero nel 2015, e nel Mar Baltico nel 2017 hanno avvantag-
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giato la Russia. Peraltro, anche nell’Oceano Indiano sono avvenute esercitazioni navali russe con la Cina. Nel novembre 2019, la Flotta del Nord russa ha inviato la «Marshall Ustinov» e un rifornitore d’altura per le esercitazioni trilaterali («Mosi») con Cina e Sud Africa (Cina rappresentata dalla fregata Weifang; Russia dall’incrociatore lanciamissili Ustinov, dalla nave cargo Vyazma e dal rimorchiatore SB-406; Sud Africa con la fregata Amatola e nave supporto Drakensberg). Questo è stato seguito alla fine di dicembre dall’invio da parte della flotta del Baltico di una fregata e di un rifornitore per esercitazioni trilaterali («Maritime Security Belt») con la Cina e l’Iran nel Golfo di Oman. Ulteriori esercitazioni bilaterali con la Cina si sono svolte nel Mar Arabico («Peaceful Sea 2022») prima che la flottiglia russa proseguisse verso il Mediterraneo per partecipare alle operazioni russe in Ucraina. In conclusione, emergono tre punti punti di maggior rilevanza che influiscono sulla strategia navale russa nella regione e (di seguito) a livello globale. In primo luogo, nonostante le capacità militari russe nella regione Indo-Pacifico si accrescano, queste restano oggettivamente inferiori in termini complessivi (numero di unità e capacità operative) a quelle statunitensi. Secondariamente, la crescente cooperazione marittima tra Russia e Cina rappresenta un problema per la US Navy in quanto queste due forze congiunte costituiscono un moltiplicatore di forza riducendo le loro rispettive criticità, pur considerando la permanenza di gap importanti nel settore aeronavale, sminamento, sostegno operativo-logistico (settori fondamentali nella proiezione di potenza). In terzo luogo, l’attività della flotta russa nell’Indo-Pacifico non riguarda solo il dispiegamento della flotta del Pacifico, ma è, ovviamente, strettamente connesso con quello delle altre squadre navali russe del Mar Nero, del Nord e del Baltico e della presenza di loro aliquote nell’Oceano Indiano. Ovviamente questo funziona anche in senso inverso, con rischieramenti di unità della flotta del Pacifico nell’Artico, e nel Mediterraneo (dove sono state effettuate esercitazioni nel 2013, 2016 e 2022). Questo dimostra, però in ultima analisi una debolezza strutturale delle singole flotte, che hanno bisogno di consistenti rinforzi in caso di necessità. Enrico Magnani
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ITALIA La Marina Militare alla Cold Response 2022»
Inaugurato il primo Master in Logistica Marittima Integrata
Oltre a un’aliquota del 3° Reggimento alpini dell’Esercito Italiano, le Forze armate italiane hanno partecipato all’esercitazione NATO «Cold Response 2022» con l’incrociatore portaeromobili Giuseppe Garibaldi, che ha svolto la funzione di nave sede comando per il comandante della task force Anfibia multinazionale («Commander Amphibious Task Force, CATF») il contrammiraglio Valentino Rinaldi: oltre a personale della Brigata marina San Marco, a bordo del Garibaldi ha operato anche il comandante della forza da sbarco («Commander Landing Force, CLF»), generale di brigata del Corpo dei Marines statunitensi, Anthony Henderson, comandante della 2nd Marine Expeditionary Brigade. Al termine dell’esercitazione, vi è stato un incontro fra il generale Henderson e l’ammiraglio di squadra Aurelio De Carolis, Comandante in capo della Squadra navale.
A metà marzo 2022, la Sala Consiliare dell’Università Parthenope di Napoli è stata il palcoscenico per l’inaugurazione del Master di II livello in Logistica Marittima integrata, promosso dall’Accademia dell’Alto Mare (organismo fondato dalla Marina Militare e dalla Lega Navale), dall’Università «Parthenope» e dall’Istituto di studi sul Mediterraneo del Consiglio nazionale delle ricerche. Il master — a cui partecipano ufficiali della Marina Militare (coordinati dal Comando Logistico della MM) e personale civile — è unico nel suo genere nel panorama nazionale per i contenuti didattici e per la compartecipazione sinergica di industrie ed enti del comparto trasporti, logistica, sostenibilità e blue economy. Alla didattica frontale, contraddistinta da integrazione di discipline economiche, geopolitiche, ingegneristiche e giuridiche, si affianca un’attività formativa presso aziende ed enti per completare la preparazione di quelle figure tecnico-professionali altamente qualificate — fra cui il Supply Chain Coordinator, il Marine Scheduler, il Sea Logistics Sales, il Logistics/Transport Engineer/Analyst Specialist, attualmente carenti nel settore della logistica marittima — di cui si prevede un forte incremento della domanda nel mercato del lavoro almeno fino al 2030.
La portaeromobili GIUSEPPE GARIBALDI alla fonda in un fiordo norvegese nel corso dell’esercitazione NATO Cold Response 2022: l’unità ha svolto il ruolo di nave sede comando della task force anfibia costituita allo scopo.
L’incontro fra l’ammiraglio di squadra Aurelio De Carolis, Comandante in Capo della Squadra navale e il Brigadier General del Corpo dei Marines statunitensi, Anthony Henderson, a bordo del GARIBALDI al termine dell’esercitazione Cold Response 2022.
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In servizio il pattugliatore polivalente d’altura Paolo Thaon di Revel Il 18 marzo 2022 il pattugliatore polivalente d’altura Paolo Thaon di Revel è stato consegnato alla Marina Militare, dopo una cerimonia svoltasi nello stabilimento Fincantieri del Muggiano (La Spezia) e a cui è seguito l’inquadramento dell’unità nella Prima Divisione navale (COMDINAV UNO). Come noto, il Thaon di Revel è il primo esemplare di una classe di sette unità la cui consegna dovrebbe concludersi entro il 2026 e che rientra nel piano di rinnovamento dello strumento aeronavale italiano, avviato nel maggio 2015 sotto l’egida dell’OCCAR (Organizzazione per la Cooperazione Congiunta in materia di Armamenti). Realizzate in tre versioni, le
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il terzo e il quarto esemplare, Raimondo Montecuccoli e Marcantonio Colonna, saranno «light +»: la quinta, Giovanni dalle Bande Nere, sarà «full», così come la settima ancora da battezzare, mentre la sesta, Ruggero di Lauria, sarà «light +». Le unità in versione «full» sono equipaggiate con un radar attivo a scansione elettronica a doppia banda (C e X) in grado di assicurare anche la difesa contro missili balistici di teatro, così Il pattugliatore polivalente d’altura PAOLO THAON DI REVEL è entrato in servizio nella Marina Militare il 18 come con un sonar a scafo e un marzo quale primo esemplare di una classe di 7 unità realizzata in tre varianti. sensore elettroacustico rimorchiato. La dotazione missilistica si unità classe «Thaon di Revel» hanno una lunghezza articola in due moduli ottupli per il lancio di missili fra le perpendicolari di 133 metri, raggiungono fuori superficie-aria «Aster 15» e «Aster 30» e su otto mistutto 143 metri e lo scafo è caratterizzato a prora da sili antinave, mentre quella d’artiglieria comprende forme particolari che consentono il raggiungimento di l’impianto da 127/64 e uno da 76/62 «sovrapponte» una velocità massima di 32 nodi, valore dipendente con munizionamento di precisione e due impianti da dalla configurazione dell’unità e dalle condizioni ope25 mm a controllo remoto. Le sistemazioni aeronautirative. La larghezza massima è di 16,6 metri. Le verche sono dimensionate per far operare due elicotteri sioni dei «Thaon di Revel» riguardano differenti della famiglia «H-90» o un «H-101», mentre sotto il configurazioni del sistema di combattimento, partendo ponte di volo è presente un’area modulare che conda una versione «light» (con compiti di pattugliamento sente, fra l’altro, di mettere a mare un imbarcazione e su cui sono integrate capacità di autodifesa), una inveloce tipo RHIB (Rigid Hull Inflatable Boat) lunga termedia, «light+», fino a una versione «full», equifino a 11 metri. Un’altra area similare è presente a cenpaggiata con il massimo della capacità operative. Ciò tro nave dove, oltre a uno o due RHIB, movimentabili ha portato a differenti valori di dislocamento, che con gru, possono essere sistemati fino a otto container, vanno dalle 5.830 tonnellate per la prima versione a ciascuno equipaggiabile con diverse dotazioni. 6.270 tonnellate per la terza. Anche la consistenza dell’equipaggio è ovviamente legata alla configurazione Intervento antipirateria della fregata Luigi Rizzo della piattaforma, passando da circa 135 persone a Nella notte fra il 3 e il 4 aprile la fregata Luigi 173, con una disponibilità di alloggi che raggiunge coRizzo, impegnata nelle acque del Golfo di Guinea munque i 181 posti letto. A fattor comune fra le tre vernell’operazione antipirateria «Gabinia», è intervenuta sioni della classe rimane la peculiarità del sistema per sventare un attacco di pirati ai danni del mercanpropulsivo, denominato CODAGOL (COmbined Dietile Arch Gabriel, battente bandiera delle Isole Marsel And Gas Or eLectric), comprendente due motori shall, mettendo in atto una serie di azioni dissuasive. elettrici, altrettanti motori diesel e una turbina a gas, e Trovandosi a circa 280 miglia dal mercantile, il Rizzo che consente 5 diverse configurazioni propulsive — si è diretto a tutta velocità nella zona del mercantile, sempre su due assi — in funzione della velocità richiefacendo successivamente decollare uno dei suoi elista. Il Thaon di Revel e il secondo esemplare, Francecotteri con a bordo gli operatori della Brigata Marina sco Morosini, sono in configurazione «light», mentre San Marco, specializzati in attività di sicurezza e ab-
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L’azione sinergica fra la fregata LUIGI RIZZO, gli elicotteri imbarcati e il personale della Brigata Marina San Marco per sventare l’attacco di pirati contro il mercantile ARCH GABRIEL, visibile in primo piano.
bordaggio. L’operazione è proseguita con la discesa sul mercantile di un team di abbordaggio eliportato, mentre il Rizzo ha garantito il supporto di sicurezza dell’area; dopo circa un’ora, il team di abbordaggio ha completato la messa in sicurezza del mercantile, ne ha assunto il controllo e, verificata l’assenza a bordo di pirati, ha liberato l’equipaggio rimasto fino a quel momento chiuso nella cittadella di sicurezza del Arch Gabriel. L’equipaggio ha quindi iniziato il ripristino dei danni causati dai pirati in modo da poter proseguire la navigazione verso Lagos, mantenendo comunque a bordo un’aliquota di personale della Brigata Marina San Marco e avvalendosi anche della scorta della fregata della Marina Militare.
della Fleet Air Arm britannica è stato sciolto il 31 marzo 2022. Per commemorare l’operato del 736 NAS, il 17 marzo tre aviogetti d’addestramento «Hawk T1» in dotazione al reparto hanno eseguito un volo dimostrativo da Culdrose a Prestwick e ritorno. Nonostante fosse stato annunciato che le attività addestrative del 736 NAS sarebbero state svolte dal 100 Squadron della RAF di Leeming, l’intento non si è concretizzato perché anche gli «Hawk T1» della RAF sono stati ritirati dal servizio il 31 marzo 2022.
INTERNAZIONALE Tre gruppi portaerei in azione a ridosso dell’Italia
Come annunciato, il 736 Naval Air Squadron/NAS
Dal 16 al 18 marzo il Gruppo portaerei della Marina Militare, composto dalla portaerei Cavour, dal cacciatorpediniere Andrea Doria e dalla fregata Antonio Marceglia, ha condotto, con quello statunitense e francese, attività addestrativa nelle acque dello Ionio e dell’Adriatico per accrescere il livello addestrativo e l’interoperabilità tra task group di portaerei; le portaerei statunitense Harry Truman e francese Charles De Gaulle rappresentavano il fulcro degli altri due task group. L’esercitazione si è sviluppata con attività ad ampio spettro e multidominio (aereo, superficie e subacqueo) svolte dai mezzi navali e dai velivoli imbarcati. L’esercitazione è stata inquadrata nel consolidamento dell’interoperabilità fra le forze aeronavali di Italia, Francia e Stati Uniti, un interazione questa, che, insieme a quella già avvenuta a febbraio 2022, ha contribuito a incrementare la capacità degli
Uno degli ultimi esemplari di velivoli d’addestramento «Hawk T1», in dotazione al 736 Naval Air Squadron della Fleet Air Arm della Marina britannica, reparto disciolto il 31 marzo 2022 (Foto Airhistory.net).
Le portaerei CAVOUR (in basso), HARRY TRUMAN dell’US Navy e CHARLES DE GAULLE riprese durante una fase delle attività addestrative svoltesi nella seconda metà di marzo nello Ionio e nell’Adriatico.
GRAN BRETAGNA Scioglimento di un gruppo di volo della Fleet Air Arm
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equipaggi della Marina Militare a operare in un contesto multinazionale a elevato livello.
MALTA Prossimo alla consegna il pattugliatore P71 Costruito dai cantieri Vittoria di Rovigo, il pattugliatore marittimo P71 destinato alla componente marittima delle Forze armate di Malta quale nave ammiraglia è prossimo alla consegna, evento successivo al completamento delle prove in mare al largo di Chioggia. L’unità è lunga 74,8 metri, ha un dislocamento di 1.800 tonnellate e sarà in grado di raggiungere una velocità massima di oltre 20 nodi.
Costruito dal Cantiere navale Vittoria di Rovigo, il pattugliatore d’altura P71 ha iniziato a marzo le prove in mare propedeutiche alla sua consegna alle Forze navali di Malta (Cantiere navale Vittoria).
QATAR Varata la quarta corvetta per la Marina del Qatar Il 29 marzo 2022 si è svolta, nello stabilimento di Muggiano (La Spezia), il varo tecnico della corvetta Sumaysimah, quarto e ultimo esemplare della classe «Al Zubarah», oggetto di un contratto affidato a Fincantieri dal ministero della Difesa del Qatar nell’ambito del programma di potenziamento navale dell’Emirato. Alla cerimonia, hanno partecipato Khalid bin Yousef Al-Sada, ambasciatore del Qatar in Italia, il brigadier generale Rashid Al Qashouti (in rappresentanza dello Stato maggiore della Difesa del Qatar), il brigadier generale Ali Ameen (in rappresentanza del Comandante delle forze navali qatarine), il maggior generale Hilal Al Muhannadi (addetto della Difesa del Qatar in Italia), il contrammiraglio Riccardo Marchiò (Comandante delle Forze di contromisure
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Il trasferimento alla banchina d’allestimento della corvetta SUMAYSIMAH, varata il 29 marzo negli stabilimenti Fincantieri del Muggiano e ultimo esemplare di una classe di quattro unità in costruzione per la Marina del Qatar (G. Arra).
e mine della Marina Militare) e l’ing. Marco Acca, vice Direttore Generale della Divisione navi militari di Fincantieri. Lunghe circa 107 metri e larghe 14,70 metri, le corvette classe «Al Zubarah», sono dotate di un sistema di propulsione tutto diesel, possono raggiungere una velocità massima di 28 nodi e hanno un equipaggio di 112 persone. Nel corso del salone DIMDEX, svoltosi a Doha dal 21 al 23 marzo, è stato annunciato che Leonardo fornirà alle forze navali del Qatar un centro di coordinamento delle operazioni aeronavali.
REPUBBLICA POPOLARE CINESE Massiccia espansione cantieristica In coerenza con l’espansione delle proprie forze navali, la Repubblica Popolare Cinese sta procedendo anche a un massiccio potenziamento delle propri capacità cantieristiche militari. Il cantiere di Jiangnan, nell’area di Shanghai, vicino la foce del fiume Yangtze, è specializzato nella costruzione di portaerei, unità maggiori di superficie e sottomarini; la sua estensione è pari a 7,3 kmq, in corso di espansione. Jiangnan fa parte del consorzio industriale statale China State Shipbuilding Corporation (CSSC), che produce anche unità mercantili di dimensioni rilevanti come le gigantesche portacontainer da 16.000 TEU. Anche il cantiere di Wuhan, all’estremità nordorientale del Mar Giallo, sta vivendo una fase di potenziamento finalizzata a incrementare la produzione di sottomarini a propulsione nucleare. Questi elementi suggeriscono all’US Navy che verso il 2040 la Marina cinese sarà in grado di schierare 6 portaerei: le prime due sono Liaoning e Shandong, mentre la terza — nota al momento come «Type 003» — è in allesti-
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mento a Jiangnan, a cui ne dovrebbero seguire almeno altre due, presumibilmente a propulsione nucleare. Oltre alle portaerei, l’attenzione degli analisti è concentrata sui cacciatorpediniere classe «Renhai/Type 055» e «Luyang III/Type 052D», nonché sulla realizzazione di fregate e corvette, destinate anche al mercato dell’esportazione.
STATI UNITI Impostazione del cacciatorpediniere lanciamissili Ted Stevens Il 9 marzo, nei cantieri del gruppo Huntington Ingalls Industries (HII) a Pascagoula, Stato del Mississippi, ha avuto luogo la cerimonia d’impostazione del cacciatorpediniere lanciamissili Ted Stevens, distintivo ottico DDG 128, 78° esemplare della classe «Arleigh Burke» e quarta unità realizzata nella configurazione «Flight III». Caratteristica peculiare delle unità classe «A. Burke Flight III» è il radar attivo a facce piane e scansione elettronica AN/SPY-6(V)1 destinato alla difesa integrata contraerei e antimissili, mentre nel progetto sono state incorporate alcune migliorie per incrementare la generazione di potenza elettrica e le capacità di refrigerazione dei componenti elettronici. Le altre unità classe «A. Burke Flight III» in costruzione nei cantieri HHI di Pascagoula sono il DDG 125, DDG 129 e il DDG 131, mentre sta per essere completata la costruzione del DDG 123, appartenente al «Flight IIA».
negoziata fra US Navy e HHI nel 2019 e il cui valore ammonta a 24 miliardi di dollari.
Consegnato il sottomarino Montana Il 15 marzo, la divisione Newport News Shipbuilding dell’Huntington Ingalls Industries ha consegnato all’US Navy il sottomarino nucleare d’attacco Montana (SSN 794), che in precedenza aveva completato con successo le prove in mare. La consegna all’US Navy è un passo formale che procede di qualche tempo l’ingresso in servizio propriamente detto. La variante Block IV incorpora alcune modifiche progettuali rispetto alla variante Block III finalizzate alla riduzione dei costi di esercizio complessivi di ciascuna unità e della durata dei periodi di manutenzione fra due dispiegamenti. La situazione dei sottomarini classe «Virginia Block IV» è così riassunta: Vermont (SSN 792) in servizio; Oregon (SSN 793) e Montana consegnati all’US Navy; Hyman G. Rickover (SSN 795) New Jersey (SSN 796), Iowa (SSN 797), Massachusetts (SSN 798) e Idaho (SSN 799) formalmente impostati; Arkansas (SSN 800) e Utah (SSN 801) in costruzione, ma non ancora formalmente impostati.
…e di una nuova Enterprise Martedì 5 aprile, negli stabilimenti HII di Newport News ha avuto la posa sullo scalo di costruzione del primo modulo strutturale della terza portaerei a propulsione nucleare classe «Ford», battezzata Enterprise nel solco di una tradizione che dura dagli anni Trenta del XX secolo. I responsabili dell’US Navy per il programma hanno dichiarato che i lavori di fabbricazione del primo elemento modulare sono iniziati con alcune settimane di anticipo rispetto ai programma e che all’inizio di aprile l’Enterprise (distintivo ottico CVN 80) ha raggiunto il 15% di avanzamento costruttivo: l’US Navy prevede che la nuova Enterprise sia consegnata nel 2028, mentre la quarta unità — Doris Miller, CVN81 — dovrebbe entrare in linea nel 2032. Le due portaerei sono finanziate nell’ambito di una strategia di procurement,
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Una foto del varo del sottomarino nucleare d’attacco MONTANA, appartenente alla classe «Virginia» e consegnato all’US Navy il 15 marzo. Il battello è stato realizzato nella configurazione Block IV, contenente modifiche progettuali rispetto alla configurazione precedente (HHI).
Dimostrazione del concetto Manned-Unmanned Teaming (MUM-T) Nel mese di marzo 2022, il Corpo dei Marines e l’US Navy hanno svolto una dimostrazione del concetto Manned-Unmanned Teaming (MUM-T), cioè le operazioni congiunte fra aeromobili pilotati e non, utilizzando elicotteri pilotati AH-1Z «Viper» e UH-1Y «Venom» e un
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mezzo non pilotato ad ala rotante MQ-8C «Fire Scout». La dimostrazione si è svolta nel Naval Air Facility El Centro, in California, con i «Venom» e i «Viper» impiegati ad attaccare bersagli designati da un team basato a terra e in collegamento con il «Fire Scout». L’esercitazione è stata un primo passo verso un’integrazione sempre più stretta fra velivoli pilotati e quelli a controllo remoto, finalizzata a incrementare le capacità di pianificazione, comunicazione e ingaggio a fuoco di bersagli terrestri e navali di varie tipologie, operando soprattutto in scenari costieri.
Affidata a Fincantieri la manutenzione dei cacciamine classe «Avenger» Fincantieri Marine Systems North America (FMSNA), specializzata nella commercializzazione di sistemi, servizi e componenti navali che fa capo alla controllata americana Fincantieri Marine Group (FMG), si è aggiudicata il contratto di manutenzione dei cacciamine classe «Avenger» in servizio nell’US Navy. La classe è composta da otto esemplari, di base in Bahrain con la 5a Flotta e in Giappone con la 7a Flotta, tutti equipaggiati con motori diesel della società Isotta Fraschini Motori, controllata di Fincantieri. Gli «Avenger» sono stati costruiti in Wisconsin, nei cantieri di Marinette e Sturgeon Bay, dove oggi Fincantieri possiede alcuni tra i più grandi e attivi stabilimenti della regione dei Grandi Laghi.
annunciato di aver testato nel Mar di Marmara il nuovo siluro pesante «Akya» di produzione nazionale, utilizzando allo scopo il sottomarino Preveze: la prova ha avuto luogo anche per verificare l’integrazione del nuovo siluro con l’altrettanto nuovo sistema di gestione operativa «Murena», installato a bordo del Preveze nel corso dell’ammodernamento di mezza vita. Il battello appartiene al tipo «Type 209/1400TN» di progetto tedesco, ma costruito in Turchia, mentre il precedente lancio del nuovo siluro era stato eseguito dal Gür, gemello del Preveze, ma non ancora sottoposto ad ammodernamento e da cui l’ordigno era stato lanciato utilizzando il sistema di gestione operativa ISUS 90-33. Utilizzabile contro bersagli subacquei e di superficie, il siluro «Akya» è un’arma di nuova generazione, operante autonomamente o con guida mediante fibra ottica, equipaggiato con un sensore acustico attivo e passivo. L’arma è accreditata di una velocità massima superiore ai 45 nodi e di una portata massima di circa 27 miglia ed è equipaggiato con un spoletta di prossimità e a impatto. Anche il sistema «Murena» è di produzione turca e riproduce sostanzialmente le funzionalità — con i dovuti aggiornamenti hardware e software — del sistema installato in precedenza sui sottomarini turchi della classe «Preveze»: oltre al battello eponimo, l’ammodernamento di mezza vita, comprensivo di installazione del «Murena» e dell’imbarco dei siluri «Akya» interesserà anche i sottomarini Sakarya, 18 Mart e Anafartalar.
Ingresso in servizio di tre nuovi velivoli a controllo remoto
TURCHIA Testati un nuovo siluro e un nuovo sistema di gestione operativa
Il 24 marzo il ministero della Difesa turco ha reso noto che la società Turkish Aerospace ha consegnato alla Marina turca due velivoli a controllo remoto tipo «AnkaS» e uno tipo «Aksungur», tutti armati con ordigni ariasuperficie. La consistenza dei velivoli a controllo remoto in servizio nella Marina turca aumenta dunque a 20 esemplari, in particolare due «Aksungur», dieci «TB2Bayraktar», quattro «Anka-S» e altrettanti «Anka-B». Grazie alla loro capacità di carico, gli «Aksungur» sono impiegabili per missioni di sorveglianza, ricognizione, intelligence e attacco dall’aria, operando anche a lungo raggio grazie a un sistema di guida satellitare.
A metà marzo 2022, il ministero della Difesa turco ha
Michele Cosentino
Il cacciamine statunitense GLADIATOR, qui sorvolato da un elicottero MH53 dell’US Navy, è una delle 8 unità classe «Avenger» per le quali Fincantieri si è aggiudicata la manutenzione (US Navy).
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«Nella mente di Putin» e «Russia’s Perpetual Geopolitics» IL CORRIERE DELLA SERA - FOREIGN AFFAIRS, 24 FEBBRAIO 2022
Tra tutti gli Zar, Putin ha sempre preferito Alessandro III (1845-94, imperatore dal 1881), passato alla storia sia per la sua svolta autoritaria che per l’espansionismo territoriale. Tant’è che, nel 2017, tre anni dopo l’annessione della Crimea, è stata inaugurata a Yalta, sulle rive del Mar Nero, una sua statua in bronzo alta quattro metri, sul cui piedistallo è riportata la sua frase più celebre: «La Russia ha due soli alleati: il suo esercito e la sua flotta». Un motto che evoca orgoglio, solitudine armata, disponibilità al sacrificio per la propria giusta causa [ovvero quella che si ritiene tale], tratti distintivi della Russia di fronte all’Occidente decadente e viziato — scrive sulle colonne del quotidiano milanese Paolo Valentino — e oggi l’avventura ucraina suona plastica conferma di una certa idea del potere e della Russia, che Putin ha progressivamente maturato nei suoi ventidue anni al Cremlino. Ma se finora, dalla Crimea alla Siria [e alla Libia], il presidente russo aveva sempre saputo minimizzare gli azzardi geopolitici e vendere abilmente i successi sul palcoscenico interno, il lancio dell’offensiva militare contro Kiev segna un cambio di passo, dove i rischi e i costi appaiono molto più alti di una vaga definizione di successo. Cos’è cambiato nell’approccio mentale di Putin, da spingerlo a una scommessa tanto ambiziosa, pericolosa e non del tutto condivisa perfino da molti dei suoi più stretti collaboratori? Al pari di numerosi analisti (pensiamo, tra gli altri, all’omonimo libro a cura di John Akwood ovvero al saggio di Nicolai Lilin, Putin. L’ultimo zar. Da San Pietroburgo all’Ucraina), l’autore cerca di sondare quali siano i veri piani di Putin che hanno portato all’aggressione contro l’Ucraina (pardon, all’operazione militare speciale nel lessico del Crem-
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lino!). In oltre due decenni al vertice, Putin ha cavalcato diverse narrazioni per la costruzione e il mantenimento del consenso. Prima la crescita economica, perseguita grazie agli alti costi dei prezzi dell’energia. Poi la polemica con l’Occidente, accusato di voler far rivivere la Guerra Fredda con l’ampliamento della Nato ai baltici e agli ex paesi del Patto di Varsavia. Quindi il patriottismo nazionalista con l’annessione della Crimea e il sostegno ai separatisti russofoni del Donbass — sino alla guerra ibrida in corso —. Ora Vladimir Putin ha fretta. Sente l’età avanzare, la salute vacillare. Il tempo non è più dalla sua parte. Vuole di più e lo vuole subito. Ed è disposto a pagare e far pagare al suo paese un prezzo molto alto. «La sua è una guerra non solo per l’Ucraina, ma per il sistema europeo — dice l’ex ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer — vuole ristabilire la Russia come la potenza prevalente nello spazio ex sovietico, cancellando le umiliazioni degli anni Novanta». Lo «Zar» sa che una democrazia funzionante in Ucraina metterebbe a rischio [anche in Russia] la sua regola autoritaria. Così sta puntando al bersaglio grosso, memore di Alessandro III, esercito e flotta unici alleati. «All’evidenza, non si accorge di aver sbagliato secolo». Sulla falsariga della storia, molto interessante poi è l’articolo «Russia’s Perpetual Geopolitics. Putin Returns to the Historical Pattern» di Stephen Kotkin, professore di storia e affari internazionali all’Università di Princeton, che ci viene riproposto dalla corposa newsletter della rivista Foreign Affairs, «dal 1922 la pubblicazione più influente degli Stati Uniti sugli affari internazionali e la politica estera», alla ricerca dei fondamentali della geopolitica russa. Per mezzo millennio, la politica russa è stata caratterizzata da ambizioni crescenti che hanno superato le reali capacità del paese, scrive il Nostro. Ha perso la guerra di Crimea del 1853-56, che pose fine al suo bagliore post-napoleonico; la guerra russo-giapponese del
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rire agli organismi internazionali, se non come membro d’eccezione o dominante. Una percezione che fornisce orgoglio al popolo e ai leader russi, ma fomenta anche il risentimento verso l’Occidente per aver sottovalutato l’unicità e l’importanza della Russia. Un altro fattore che ha plasmato il ruolo della Russia nel mondo è stata la geografia unica del paese. La Russia non ha confini naturali, tranne l’Oceano Pacifico e l’Oceano Artico (l’ultimo dei quali sta diventando anche uno spazio conteso). Il monumento allo zar Alessandro III inaugurato da Putin a Yalta il 18 novembre 2017 (moscow-river.com). Colpita nel corso della sua storia da sviluppi spesso turbolenti in Asia orientale, Europa e Medio 1904-05, la prima sconfitta di un paese europeo da Oriente, la Russia si è sentita perennemente vulnerabile parte di uno asiatico nell’era moderna, quindi ancora e ha spesso mostrato una sorta di aggressività difensiva. la Prima guerra mondiale, che ha causato il crollo del La sicurezza russa è stata quindi tradizionalmente in regime imperiale e, infine, la Guerra Fredda, una sconparte basata sullo spostamento verso l’esterno, specialfitta che ha contribuito a causare il crollo del successore mente nell’estero vicino, nello spazio ex-sovietico fasovietico del regime imperiale, la cui disgregazione nel talmente attratto dall’Occidente, in nome della 1991, ha portato alla perdita di circa due milioni di miprevenzione di un attacco esterno. Mosca vede i paesi glia quadrate di territorio sovrano, più dell’equivalente più piccoli ai confini della Russia non come potenziali dell’intera Unione europea. In parallelo la storia regiamici ma come «potenziali teste di ponte per i nestra tre fugaci momenti di notevole ascesa: la vittoria mici», in buona sostanza «come armi nelle mani delle di Pietro il Grande su Carlo XII di Svezia nei primi potenze occidentali intente a brandirle contro la Rusanni del Settecento, che impiantò la potenza russa sul sia». L’ossessione geopolitica di Putin è quella di riMar Baltico e in Europa e quella di Alessandro I su Nacostruire il vecchio sistema sovietico di paesi e città poleone, che portò la Russia a Parigi come arbitro degli satellite che assicurerebbe la protezione della Russia affari delle grandi potenze, quindi la vittoria di Stalin da un presunto attacco occidentale. E l’articolo in pasul «maniacale giocatore d’azzardo» Adolf Hitler, che rola, scritto all’indomani dell’annessione forzata della ha guadagnato alla Russia Berlino, un impero satellite Crimea senza colpo ferire e dei disattesi protocolli di nell’Europa orientale e un ruolo centrale che ha modelMinsk, ci fornisce così, pur nelle sue linee generali, i lato l’ordine globale del dopoguerra. In questo rutilante prodromi della visione neo-imperiale di Putin, intesa alternarsi di vittorie e sconfitte, i russi hanno sempre a ridisegnare i rapporti di forza internazionali, una viavuto un senso costante di vivere in un paese provvisione che ha portato alla tragedia ucraina che si sta denziale con una missione speciale, sulla scia dell’amconsumando sotto i nostri occhi, in una lunga scia di bizione di essere la «Terza Roma». La sensazione di sangue e di devastazioni indiscriminate in spregio alle avere una missione speciale ha contribuito alla scarsità più elementari norme del diritto umanitario dei condi alleanze formali della Russia e alla riluttanza ad adeflitti armati.
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«Le Terze guerre mondiali» LA LETTURA, N. 534, 20 FEBBRAIO 2022
Dalla guerra reale alle guerre ipotetiche. Poco prima dell’esplosione della crisi ucraina, due romanzi «strategici» usciti quasi contemporaneamente — e recentemente tradotti anche in italiano — hanno immaginato il pianeta sul baratro di un conflitto atomico. Il primo è «2034» dell’ex-marine Elliot Ackermann e dell’ammiraglio James Stavridis (di cui abbiamo già parlato su queste colonne nella rubrica del mese di ottobre), mentre il secondo, «Per niente al mondo», porta la firma del celebre scrittore Ken Follet, uno dei più popolari autori di best-seller. Differenti gli scenari di crisi presi in esame in cui scoppia la scintilla capace di far esplodere le tensioni internazionali, scoccando anche lontano dal loro centro di gravità, come ha dimostrato la genesi della Grande Guerra (la scintilla a Sarajevo, l’epicentro sul confine belga e franco-tedesco). Se per gli autori di «2034» l’area di crisi era costituita, come ricorderemo, dal Mar cinese meridionale, per Ken Follet lo scenario si sposta nel Sahel, infestato da islamisti, dittature traballanti, interessi occidentali (Francia e Stati Uniti) ed espansionismo cinese. Sulla scia dei due «romanzi» in questione, il settimanale letterario de Il Corriere della Sera, affidandosi alla penna di tre noti autori (Manlio Graziano, Antonio M. Morone e Antonio Fiori) prova a verificarne le trame nei tre articoli, intitolati, rispettivamente, «La Cina agita i suoi mari» (Pechino provoca i paesi vicini e punta a riunificarsi con Taiwan), «Il Sahel in fiamme destabilizza l’Africa» (jihadismo e rivendicazioni etniche, una miscela veramente esplosiva) e «Nucleare e militari: il rebus Nord Corea» (se il regime di Kim Jong-un spaventa, incerte si presentano le opzioni d’intervento). Numerosi sono in giro per il mondo i punti caldi delle relazioni internazionali, oggi assorbiti dall’attenzione mediatica delle urgenze della guerra in Ucraina, ma il più hot si trova
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nei mari di fronte le coste cinesi, scrive Manlio Graziano, laddove le pretese cinesi dei Nove Trattini (dieci dal 2013) applicati al Mar cinese meridionale, che delineano una frontiera unilaterale rigettata dalla giustizia internazionale, implicano (insieme alle rivendicazioni sulle isole Senkaku-Diaoyu nel Mar cinese orientale) uno stato di perenne conflittualità con gli Stati rivieraschi tra continui alti e bassi. A nord quella linea include anche Taiwan, l’isola ribelle che i dirigenti di Pechino minacciano di voler reintegrare alla madrepatria. Rivendicazioni che l’autore ricostruisce, sia pur con rapide pennellate, nella loro genesi storica, ponendo in evidenza al riguardo anche le oscillazioni e l’indifferenza dell’Occidente negli ultimi decenni. Di fronte a tali reiterate pretese «la soluzione del problema è tutt’altro che semplice; sembra però che Pechino faccia di tutto per complicarla», specialmente dopo che la stretta autoritaria su Hong Kong ha messo fine alla finzione di «un paese, due sistemi» e, ovviamente, più la Cina si fa aggressiva, più il fronte anti-cinese si consolida. «La prima guerra mondiale dimostrò che le crisi militari possono esplodere ovunque, ma anche dimostrato che l’escalation della retorica, degli ultimatum e della mobilitazione, può avere effetti che nessuno aveva previsto né auspicato». Un secondo scenario conflittuale è costituito dalla regione africana del Sahel — da dove prende le mosse il romanzo di Ken Follet — che da dieci anni è al centro di una crisi internazionale che è andata via via estendendosi dal Mali al Burkina Faso al Niger fino al nord della Nigeria. «In realtà la vera origine della crisi maliano-sahelina si può collocare nella guerra civile scoppiata in Libia, un anno prima, con la rivolta e il conseguente intervento internazionale della Nato che portò alla caduta di Gheddafi senza di per sé risolvere il conflitto che ancor oggi lacera il paese», scrive Antonio Fiori, perché le armi utilizzate nella secessione del Mali, arrivavano dagli arsenali smantellati di Gheddafi con il collasso
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del sistema di controllo dei confini. Con il ritiro della Francia (annunciato lo scorso 17 febbraio), dopo l’attivismo delle sue missioni militari (Opération Serval, 2013 in Mali e Opération Barkane, 2014 nell’intero Sahel), con risultati modesti conseguiti pur in coordinamento con le Nazioni unite (UN Multidimensional Integrated Stabilization Mission in Mali, 2013), ha aperto le porte alla Russia, già fortemente impegnata alla Libia, sia pur attraverso le sue milizie private del gruppo Wagner. Un tandem quello franco-russo che potrebbe apparire ictu oculi irrituale anche se già di fatto sperimentato nelle ultime battute della guerra civile in Libia, laddove Macron, pur appoggiando formalmente il Governo di Tripoli, riconosciuto dalle Nazioni unite e sostenuto da Ankara, nei fatti si è impegnato a favore delle milizie del sedicente Esercito nazionale libico dell’irriducibile Khalifa Haftar, spalleggiato da Putin. «In fine dei conti la lotta all’islamismo internazionale e l’accesso alle risorse energetiche africane — conclude
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l’Autore — sono due punti di facile convergenza tra due paesi che, in altri scacchieri, sembrano essere molto più distanti tra loro». E infine l’attenzione, con l’articolo di Antonio Fiori dell’Università di Bologna e della Ewha di Seul, si concentra sul terzo scenario di perenne crisi, cioè la Corea di Kim Jong-un e il suo regime «inossidabile», in merito al quale due sembrano essere le possibili strade attraverso le quali il regime potrebbe essere spazzato via. Innanzitutto quella «esterna» attraverso un attacco militare perpetrato plausibilmente dagli Stati Uniti per esorcizzare una volta per tutte la sua perenne minaccia nucleare ovvero quella «interna», cioè il crollo del regime per cause «non esterne». Entrambe però sono ritenute de facto inverosimili atteso che, in ogni caso, provocherebbero difficoltà tali da far sprofondare la penisola — e l’intera regione — nel caos. «È infatti abbastanza scontato — sottolinea l’autore — che la Cina possa intervenire, sia per mettere in sicurezza l’arsenale atomico nordco-
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reano, sia per evitare qualunque forma di unificazione della penisola sotto l’egida di Corea del Sud e Stati Uniti — in conclusione quindi, paradossalmente e con una buona dose di cinismo da Realpolitik — è lecito convenire che un subitaneo crollo del regime sia un’ipotesi indesiderata per tutti gli attori coinvolti. E allora tanto vale tenersi Kim!». Scenari ipotetici che però, dopo l’attacco russo all’Ucraina, si possono trasformare in realtà alle porte della stessa Europa, vista l’affermazione del presidente Biden, tre giorni dopo l’inizio dell’aggressione russa, in base alla quale «l’alternativa alle sanzioni (poste in essere da Washington e Bruxelles contro la Russia di Putin) è la terza guerra mondiale».
«A Failure in the Falklands» NAVAL HISTORY, MARCH - APRIL 2022
A quarant’anni «dalla tragedia che ha segnato una generazione e ha ribaltato una dittatura nell’improbabile annessione di un pugno di isole sperse nell’Atlantico», colonia britannica da quasi un secolo e mezzo, la testata in parola rievoca la Guerra delle Falkland – Malvinas, lanciata dall’ultimo dei presidenti golpisti argentini, Leopoldo Galtieri, con l’Operazione Rosario e fallita, 74 giorni dopo, con la proclamazione della vittoria nella riconquista dell’arcipelago da parte della Londra di Margaret Thatcher. Il bimestrale di storia del Naval Institute di Annapolis entra infatti nel vivo della guerra navale con l’articolo di Steven Iacono, nell’assunto che «raramente negli annali della storia militare la perdita di una nave, in particolare una nave mercantile, ha avuto un tale impatto sul corso della battaglia come ha fatto l’affondamento della SS Atlantic Conveyor durante la guerra delle Isole Falkland», una portacontainer da 15mila tonnellate adattata per funzionare come ponte di volo aggiuntivo per elicotteri e jet a decollo e atterraggio verticale Harrier. L’autore esamina le dinamiche tattiche della tragica giornata del 25 maggio 1982, in cui
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l’Atlantic Conveyor venne colpita da due missili Exocet, sicché «anche se il trasporto rimase a galla per tre giorni, il fuoco al suo interno era incontrollabile, e la detonazione di materiali esplosivi sottocoperta alla fine fece esplodere la sua prua. Dodici vite furono perse e la nave affondò con tre elicotteri Chinook e sei Wessex. Casualmente [e fortunatamente!], i 14 jet Harrier che [la portacontainer] trasportava erano stati trasferiti alle due portaerei inglesi solo pochi giorni prima». Di qui da parte dell’autore si leva un atto d’accusa contro la miopia della politica e della strategia navale britannica dei decenni precedenti che credeva, tutt’al più, di doversi impegnare a fianco degli alleati della Nato contro l’Unione Sovietica in teatri marittimi viciniori alle sue coste (se la guerra «fredda» fosse degenerata in guerra «calda») e non certo da sola in scenari distanti ottomila miglia dalla madrepatria dove l’aviazione navale e le relative piattaforme di lancio avrebbero necessariamente giocato un ruolo fondamentale. E fu una vera fortuna che la Royal Navy disponesse al momento ancora di due portaerei (con 20 Harrier), di cui l’una (HMS Invincible) era già stata venduta all’Australia anche se non ancora trasferita e l’altra (HMS Hermes) era avviata alla demolizione! Donde il supporto fondamentale di unità mercantili (l’Atlantic Conveyor era stata caricata con 14 Harrier, diverse centinaia di bombe per aerei e 80 tonnellate di cherosene), senza però essere munita di sistemi di autodifesa adeguati nonché del necessario addestramento del personale mercantile. La lezione di fondo che ne mutua l’autore è che una politica e una strategia navale per essere vincenti devono soprattutto essere «lungimiranti» nel senso che devono prevedere, tous azimut, gli scenari possibili legati alla tutela degli interessi nazionali del paese dovunque essi siano. Ezio Ferrante
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RUBRICHE
R ECENSIONI
E SEGNALAZIONI
Andrea RICCARDI (a cura di)
La Chiesa brucia Crisi e futuro del Cristianesimo Ed. Laterza Bari 2021 pp. 248 Euro 20,00
Il professor Andrea Riccardi non ha di certo bisogno di presentazioni: insigne studioso di storia del cristianesimo contemporaneo e fondatore della ben nota «Comunità di S. Egidio», attualmente è presidente della «Società Dante Alighieri» e rappresenta una delle voci più autorevoli dell’intellighenzia cattolica italiana e internazionale. L’interesse della Rivista Marittima nel recensire la sua ultima fatica intellettuale è dovuta a una semplice ragione: la Chiesa cattolica è, da sempre, protagonista attiva della geopolitica e dunque un libro come questo s’impone inevitabilmente all’attenzione della nostra Rivista. Al fine di dare contezza al lettore, la monografia è articolata in dieci capitoli come segue. Cap. I - Una Chiesa che brucia (pp. 3-38); Cap. II - La Chiesa europea in difficoltà (pp. 39-64); Cap. III - Nazional-cattolicesimo, evangelizzare o che altro? (pp. 65-95); Cap. IV - Al cuore della crisi (pp. 96-133); Cap. V - Giovanni Paolo II: eccezione o illusione? (pp. 134-152); Cap. VI - La franche crisi e il Papa che viene da lontano (pp. 153167); Cap. VII - L’Italia del Covid-19 e la Chiesa nel 2020 (pp. 168-188); Cap. VIII - Un mondo cristiano in transizione (pp. 189-209); Cap. IX - Il mondo, l’Europa e i popoli in movimento (pp. 210-218); Cap. X - C’è futuro? (pp. 219-242); indice dei nomi (pp. 243-248). Il volume si apre con l’incendio della cattedrale di Notre Dame, episodio del 2019 che diviene un simbolo, vivente e parlante, per le riflessioni che lo stesso autore non esita a sintetizzare con la domanda di fondo che percorre tutto il volume, ossia: qual’è il futuro del cristianesimo e in particolare della Chiesa cattolica (p. 219). A tale domanda l’autore risponde ripercorrendo e affrontando vari «nodi» quali quelli espressi in ciascun ca-
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pitolo, ma che si possono riassumere come «crisi» e «senso della crisi». Osservando i dati e i fatti è innegabile constatare che la Chiesa stia vivendo un periodo di criticità, dovuta a varie ragioni, in primis, l’attuale carenza di cultura storica che «[…] nella valutazione dei fenomeni ha condotto a un impoverimento della comprensione della realtà» (p. 123). A questa deve sommarsi il vertiginoso calo delle vocazioni e crisi del clero, il cui effetto è — e sarà — la chiusura delle opere religiose; in parallelo vi è anche una crisi del modello d’autorità (una crisi questa che parte da lontano, dalla «rivoluzione» antropologica del ‘68, in cui si è affermato l’«io senza maestri»). La Chiesa contemporanea si trova dunque in mezzo a una società che ha visto da un lato il declino della religione e dall’altro una tendenza a forme di integralismo o di settarismo, per cui «Il cristianesimo storico presenta indici di declino. Ma la religione si sviluppa attraverso nuove forme d’origine recente e cerca di rispondere alle domande di donne e uomini spaesati in un orizzonte globale o nel quadro di un nuovo urbanesimo» (p. 133). L’analisi che Riccardi compie è rigorosa, attenta, piena di riferimenti storici e densa di pensiero; un libro dunque che fa riflettere e pensare in profondità. Su questo scenario si inserisce l’azione del pontificato attuale che — secondo l’autore — inaugura processi più che realizzarli (p.166); questo forse il motivo per cui il presente pontificato è oggetto spesso di «critiche» o di scetticismi. Ma lo storico attento riesce però a cogliere la profondità del messaggio di Papa Francesco, che l’autore non esita a definire come «sorpresa» in quanto il suo messaggio appare «diverso da altri registri religiosi del passato» (p. 228). Certamente vi è un quid novi nell’azione e nel pensiero di Papa Francesco, ma allo stesso tempo vi è anche — come sottolinea l’autore stesso — una linea di continuità con i suoi predecessori, per esempio sul tema delle migrazioni (i cui antecedenti risalgono all’Exul familia di Pio XII del 1952). È ancora troppo presto per dare un giudizio, ma l’azione papale ha in sé già evidente un tratto chiaro di geopolitica religiosa, si pensi, a titolo d’esempio, all’accordo di fraternità del 2019 tra Papa Francesco e il grande imam Ahmad al-Tayyib dell’Università al-Azhar del Cairo. Il professor Riccardi offre, con sapienza e maestria, al-
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l’interno dei vari capitoli, numerose riflessioni e considerazioni che toccano in profondità molti punti; impossibile in una breve recensione sunteggiare tutto ovviamente. La lettura del libro del professor Riccardi è dunque una lettura multilivello: dagli aspetti «geopolitici» a quelli socio-religiosi, toccando necessariamente anche gli elementi teologici. In estrema sintesi il pensiero dell’autore si concretizza maggiormente nel capitolo conclusivo che apre le porte a una speranza non solo del Cristianesimo ma del mondo. In un’Europa che non è più geopoliticamente centro ma quasi periferia e che è decisamente meno cristiana, nelle forme e negli atteggiamenti ma anche nei numeri (si pensi per esempio alla Spagna che da «cattolicissima» è diventata laicissima), resta però un sentimento ancora oggi di cristianesimo che in certi casi rischia di diventare addirittura fattore meramente politico (si pensi al nazional-cattolicesimo ungherese o a quello polacco). Dunque la soluzione o le soluzioni alla crisi della Chiesa contemporanea non sarebbero da rintracciarsi in eventuali riforme, bensì dal coraggio di professare e annunciare il Vangelo. Crisi non significa débâcle, bensì necessità di «vivere evangelicamente la crisi» (p. 235) e, come ricorda Papa Francesco, «chi non guarda la crisi alla luce del Vangelo, si limita a fare l’autopsia di un cadavere». In finale l’autore riporta l’esempio di padre Men (pp. 238 ss.), ultimo presbitero trucidato dal KGB, un anno prima del crollo dell’Unione Sovietica, un esempio di speranza che guarda al futuro. La speranza cristiana non è un generico ottimismo, o una inconsapevole aspettativa nel futuro, bensì un atteggiamento di fiducia nel fatto che il Cristo si sia incarnato; dunque il messaggio cristiano è di speranza, di amore, poiché tutto può cambiare e, come detto dall’autore stesso nelle prime pagine del volume, «niente è assicurato nella storia. Anche per la Chiesa». La Rivista Marittima esprime particolari rallegramenti e felicitazioni al professor Riccardi per questa sua ultima fatica, che costituisce un testo che certamente farà discutere e poiché induce riflessioni notevoli non solo sulla Chiesa ma, implicitamente, anche sulla contemporanea civiltà occidentale. Danilo Ceccarelli Morolli 130
Vincent P. O’HARA (a cura di)
Lotta per il mare di mezzo
U.S.M.M. Roma 2022 pp. 400 Euro 18,00 (Rid. € 12,00)
Uscito negli Stati Uniti nel 2009 per i tipi del prestigioso Naval Institute di Annapolis e più volte ristampato, Struggle for the Middle Sea è un classico. Ottima, quindi, l’idea di tradurlo in italiano per tre eccellenti motivi. Il primo, mai abbastanza apprezzabile, è quello di una necessaria modernizzazione della storia navale nostrana, grazie a un puntuale aggiornamento a livello internazionale. Solo il confronto tra le varie culture — prima ancora di quello tra le differenti versioni proposte dalle varie Marine coinvolte in quel crocevia del mondo che è, da sempre, il Mediterraneo — può davvero giovare alla reciproca comprensione e a un sereno giudizio in merito a quei tempi di ferro, i quali sono alla base, nel bene e nel male, del mondo di oggi. Il secondo, altrettanto importante, consiste in una questione di metodo. Laureato in storia, anche se cartografo di professione, Vincent O’Hara rispetta quelle che sono le regole vere della storiografia: dal confronto critico delle fonti alla pretesa, giustificata, di basarsi sugli originali e non sui troppo facili — e spesso moraleggianti — resoconti postbellici (spesso di parte, quando soprattutto a scrivere furono i vincitori), scritti a bocce ferme assegnando per sempre ai protagonisti, maggiori o minori, di quei drammi, ruoli e parti immutabili e stereotipate. La ricchezza delle note e della bibliografia, ben 30 e passa pagine redatte con la puntigliosità propria delle università anglosassoni, parlano da sole, al pari dell’uso, ben padroneggiato, degli archivi e delle fonti britanniche, italiane, statunitensi, tedesche e francesi. L’autore di questa recensione ha già scritto, oltre 10 anni fa e su queste stesse pagine, in merito all’origine
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e alla natura di questo libro nella sue veste originaria in lingua inglese. Posso pertanto testimoniare personalmente circa l’attenzione spinta fino allo scrupolo da parte dell’autore e la lunga gestazione di quello che è diventato, da allora, il punto di riferimento (e di partenza) dell’attuale storia navale anglosassone, come confermano gli altri volumi di O’Hara e le sue apprezzate collaborazioni alle maggiori testate statunitensi, britanniche e italiane del settore storico navale, oltre alle relative traduzioni in spagnolo e in cinese. Il terzo motivo di soddisfazione consiste, infine, nel fatto, punto e semplice, che siamo davanti a un’opera migliore dell’originale. L’autore non si è cullato sugli allori, ma ha proseguito col proprio collaudato metodo. Le fonti, pertanto, non bastano mai; nulla deve essere dato per scontato e il quadro strategico va costantemente aggiornato sulla base, inevitabile, delle vicende tattiche. L’aveva già detto, due secoli fa, von Clausewitz, generale prussiano e padre della polemologia. È bene, tuttavia, ripeterlo in un tempo in cui, da un lato, la guerra sta tornando alla ribalta in Europa e, dall’altro, troppi commentatori improvvisati si affannano a tranciare giudizi non richiesti e analisi improbabili. Eppure, come ha ben insegnato per decenni, proprio sulla Rivista Marittima, il grande Aldo Fraccaroli, la forma è sostanza, per tacere del fatto che le parole hanno significati e valori precisi e che il pubblico, si tratti del lettore cosiddetto comune o del legislatore, ha in un caso il diritto — e, nell’altro, il dovere — di essere informato e messo in condizione di trarre le proprie conclusioni, senza trucchi e con tutti i possibili (e aggiornati) riferimenti del caso. Un esempio per tutti. Vincent ha riscritto, tra l’altro, sulla base della rigorosa revisione professionale del testo fatta dell’ammiraglio Marco Santarini, la parte relativa all’azione di Gaudo del 28 marzo 1941. Prima del 2009 il riferimento obbligato era rappresentato dalla descrizione di quella vicenda dato alle stampe nel 1946 dall’ammiraglio Angelo Iachino, Comandante superiore in mare della Squadra. Rintracciati, per l’occasione, i vari rapporti di tiro, è emerso un quadro piuttosto differente e, mediante un intenso scambio di corrispondenza attraverso l’Atlantico, è stato possibile
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giungere, alla fine, a un quadro diverso e nuovo. Né si è trattato di un episodio isolato. Beninteso: non mancheranno le critiche, in quanto O’Hara ha idee piuttosto precise circa i ruoli rivestiti, tra il 1940 e il 1945, dalle varie Marine coinvolte e in merito ai momenti cruciali davvero significativi di quel conflitto, rifiutando in tal modo il copia e incolla che ha afflitto, per troppo tempo, certe opere (tutte uguali tra loro) apparse di qua e di là della Manica. I fatti, però, sono fatti e tali restano. Quello che veramente conta, come sempre succede in democrazia e in editoria, è il giudizio, inappellabile, del lettore che è l’unico veramente importante e al quale corre l’obbligo prima di tutto morale e poi storico di narrare la verità senza pregiudizi di parte! La risposta anglosassone e, diciamolo pure, financo il ripensamento culturale maturato in seguito all’uscita di questo libro di Vincent O’Hara è stata radicale: un giro di boa. Certo non sono mancati i difensori di alcune vecchie vulgate propagandistiche o celebrative, ma si tratta di una ristretta minoranza. Il lettore sereno che è già a parte della materia non può che trovare motivi d’interesse e di curiosità leggendo questo volume, scritto bene e ben tradotto. Il lettore pignolo formulerà, a sua volta, qualche piccola osservazione. Forse perché attenti a rispettare al massimo il testo originario, i curatori non hanno pensato, tanto per citare un caso, di rendere l’«Antikythira Strait» nell’italiano Canale di Cerigo che gli italiani, a partire dai diportisti, conoscono con quel nome da un paio di millenni. Anche le didascalie dei quadri di Claudus utilizzati, con ottimo gusto, per arricchire il volume rispetto all’edizione statunitense, hanno risentito di un rispetto fin troppo rigido nei confronti dei titoli con cui sono state catalogate oltre mezzo secolo fa, alcune tele. Si tratta di dettagli minori nell’ambito di un formato editoriale ricco, elegante, pratico e molto curato. Una conferma che il motto di O’Hara e dei veri cultori: «Provando e riprovando» (alias Dante, alias quello della Accademia fiorentina del cimento, prima istituzione galileiana della storia) è quello giusto. Enrico Cernuschi
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MARZO 2022
RIVISTA
MARITTIMA MENSILE DELLA MARINA MILITARE DAL 1868
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MARZO 2022 - Anno CLV
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Le ragioni strategiche del Trimarium Ferdinando Sanfelice di Monteforte
Storia e geopolitica dell’Intermarium: ideologia, prospettive e attualità Andrea Carteny - Paolo Pizzolo
Intervista all’ambasciatore della Repubblica di Polonia in Italia, S.E. Anna Maria Anders 3
Costantino Moretti