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La Tunisia, un paese mediterraneo da tenere in grande considerazione
Il Mediterraneo dalla stabilità alla competizione
L’affermazione può sembrare pleonastica: il Mediterraneo da molto tempo non è più nostrum, ma oltre a questo è anche un mare sempre più agitato e tale agitazione potrà avere serie conseguenze anche sul nostro paese che, apparentemente, non sembra seguire delle politiche atte ad anticipare gli eventi e agire per dotarsi dei migliori strumenti per «navigare» in acque così turbolente.
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Il Mediterraneo ha visto durante tutta l’epoca della Guerra Fredda una chiara supremazia degli Stati Uniti e dei loro alleati della NATO. Nonostante i molti conflitti regionali che hanno caratterizzato il periodo compreso tra la fine della Seconda guerra mondiale e la conclusione dello scontro tra Occidente liberal-democratico e l’Oriente del comunismo reale, le capacità militari statunitensi, sopportate dai loro alleati, hanno impedito a qualsiasi altra potenza di contendergli il ruolo di leader di questo mare stretto. Neanche l’allora flotta sovietica sarebbe mai riuscita a erodere tale indiscutibile superiorità.
Il motivo per cui in questo relativamente piccolo specchio d’acqua era stata concentrata così tanta potenza navale, era che il Mediterraneo, allora come oggi, è crocevia fondamentale per il commercio e gli scambi internazionali, passaggio obbligato tra Oceano Indiano e Atlantico, attraverso una delle aree più ricche del pianeta. Era quindi indispensabile per le economie occidentali — quindi per la garanzia della stabilità geopolitica dell’Alleanza Atlantica — che fosse libero al transito.
Non fu certamente un caso che nonostante le resistenze iniziali fu permesso all’Italia, potenza sconfitta della Seconda guerra mondiale, di entrare nella NATO, tra l’altro come paese fondatore, nonostante non avesse un affaccio sull’Oceano Atlantico (1). La sua adesione era necessaria per rafforzare il fronte sud, il Mediterraneo, in quanto punto fondamentale per la sicurezza di tutta l’Alleanza (2).
La conclusione della Guerra Fredda e il progressivo disimpegno statunitense — dovuto anche alla necessità di concentrare le forze per la competizione con unasempre più aggressiva Cina — hanno però aperto la strada ad altri attori che hanno cercato nuove opportunità per estendere la loro influenza, non trovando di fronte a loro una qualche forma di resistenza ben organizzata.
Non è quindi una novità dire che ultimamente alcuni paesi hanno avviato politiche più aggressive, finalizzate alla creazione di una loro area di influenza in quella che resta una delle più importanti superfici acquee del globo. Allo stesso tempo è aumentata la conflittualità e, a seguito dello scoppio delle cosiddette primavere arabe, l’instabilità regionale. Devono quindi essere analizzati gli attori all’interno del quadro nel quale l’Italia deve operare.
I nuovi attori
Un paese con il quale, da anni, l’Italia ha notevoli rapporti, è l’Egitto. Il paese sta cercando, da un lato, di superare le tensioni interne, dall’altro, di prepararsi ad avere un atteggiamento più assertivo nella regione, dotandosi anche di armamento navale di ultima generazione.
Molto vicino alle coste italiane risulta essere il problema della Libia, che non solo non sembra essere in grado di superare la sua guerra civile, vittima delle fratture tribali e oggetto degli interessi dei paesi vicini, ma subisce al suo interno anche la presenza sempre più invadente e stabile nell’area della Turchia e della Russia (3). Presenza quest’ultima veramente complessa con cui rapportarsi, visti i recenti sviluppi del conflitto in Ucraina. L’instabilità libica determina per l’Italia, non solo la potenziale difficoltà nell’approvvigionamento energetico, ma anche un maggiore flusso di migranti, spinti a intraprendere il viaggio in mare dal conflitto e dalle diverse crisi africane. Tali flussi migratori sono difficilmente controllabili a causa della mancanza di una vera autorità in Libia con la quale rapportarsi per trovare delle soluzioni condivise.
Come detto, nella crisi libica si è anche inserita la Turchia, che ha chiaramente preso il controllo di vaste aree del paese, attuando una politica molto aggressiva nei confronti degli altri Stati, interessati ad avere un ruolo in Libia. Oltre a questo, la Turchia ha un atteggiamento sempre più aggressivo anche in alto mare, dove sta cercando di estendere la sua influenza, tentando di escludere dalle aree di sfruttamento marittimo le navi da pesca di altri paesi e impedendo lo sfruttamento delle risorse sottomarine nelle zone che ritiene essere di suo esclusivo interesse.
Vicino alla Libia c’è un altro attore che sta acquisendo sempre più influenza, l’Algeria. Il paese nordafricano è
Sommergibile classe «Kilo» della Marina algerina (aresdifesa.it).
Mappa illustrativa della ZEE rivendicata dall'Algeria (Shom, giornale ufficiale della Repubblica Democratica Popolare d'Algeria da analisidifesa.it).
molto attento a mantenersi il più possibile impermeabile alle influenze esterne, atteggiamento figlio della lunga dominazione coloniale francese e soprattutto della durissima guerra combattuta contro la Francia per conseguire l’indipendenza (1954-61) (4). L’Algeria, paese non allineato durante la Guerra Fredda, quindi ufficialmente equidistante dall’Occidente e dall’Oriente, ma in realtà acquirente di armamento sovietico, ha continuato a «rifornirsi» di sistemi d’arma dalla Russia.
Negli ultimi anni ha avviato una politica volta all’acquisto di unità navali, soprattutto impressionano gli sforzi di Algeri diretti ad ampliare la componente subacquea. L’Algeria ormai ha acquistato diversi sottomarini russi della classe «Kilo», di cui due della vecchia generazione rimodernati e quattro della generazione più recente, con grandi capacità operative, bassa rumorosità e grande autonomia. In particolare, questi sottomarini non hanno propulsione nucleare, ma sono dotati della tecnologia AIP (Air Independent Propulsion) che appunto, come accennato prima, garantisce grande autonomia in immersione riducendone così le necessità di emersione, oltre ad abbassarne di molto la rumorosità. Inoltre le capacità missilistiche di questi mezzi sono impressionanti, in quanto posseggono dei pozzi per il lancio di missili sia antiaerei sia balistici, capacità che fino a pochi anni fa erano appannaggio esclusivamente di britannici, israeliani, statunitensi e russi (5).
Le cause e gli effetti di questo riarmo devono anche essere contestualizzati all’interno di altre politiche portate avanti dall’Algeria, che stanno già creando diversi attriti
con l’Italia. In particolare, il 28 marzo 2018, Algeri ha creato unilateralmente una ZEE (Zona Economica Esclusiva) che tocca per 70 miglia le acque territoriali italiane a sud ovest della Sardegna (6). Ma, nonostante la sempre maggiore assertività algerina, l’Italia non può correre il rischio che si deteriorino i rapporti con Algeri. Infatti, questo paese non solo è già nostro importante fornitore di gas, ma alla luce della attuale crisi ucraina, Roma molto probabilmente dovrà sopperire alla possibile riduzione di gas russo anche con quello algerino, cosa cui sta al momento cercando di provvedere (7).
Un osservato speciale: la Tunisia
Tra questi due paesi «problematici» c’è un altro Stato che merita particolare attenzione, cioè la Tunisia. Il più piccolo degli Stati nordafricani sta attraversando un periodo molto complesso, ma proprio per questo deve essere tenuto in grande considerazione. Per l’Italia le relazioni con la Tunisia sono estremamente importanti e risalgono indietro nel tempo: questo paese fu, infatti, a lungo luogo di destinazione dell’emigrazione italiana (8). Non solo, ma per lungo tempo — prima dell’avvento della Repubblica — entrò nelle mire espansionistiche italiane; Roma desiderava trasformare la Tunisia in una sua colonia, ma tali ambizioni furono però bloccate dalla Francia. Nonostante ciò, l’Italia ha sempre avuto una grande attenzione su tale paese (9).
La situazione politica
All’indomani della «Rivoluzione dei gelsomini» (2010-11), le tensioni interne alla Tunisia si sono mantenute costanti e il paese si è caratterizzato da una forte instabilità politica per quasi dieci anni (10).
Questa fase è terminata il 25 luglio 2021 con un colpo di mano del presidente Kaïs Saïed, che ha esautorato il Primo Ministro, sospeso il Parlamento e anche la Costituzione del 2014, assumendo i pieni poteri. A questa sua decisione, causata dall’apparente insuperabile instabilità politica, il Presidente ha fatto seguire un altro atto molto divisivo: ha espresso la sua intenzione di estendere il blocco dei lavori del Parlamento fino alle prossime elezioni politiche, previste per il dicembre 2022. Nel frattempo, Saïed ha avviato un processo di riforma elettorale e costituzionale. Ha fatto molta impressione la sua scelta di nominare come Primo Ministro una donna, Najla Bouden Romdhane, la prima figura femminile a ricoprire questo ruolo nel mondo arabo. La Tunisia è un paese tradizionalmente tra i più progressisti dell’area, ma qualcuno potrebbe sospettare che la nomina di un Primo Ministro donna possa essere solo un tentativo di cosiddetto pinkwashing attuato dal Presidente per rendersi più presentabile agli occhi della comunità internazionale (11).
L’opinione pubblica tunisina si mostra oggi divisa, tra chi apprezza e confida nelle sue riforme, considerandole volte a garantire maggiore stabilità e chi invece teme in una svolta antidemocratica, con uno stabile accentramento dei poteri nelle mani del Presidente. A tutta questa situazione si lega la profonda crisi dei partiti, colpiti da dimissioni di massa e apparentemente incapaci di organizzarsi in modo da garantire un’opposizione efficace alle manovre del Presidente.
I rapporti con l’estero e la situazione economica L’economia del paese soffre di alcuni gravi problemi strutturali, tra questi la forte disuguaglianza tra le regioni costiere, in qualche modo legate alle economie europee, e quelle interne, molto più povere poiché slegate da queste ultime. A questo si aggiunge che la produzione nazionale tunisina, anche quella che viene portata all’estero, è a basso valore aggiunto. Il turismo, una delle maggiori fonti di guadagno del paese è in sofferenza, non solo per le intuibili conseguenze legate alla pandemia da Covid-19, ma anche per la percezione di instabilità dovuta agli attentati del 2015 (Bardo e Susa) e i più recenti del 2020 (12). Le manovre che i decisori politici stanno mettendo in atto da Tunisi mirano a richiedere prestiti da privati e Stati esteri, ma già nel 2021 il debito estero del paese equivaleva al 100% del PIL. Fino a luglio 2021 il Governo tunisino ha rinegoziato un accordo con il Fondo Monetario Internazionale (FMI) per un prestito ma, dopo lo scioglimento del Governo decretato dal presidente Saïed, i negoziati si sono interrotti. In questi mesi le politiche di austerità proposte dal Governo sembrano essere state approvate proprio per cercare nuovamente un accordo con il FMI. Riguardo alla situazione economica è possibile sintetizzare come segue. Tunisi — sempre attenta a tute-
lare la propria autonomia — godeva già di un buon rapporto con i paesi del Golfo, ma il nuovo corso aperto da Saïed è stato visto con favore da Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti, che si sono anche detti disposti a sostenere politicamente il paese. La Tunisia però è attenta a mantenere buoni rapporti con l’Unione europea e gli Stati Uniti. Cosa estremamente importante, è anche l’impegno che la Tunisia ha dimostrato nel favorire il dialogo intra-libico, sostenendo la parte del Governo di unità nazionale del primo ministro Dbeibah (13).
La Tunisia che, come accennato in precedenza, deve già gestire una complicata situazione interna, è chiaramente interessata a favorire una ritrovata stabilità per la Libia. Non si deve dimenticare, infatti, che la guerra civile libica ha privato la Tunisia delle rimesse che giungevano dai suoi cittadini che lavoravano in quel paese. Inoltre, Tunisi si oppone a qualsiasi ingerenza militare esterna in Libia, una politica che incontra anche gli interessi italiani, data la presenza in Libia di forze, come i contractor della Wagner e i turchi, che possono contrastare i tradizionali interessi di Roma nella regione. Infine, la Tunisia ha un forte legame con l’Algeria, ancora una volta confermato dal mancato appoggio all’estensione della missione ONU per il referendum nel Sahara occidentale (Minurso) fino al 31 ottobre 2022 (14). Questo referendum fa riferimento alla lunga contrapposizione tra il Marocco e il Fronte Polisario, che gode dell’appoggio dell’Algeria. La Tunisia tradizionalmente ha appoggiato le richieste di Rabat, ma questa scelta potrebbe indicare il cambio di atteggiamento di Tunisi nell’area.
Cenni circa i rapporti tra l’Italia e la Tunisia, ovvero a mò di conclusione
Come accennato, la Tunisia è estremamente gelosa della sua autonomia dalle influenze straniere, ma lo stato di grave sofferenza della sua economia le impone la ricerca di un partner che le faciliti il superamento di questa situazione. Le attuali condizioni tunisine possono essere un’opportunità per l’Italia. L’Italia ha già concordato delle politiche migratorie con la Tunisia, ma è necessario sviluppare dei rapporti ancora più strutturati. Stringere ancora più strette relazioni con lo Stato nord africano potrebbe avere delle conseguenze estremamente positive per l’Italia, su tutte il maggiore controllo sullo Stretto di Sicilia aumenterebbe il potere negoziale di Roma nel Mediterraneo, garantendole una base sicura in nord Africa, così da avere un punto d’appoggio per irradiare una maggiore influenza sulla Libia, e fare sentire maggiormente il suo peso all’Algeria.
Come detto prima, l’Algeria sta aumentando la sua presenza per la difesa di quelli che ritiene essere i suoi legittimi interessi sul mar Mediterraneo, quindi, sarebbe estremamente utile trovare il modo di mantenere un corridoio aperto tra l’Italia e la Tunisia, soprattutto creare una forma di rapporto privilegiato, e questo può essere conseguito sia usando la leva economica che sfruttando i rapporti tra la Marina tunisina e quella italiana. La Marina tunisina, infatti, può essere considerata la cenerentola delle Forze armate di Tunisi. All’interno di un contesto in generale non particolarmente sviluppato, effettivamente la flotta tunisina è veramente poco consistente, soprattutto considerando i già accennati importanti passi che sta facendo l’Algeria per crearsi una flotta temibile. Al contrario, la flotta tunisina resta una Forza armata concepita principalmente per il pattugliamento costiero. D’altronde, considerando i problemi interni di terrorismo e instabilità, peggiorati con il ritorno nel paese dei cosiddetti foreign fighter tunisini e i sospettati di terrorismo che a breve dovranno essere scarcerati, non stupisce che l’interesse sia maggiore relativamente alla difesa dei confini terrestri da infiltrazioni esterne e sicurezza interna (15). Situazione aggravata anche dalla instabilità libica che potrebbe trasmettersi anche all’interno del territorio tunisino. È chiaro quindi perché ci sia una maggiore attenzione sulle Forze terrestri e aeree, che non a quelle marittime.
L’Italia, tra l’altro, ha già un discreto rapporto per quanto concerne le forniture aeronautiche, dato che l’aviazione tunisina possiede diversi velivoli di produzione italiana. Tutto questo a dimostrazione di come il rapporto tra il comparto industriale italiano della Difesa abbia un legame consolidato con la Tunisia, fatto dimostrato anche dai trattati esistenti in questo settore tra i due paesi, quali la Convenzione di cooperazione nel campo militare (16). Non solo, ma in diverse occasioni il Governo italiano ha fatto presente alla controparte
Nave BERGAMINI in attività addestrativa con la Marina tunisina.
tunisina che i finanziamenti italiani verso il paese nordafricano sarebbero stati condizionati anche dall’impegno che questo avrebbe dimostrato nei confronti delle politiche migratorie. La reazione della Tunisia a queste richieste è stata molto veloce e favorevole dato che non può perdere quei finanziamenti, considerata la suddetta precaria condizione economica (17). Tutto questo a ulteriore dimostrazione di quanto il nostro paese abbia una voce in quella regione.
Però questo dimostra come questa nazione debba dotarsi di un apparato per tutelare le sue coste e controllare maggiormente i flussi migratori. Una condizione che dovrà essere intelligentemente sfruttata per legare meglio la loro Marina alla nostra. La flotta tunisina di fatto possiede solo un numero ridotto di pattugliatori costieri, più o meno recenti, prodotti da diversi paesi, tra questi francesi, tedesche, olandesi statunitensi e cinesi. L’industria cantieristica italiana ha fornito circa una dozzina di piccole unità alla Tunisia, proprio in base agli accordi per il monitoraggio dei flussi migratori (18).
Esistono anche diversi programmi di cooperazione che legano la Tunisia alla NATO. L’Alleanza Atlantica ha creato infatti dei programmi di formazione per il personale tunisino, e, soprattutto, gli Stati Uniti hanno organizzato diversi incontri con elementi della Marina tunisina (19). È chiaro quindi che la Tunisia guardi all’Occidente per migliorare le capacità della sua Difesa. La flotta tunisina ha una lunga tradizione di rapporti con la nostra Marina Militare, rapporti che si sono forse un pò incrinati durante le più recenti crisi migratorie, ma che comunque non si sono interrotti. L’Italia ha già avviato dei programmi di formazione per il personale tunisino a diversi livelli e alcuni programmi di cooperazione, come la Commissione Militare Mista. In generale, i rapporti tra le nostre Marine sono buoni e nonostante le tensioni riguardanti i diritti di pesca (20) e le superabili incomprensioni relative alla gestione dei flussi migratori, continuano gli scambi di visite da parte delle nostre navi in Tunisia e gli attracchi di unità tunisine in Italia (21).
La componente navale tunisina però risulta essere antiquata, con la maggioranza delle sue navi «maggiori» che sono state prodotte — all’estero — negli anni 70, mentre alcune unità addirittura risalgono al decennio precedente. L’Italia potrebbe impegnarsi in uno sforzo volto a fornire alla Tunisia non solo aiuti economici, ma anche battelli ed equipaggiamenti moderni, così da legare maggiormente Tunisi a sé, garantendosi in questo modo anche un nuovo partner che possa aiutarla nella disputa delle ZEE, soprattutto nei confronti dell’Algeria.
Un programma di questo genere avrebbe dei tempi di realizzazione medio-lunghi, con un impegno consistente di risorse, sia in termini economici che politici. I risultati però potrebbero essere estremamente vantaggiosi per l’Italia, se fosse portata avanti con decisione questa strategia.
La formazione di un qualche stabile partenariato con la Tunisia, garantirebbe all’Italia non solo una migliore gestione dei flussi migratori, ma anche una base per tutelare meglio i suoi interessi in Libia.
Soprattutto, come detto in precedenza, un ottimo rapporto con la Tunisia darebbe a Roma un maggiore controllo sul Canale di Sicilia. Questa condizione permetterebbe all’Italia di godere di una posizione nel Mediterraneo tale da poter esercitare un ruolo di maggior peso nell’area, esprimendo una propria strategia, senza subire le iniziative di altri attori. In questo modo l’Italia potrebbe diventare un paese determinante nella gestione dei rapporti all’interno di questo mare, che per quanto stretto, resta un fondamentale snodo negli equilibri economici e geopolitici mondiali. 8
NOTE
(1) L’ingresso o meno nella NATO aprì un forte dibattito in Italia, tra chi appunto appoggiava l’ingresso del paese nell’Organizzazione e chi al contrario avrebbe preferito che l’Italia mantenesse un profilo di neutralità. La posizione geografica, insieme a considerazioni politiche spinsero infine il paese a chiedere di entrare nella NATO come membro fondatore. Tra gli altri, cfr.: M. de Leonardis, Guerra Fredda e interessi nazionali, Soveria Manelli, Rubbettino, 2014; AA.VV., L’Italia del dopoguerra. Il trattato di pace con l’Italia, ministero della Difesa, Roma, 1998; AA.VV., L’Italia del dopoguerra. Le scelte internazionali dell’Italia, ministero della Difesa, Roma, 1999; AA.VV., L’Italia del dopoguerra. L’Italia nel nuovo quadro internazionale. La ripresa (1947-1956), ministero della Difesa, Roma, 2000. (2) Anche se a posteriori può sembrare difficile da credere, ma a spingere per un ingresso dell’Italia nella NATO sarà soprattutto la Francia, che voleva rafforzare il fronte mediterraneo, anche per favorire il suo controllo sull’Algeria. Parigi riteneva il paese nord Africano non come colonia, ma come territorio metropolitano, di conseguenza voleva che anche questa fosse protetta dalla NATO. (3) Cfr.: A. De Sanctis, Se perdiamo lo Stretto, in Limes n. 2, 2021, pp. 65-68. (4) Come altri conflitti di decolonizzazione la guerra d’Algeria fu molto cruenta, ma lo scontro che contrappose Francia e il fronte d’indipendenza algerino fu particolarmente duro e gli strascichi si sono portati molto avanti negli anni. (5) Per un approfondimento sui progressi militari e gli interessi algerini cfr.: T. Della Ragione, Algeri alle porte, in Limes n. 2, 2021, pp. 203-210. (6) F. Caffio, Una ZEE per l’Italia, in Limes n. 2, 2021, pp. 113-114. (7) I. Lombardo, Gas, l’Italia stringe un patto con l’Algeria: in arrivo 9 miliardi di metri cubi, in La Stampa, 12-04-2022; AA.VV., Eni e Sonatrach concordano l’aumento delle fornitura gas dall’Algeria attraverso Transmed, 11-04-2022. (8) Per un approfondimento cfr.: M. Sembolini, Gli italiani di Tunisia. Storia, evoluzione e integrazione della comunità italiana, in Africana. Rivista di studi extraeuropei, n. 26, 2020, pp. 143-152. (9) In quegli anni la lotta per l’acquisizione di aree in terra d’Africa era estremamente intensa, ma oltre a questo nello stesso periodo si stava profilando l’annosa questione della contrapposizione tra Italia e Francia, dove la prima avviava un percorso per affermarsi nello scacchiere europeo e coloniale, mentre la seconda cercava di garantire che non nascesse ai suoi confini una potenza che potesse in qualche modo competere con lei. Sempre di questi anni sono le famose «guerre doganali» tra Italia e Francia che furono appunto una delle manifestazioni di questa contesa. (10) Sulla situazione in Tunisia, cfr.: Messina P., La Tunisia è in caduta libera, in Limes n. 2, 2021, pp. 199-202. (11) Per un approfondimento sulle politiche tunisine nei confronti delle donne, cfr.: A. M. Tripp, Seeking Legitimacy: Why Arab Autocracies Adopt Women’s Rights, Cambridge, Cambridge University Press, 2019, pp. 231-260. (12) In particolare questi attentati sono andati a colpire luoghi fortemente frequentati da turisti occidentali, cfr.: AA.VV., Strage di turisti in spiaggia: 39 morti in Tunisia, 27-06-2015, in La Stampa, www.lastampa.it/esteri/2015/06/27/news/strage-di-turisti-in-spiaggia-39-morti-in-tunisia-1.35255970; AA.VV., Attentato in Tunisia, muore un agente. La polizia uccide tre sospetti, 06-09-2020, in La Repubblica https://www.repubblica.it/esteri/2020/09/06/news/agente_accoltellato_in_tunisia_la _polizia_spara_a_tre_sospetti-266408411. (13) Cfr. L. Frugati, Tunisia: la democrazia diretta secondo Saied, Focus Mediterraneo Allargato, in ISPI, n. 18, 08-02-2022. (14) Cfr. Security Council extends mandate of United Nations Mission in Western Sahara, Adopting Resolution 2602 (2021) by 13 Votes in favour, 2 in Abstentions, 29-10-2021 in www.un.org/press/en/2021/sc14681.doc.htm. (15) Dei circa 2200 detenuti accusati di terrorismo, la maggioranza sarà rilasciata nei prossimi tre anni, cfr.: L. Frugati, Tunisia: la democrazia diretta secondo Saied, cit. (16) Cfr.: www.difesa.it/SMD_/schede_approfondimento/Pagine/Cooperazionetecnicomilitare9.aspx. (17) S. Colombo, Italia-Tunisia: relazioni sempre più tese, in Affarinternazionli, 14-08-2020. (18) Si tratta di piccole unità di dimensioni comprese tra i 27 e 35 metri, cfr.: AA.VV., Cantiere Vittoria, nuovo ordine dalla Marina tunisina, in The Medi Telegraph, 19-11-2015. (19) Per esempio, la Marina tunisina ha partecipato a esercitazioni organizzate dalla NATO Science for Peace and Security, ma anche con la Marina Militare italiana. Cfr.: Marina Militare, OASIS 17: La Marina italiana si addestra con la Marina tunisina, in Difesa online, 26-10-2017; AA.VV., USNS Trenton and Tunisian Navy Exercise Maritime Security Capabilities, 21-01-2021; AA.VV., USNS Trenton and Tunisian Navy Exercise Maritime Security Capabilities, 21-01-2021. (20) La contesa per lo sfruttamento dei tratti più pescosi del mare in realtà ha contrapposto a lungo Italia e Tunisia, prima addirittura dell’indipendenza tunisina dalla Francia. I pescatori italiani hanno spesso subito attacchi da parte di motovedette tunisine e ancora oggi non si è riusciti a trovare una soluzione definitiva a questo problema. Per un approfondimento, tra gli altri: P. Messina, La guerra del gambero, in Limes n. 2, 2021, pp. 89-100. (21) Fatto dimostrato dai recenti attracchi di navi tunisine in Italia, come la nave scuola che ha attraccato a Trieste, cfr.: AA.VV., Trieste, ormeggiate sulle rive navi-scuola tunisine. Il Comune riceve i comandanti, in Il Piccolo, 17-03-2022.
FONTI
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Una doverosa premessa
Dopo qualche anno di missioni nel Mediterraneo allargato, tra cui la Libia, aiutato dalla distanza sociale imposta dal Covid-19, finalmente ho avuto il tempo di riflettere, aiutato anche dalle magnifiche trasmissioni di RAI Storia a favore degli studenti, e così addivenire ad alcune constatazioni, semplici nella loro esposizione concettuale e credo altrettanto evidenti nella disamina concreta dei fatti.
La prima constatazione: lo studio della storia, per quanto ben illustrata e ricca di dettagli, non sempre tiene debitamente conto della geografia. Qualora, inoltre, siano effettuate deduzioni di carattere strategico, mostrando carte geografiche, spesso il mare continua a essere assente e raramente si fanno considerazioni in cui vengano tenuti in dovuto conto gli stretti, ossia i punti focali in cui le linee di comunicazioni marittime debbano, a risparmio di tempo e denaro, concentrarsi in passaggi obbligati vicino alle coste e quindi facilmente controllabili e ostruibili.
La seconda constatazione: non c’è crisi, guerra civile, invasione o fenomeno di qualsiasi natura interno a uno Stato qualunque del Mediterraneo allargato, che non comporti gravi squilibri sulla scena internazionale fino ad arrivare alla guerra. Se alla guerra non si arriva grazie alla mediazione di organizzazioni internazionali, ciò che ne consegue potrebbe essere, per assurdo, addirittura peggio della guerra stessa: uno stato di crisi cronico che si può protrarre per decenni in cui, rispetto a una guerra terminata con un vincitore dopo una sanguinosa battaglia decisiva, non vi sono vincitori, ma solo vinti e i caduti non sono soldati ma intere popolazioni civili che di generazione in generazione raggiungono un numero di vittime maggiori rispetto a una guerra combattuta in tempi brevi con conseguenti migrazioni di massa.
Gli esempi sono numerosi e vanno dallo Stretto di Gibilterra al Golfo Persico considerando che anche il Kuwait, invaso nel 1990 dall’Iraq, ricade nell’area che consideriamo appartenente al Mediterraneo allargato. Oggi il regime di Saddam Hussein non esiste più, ma possiamo ritenere la partita chiusa? La crisi israelo-palestinese da quanti decenni si protrae? Possiamo considerare l’area stabile? La crisi libica, dopo la guerra contro Gheddafi, comincia a raggiungere i dieci anni di instabilità.
Il conflitto in Somalia ha generato il fenomeno della pirateria in prossimità dello Stretto di Bab el-Mandeb. L’area del Corno d’Africa che sempre rientra nel Mediterraneo allargato ha raggiunto la stabilità? Il conflitto del Kosovo parrebbe invece un raro esempio di crisi risolta in modo positivo; ma il Kosovo può essere considerata un’area periferica rispetto al Mediterraneo
allargato, senza accesso diretto all’Adriatico, con un mare ormai stabilizzato dopo anni di crisi e operazioni di embargo con dispositivi NATO e nazionali in perenne pattugliamento nel Canale di Otranto e in Adriatico.
La terza constatazione: le potenze che intervengono a favore di una delle fazioni in conflitto in un paese situato nel Mediterraneo allargato finiscono in genere per insabbiarsi in una continua e crescente fornitura di aiuti quasi sempre a fondo perduto, non sempre giustificati dall’esito finale della guerra, qualora ci sia una fine.
Quarta constatazione: il carattere delle popolazioni che vivono lungo le coste del Mediterraneo, a prescindere dal lato nord o sud, è in genere fiero e presenta una marcata gelosia della propria sovranità. Le ingerenze esterne vengono mal viste. Tuttavia, gli aiuti di tipo militare vengono sollecitati senza remore dai belligeranti.
In sintesi, ciò che risulta evidente è che non vi sia isola o Stato, o parte di questo, che si trovi lungo quella che era la scorciatoia imperiale britannica che congiungeva la Gran Bretagna all’India (Gibilterra-Suez), che in caso di rivoluzione o fenomeni destabilizzanti, non abbia effetti negativi sul sistema geopolitico mondiale. Di fatto, eventi di questo tipo hanno sempre comportato l’intervento, diretto o indiretto, delle potenze mondiali che normalmente usano il Mediterraneo come via di accesso e canale di comunicazione. Ovvio? Non so fino a che punto lo sia visto che l’approfondimento della storia in Italia continua, in diversi casi, a essere separato da quello della geografia e dell’economia. Si potrebbero fare diversi esempi anche di attualità; invito tuttavia il lettore a fare un passo indietro nel passato, per esaminare un esempio storico da manuale che aiuta a riflettere: la guerra civile spagnola del 1936-39. Qui, in embrione, troviamo tutto quello che oggi abbiamo in altri Stati rivieraschi: la presenza di uno Stretto di importanza strategica (Gibilterra), materie prime, diseguaglianze sociali, lotte ideologiche intestine e fomentate dall’esterno, anche di natura religiosa, militari politicizzati, interessi strategici opposti delle potenze dell’epoca; in sostanza i fattori che, interpretando in maniera estensiva il pensiero di Mahan, influenzano l’evoluzione del potere marittimo di una nazione, tra cui i più soggettivi sono il carattere della nazione e del Governo (1). Inoltre, allora, era già presente una organizzazione internazionale come la Società delle nazioni che ricorda le Nazioni unite e addirittura un Comitato di Londra noto come Comitato di controllo del non intervento che rammenta l’applicazione delle regole di embargo moderne, fino ad arrivare ai volontari delle Brigate internazionali, che pur avendo combattuto duramente con notevoli perdite, erano animati e ci richiamano, in embrione, i valori di libertà e lo spirito di militanza pacifista oggi secondo alcuni rappresentati in diverse organizzazioni non governative.
Il fattore scatenante interno: El pronunciamiento
I fatti sono abbastanza noti: il 17 luglio 1936 scoppia la rivolta militare guidata da un gruppo di generali contro il governo di Madrid, governo insediatosi in modo legittimo, grazie alla vittoria, anche se per pochi voti, della sinistra del Fronte Popolare. Le dinamiche politiche della Spagna che hanno portato a una guerra sanguinosa di tre anni, con milioni di morti, sono altrettanto note. Per ragioni di spazio, a favore del lettore ci limitiamo a sintetizzare che si trattò di un conflitto tra la Spagna più industrializzata con una forte matrice operaia e sindacale, guidata da intellettuali progressisti e anticlericali che, almeno nelle intenzioni, volevano traghettare la nazione verso il futuro e un gruppo di militari politicizzati e reazionari legati ai latifondisti e alla Chiesa, che volevano conservare lo status quo, compresi i loro privilegi, differenziandosi sensibilmente, soprattutto a livello ideologico, con il più moderno fascismo di stampo italiano (militare, clericale, reazionario il franchismo; incentrato su movimenti di massa, popolari e populisti, il fascismo) e nessuna ingerenza esterna durante la preparazione e fino al giorno della rivolta. Si ebbe subito il massimo successo nel Marocco spagnolo grazie al controllo del generale Franco sulle fedeli truppe marocchine. Per la cronaca, i soldati di religione musulmana giocheranno un ruolo chiave per ristabilire in Spagna il cattolicesimo più tradizionalista contro gli assalti e le profanazioni di chiese e conventi perpetrati dai tragici eccessi dei repubblicani.
Il 19 luglio, il Primo ministro spagnolo Giral inviò un telegramma, con cui richiedeva aiuto contro la rivolta militare, al collega francese Leon Blum, an-
La nave sovietica KURSK al porto di Alicante, dicembre 1936 (wikipedia.org).
ch’esso a capo di un governo di sinistra del Fronte Popolare (strategia politica voluta da Mosca per arginare il fascismo e il nazismo dilaganti in Europa). Aiutare il governo spagnolo per Blum era un preciso dovere morale, giustificato dai comuni ideali e dall’odio per le forze reazionarie di destra filofasciste. Vi erano, inoltre, anche questioni di carattere strategico-militare che, anche se personalmente estranee alla cultura di un leader socialista dichiaratamente pacifista come Blum, non potevano che avere un peso rilevante all’interno del gabinetto, dove erano presenti i radicali, molto più attenti alle questioni di carattere militare (2).
Pertanto, i ministri degli Esteri, della Difesa e dell’Aeronautica, rispettivamente Delbos, Daladier e Cot, tutti radicali, anche se titubanti per le possibili implicazioni internazionali, si unirono ai colleghi socialisti, nell’aiutare il governo di Madrid. Una Spagna nazionalista, con un governo autoritario di destra, veniva percepita come potenzialmente ostile alla Francia, che avrebbe dovuto presidiare anche il confine dei Pirenei. Un’alleanza tra Germania, Italia e Spagna, con una Gran Bretagna che dava continue dimostrazioni di voler restare neutrale, veniva considerata come la peggiore situazione strategica che si potesse verificare, sempre contrastata con forza nel passato, a prescindere dal tipo di governo, repubblicano o monarchico che fosse.
Anche una situazione di neutralità non benevola della Spagna nei confronti della Francia, così come poi si verificò, avrebbe potuto spingere la Germania e l’Italia a osare di più di quello che già stavano facendo. In sostanza, per la Francia non si trattava soltanto di salvaguardare le proprie vie di comunicazione marittime nel Mediterraneo occidentale, visto che i convogli, a parte le necessità più urgenti dei primi giorni di guerra, sarebbero stati dirottati nel più sicuro oceano Atlantico, bensì di evitare l’accerchiamento strategico, di secolare memoria.
Ingerenze esterne e attività diplomatica
Per la Francia, aiutare ufficialmente Madrid significava rischiare il conflitto in Europa. Non aiutare la Spagna, al contrario, significava rischiare l’accerchiamento e ritardare soltanto il pericolo di guerra. Tra le due vie estreme si cercò un compromesso: aiutare di nascosto il governo spagnolo, tramite paesi terzi, società private e altri sotterfugi. Queste considerazioni portarono alla politica del non intervento proposta dallo stesso Blum alle altre potenze.
Altri imprevisti, alla consegna dei primi aiuti francesi, furono provocati dai rappresentanti del governo di Madrid a Parigi. L’ambasciatore Càrdenas, si dimise, in quanto simpatizzante per la causa nazionalista; ma prima di andarsene fece di tutto per ritardare la spedizione di un importante carico di armi, creando problemi di carattere burocratico. Il 25 luglio, quando nonostante i disaccordi presenti all’interno del governo, Blum decise ugualmente di far consegnare le armi, il consigliere dell’ambasciata di Spagna e l’addetto militare si rifiutarono di firmare i documenti necessari e l’assegno di pagamento. Dopo aver presentato le dimissioni, dettero alla stampa la notizia sulle manovre segrete del governo di Parigi.
In Italia, il Duce era inizialmente contrario ad aiutare i nazionalisti per le implicazioni negative che si potevano avere nel quadro generale della politica estera italiana, appena chiusa la partita con la conquista dell’Etiopia ancora da consolidare. Mussolini respinse decisamente la prima richiesta di aiuti formulata da Franco il 20 luglio, pervenuta tramite l’addetto militare a Tangeri, maggiore Luccardi. Ulteriore risposta negativa ricevette l’emissario di Franco, Louis Bolin, il 23 luglio a Roma. Tuttavia, il giorno dopo, Ciano telegrafò a De Rossi del Lion Nero, Console d’Italia a Tangeri, ordinando di chiedere a Franco di elencare gli aiuti di cui aveva bisogno e di inviare un rapporto dettagliato sulla situazione per valutare le possibilità di successo della rivolta. De Rossi rispose subito fornendo un quadro dal punto di vista militare e dettagliando le richieste di materiale bellico: 12 aerei da trasporto, 10 caccia, 10 ricognitori, 1.000 bombe da aereo da 100 kg, 2.000 da 50 kg, 40 cannoni contraerei da 13 o 25 mm. Secondo De Rossi e l’addetto militare, Franco, con il suddetto materiale, forniva garanzie più che sufficienti per conseguire il successo.
Al contempo, l’addetto navale a Parigi fu testimone oculare dei tentennamenti francesi di quei giorni, tant’è che, oltre a numerosi telegrammi, inviò una lettera, il 25 luglio (3), che forniva un quadro chiaro della situazione con allegati gli articoli dei giornali sulla questione. Comunicava che il governo francese sembrava voler modificare l’atteggiamento iniziale molto favorevole al governo spagnolo. Nel frattempo, i treni carichi di armi partiti per Marsiglia, per poi raggiungere via mare la Spagna, il 23 luglio non erano ancora arrivati a destinazione.
Savoia-Marchetti SM.81 dell'Aviacion del Tercio durante un bombardamento nella guerra civile spagnola (1936-39). Gli aeroplani sullo sfondo sono FIAT CR.32 del XVI gruppo (wikipedia.org).
Via libera agli aiuti militari
In Italia Mussolini — di fronte al ripensamento di Blum a soccorrere la Repubblica Spagnola, alla neutralità manifestata dalla Gran Bretagna, alle valutazioni positive sulle buone possibilità di successo della rivolta pervenute da parte di De Rossi, tenuto conto che le richieste di aiuto erano abbastanza contenute — il 28 luglio decise di inviare i primi aiuti richiesti (4). Si riteneva che pochi aerei, lautamente pagati in anticipo, sarebbero stati sufficienti per agevolare il trasferimento delle truppe marocchine in Spagna e determinare la caduta di Madrid in pochi giorni. Inoltre, se Franco avesse ottenuto la vittoria soltanto grazie all’aiuto della Germania, (aiuto deciso prima dell’Italia, il 25 luglio), Mussolini avrebbe perso un’ottima occasione per una futura penetrazione economica nella penisola iberica, tutta a favore dei tedeschi.
Tra il 27 e il 28 luglio i 12 trimotori S.81 furono pagati, dal ricco finanziere spagnolo Juan March, al prezzo di oltre 1 milione di sterline. Considerando che sarebbero stati sufficienti 12 aerei, per di più pagati in valuta pregiata, per guadagnarsi un nuovo alleato in una posizione geostrategica determinante per gli interessi italiani, Mussolini dovette ritenere che valesse la pena di correre qualche rischio.
Occorre considerare, che con la guerra etiopica si erano incrinati i tradizionali rapporti di amicizia con la Gran Bretagna. Il pericolo di uno scontro tra la Marina italiana e quella britannica forniva alle isole Baleari un’ulteriore valenza strategica, non soltanto come minaccia alle rotte mediterranee francesi, ma anche come potenziale indebolimento della più importante via di comunicazione dell’impero britannico, che collegava la Gran Bretagna all’India attraverso Gibilterra e il Canale di Suez. Senza contare che la base di Gibilterra avrebbe perso qualsiasi importanza operativa se si fosse giunti a un’alleanza militare italo-spagnola. Tale alleanza avrebbe comportato la realizzazione di un sogno, che sicuramente apparteneva a Mussolini e al fascismo, ma che evidentemente favoriva da un punto prettamente militare strategico anche la Regia Marina. In pratica, ciò avrebbe assicurato una decisiva egemonia dell’Italia nel Mediterraneo e il libero accesso all’oceano; tutto ciò senza combattere. Mussolini aveva già combattuto e vinto «la sua guerra» per dare all’Italia l’orgoglio dell’impero. Ora gli si era presentata l’occasione di restituire all’Italia in chiave ideologica il «Mare nostrum», altro mito del fascismo, tutto ciò con poco rischio.
I dodici velivoli S.81 al comando del tenente colonnello pilota Ruggero Bonomi decollarono dall’aeroporto di Elmas alle ore 05.35 del 30 luglio 1936, senza munizionamento a bordo per diminuire il peso e aumentare l’autonomia, considerando la notevole distanza da percorrere senza scalo (750 miglia), ai limiti delle possibilità operative dei mezzi (5). Le condizioni meteo avverse e venti contrari causarono un maggior
consumo di carburante di quello previsto con il risultato che un aereo si perse in mare all’altezza di Orano, mentre altri due, di cui uno si capottò causando la morte di 4 membri dell’equipaggio, effettuarono un atterraggio di fortuna in territorio francese a pochi chilometri dalla frontiera con il Marocco spagnolo, mettendo il Governo italiano, fino a quel momento neutrale, in un grave imbarazzo, senza contare gli attacchi della stampa francese (6). Gli equipaggi dei nove aerei arrivati a destinazione furono arruolati nel Tercio, ossia la legione straniera spagnola; tutto ciò che serviva per renderli operativi, supporto logistico, personale specialista, armamento e munizioni, fu imbarcato con grande discrezione a La Spezia a bordo del piroscafo Emilio Morandi che giunse a Melilla il 3 agosto.
I nove S.81, operativi dal 3 agosto, furono indispensabili per fornire copertura aerea al convoglio del 5 agosto, ossia al convoglio della vittoria. Il generale Franco, infatti, effettuò un’operazione valutata molto rischiosa considerando che la Marina spagnola era quasi tutta nelle mani dei repubblicani (a Cartagena gli equipaggi si erano ammutinati, uccidendo quasi tutti gli ufficiali sospetti di essere nazionalisti). Più che per l’apporto operativo in sé, i bombardieri trimotori italiani furono utili per il morale delle truppe; a essi vennero attribuite prestazioni tecniche superiori alle reali capacità, tipo la possibilità di centrare una nave con una precisione di 2 metri.
Le truppe marocchine si imbarcarono a Ceuta tra la notte del 4 e il 5 agosto a bordo di mercantili spagnoli (7). Gli S.81, insieme agli aerei spagnoli disponibili, furono impiegati in missioni di sorveglianza della rada di Tangeri, dove erano ancora alla fonda le navi repubblicane, (nonostante le pressioni di Franco nei confronti dei paesi facenti parte del Comitato internazionale di controllo) e dello Stretto di Gibilterra. Il convoglio scortato soltanto dalla cannoniera Dato, uscì e fu intercettato dal cacciatorpediniere Alcalà Galiano. La cannoniera serrò le distanze a tutta velocità sparando contro il più potente cacciatorpediniere, mentre arriva-
A sinistra lo schema di trasferimento degli equipaggi in formazione da Elmas a Nador. A destra il colonnello Ruggero Bonomi, fondatore e comandante dell’Aviazione del Tercio (bonomiprensa.blogspot.com).
vano gli S.81. Dopo aver rischiato di essere colpito da due scariche successive di bombe, lanciate dagli aerei italiani ed esplose vicino alle fiancate, l’Alcalà Galiano, comandato da un comitato di sottufficiali e ufficiali ingegneri, interruppe l’attacco e si allontanò a tutta forza verso Malaga (8). Grazie al pieno successo dell’operazione, il giorno 6 agosto, il generale Franco poté trasferirsi in aereo a Siviglia (9).
Il 4 agosto l’ammiraglio Wilheim F. Canaris, capo dell’Abwher (il servizio segreto militare tedesco), si era incontrato a Roma con il generale Roatta per coordinare l’intervento tedesco con quello italiano (10) e il 7 agosto l’Italia inviò ulteriormente: 27 aerei da caccia, 5 carri armati, 40 mitragliatrici, 12 cannoni contraerei con bombe, munizioni, carburante e lubrificante per aerei. Da metà agosto, ai bombardieri S.81 italiani, si aggiunsero i trimotori da trasporto Junkers 52 tedeschi che, solo a iniziare da quel periodo, attivarono quello che è considerato da molti esperti il primo vero ponte aereo della storia, trasferendo con successo migliaia di soldati e di equipaggiamenti in poche settimane.
Il piano di non intervento francese
Contemporaneamente alle vicende già descritte, i diplomatici francesi erano impegnati a far accettare, alle maggiori potenze, una proposta di piano di non intervento, pur continuando, durante le trattative, a inviare segretamente aiuti militari alla repubblica spagnola. Anche l’Italia, mentre esaminava il progetto dell’accordo di non intervento, provvedeva a rifornire Franco di armi e munizioni, e come abbiamo visto, le navi destinate in Spagna iniziavano ad assumere un comportamento sempre meno neutrale; ufficialmente avrebbero dovuto limitarsi ad assistere i profughi italiani e stranieri, il personale diplomatico di stanza in Spagna e a garantire la sicurezza del traffico italiano in entrata e uscita dallo Stretto di Gibilterra, ma allo stesso tempo condussero operazioni di scorta, limitatamente al Mare di Alboran e in prossimità dello Stretto, di mercantili carichi di armi destinate ai nazionalisti, missioni che peraltro non avrebbero rischiato di compromettere più di tanto la posizione internazionale dell’Italia.
L’accordo di non intervento prevedeva un embargo collettivo di armamenti per le due parti in lotta con aree di pattugliamento marittimo dal confine franco spagnolo in Mediterraneo a quello franco spagnolo in Atlantico assegnate alla Marina italiana, tedesca, francese e britannica. La Francia faceva lo stesso utilizzando anche le vie di comunicazione terrestri.
Il governo inglese approvò l’adesione al comitato di non intervento il 4 agosto, in ragione delle seguenti considerazioni: se i nazionalisti avessero vinto grazie agli aiuti degli italo-tedeschi, avrebbero rischiato di trovarsi di fronte a un’alleanza tra spagnoli, tedeschi e italiani che avrebbe potuto mettere in pericolo le comunicazioni vitali sia nell’oceano Atlantico, sia nel Mediterraneo. Nel caso in cui avessero vinto i repubblicani, la situazione politica interna spagnola avrebbe potuto degenerare fino al punto da rendere possibile l’instaurazione di una dittatura comunista, specialmente in caso di intervento dell’Unione Sovietica con aiuti materiali e con consiglieri politici e militari. In quest’ultimo caso il Portogallo di Salazar si sarebbe trovato in grave pericolo, con la possibilità concreta di un intervento da parte britannica per salvaguardare i propri interessi strategici e per far fronte agli impegni che questa aveva con il secolare alleato. Inoltre, la posizione strategica di Gibilterra sarebbe stata fortemente indebolita sia nel primo che nel secondo caso. Occorreva tenere conto della politica interna inglese dove, mentre i conservatori simpatizzavano per i nazionalisti, i laburisti appoggiavano apertamente la Repubblica. Pertanto, considerando il problema spagnolo sul piano interno e internazionale, l’unica scelta indolore possibile era quella di rispettare la più assoluta neutralità, perfettamente in linea con la politica di appeasement che si voleva adottare per evitare qualsiasi coinvolgimento in una guerra europea.
L’Unione Sovietica si trovava in una posizione particolarmente imbarazzante. Da una parte i dirigenti dell’Internazionale comunista (Comintern) desideravano soccorrere il Fronte Popolare spagnolo; mentre dalla parte opposta Stalin che temeva una futura aggressione tedesca e non voleva rischiare di essere trascinato in una guerra europea, in considerazione della contemporanea pressione esercitata dai giapponesi in Estremo Oriente. Allo stesso tempo — questo era il timore sovietico — la neutralità sovietica poteva anche essere interpretata come un tradimento nei confronti del comunismo mon-
diale e quindi essere sfruttata dalla propaganda trotzkista, basata sull’internazionalismo proletario e sulla esportazione della rivoluzione permanente, contro il regime stalinista. Quindi, la proposta francese non poteva che essere accolta in modo favorevole dal governo sovietico che aderì formalmente il 23 agosto.
Questo non impedì all’Unione Sovietica di inviare via mare, nei mesi successivi, grandi quantitativi di armi, compresi velivoli e carri armati, indispensabili per salvare Madrid dal vittorioso Franco. Questi ingenti quantitativi di armi portarono Franco a chiedere l’intervento della Marina italiana in periodi ben circoscritti con l’impiego in assoluto segreto di sommergibili e siluranti italiani.
Sta di fatto che alla fine del mese tutte le potenze europee, tranne il Portogallo, avevano accettato la proposta francese. L’accordo era costituito da un complesso di dichiarazioni e mere intenzioni formulate dai singoli governi (27 in totale) unilateralmente, che non poteva essere considerato come un trattato unico, e pertanto non trovava alcun precedente storico. Il governo francese propose di formare un Comitato di controllo per il non intervento che si doveva riunire periodicamente a Londra, ossia nella capitale europea, considerata la più neutrale nel conflitto spagnolo. Gli ambasciatori dei paesi aderenti all’accordo di non intervento sarebbero stati i membri del Comitato, ossia di una sorta di foro internazionale in cui poter discutere i problemi relativi alla guerra civile spagnola, evitando pericolose escalation, sotto la presidenza moderatrice di un britannico, lord Plymouth. Il Comitato si riunì la prima volta il 9 settembre 1936 (11).
Chi comanda in teatro?
In relazione al completo isolamento delle Baleari dal resto della penisola iberica, Mussolini ritenne di poter osare più di quanto non fece nel resto della Spagna. A Palma de Maiorca, Ciano inviò un suo uomo, il console della milizia Arconovaldo Bonacorsi, detto il conte Rossi, con il compito di inquadrare militarmente la falange locale, armandola e mettendola in grado, in breve tempo, di affrontare il nemico interno e esterno all’isola. I cospicui aiuti provenienti dall’Italia, la presenza delle navi della Regia Marina in rada, con tutto il supporto logistico necessario, in termini di uomini e mezzi, avrebbero dovuto rendere questa specie di capitano di ventura in camicia nera particolarmente potente nonché in grado di accattivarsi la simpatia della popolazione maiorchina, favorendo la penetrazione degli ideali fascisti nell’isola a favore dell’Italia. Non fu esattamente così una volta respinto il corpo di spedizione inviato dal governo repubblicano da Barcellona.
Un altro personaggio italiano che ebbe un ruolo di spicco sulle vicende di Maiorca fu il capitano di fregata Carlo Margottini, comandante dell’esploratore Malocello. Di sua iniziativa e al solo scopo di fare gli interessi dell’Italia, senza ordini specifici, inviò parte dell’equipaggio a terra ad allestire una pista di atterraggio di fortuna per far decollare i caccia arrivati con il mercantile Emilio Morandi il 27 agosto, smontati e rimontati a terra anche con l’aiuto dei meccanici di bordo (12); coordinandosi con il console italiano Facchi e con lo stesso Bonacorsi, contribuì a sollecitare e organizzare l’arrivo degli aiuti dall’Italia (13).
L’attività svolta da Bonacorsi, non fu comunque determinante per la condotta delle operazioni, e fu seguita
L'esploratore MALOCELLO che arrivò a Palma di Maiorca il 17 agosto 1936
comandato dal capitano di fregata Carlo Margottini (USMM).
gelosamente dagli ufficiali spagnoli, che poco sopportavano le intromissioni del fascista italiano. Bonacorsi finì per inimicarsi le autorità locali che consideravano in modo molto negativo le sue ingerenze, sopportate soltanto per non alienarsi gli aiuti italiani.
Il futuro ammiraglio Luigi Sansonetti, uomo di un’integrità encomiabile, a cui l’Italia deve molto (fu colui che, in qualità di Sottocapo di Stato Maggiore della Marina, l’8 settembre del 1943 assicurò l’obbedienza della flotta secondo le direttive del ministro De Courten), nel suo ruolo di comandante dell’incrociatore pesante Fiume, in un promemoria inviato al capo di Gabinetto del ministero della Marina il 3 settembre 1936, scrisse a tale proposito: «Il console Bonacorsi è stato effettivamente prezioso nei giorni più critici. Ma le sue deficienze di equilibrio, di misura, di metodo, di ordine, di forma e la scarsa competenza tecnica (è stato ufficiale inferiore degli Alpini durante la Grande guerra e basta) diventano ogni giorno più appariscenti e non giovano al nostro prestigio. Nella posizione di ordinatore delle Falangi sarebbe tutt’altra cosa. Comunque, credo indispensabile la presenza di un moderatore che lo vigili e abbia autorità su di lui. Questo compito non può essere fatto dal comandante della nave presente senza compromettere la propria apparente neutralità, specialmente ora che sono tornate le navi estere. D’altra parte il console Bonacorsi dice di avere avuto istruzioni da S.E. Ciano e di doverne rispondere solo a lui» (14).
Sansonetti in questo rapporto criticò anche il comportamento dell’Aeronautica, sia in termini di addestramento, visto che i piloti avevano sprecato cinque tonnellate di bombe senza riuscire a colpire un mercantile, sia in termini di comportamento: «Fra l’altro, tanto il Bonacorsi quanto gli aviatori, eccitati dagli applausi e non abituati alle relazioni con l’esterno, si compromettono nelle forme meno prevedibili: intervento in massa in chiesa con fazzoletti tricolore al collo (15) allocuzioni in italiano eccetera» (16).
A Palma di Maiorca operavano contemporaneamente i rappresentanti ufficiali e ufficiosi di tre differenti autorità italiane, il ministro degli Esteri Ciano, e i due sottosegretari Cavagnari e Valle. Sansonetti lamentava che il coordinamento non poteva essere fatto dai comandanti e che i contatti con le navi in rada dovevano essere ridotti al minimo: «Ho dato istruzioni al comandante Margottini perché torni a mantenere i contatti solo attraverso l’agente consolare e senza eccessiva frequenza. Egli avrà inoltre un ottimo informatore nel capitano del porto che ogni sera, tardi, lo metterà al corrente dei retroscena. Ma anche Margottini, magnifico di attività, di acume, di dinamismo, e, per il momento, insostituibile, ha bisogno ogni tanto di freno. Però delle sue promesse di prudenza mi fido» (17).
Si legge tra le righe del rapporto, che Margottini si era imbarcato in una missione al di sopra delle sue competenze, che nessuno gli aveva assegnato espressamente, nell’intento di effettuare in prima persona quell’opera di coordinamento che in campo militare nessun altro era in grado di fare. Per risolvere il problema, Sansonetti auspicava l’invio immediato di un «coordinatore dell’aiuto italiano», che potesse risiedere a terra e che avesse esperienza di relazioni con
l’estero. Considerando che la rivolta era capeggiata da militari dell’Esercito, occorreva che questo coordinatore fosse per lo meno un ex ufficiale superiore delle forze di terra, con indiscussa esperienza bellica.
L’incremento del coinvolgimento
Alla fine di agosto, Germania e Italia decisero di inviare una missione militare italo-tedesca in Spagna, con il compito di offrire consulenza tecnica allo staff del generale Franco e di coordinare le richieste di aiuti militari in funzione delle reali esigenze. I nazionalisti si limitavano, infatti, a chiedere aiuti piuttosto disordinatamente, senza precisare le reali priorità. Il 28 agosto l’ammiraglio Canaris tornò a Roma per incontrarsi con il generale Roatta e prendere accordi sulle modalità di dettaglio. I due alti ufficiali concordarono di mantenere le forniture militari di entrambi i paesi su un piano di parità e di limitarsi a inviare lo stretto numero di soldati necessario per addestrare gli spagnoli nell’impiego e nella manutenzione delle apparecchiature e delle armi fornite. Questi uomini erano autorizzati a partecipare alle operazioni belliche, pur restando sotto il comando operativo degli spagnoli (18). In tal modo, intorno alla necessità di armare Franco e nonostante i sospetti reciproci, nacquero le premesse di una prima intesa tra Germania e Italia che portò in seguito alla nascita dell’Asse Roma-Berlino.
In previsione degli eventuali arrivi di massicci aiuti sovietici, i nazionalisti si resero conto della necessità di disporre al più presto di una Marina da guerra in grado di ostacolare il traffico mercantile diretto verso i porti delle coste repubblicane. A causa del limitato numero di mezzi e uomini disponibili, la Marina nazionalista non era in grado di operare contemporaneamente nel Mar Cantabrico e nel Mediterraneo. Occorrevano pertanto aiuti ingenti anche nel settore navale, dove le carenze erano molto più marcate rispetto al settore terrestre e aeronautico. Lo Stato Maggiore franchista era formato quasi esclusivamente da ufficiali dell’Esercito, senza nessuna competenza sulla guerra marittima.
L’ammodernamento della futura flotta franchista avrebbe costituito un’ottima occasione per favorire l’industria nazionale con commesse all’estero e per scalzare l’egemonia britannica nella fornitura di apparecchiature navali. Se non lo avesse fatto l’Italia ci avrebbe sicuramente pensato la Germania, portandosi via un altro potenziale mercato. In questo delicato contesto fu deciso di inviare in Spagna il capitano di vascello Giovanni Ferretti, nome convenzionale cavalier Rampoldi, con il compito di consigliere militare della Marina nazionalista.
Il 3 ottobre Ferretti giunse a Cadice e iniziò il suo determinante lavoro di capo della missione navale in Spagna fino alla fine della guerra civile, lavorando a fianco del capitano di vascello Francisco Moreno de Alboran, capo della flotta nazionalista.
Ben presto gli aiuti e la consulenza sovietici, uniti al gran numero di uomini disponibili in campo repubblicano, affiancati dalle Brigate internazionali giunte in Spagna per combattere per la libertà, arrestarono l’avanzata dei nazionalisti.
Quando agli inizi di dicembre del 1936 Franco si accorse che per vincere aveva bisogno anche di uomini e non solo di mezzi accettò le offerte di Roma e Berlino, che facevano un esplicito riferimento a due divisioni, una tedesca e una italiana. Il 22 dicembre sbarcò a Cadice dalla nave passeggeri Lombardia il neo costituito Corpo truppe volontarie: 83 ufficiali, 177 sottufficiali, 3.186 militari di truppa, tutti in abiti civili.
Franco non riuscì però a imporre che il contingente fosse integrato nel Tercio, mantenendo comandanti spagnoli. In questo modo ogni eventuale successo militare conseguito dalle truppe italiane sarebbe stato un successo italiano e non nazionalista; ciò aumentava ulteriormente il debito, già alto, che la futura Spagna franchista avrebbe dovuto pagare all’Italia alla fine della guerra. Fortuna per Franco che la sconfitta italiana a Guadalajara ridimensionò il contributo italiano alla vittoria. Tuttavia questa sconfitta non impedì all’Italia di continuare a rifornire i nazionalisti di armi e munizioni, anche nonostante l’adesione al sistema di controllo delle frontiere terrestri e marittime previsto dal Comitato di non intervento. Mussolini era costretto a mantenere le truppe italiane in Spagna e a rifornirle fino alla fine della guerra, costasse quel che costasse.
Il costo degli aiuti forniti alla Spagna dopo 3 anni di guerra civile sarà enorme in termine di caduti e mezzi
La nave passeggeri LOMBARDIA (USMM).
ceduti, comprese navi e sommergibili, e soltanto gli aiuti iniziali vennero pagati.
Gibilterra non ha prezzo
Dopo tanto sforzo che cosa avrebbe ottenuto, da un punto di vista strategico militare, l’Italia in cambio di questi enormi sacrifici? Qualcosa di più importante del semplice utilizzo di una base aeronavale a Maiorca. In un eventuale conflitto Mediterraneo, lo schieramento di Franco a fianco dell’Italia, avrebbe comportato il conseguente abbandono di Gibilterra da parte degli inglesi e la penetrazione italiana in molti settori dell’economia spagnola, a svantaggio britannico.
A tal proposito, nell’agosto del 1937, l’ammiraglio Iachino, comandante del gruppo «San Giorgio», nel periodo in cui era dislocato nelle acque di Tangeri, realizzò uno studio accurato sulla base navale di Gibilterra, in cui constatava che la guerra civile spagnola stava modificando la situazione geostrategica dello Stretto a favore degli interessi italiani: «È soltanto quest’anno che, col pretesto della guerra civile, il governo di Salamanca ha potuto abbandonare una simile politica remissiva [nei confronti di Londra, n.d.a.], e ha provveduto a sistemare alcune importanti batterie sulle coste dello Stretto» (19).
Iachino, dopo aver esaminato singolarmente le varie batterie poste nello Stretto, riferiva che ve ne era una in particolare, formata da obici da 305 mm, di notevole importanza: «Il vero significato di tale batteria appare soltanto quando si consideri che, approfittando della natura collinosa del terreno circostante, gli obici sono stati piazzati in modo da risultare perfettamente defilati da Gibilterra, mentre essi possono, col tiro curvo, battere in pieno la città e il porto inglese. In realtà questa batteria si trova al limite della gittata per un simile tiro su Gibilterra, e ciò è stato fatto per non dare troppo nell’occhio agli inglesi lasciando loro credere che gli obici abbiano soltanto il compito di battere le acque dello Stretto. Ma esistono degli studi per lo spostamento di tale batteria in posizione più ravvicinata a Gibilterra, e per il piazzamento di batterie dello stesso genere in altre posizioni dalle quali si domini completamente il
possedimento inglese; una di tali posizioni si trova nella Sierra Carbonera a soli 6 km dal porto di Gibilterra e in posizione ideale per batterne le acque».
Mentre le batterie dei dintorni di Algesiras erano quasi tutte dominate dal tiro dei forti della Rocca e quindi non avrebbero potuto durare a lungo in caso di conflitto anglo-spagnolo, le postazioni esaminate da Iachino non potevano essere controbattute dai cannoni inglesi. Le posizioni e il mascheramento dei pezzi li rendevano quasi invulnerabili anche agli attacchi aerei. «Essi sarebbero del resto probabilmente difesi da cannoni a-a, ed è inoltre da tenere presente che Gibilterra non può essere base di grandi forze aeree». Pertanto, in caso di guerra, due o tre batterie di obici di grosso calibro avrebbero potuto, fin dall’inizio, e del tutto indisturbate «bombardare intensamente il porto, l’arsenale di Gibilterra, provocando gravi danni e rendendoli praticamente inservibili alla flotta inglese sia per i necessari turni di riposo sia per i rifornimenti e le riparazioni».
In altre parole una futura alleanza con la Spagna di Franco avrebbe automaticamente messo fuori gioco l’importante base navale di Gibilterra, chiudendo le vie di comunicazione britanniche attraverso il Mediterraneo e aprendo l’accesso all’Atlantico alle forze navali italiane.
Con l’adesione di Franco al Patto Anticomintern (20), alla fine della guerra civile sembrava che un’alleanza a tre fosse ormai sul punto di nascere, venendosi a realizzare il sogno di una egemonia sul Mediterraneo da parte della politica di potenza fascista (21). Ma ciò che Mussolini non aveva apprezzato era che l’ostilità della Spagna nei confronti della Gran Bretagna non era così netta; Londra, con il suo comportamento soltanto apparentemente neutrale, aveva finito per agevolare il Governo nazionalista e non quello repubblicano. Senza contare che Franco avrebbe poi utilizzato con abilità il rapporto ambiguo con la Gran Bretagna per scrollarsi di dosso le ingerenze degli italo-tedeschi. Basti pensare che nel febbraio del 1939, le trattative per la resa di Minorca furono tenute a bordo dell’incrociatore britannico Devonshire, con disappunto dell’Italia (22).
La Spagna, che durante tutta la Seconda guerra mondiale, ha assunto un comportamento, tutt’altro che neutrale, noto come «non belligeranza attiva» che esprimeva de facto un favore verso delle potenze dell’Asse; ciò la riparò dall’ entrare in guerra e, comunque, non ordinò mai agli obici — che tanto stavano a cuore a Iachino — di aprire il fuoco sul porto di Gibilterra (23). A riprova di ciò risiede il vertice di Bordighera, del 12 febbraio 1941, in cui Mussolini tentò di
Mappa di Gibilterra dalla Spagna guardando a sud, 1939 (wikipedia.org).
convincere Franco a entrare in guerra, il cui risultato fu un insuccesso per la politica fascista anche grazie al bombardamento di Genova e Livorno avvenuto la mattina del 9 febbraio da parte della flotta britannica basata, proprio a Gibilterra. La vigilia dell’incontro di Bordighera, la Forza H faceva rientro alla base senza aver subito alcun danno.
Considerazioni finali
Come ben noto, dopo 3 anni di sanguinosa guerra civile la Spagna riuscì a non farsi coinvolgere nella Seconda guerra mondiale. Franco morì nel suo letto nel 1975. Il paese, conservando l’istituzione monarchica, si è poi trasformato in una democrazia moderna, importante per l’Unione europea. Gibilterra è rimasta inglese ma la Spagna conserva il parziale controllo dello Stretto grazie anche a Ceuta e Melilla sul continente africano.
La Francia non riuscì a evitare l’accerchiamento sulle sue frontiere e fu travolta dall’esercito tedesco nel maggio del 1940. Tuttavia dopo la Seconda guerra mondiale, grazie al suo immenso impero coloniale e a un leader carismatico, come Charles De Gaulle, si è risollevata e oggi è l’unica potenza dell’UE con diritto di veto nel consiglio di sicurezza dell’ONU, dotata di armi nucleari. Conserva come territori d’oltremare buona parte delle isole e degli arcipelaghi del passato distribuiti su area globale, che le offrono la più grande estensione in termini di sovranità marittima al mondo.
La Germania, grazie alla guerra in Spagna, riuscì, in parte, a distrarre l’opinione pubblica mondiale dal suo riarmo. L’impegno in quel conflitto le permise di mettere a punto armi e tattiche belliche utili successivamente. Non riuscì però a portare Londra all’armistizio prima di avventurarsi nell’invasione dell’Unione Sovietica. Si ritiene che la perdita di Gibilterra, dopo la caduta della Francia, avrebbe potuto dare una spinta significativa verso l’armistizio da parte della Gran Bretagna.
L’Unione Sovietica aiutò la Spagna repubblicana quanto necessario per rafforzare il mito del comunismo internazionale contro il fascismo, con l’unico scopo di ritardare per quanto possibile un attacco alle sue frontiere occidentali. Nel corso della Seconda guerra mondiale il suo contributo alla sconfitta della Germania nazista fu poi essenziale, comportando un costo di enormi sacrifici in termini di vite umane.
L’Italia si impegnò significativamente con uomini e mezzi nell’aiutare Franco, arrivando a utilizzare, nel Mediterraneo, sommergibili e siluranti in modo clandestino. L’obiettivo militare strategico più importante
sarebbe stato l’abbandono di Gibilterra da parte britannica, vero centro di gravità della guerra in Mediterraneo. Senza Gibilterra e con adeguate Forze aeronavali in Eritrea, Malta sarebbe stata anch’essa abbandonata e il Canale di Suez sarebbe stato utilizzato dagli italiani per mantenere i collegamenti con l’Africa orientale e non dai britannici per armare l’VIII Armata. Così non fu e questo è storia. L’entrata in guerra del regime fascista al fianco della Germania nazista, nella Seconda guerra mondiale, portò alle disastrose conseguenze che tutti ben conosciamo.
Al termine della Seconda guerra mondiale, nonostante ne uscisse vittoriosa, la Gran Bretagna ha perso buona parte della sua rilevanza internazionale, a fronte degli Stati Uniti, vera superpotenza vincitrice. Londra, tuttavia, grazie al possesso di Gibilterra ottenuta dalla pace di Utrecht del 1713 sancente la fine della lunga guerra di successione spagnola, sembrò inizialmente poca cosa rispetto agli altri vincitori, ma invece è risultata una scelta strategicamente lungimirante, poiché grazie ad una rocca brulla e senza alcuna risorsa l’Impero Britannico ha mantenuto il controllo sul nodo d’accesso al Mediterraneo.
Oggi: la Germania riunificata è considerata da molti la nazione più importante dell’UE; l’Unione Sovietica collassando non esiste più mentre la Russia è diventata sempre più una potenza regionale assertiva; i britannici, che conosco bene il potere marittimo sono però presenti con le loro navi in tutti i mari del mondo e si ha ragione di credere che le possibilità che Londra rinunci alla sovranità su Gibilterra a favore della Spagna sia pari a quella di un ritorno del papato ad Avignone. Questo perché gli stretti non hanno prezzo e gli inglesi lo sanno bene e continuano a studiarlo. 8
NOTE
(1) I fattori del Mahan che influenzano la realizzazione del potere marittimo sono: la posizione geografica, la conformazione fisica, l’estensione del territorio, l’entità della popolazione, il carattere della nazione e il carattere del Governo. Alfred T. Mahan, L’influenza del potere marittimo nella storia, Roma, USMM, 1994. Oltre alle opere citate in nota, si suggerisce la seguente bibliografia: Ennio Di Nolfo; Storia delle relazioni internazionali, Laterza 1994, pp. 213-232; Alberto Rovigni, Filippo Stefani, La partecipazione italiana alla guerra civile spagnola 1936-1939, Edizioni Ufficio Storico Italiano, SME, vol. I, Roma 1993; Franco Bargoni, Impegno navale italiano durante la guerra civile spagnola 1936-1939, Ufficio Storico Marina Militare, Roma 1992; Vincenzo Giura, Tra politica ed economia. L’Italia e la guerra civile spagnola, Esi, Napoli 1998. (2) F. Mayeur, La vie politique sous la troisième République 1870-1940, Edition du Seuil, Paris 1986, p. 356. (3) AUSMM, Fondo OMS, B 53, F1. (4) G. Ranzato, L’eclissi della democrazia, la guerra civile spagnola e le sue origini 1931-1936, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 307-308. (5) La delicata operazione di trasferimento degli S.81 fu seguita dal generale Valle in persona a bordo di un idrovolante Cant. Z 506. F. Pedriali, Guerra di Spagna e Aviazione Italiana, USAMI, Roma 1992, p. 34. (6) Ibidem, p. 35-36. (7) F. e S. Moreno de Alboran, La guerra silensiosa y silenciada, Historia della campaña naval durante la guerra de 1936-1939, Graficas Lormo, Madrid 1998, p. 68. (8) F. Pedriali, ibidem, p. 42-45. (9) F. e S. Moreno de Alboran, ibidem, p. 687-701. (10) J. Coverdale, I fascisti italiani alla guerra di Spagna, Laterza, Bari 1977, p. 82. (11) J. Coverdale, ibidem, p. 89. (12) AUSMM, Fondo OMS, B 5 F 12. (13) Per avere un’idea del lavoro del comandante Margottini, basti pensare che si interessò anche di questioni amministrative del personale italiano nelle Baleari, tipo il pagamento dello stipendio di Bonacorsi e del console Facchi. Il 21 settembre del 1936 il comandante telegrafava al gabinetto del ministero della Marina: «Mi permetto anche insistere per la questione finanziaria Bonacorsi. Ponini mi ha detto che a Roma il segretario non ha denari per pagare il fitto dell’ufficio. Non è possibile mettere un individuo in queste condizioni. Lui, Bonacorsi, non mi ha mai veramente parlato di ciò ma mi sembra indispensabile che al più presto la sua questione economica sia risolta escludendo in modo assoluto che sia al soldo degli spagnoli. Anche l’aviazione aspetta ancora! E a proposito del console Facchi: da inizio rivoluzione est completamente privo comunicazioni dal suo ministero et da suo superiore gerarchico Barcellona». Richiedeva di assicurare tramite un telegramma indirizzato alla nave l’avvenuto pagamento degli assegni alla sua famiglia a Roma. AUSMM, B 58 F 396. (14) AUSMM, Fondo OMS, B 5 F 12. (15) Sansonetti si riferisce alla messa tenuta nella cattedrale di Palma il 30 agosto a cui parteciparono gli aviatori con la divisa della legione straniera. Al termine della messa i tre CR.32 effettuarono spettacolari manovre acrobatiche sulla città tra le ovazioni della popolazione. F. Pedriali, op. cit., p. 78. (16) AUSMM, Fondo OMS, B 5 F 12. (17) AUSMM, Fondo OMS, B 5 F 12. (18) J. Coverdale, op. cit., p. 93-94. (19) AUSMM, Fondo OMS, Studio dell’ammiraglio Iachino del 20 agosto 1937 sulla zona di Gibilterra e il porto di Tangeri in un futuro conflitto mediterraneo, B 7 F 41 SF 1. (20) Patto siglato tra la Germania e il Giappone il 25 novembre 1936 a cui si unì l’Italia, il 6 novembre 1937. (21) A tal proposito Ciano riporto nel suo diario: «il Duce è molto contento della decisione di Franco di aderire all’Anticomintern. L’avvenimento è di una importanza fondamentale e influirà nel futuro su tutte le vicende europee. Dopo tre secoli di inerzia la Spagna torna a essere un fattore vivo e dinamico e, quel che più conta, in funzione anti-francese. I fresconi, che hanno tanto trovato da ridire del nostro intervento in Spagna, capiranno forse un giorno che sull’Ebro, a Barcellona e a Malaga si son messe le vere basi dell’Impero mediterraneo di Roma», G. Ciano, Diario 1937-1943, Rizzoli, Milano 1980, 22 febbraio 1939, p. 255. (22) J. F. Coverdale, op. cit., p. 350. (23) Tuttavia, il 14 giugno 1940, dopo 4 giorni dall’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania in seguito al crollo della Francia, Franco occupò la città internazionale di Tangeri.
FOCUS DIPLOMATICO
La crisi ucraina: il rientro della Turchia nel «grande gioco» diplomatico
Ci vorrà tempo — una volta che la polvere degli scontri e degli indiscriminati bombardamenti russi si sarà posata (e invero l’obiettivo di una pace durevole o, quanto meno, di un credibile «cessate il fuoco» sembra ancora lontano) — per cogliere appieno le implicazioni di medio-lungo periodo sul terreno geo-politico dell’aggressione russa all’Ucraina e le loro interazioni sui più diversi versanti: da quello del futuro, più o meno brillante dell’ordine internazionale «basato su regole», a quello delle forme che prenderà negli anni a venire il confronto tra le democrazie e il composito ( ma saldo nel rigetto dei nostri valori…) fronte delle autocrazie, a quello delle prospettive di sopravvivenza del modello di «globalizzazione» come lo abbiamo sinora conosciuto. Tutto lasciando ritenere nel caso di specie (vicenda del gas russo «docet») che si andrà con ogni probabilità verso un accorciamento/regionalizzazione e una crescente diversificazione delle catene di approvvigionamento in una logica di riduzione della loro «vulnerabilità» a imprevedibili fattori esterni pur se a costo, in molti casi, di un aumento dei prezzi delle forniture con evidenti implicazioni anche sul terreno socio-economico che andranno anticipate e sapientemente gestite.
Tra le ricadute che già si delineano — in aggiunta, per non citarne che alcune, all’incoraggiante prova di coesione offerta dall’asse «euro-atlantico» in un’ottica di accresciuta complementarietà tutt’altro che scontata alla vigilia, e a un mutamento di fondo nella posizione di Berlino in materia di spese per la Difesa — ve ne è una che mi sembra meritevole di attenzione da parte italiana se non altro alla luce della nostra posizione centrale nello scacchiere mediterraneo.
Mi riferisco al rientro della Turchia di Erdogan nel grande gioco diplomatico, e al ruolo che Ankara si sta ritagliando quale attore centrale negli sforzi mediatori avviati per porre fine (auspicabilmente in tempi ravvicinati) alla tragedia in atto ai confini orientali dell’Unione europea.
Le voci che continuano a rincorrersi di un possibile vertice Putin-Zelensky sul suolo turco a poche settimane dal confronto interlocutorio, ma pur sempre importante, ad Antalya dei due ministri degli Esteri e da quello successivo (29 marzo) a Istanbul tra le delegazioni incaricate dei due paesi costituiscono ulteriore riprova del ritorno in prima linea della diplomazia turca. Traguardo, quello di un prossimo contatto russoucraino al più alto livello, ufficializzato nei giorni scorsi dallo stesso Erdogan al ritorno da una visita in Uzbekistan: «Ho intenzione di avere nuovi colloqui con i presidenti Putin e Zelensky. Il nostro obiettivo è organizzare un incontro con i leader di Russia e Ucraina il prima possibile. Sulla base della fiducia che entrambi ripongono nella Turchia, spero che saremo in grado di concordare una data». Zelensky ha non a caso riconosciuto gli sforzi di Erdogan che ha definito «un vero amico grazie al quale vengono concordati altri passi verso la pace». Né va sottovalutato — pur con tutte le cautele del caso… — quanto dichiarato il 2 aprile scorso dal capo negoziatore ucraino, David Arakhamia (citato da Interfax), secondo il quale «la bozza d’intesa tra Kiev e Mosca è in fase avanzata,
tanto da poter gettare le basi per un incontro tra i due Presidenti». Con un’intesa asseritamente raggiunta, sempre secondo la parte ucraina, su tutti i punti «a eccezione della questione della Crimea».
Più riservata, ma non negativa, la posizione di Mosca. Nel corso della stessa giornata il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, aveva infatti parlato di «negoziati non facili ma che proseguiranno, non importa se a Istanbul o altrove» (l’ipotesi più accreditata è che Mosca starebbe pensando alla Bielorussia, quale sede per la prosecuzione del dialogo: scenario che la delegazione di Kiev persisterebbe invece a ritenere inaccettabile). Altro segnale importante dell’attivismo turco è fornito, in queste ore, dalla disponibilità manifestata da Ankara a mettere a disposizione le proprie navi per un’evacuazione, via mare (d’Azov), dei civili da Mariupol sulla base di quanto sarebbe stato concordato dai rappresentanti di Mosca e di Kiev ai citati colloqui di Istanbul. Anche in questo caso purtroppo però la cautela è d’obbligo, visti i fallimenti sinora dei tentativi di messa in salvo a opera di parti terze di quella martoriata popolazione.
Le carte di cui la Turchia dispone per accreditarsi come credibile mediatore per una soluzione negoziata della crisi ucraina (e non è un caso che il paese anatolico figuri, in quasi tutte le ricostruzioni, tra quelli contemplati come possibili garanti della futura «neutralità» ucraina — qualunque veste giuridica quest’ultima sia destinata ad assumere — ove i negoziati in corso anche sotto traccia portino prima o poi all’esito auspicato) sono in effetti molteplici.
Con la Federazione Russa Ankara mantiene notoriamente, da sempre, un rapporto speciale a luci e ombre: fatto di ripetuti conflitti dal periodo ottomano a oggi ma anche di momenti di proficua collaborazione, sullo sfondo di un retaggio storico che è quello di una «competizione tra imperi» per il controllo di territori e il mantenimento di zone di influenza in Europa (scacchiere balcanico «in primis»), in Medio Oriente, nel Caucaso e in Asia Centrale.
Condiviso DNA «imperiale» che, se da un lato, concorre a spiegare le ricorrenti pulsioni revisioniste dei due paesi in chiave anti-occidentale (nonostante l’appartenenza della Turchia alla NATO) e anti-europea nelle aree immediatamente al di là delle rispettive frontiere; dall’altro, è all’origine della contrapposizione tra le due capitali su una pluralità di teatri: militare in Libia e in Siria, politico-diplomatica anche attraverso i rispettivi «clientes» (Armenia e Azerbaigian) nella regione caucasica, indiretta in Africa tra l’altro attraverso i colpi di Stato etero-diretti che si stanno moltiplicando da qualche tempo a questa parte nell’area sub-sahariana.
Resta il fatto che tanto il Presidente turco quanto il suo omologo russo (al quale Erdogan, secondo quanto è dato sapere, non poco deve anche sotto il profilo del suo mantenimento al potere in occasione del fallito «colpo di Stato» in Turchia dell’estate del 2016) sanno ormai come impostare i loro rapporti.
E sin dove è loro consentito spingersi per evitare lo scontro diretto (basti pensare alla tregua raggiunta nel Caucaso dopo il recente rinnovato conflitto armenoazero per il Nagorno-Karabah, con una forza di interposizione russa dispiegata lungo la linea del fronte e una Turchia — principale alleato e protettore di Baku — impegnata da qualche tempo a questa parte in un tentativo di normalizzazione delle proprie relazioni con l’Armenia, certo non sgradito a Mosca).
Recep Tayyip Erdogan è d’altra parte, anche per i motivi di cui sopra, tra coloro che meglio conoscono le leve del potere in Russia e (ammesso che ciò sia possibile…) il modo di ragionare di Vladimir Putin.
Altri «dossier» pesanti che legano le due capitali sono quelli del noto e controverso acquisto da parte di Ankara del sistema di difesa anti-missile S-400 e della costruzione in corso nel paese anatolico della centrale nucleare di Akkuyu (ideata e gestita al 100% da Rosatom, il gigante russo del nucleare).
Non può dunque stupire — anche senza menzionare il fatto che, come recentemente ricordato dallo stesso Erdogan, la Turchia importa circa la metà del proprio gas dalla Russia — Ankara si sia sinora astenuta dall’aderire alle sanzioni occidentali nei confronti di Mosca, e abbia deciso di mantenere aperto il proprio spazio aereo ai voli civili russi così come alle attività e investimenti in Turchia di quegli uomini d’affari (compresi gli oligarchi più vicini a Putin alla sola condizione, come ha tenuto a sottolineare il ministro degli Esteri Cavusoglu, che esse si svolgano «nel rispetto della legge turca e della normativa internazionale»).
Scelta, quella ostile a qualsiasi restrizione agli investimenti russi nel paese, cui non è certo estranea — a poco più di un anno dalla cruciale scadenza presidenziale e legislativa del 2023 — la congiuntura particolarmente difficile che sta attraversando l’economia turca.
Ma — per tornare ai fattori che contribuiscono a conferire alle potenzialità mediatorie della Turchia una credibilità per molti versi superiore a quella di altri paesi (resta naturalmente l’incognita Cina: quanto vorrà e potrà mediare Pechino?) — Ankara intrattiene una stretta collaborazione anche con Kiev: capitale nella quale lo stesso Erdogan si è recato all’inizio dello scorso febbraio per la firma di un importante accordo di libero-scambio.
Oltre a essere la Turchia dal 2020 il principale investitore straniero in Ucraina (con una proiezione commerciale concentrata in settori strategici quali la telefonia, le infrastrutture e la logistica) intensa è, per esempio, la cooperazione nel comparto della Difesa: dalla fornitura da parte turca a quelle Forze armate dei droni da combattimento Bayraktar Tb2 (che tante perdite hanno inflitto, e stanno continuando a infliggere, alla Forza di invasione russa) alla prevista co-produzione — che gli eventi in atto potrebbero però compromettere — del motore per l’aereo da guerra a pilotaggio remoto (Mius) che Ankara, tra le altre cose, intenderebbe dispiegare sulla portaerei leggera Anadolu, allo sviluppo di tecnologia comune nei campi aerospaziale e missilistico.
Senza contare l’apporto dell’importante gruppo turco Onur alla realizzazione (anch’essa ormai in larga misura compromessa dall’invasione in corso) della riqualificazione della tratta autostradale Kiev-Odessa: tassello cruciale nel collegamento stradale tra tutti i porti del Mar Nero perseguito da Ankara ma osteggiato da Mosca. Tanto che, osserva Daniele Santoro in un suo bel saggio sull’argomento nell’ultimo numero di Limes, la micidiale manovra a tenaglia condotta dal Cremlino lungo la costa meridionale dell’Ucraina avrebbe come obiettivo anche quello di «separare fisicamente Turchia e Ucraina, per incrinare un asse che Mosca percepisce come una crescente minaccia alla propria sicurezza».
In realtà, è stato giustamente osservato, la Turchia di Erdogan (ma ritengo che su questo terreno via sia una consonanza di fondo con i sentimenti dell’altra metà del paese: quella di ispirazione kemalista) aspira a essere contestualmente tre cose, nessuna delle quali incompatibile a ben guardare con gli interessi occidentali e «atlantici»: 1) una «camera di compensazione» per la Federazione Russa (con la quale qualcuno deve pur mantenere aperto un canale di dialogo, indispensabile per pervenire nei tempi che si riveleranno necessari all’avvio di un serio negoziato tra le parti): Ankara, come detto, non applica infatti le sanzioni — ciò che avrebbe tra l’altro certamente portato a un veto di Mosca verso qualsiasi suo ruolo mediatorio — e lascia aperto il suo spazio aereo ai vettori russi; 2) un «gatekeeper» che controlla gli Stretti (elemento cruciale e motivo di rassicurazione per la NATO) che ha chiuso dallo scorso 28 febbraio — anche, a quanto è dato sapere, sulla base di ripetute sollecitazioni da parte di Kiev e in linea con quanto consentito dalla Convenzione di Montreux — al traffico delle unità militari degli Stati «belligeranti» (fatto salvo, ancora una volta in linea con il Trattato, il ritorno alle basi di partenza nel Mar Nero del naviglio militare russo); 3) una «parte terza» in grado, in quanto tale, di offrire i propri buoni uffici per la individuazione tra le parti di una via di uscita negoziale al conflitto.
Resta il fatto, come rileva con riferimento alla Turchia un recente editoriale di The Economist, che «non è facile essere al tempo stesso membro della NATO e amico di Vladimir Putin». Ma è proprio questo il nodo cui la Turchia e il suo Presidente si trovano confrontati dallo scorso 24 febbraio e che Ankara sta cercando di sciogliere al meglio. Come recentemente riconosciuto, del resto, dallo stesso Macron il quale — nonostante le gravi incomprensioni registratesi tra lui e Erdogan nel corso dei due ultimi anni — ha definito il posiziona-
mento turco in relazione alla crisi ucraina «un elemento positivo in un contesto pesante».
Se questa è la tela di fondo degli sforzi di mediazione portati avanti da Ankara relativamente alla crisi russo-ucraina, spero mi siano consentite in chiusura brevi riflessioni di più ampia valenza sul recente riorientamento della politica estera di Erdogan. A poco più di un anno, come sopra anticipato, dalla per lui cruciale doppia scadenza parlamentare e presidenziale del 2023. Anno che segnerà, per di più, il «centenario» della fondazione di quella Repubblica turca, i cui fondamentali — sul piano dei valori di riferimento — egli ha così profondamente intaccato nel corso del suo ventennale esercizio del potere: ciò che conferirà con ogni probabilità carattere ancor più acceso e denso di implicazioni emotive… agli appuntamenti elettorali in parola.
Dal punto di vista del posizionamento internazionale, Erdogan aveva due opzioni davanti a sé in vista dell’appuntamento in parola: 1) quella di un rinnovato appello alle frange più radicali del suo elettorato e, soprattutto, del suo principale alleato: il «Partito Nazionalista» (MHP) di Devlet Bahceli; 2) quella, che appare a oggi e fortunatamente, la più credibile (salvo, mai da escludere, inversioni di rotta), di una Turchia che gestisce in maniera matura l’accresciuta influenza conquistata, in un modo o nell’altro, sul piano regionale e non solo, nel corso degli ultimi due decenni. Gestione matura e responsabile che riflette naturalmente anche la consapevolezza, maturata più di recente dalla attuale dirigenza turca, delle ricadute fortemente negative che non mancherebbe di produrre sulle possibilità di una conferma di Erdogan alle presidenziali del 2023 — e di un soddisfacente risultato per l’AKP alle contestuali elezioni legislative — la scelta di una rotta di collisione con gli obiettivi perseguiti in politica estera dalla presidenza Biden.
Da circa un anno si assiste infatti — dopo le forzature in chiave neo-ottomana e nazionalista degli anni immediatamente successivi al tentato colpo di Stato dell’agosto 2016 — a un per molti versi inatteso ritorno alle linee di politica estera elaborate e a lungo praticate dall’ex-ministro degli Esteri (2009- 2014) e quindi primo ministro di Erdogan (agosto 2014-maggio 2016), Ahmet Davutoglu: il teorico del cosiddetto «soft power» turco e fondatore, dopo la sua rottura con lo stesso Erdogan, del «Partito del Futuro» (formazione pur sempre di orientamento islamico-conservatore ma, attualmente, all’opposizione).
Linee di politica estera — non dissimili, «mutatis mutandis», da quelle a suo tempo propugnate e messe in pratica da Kemal Ataturk — che si possono riassumere nella formula di: «Una Turchia geo-politicamente centrale ma in pace con i vicini».
Numerosi sviluppi confortano a mio avviso questa percezione (anche al di là del ruolo costruttivo e proattivo che Ankara sta, come sopra descritto, svolgendo per tentare con altri di porre fine alla brutale aggressione all’Ucraina della Russia di Putin).
Sviluppi tra i quali rientra il superamento in atto dei contrasti a lungo registratisi tra la Turchia di Erdogan e i paesi della regione ostili alla «Fratellanza Mussulmana»: non solo gli Emirati Arabi Uniti (EAU) ma anche l’Arabia Saudita pur se nei confronti di Riad il percorso non è ancora concluso.
Oltre alla Siria di Bashar al-Assad l’Egitto di Al-Sisi resta il solo interlocutore arabo con il quale — anche se le due capitali si stanno a partire dallo scorso anno adoperando per un loro miglioramento — le relazioni continuano a essere caratterizzate da un certo numero di incomprensioni per una pluralità di motivi.
Motivi che vanno, per non citarne che alcuni, dal conclamato sostegno a suo tempo fornito da Erdogan al predecessore di Al-Sisi, il deposto presidente Mohamed Morsi (esponente di spicco della Fratellanza), ai progressi ancora da compiere — nonostante si siano registrati nei mesi scorsi incoraggianti passi avanti — in materia per esempio di sfruttamento dei ricchi giacimenti di gas e delimitazione delle Zone Economiche Esclusive (ZEE) nel Mediterraneo orientale: dossier questi ultimi, dalle pesanti implicazioni economiche,
relativamente ai quali il Cairo si è sinora sostanzialmente schierato con Atene e Parigi.
È lecito ritenere che un salto di qualità nelle relazioni tra due paesi — come Egitto e Turchia — cruciali per la stabilità della regione mediterranea potrà aversi solo quando ciascuno dei due avrà maturato il convincimento di avere ottenuto dall’altro concessioni durevoli sui versanti di rispettivo prioritario interesse: per l’Egitto, una sostanziale riduzione del sostegno turco alla Fratellanza; per la Turchia, una minore ostilità egiziana alla promozione da parte di Ankara dei propri interessi nel Mediterraneo orientale. Tra le dinamiche che confortano la sensazione di una dirigenza turca desiderosa di scrollarsi di dosso — si tratterà poi di comprendere se si tratti di scelta tattica o strategica — l’immagine, acquisita in particolare nel corso dell’ultimo decennio, di «leadership» fonte più di problemi che di soluzioni per lo scacchiere mediterraneo rientrano naturalmente anche altri avvenimenti: dalla recente significativa visita in quel paese (9-10 marzo u.s.) del capo dello Stato israeliano Herzog dopo una disputa più che decennale tra le due capitali innescata, come noto, nel 2010 dalla vicenda della «Mavi Marmara»; alla visibilità conferita anche da parte turca alla tappa a Istanbul lo scorso 13 marzo (con relativo pranzo di lavoro con Erdogan, centrato sulla risposta comune da fornire alla crisi ucraina) del primo ministro greco, Kyriakos Mitsotakis; alla ripresa di costruttivi contatti, a margine del vertice NATO straordinario dello scorso 24 marzo, dello stesso Erdogan con il presidente Macron nonché dopo le incomprensioni dello scorso anno, con il nostro Primo Ministro.
Senza dimenticare — per tornare alla centralità e alle potenzialità del ritrovato rapporto con lo Stato ebraico — l’intendimento, manifestato nei giorni scorsi da Erdogan al suo rientro da Taskent, di discutere subito dopo il Ramadan con il primo ministro israeliano Bennett «dei passi da compiere immediatamente per portare gas di Israele in Europa tramite la Turchia». Parole nelle quali più d’uno ha, ritengo non a torto, voluto leggere un tentativo dello stesso Erdogan di far parte della soluzione anche sul terreno della riduzione della dipendenza energetica dell’Europa dalla Federazione Russa.
Vanno nella stessa direzione di un «ritorno in gioco» di una Turchia diplomaticamente meno aggressiva — e comunque partner ineludibile a fronte dei drammatici sviluppi in corso in Ucraina, non foss’altro che per il suo ruolo strategico per il controllo dell’accesso al Mar Nero — le visite compiute di recente in quella capitale dal cancelliere tedesco Olaf Scholz e dal primo ministro olandese Mark Rutte.
Vi è ovviamente da augurarsi che tali dinamiche si consolidino nei mesi a venire e che gli sforzi di mediazione turchi (così come quelli di altri attori più discreti ma animati dalle migliori intenzioni, a cominciare dalla Santa Sede e dal nostro Governo: presidente Draghi in primis…) possano sfociare in tempi stretti — pur se verosimilmente in via incrementale, data la straordinaria complessità del dossier — nei risultati che noi tutti auspichiamo.
Risultati, e concludo, che mi auguro possano contribuire a dare sostanza all’auspicio espresso in una recente densa intervista al Corriere della Sera dall’intellettuale e dissidente russo Masha Gessem. Quello secondo il quale per l’Ucraina «la storia (e, mi permetto di aggiungere, la geografia) non significa destino». Mentre, prosegue Gessem nella stessa intervista, «la volontà di Putin è, invece, proprio quella di dimostrare all’Ucraina di essere il suo destino».
Gabriele Checchia, Circolo di Studi Diplomatici
L’ambasciatore Gabriele Checchia è nato ad Ancona il 23 marzo 1952. Conseguita la maturità classica, si laurea, nel 1974, in Scienze Politiche al “Cesare Alfieri” con successivo corso di specializzazione in Diritto internazionale alla «Johns Hopkins». Nel 1978, a seguito di esame di concorso, entra al ministero degli Esteri ricoprendo negli anni numerosi incarichi alla Farnesina e all’estero. È stato Ambasciatore d’Italia in Libano (2006-10), alla NATO (2012-14) e all’OCSE (2014-16). A riposo, per limiti di età, dal dicembre 2016. È, attualmente, «Senior Advisor» della Luiss per le tematiche di internazionalizzazione e Presidente del «Comitato Atlantico» di Napoli. Il Circolo di Studi Diplomatici è un’associazione fondata nel 1968 su iniziativa di un ristretto gruppo di ambasciatori con l’obiettivo di non disperdere le esperienze e le competenze dopo la cessazione dal servizio attivo. Il Circolo si è poi nel tempo rinnovato e ampliato attraverso la cooptazione di funzionari diplomatici giunti all’apice della carriera nello svolgimento di incarichi di alta responsabilità, a Roma e all’estero.
OSSERVATORIO INTERNAZIONALE
La Marina russa: aspirazioni e obiettivi
Le aspirazioni marittime russe, connesse con le successive dichiarazioni di Putin a partire di quella alla Munchen Security Conference del 2007 (inizialmente nota con il nome di Internationale Wehrkunde Begegnung) sono state codificate nella Dottrina Marittima del 2015 la quale, concentrandosi sulle «acque dell’Oceano Mondiale», individuava successivamente le «aree prioritarie regionali» russe come l’Atlantico (incluso il Baltico, il Mar Nero e il Mediterraneo), l’Artico, il Pacifico, l’Oceano Indiano e l’Antartide. Queste, in termini più ampi, ricordano quello che disse lo zar Nicola I nel 1825, appena un mese dopo la sua intronizzazione: «La Russia deve diventare la terza potenza navale mondiale dopo Gran Bretagna e Francia e deve essere più forte di ogni altra coalizione di potenze navali minori». In particolare, i punti salienti per l’area prioritaria regionale dell’Oceano Pacifico evidenziavano: «L’importanza dell’area prioritaria regionale dell’Oceano Pacifico per la Federazione Russa è enorme e continua a crescere» (Punto 62); «L’estremo oriente russo ha risorse colossali, soprattutto nella Zona Economica Esclusiva e sulla piattaforma continentale» (punto 62); «Sviluppo delle forze e del sistema delle basi militari della Flotta del Pacifico» (Punto 65b); «Una componente importante della politica marittima nazionale nell’area regionale dell’Oceano Pacifico è lo sviluppo di relazioni amichevoli con la Cina» (Punto 63). Rispetto alla Dottrina Marittima del 2001, le novità del 2015 sono state il passaggio dalla «Costa del Pacifico» all’«Oceano Pacifico» quindi, al di là della semplice modifica verbale, si tratta di un ampliamento del concetto operativo, ovvero il passaggio dalle «brown waters» (acque litoranee o fluviali) alle «blue waters» (alto mare) che erano, viste le circostanze, un limite dovuto alla ritirata della ex Unione Sovietica dallo scenario internazionale. Con ciò sono state saltate direttamente le «green waters» (acque costiere), facendo un vero e proprio salto in avanti, e sono state identificate le installazioni di basi militari per la Flotta del Pacifico e il riconoscimento della partnership strategica con la Cina, che in prospettiva potrebbe risultare pericolosissima per gli interessi nazionali russi, viste le reali ambizioni di Pechino nei riguardi della Siberia. Per quanto riguarda i punti salienti del documento più recente della Dottrina Marittima, quella del 2021, per l’Oceano Indiano esse includono: 1) «Lo sviluppo di relazioni amichevoli con l’India è l’obiettivo più importante della politica marittima nazionale nella regione dell’Oceano Indiano» (punto 68); 2) «Periodicamente o secondo necessità, assicurrare la presenza navale della Federazione Russa nell’Oceano Indiano» (Punto 69b). A tale riguardo possiamo notare come rispetto alla Dottrina Marittima del 2001 e quella del 2015, vi sia stato nel 2021 il riconoscimento della partnership strategica con l’India nell’Oceano Indiano. Ulteriormente al riguardo, nel tempo, come si sono confrontati i due scacchieri dell’Oceano Pacifico e dell’Oceano Indiano in considerazione dei differenti parametri economici, politici e strategici? In primo luogo occorre notare come il Pacifico aveva la prevalenza dimensionale e concettuale mentre l’Oceano Indiano, viste le buone relazioni con New Dehli, restava minoritario (in sintonia con la percezione dell’Occidente). In secondo luogo, nel 2001, sempre il Pacifico era identificato per importanza come già «enorme» e destinato a «crescere» in misura maggiore. In terzo luogo, le capacità della flotta russa del Pacifico erano identificate come richiedenti una crescita quantitativa e qualitativa. In quarto luogo, l’area prioritaria regionale dell’Oceano Pacifico comprendeva la parte orientale dell’Artico all’interno delle rotte verso il Mare del Nord e l’Atlantico. La Dottrina Marittima del 2015 prevedeva, inoltre, il rafforzamento delle strutture logistiche sulla linea costiera russa e sulle isole lungo il Mar del Giappone e il Mar di Okhotsk (l’area di lancio principale da parte degli SSBN russi); mentre, la presenza della Russia nell’Oceano Indiano era prevista attraverso solo «dispiegamenti navali periodici». Politicamente, mentre la cooperazione con l’India era «l’obiettivo più importante» per la Russia nell’Oceano Indiano, le relazioni amichevoli con la Cina erano una «componente importante» per la politica marittima russa nel Pacifico. Tutto ciò ignorando un ulteriore problema della Russia di una crescente concorrenza tra Cina e India e le relative frizioni nell’Oceano Indiano e nel Mar Cinese Meridionale.
Le basi a terra, come sempre, sono elementi fonda-
mentali per la piena operatività di una forza navale. La flotta russa del Pacifico ha sede a Vladivostok ma, si è stabilita in un nuovo complesso militare intorno alla baia di Vladivostok, nella città (off-limits) di Fokino. Verso nord, lungo la costa si trova la base di Sovetskaya Gavan, dopo di che la costa corre oltre l’isola russa di Sakhalin e curva intorno al Mare di Okhotsk, sotto il controllo russo dalla penisola di Kamchatka e dalle Isole Curili. A Komsomolsk-on-Amur, il cantiere navale di Amur ha recuperato il suo precedente valore dell’epoca sovietica come principale arsenale per la flotta del Pacifico. Importanti forze russe si trovano nella penisola della Kamchatka, vicino a Petropavlovsk, presso la base dei sottomarini nucleari di Rybachiy, che è stata ammodernata nel 2015 per ospitare i nuovi SSBN (Project 955), classe «Borei». La concentrazione di sottomarini russi nel Mare di Okhotsk riflette un approccio offensivo deliberato all’antemurale occidentale, in primis gli Stati Uniti, in misura secondaria, Giappone, Corea del Sud e a seguire le Filippine, la Polinesia e la Caledonia francesi e infine, Australia e Nuova Zelanda. All’estremità settentrionale della catena, le unità missilistiche di difesa mobile costiera K-300P «Bastion-P» con missili anti-nave
«Onyx» sono state piazzate a Matua dal dicembre 2021. All’estremità sud della catena, sono stati posizionati i sistemi missilistici S-300V4 «Iturup» nel dicembre 2020, mentre i test missilistici terra-aria dei missili S-300V4 ad alte prestazioni, dall’isola di Etorofu nel marzo 2022, sono stati presi come un pesante avvertimento contro Stati Uniti e Giappone. Sono in corso inoltre studi per attivare una nuova base nelle Isole Curili, con accesso immediato alle acque profonde del Pacifico nord-occidentale e con la capacità di penetrazione nella acque libere del Pacifico settentrionale. Il Il sistema missilistico di difesa costiera mobile russo K-300P «Bastion-P» (wikipedia.org). sostegno del Giappone alle sanzioni contro la Russia per la guerra in Ucraina ha portato a un aumento dell’azione militare russa nella catena delle Curili, la «prima linea» della Russia a est. Più a sud, nel 2014, alla Russia è riuscito di ottenere una maggiore via d’accesso alla baia di Cam Rahn (Vietnam), ma non ai suoi vecchi diritti sulla base, posseduti nell’era sovietica, che erano amplissimi. Al riguardo, alcuni analisti considerano che l’accondiscendenza del Vietnam, estremamente ostile alle mire espanisve cinesi nel sud-est Asiatico, sia un pegno affinché Mosca porti Pechino a più miti consigli nella regione. Questo contemporaneamente da parte del Vietnam, segue l’aver stabilito un rapporto positivo con il nemico del decennio1963-73, gli Stati Uniti, che hanno ugualmente accesso alla medesima installazione. Ancora più a sud, nell’Oceano Indiano, la Russia ha stabilito legami più stretti con il Myanmar e la sua leadership, rinforzatisi soprattutto dopo il colpo di Stato militare. Tali legami includono la cooperazione navale nell’ambito del più ampio accordo di cooperazione firmato nel 2016 e un ulteriore accordo nel gennaio 2018 per l’ingresso di navi da guerra russe nei porti di quel paese. L’opportunità di un accordo di sostegno logistico reciproco è stata proposta nella dichiarazione congiunta del vertice annuale
Russia-India, nel dicembre 2021. Un tale accordo vedrebbe le navi russe vicino alle basi indiane intorno al Golfo del Bengala, comprese le isole Andamane e Nicobare (punto assai sensibile della strategia navale indiana). Nonostante abbia perso le sue basi dell’era sovietica nella strategica area del Corno d’Africa (Somalia, Yemen del nord e del sud ed Etiopia), la Russia ha riguadagnato una certa presenza nel Mar Rosso, attraverso l’annuncio nel novembre 2020 di un accordo per costruire un supporto logistico e una struttura di manutenzione in Sudan. Si tratta di un evidente gioco di potere a sostegno delle operazioni russe nel Mediterraneo orientale e la creazione di una porta per l’Oceano Indiano occidentale (e una pesante ipoteca sul traffico commerciale, che, attraverso l’ampliato Canale di Suez, connette l’Oceano Indiano e Pacifico al Mediterraneo). A seguito del colpo di Stato militare in Sudan dell’ottobre 2021, condannato in Occidente, il nuovo leader sudanese Abdel al-Burhan ha riaffermato i principi generali di tale accordo; così come il vice capo di Stato Mohamed Dagalo, che ha visitato Mosca il 24 febbraio, il giorno in cui le forze russe sono entrate in Ucraina.
Risorse e assetti sono un tema controverso. Nel 2022 la flotta russa del Pacifico sarebbe composta da circa cinquanta unità, di cui: un incrociatore missilistico, quattro fregate antisommergibili, due caccia antiaerei, sette corvette, otto piccole navi antisommergibile, undici unità motomissilistiche e una decina di unità antimine, quattro navi da sbarco e cinque mezzi da sbarco, e infine, ben 23 sottomarini : 4 SSBN, 6 SSGN, 4 SSN, 9 SSK/SS. Numericamente, questa flotta è sicuramente minore della passata flotta sovietica del Pacifico e un quarto della 7th US Pacific Fleet. Tuttavia, essa dimostra un concreto miglioramento rispetto alla flotta degli anni 80 e 90, durante i quali le navi arrugginite erano una vista comune nelle basi russe. I piani per il rafforzamento e il dispiegamento di nuove grandi unità nella flotta russa sono stati annunciati all’inizio del 2010. Tuttavia fino al 2020 l’attenzione delle costruzioni navali ha privilegiato l’impostazione di unità leggere e sottomarini, con massicci programmi di ammodernamento sulle vecchie unità dei sistemi d’arma a bordo, soprattutto nel settore dei missili superfice-superfice, con l’installazione dei sistemi «Uran» e «Kalibir» (questi ultimi famosi per essere stati lanciati da navi e sottomarini con tiri spettacolari, dal Mar Nero e Mar Caspio, su bersagli in mano a terroristi dello Stato Islamico e Al-Qaeda in Siria). Questo aggiornamento è iniziato con il ritorno in servizio del «Marshal Shaposhnikov» nel maggio 2021 e con l’«Admiral Vinogradov», prossimo all’entrata in linea. Anche i sottomarini della classe «Oscar» (SSGN) a propulsione nucleare (Progetto 949A) sono in fase di modernizzazione, con i loro missili «Granit» destinati alla sostituzione con missili «Kalibr». Il sottomarino «Irkutsk» guida il programma di ammodernamento, anche se lentamente, per un ritorno nel Pacifico entro il 202223, seguito dal «Chelyabinsk». Infine, al maresciallo «Shaposhnikov» e all’«Irkutsk» sono forniti lanciatori universali per i temibili missili ipersonici 3M22 «Zirkon». La flotta del Pacifico riceverà sei nuovi sottomarini d’attacco diesel-elettrici SSK della classe «Kilo» migliorati (Progetto 636.3) entro il 2024. Il «Petropavlovsk-Kamchatsky» e il «Volkhov» hanno già operato nell’Oceano Indiano nell’ottobre 2021, mentre il prossimo in linea è il «Magadan», impostato il 1 novembre del 2019 e attualmente in viaggio verso Vladivostok. Il grande sottomarino nucleare della classe Belgorod per scopi speciali (Progetto 09852), completo di droni nucleari subacquei (sistema UUV Poseidon), dovrebbe essere consegnato alla flotta del Pacifico entro l’estate
2022. Tre nuove fregate della classe «Gorshkov» (Progetto 22350) dovrebbero unirsi alla flotta del Pacifico: l’«Admiral Amelko»nel 2023 e le altre due entro il 2025.
La ricostruzione della flotta del Pacifico, iniziata nel 2011 presso il cantiere di Severnaya Verf, di San Pietroburgo e proseguita nel cantiere di Amur ha visto l’ingresso in linea di quattro nuove corvette della classe «Gremyashchy» (Progetto 20385), in grado di utilizzare missili ipersonici «Zirkon». Il cantiere navale Amur ha anche prodotto corvette polivalenti della classe «Steregushchy» (Progetto 20380) in grado di utilizzare i missili antinave «Uran-M». I punti salienti del programma di potenziamento dei sottomarini della flotta russa del Pacifico sono stati gli arrivi dei sottomarini SSBN della temuta classe «Borei» (Progetto 955): l’«Alexander Nevsky» nel 2015 e il «Vladimir Monomakh» nel 2016. Nel dicembre 2021 è stata annunciato un incremento del programma relativo ai sottomarini. In primo luogo, la flotta del Pacifico ha ricevuto il suo primo progetto 885M «Yasen» (SSGN), il «Novosibirsk», con altri tre al seguito. Infine, un terzo SSBM della classe «Borei-A», il «Generalissimus Suvorov», è stato varato per entrare il servizio con la flotta del Pacifico. In tutto questo, resta una pesante criticità, particolarmente grave per una flotta come quella russa che ha ambizioni globali: la mancanza di una forza aeronavale imbarcata. L’unica portaerei russa, l’«Admiral Kuznetsov», continua a essere parte della Flotta del Nord (senza considerare il suo stato, a dir poco precario, che lascia fortissimi dubbi su un suo realistico rientro in servizio). Di fatto, la Flotta del Pacifico è senza una portaerei per affrontare la US Pacific Fleet (da cui dipendono la III e la VII Flotta), che ne dispone di sette (questo senza considerare le analoghe necessità delle altre flotte russe).
In termini di schieramenti, la Marina della Federazione Russa ha ampliato il suo raggio operativo spingendosi più in profondità nel Pacifico e, più ampiamente, nel sud-est asiatico e nell’Oceano Indiano, ma anche nell’estremo nord, anche se con risorse limitate. Le principali manovre (Ocean Shield 2020) si sono svolte nel Mare di Bering nell’agosto 2020, le prime dall’epoca sovietica. Ciò ha coinvolto oltre 40 unità della flotta del Pacifico, accompagnate dalla simbolica e minacciosa emersione del SSN «Omsk» al largo delle coste dell’Alaska. È stato particolarmente curato anche l’addestramento anti-areo in Artico, che è un obiettivo crescente per i sottomarini della flotta russa del Pacifico che operano nella rotta del Mare del Nord che collega l’Asia e l’Europa. In un altro chiaro segnale per gli Stati Uniti, la Marina russa ha condotto esercitazioni su larga scala (fino a 20 unità combattenti di superficie, sottomarini e navi di supporto, incluso ancora l’apparentemente instancabile, incrociatore «Varyag»), a circa 4.000 km nella «zona marittima lontana» del Pacifico centrale, circa 300 miglia a ovest delle Hawaii, con il dichiarato obiettivo di esercitarsi nella pianificazione della distruzione dei gruppi d’attacco delle portaerei. Come accennato, la flotta russa del Pacifico è riapparsa nelle acque del sudest asiatico, con un massiccio incremento di visite nei paesi della regione, specialmente a partire dal 2014. L’attivismo navale russo si è riflesso più recentemente nell’esercitazione «Arnex» tenutasi con gli stati dell’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico (ASEAN) nel Mar Cinese Meridionale nel dicembre 2021, concretizzatosi con l’invio di un cacciatorpediniere ASW e conseguente ricca dose di simbolismo.
Risulta evidente come gli schieramenti russi nello schacchiere, incluso l’Oceano Indiano, sono tesi a fronteggiare in maniera flessibile compiti multidirezionali. A volte, le flotte russe del Nord, del Baltico e del Mar Nero inviano navi dal Mediterraneo all’Oceano Indiano. Altre volte, la flotta del Pacifico schiera sue unità nell’Oceano Indiano. Questi dispiegamenti includono esercitazioni congiunte con l’India dal 2003, operazioni antipirateria nel Golfo di Aden dal 2008 e esercitazioni bilaterali e trilaterali con Iran e Cina dal 2019. Le unità della flotta del Pacifico sono state dispiegate anche più a ovest, fino al Mediterraneo, un’estensione testimoniata per la prima volta nel 2013 con l’invio di una flottiglia guidata da un cacciatorpediniere, accompagnato da due navi anfibie, e un rifornitore d’altura per unirsi ad altre unità delle flotte del Mar Nero e del Nord. Questo modello di spiegamento della flotta del Pacifico, dall’Oceano Indiano al Mediterraneo è stato ripetuto con la Task Force «Varyag» nel 2016 e, ancora, nel 2022. In termini di partnership regionale, la Russia ha un buon livello di cooperazione marittima con India, Iran e Cina. Rinnovando gli storici legami
dell’era sovietica, le unità delle flotte russe del Mar Nero e del Pacifico hanno iniziato esercitazioni semestrali «Indra» con l’India nel maggio 2003. Queste sono state effettuate nel Golfo del Bengala (2003, 2005, 2015, 2018), Mar Arabico (2003, 2009, 2019), Mar del Giappone (2007, 2017) e Mar Baltico (2021). Tuttavia, permangono alcune limitazioni, soprattutto nel settore logistico. Infatti, una squadra dell’Indian Navy in arrivo a Vladivostok non è stata in grado di svolgere l’esercitazione «Indra» del 2021 perché la flotta russa del Pacifico non aveva navi disponibili. Un accordo logistico per le loro due marine sembrerebbe vicino, ma è stato posticipato a data da destinarsi, probabilmente a causa della crisi ucraina. Ulteriormente, l’annuncio dalla Russia, formulato nel gennaio di quest’anno che le prossime esercitazioni navali «Indra» si terranno nel Mar Nero nell’autunno 2022, resta da confermare alla luce delle note vicende internazionali.
Un accordo di cooperazione navale con l’Iran nell’agosto 2019 è stato seguito dall’invio di due unità della flotta baltica per esercitazioni trilaterali con Iran e Cina nel dicembre 2019 e, in un formato ripetuto, nel gennaio 2022. Nel frattempo, sono state condotte esercitazioni bilaterali con l’Iran nel febbraio 2021 alle quali hanno preso parte unità sia della flotta del Baltico sia di quella Pacifico.
È significativo osservare che la cooperazione terrestre Russia-Cina sia accompagnata da una crescente cooperazione marittima, e non poteva essere diversamente vista l’enfasi che Pechino assegna a questo settore. Le esercitazioni bilaterali annuali «Joint Sea», avviate nel 2012, sono aumentate progressivamente in termini di complessità, interoperabilità e portata.
Queste sono state effettuate nel Mar Giallo nel 2012 (e 2019), nel Mar del Giappone nel 2013 (2015 e 2017), nel Mar Cinese Orientale nel 2014 e nel Mar di Okhotsk nel 2017. Una esercitazione particolarmente significativa è stata quella dell’ottobre 2021, che includeva la navigazione intorno alla costa orientale del Giappone. Probabilmente, per tipologia e dispiegamento di mezzi, le esercitazioni congiunte nel Mar Cinese Meridionale nel 2016 hanno avuto un maggior ritorno addestrativo per la Cina; mentre quelle nel Mediterraneo e nel Mar Nero nel 2015, e nel Mar Baltico nel 2017 hanno avvantaggiato la Russia. Peraltro, anche nell’Oceano Indiano sono avvenute esercitazioni navali russe con la Cina. Nel novembre 2019, la Flotta del Nord russa ha inviato la «Marshall Ustinov» e un rifornitore d’altura per le esercitazioni trilaterali («Mosi») con Cina e Sud Africa (Cina rappresentata dalla fregata Weifang; Russia dall’incrociatore lanciamissili Ustinov, dalla nave cargo Vyazma e dal rimorchiatore SB-406; Sud Africa con la fregata Amatola e nave supporto Drakensberg). Questo è stato seguito alla fine di dicembre dall’invio da parte della flotta del Baltico di una fregata e di un rifornitore per esercitazioni trilaterali («Maritime Security Belt») con la Cina e l’Iran nel Golfo di Oman. Ulteriori esercitazioni bilaterali con la Cina si sono svolte nel Mar Arabico («Peaceful Sea 2022») prima che la flottiglia russa proseguisse verso il Mediterraneo per partecipare alle operazioni russe in Ucraina.
In conclusione, emergono tre punti punti di maggior rilevanza che influiscono sulla strategia navale russa nella regione e (di seguito) a livello globale. In primo luogo, nonostante le capacità militari russe nella regione Indo-Pacifico si accrescano, queste restano oggettivamente inferiori in termini complessivi (numero di unità e capacità operative) a quelle statunitensi. Secondariamente, la crescente cooperazione marittima tra Russia e Cina rappresenta un problema per la US Navy in quanto queste due forze congiunte costituiscono un moltiplicatore di forza riducendo le loro rispettive criticità, pur considerando la permanenza di gap importanti nel settore aeronavale, sminamento, sostegno operativo-logistico (settori fondamentali nella proiezione di potenza). In terzo luogo, l’attività della flotta russa nell’Indo-Pacifico non riguarda solo il dispiegamento della flotta del Pacifico, ma è, ovviamente, strettamente connesso con quello delle altre squadre navali russe del Mar Nero, del Nord e del Baltico e della presenza di loro aliquote nell’Oceano Indiano. Ovviamente questo funziona anche in senso inverso, con rischieramenti di unità della flotta del Pacifico nell’Artico, e nel Mediterraneo (dove sono state effettuate esercitazioni nel 2013, 2016 e 2022). Questo dimostra, però in ultima analisi una debolezza strutturale delle singole flotte, che hanno bisogno di consistenti rinforzi in caso di necessità.
Enrico Magnani
we believe in the sun even when it rains
ITALIA La Marina Militare alla Cold Response 2022»
Oltre a un’aliquota del 3° Reggimento alpini dell’Esercito Italiano, le Forze armate italiane hanno partecipato all’esercitazione NATO «Cold Response 2022» con l’incrociatore portaeromobili Giuseppe Garibaldi, che ha svolto la funzione di nave sede comando per il comandante della task force Anfibia multinazionale («Commander Amphibious Task Force, CATF») il contrammiraglio Valentino Rinaldi: oltre a personale della Brigata marina San Marco, a bordo del Garibaldi ha operato anche il comandante della forza da sbarco («Commander Landing Force, CLF»), generale di brigata del Corpo dei Marines statunitensi, Anthony Henderson, comandante della 2nd Marine Expeditionary Brigade. Al termine dell’esercitazione, vi è stato un incontro fra il generale Henderson e l’ammiraglio di squadra Aurelio De Carolis, Comandante in capo della Squadra navale.
Inaugurato il primo Master in Logistica Marittima Integrata
A metà marzo 2022, la Sala Consiliare dell’Università Parthenope di Napoli è stata il palcoscenico per l’inaugurazione del Master di II livello in Logistica Marittima integrata, promosso dall’Accademia dell’Alto Mare (organismo fondato dalla Marina Militare e dalla Lega Navale), dall’Università «Parthenope» e dall’Istituto di studi sul Mediterraneo del Consiglio nazionale delle ricerche. Il master — a cui partecipano ufficiali della Marina Militare (coordinati dal Comando Logistico della MM) e personale civile — è unico nel suo genere nel panorama nazionale per i contenuti didattici e per la compartecipazione sinergica di industrie ed enti del comparto trasporti, logistica, sostenibilità e blue economy. Alla didattica frontale, contraddistinta da integrazione di discipline economiche, geopolitiche, ingegneristiche e giuridiche, si affianca un’attività formativa presso aziende ed enti per completare la preparazione di quelle figure tecnico-professionali altamente qualificate — fra cui il Supply Chain Coordinator, il
Marine Scheduler, il Sea Logistics Sales, il Logistics/Transport Engineer/Analyst Specialist, attualmente carenti nel settore della logistica marittima — di cui si prevede un forte incremento della domanda nel mercato del lavoro almeno fino al 2030.
In servizio il pattugliatore polivalente d’altura
Paolo Thaon di Revel
Il 18 marzo 2022 il pattugliatore polivalente d’altura Paolo Thaon di Revel è stato consegnato alla Marina Militare, dopo una cerimonia svoltasi nello stabilimento Fincantieri del Muggiano (La Spezia) e a cui è seguito l’inquadramento dell’unità nella Prima Divisione navale (COMDINAV UNO). Come noto, il Thaon di Revel è il primo esemplare di una classe di sette unità la cui consegna dovrebbe concludersi entro il 2026 e che rientra nel piano di rinnovamento dello strumento aeronavale italiano, avviato nel maggio 2015 sotto l’egida dell’OCCAR (Organizzazione per la Cooperazione Congiunta in materia di Armamenti). Realizzate in tre versioni, le
La portaeromobili GIUSEPPE GARIBALDI alla fonda in un fiordo norvegese nel
corso dell’esercitazione NATO Cold Response 2022: l’unità ha svolto il ruolo di nave sede comando della task force anfibia costituita allo scopo.
L’incontro fra l’ammiraglio di squadra Aurelio De Carolis, Comandante in Capo della Squadra navale e il Brigadier General del Corpo dei Marines statunitensi, An-
thony Henderson, a bordo del GARIBALDI al termine dell’esercitazione Cold Re-
sponse 2022.
unità classe «Thaon di Revel» hanno una lunghezza fra le perpendicolari di 133 metri, raggiungono fuori tutto 143 metri e lo scafo è caratterizzato a prora da forme particolari che consentono il raggiungimento di una velocità massima di 32 nodi, valore dipendente dalla configurazione dell’unità e dalle condizioni operative. La larghezza massima è di 16,6 metri. Le versioni dei «Thaon di Revel» riguardano differenti configurazioni del sistema di combattimento, partendo da una versione «light» (con compiti di pattugliamento e su cui sono integrate capacità di autodifesa), una intermedia, «light+», fino a una versione «full», equipaggiata con il massimo della capacità operative. Ciò ha portato a differenti valori di dislocamento, che vanno dalle 5.830 tonnellate per la prima versione a 6.270 tonnellate per la terza. Anche la consistenza dell’equipaggio è ovviamente legata alla configurazione della piattaforma, passando da circa 135 persone a 173, con una disponibilità di alloggi che raggiunge comunque i 181 posti letto. A fattor comune fra le tre versioni della classe rimane la peculiarità del sistema propulsivo, denominato CODAGOL (COmbined Diesel And Gas Or eLectric), comprendente due motori elettrici, altrettanti motori diesel e una turbina a gas, e che consente 5 diverse configurazioni propulsive — sempre su due assi — in funzione della velocità richiesta. Il Thaon di Revel e il secondo esemplare, Francesco Morosini, sono in configurazione «light», mentre
il terzo e il quarto esemplare, Raimondo Montecuccoli e Marcantonio Colonna, saranno «light +»: la quinta, Giovanni dalle Bande Nere, sarà «full», così come la settima ancora da battezzare, mentre la sesta, Ruggero di Lauria, sarà «light +». Le unità in versione «full» sono equipaggiate con un radar attivo a scansione elettronica a doppia banda (C e X) in grado di assicurare anche la difesa contro missili balistici di teatro, così Il pattugliatore polivalente d’altura PAOLO THAON DI REVEL è entrato in servizio nella Marina Militare il 18 come con un sonar a scafo e un marzo quale primo esemplare di una classe di 7 unità realizzata in tre varianti. sensore elettroacustico rimorchiato. La dotazione missilistica si articola in due moduli ottupli per il lancio di missili superficie-aria «Aster 15» e «Aster 30» e su otto missili antinave, mentre quella d’artiglieria comprende l’impianto da 127/64 e uno da 76/62 «sovrapponte» con munizionamento di precisione e due impianti da 25 mm a controllo remoto. Le sistemazioni aeronautiche sono dimensionate per far operare due elicotteri della famiglia «H-90» o un «H-101», mentre sotto il ponte di volo è presente un’area modulare che consente, fra l’altro, di mettere a mare un imbarcazione veloce tipo RHIB (Rigid Hull Inflatable Boat) lunga fino a 11 metri. Un’altra area similare è presente a centro nave dove, oltre a uno o due RHIB, movimentabili con gru, possono essere sistemati fino a otto container, ciascuno equipaggiabile con diverse dotazioni. Intervento antipirateria della fregata Luigi Rizzo Nella notte fra il 3 e il 4 aprile la fregata Luigi Rizzo, impegnata nelle acque del Golfo di Guinea nell’operazione antipirateria «Gabinia», è intervenuta per sventare un attacco di pirati ai danni del mercantile Arch Gabriel, battente bandiera delle Isole Marshall, mettendo in atto una serie di azioni dissuasive. Trovandosi a circa 280 miglia dal mercantile, il Rizzo si è diretto a tutta velocità nella zona del mercantile, facendo successivamente decollare uno dei suoi elicotteri con a bordo gli operatori della Brigata Marina San Marco, specializzati in attività di sicurezza e ab-
L’azione sinergica fra la fregata LUIGI RIZZO, gli elicotteri imbarcati e il personale della Brigata Marina San Marco per sventare l’attacco di pirati contro il mercantile ARCH GABRIEL,
visibile in primo piano.
della Fleet Air Arm britannica è stato sciolto il 31 marzo 2022. Per commemorare l’operato del 736 NAS, il 17 marzo tre aviogetti d’addestramento «Hawk T1» in dotazione al reparto hanno eseguito un volo dimostrativo da Culdrose a Prestwick e ritorno. Nonostante fosse stato annunciato che le attività addestrative del 736 NAS sarebbero state svolte dal 100 Squadron della RAF di Leeming, l’intento non si è concretizzato perché anche gli «Hawk T1» della RAF sono stati ritirati dal servizio il 31 marzo 2022.
INTERNAZIONALE Tre gruppi portaerei in azione a ridosso dell’Italia
Dal 16 al 18 marzo il Gruppo portaerei della Marina Militare, composto dalla portaerei Cavour, dal cacciatorpediniere Andrea Doria e dalla fregata Antonio Marceglia, ha condotto, con quello statunitense e francese, attività addestrativa nelle acque dello Ionio e dell’Adriatico per accrescere il livello addestrativo e l’interoperabilità tra task group di portaerei; le portaerei statunitense Harry Truman e francese Charles De Gaulle rappresentavano il fulcro degli altri due task group. L’esercitazione si è sviluppata con attività ad ampio spettro e multidominio (aereo, superficie e subacqueo) svolte dai mezzi navali e dai velivoli imbarcati. L’esercitazione è stata inquadrata nel consolidamento dell’interoperabilità fra le forze aeronavali di Italia, Francia e Stati Uniti, un interazione questa, che, insieme a quella già avvenuta a febbraio 2022, ha contribuito a incrementare la capacità degli
bordaggio. L’operazione è proseguita con la discesa sul mercantile di un team di abbordaggio eliportato, mentre il Rizzo ha garantito il supporto di sicurezza dell’area; dopo circa un’ora, il team di abbordaggio ha completato la messa in sicurezza del mercantile, ne ha assunto il controllo e, verificata l’assenza a bordo di pirati, ha liberato l’equipaggio rimasto fino a quel momento chiuso nella cittadella di sicurezza del Arch Gabriel. L’equipaggio ha quindi iniziato il ripristino dei danni causati dai pirati in modo da poter proseguire la navigazione verso Lagos, mantenendo comunque a bordo un’aliquota di personale della Brigata Marina San Marco e avvalendosi anche della scorta della fregata della Marina Militare.
GRAN BRETAGNA Scioglimento di un gruppo di volo della Fleet Air Arm
Come annunciato, il 736 Naval Air Squadron/NAS
Uno degli ultimi esemplari di velivoli d’addestramento «Hawk T1», in dotazione al 736 Naval Air Squadron della Fleet Air Arm della Marina britannica, reparto disciolto il 31 marzo 2022 (Foto Airhistory.net).
Le portaerei CAVOUR (in basso), HARRY TRUMAN dell’US Navy e CHARLES DE GAULLE riprese durante una fase delle attività addestrative svoltesi nella
seconda metà di marzo nello Ionio e nell’Adriatico.
equipaggi della Marina Militare a operare in un contesto multinazionale a elevato livello.
MALTA
Prossimo alla consegna il pattugliatore P71
Costruito dai cantieri Vittoria di Rovigo, il pattugliatore marittimo P71 destinato alla componente marittima delle Forze armate di Malta quale nave ammiraglia è prossimo alla consegna, evento successivo al completamento delle prove in mare al largo di Chioggia. L’unità è lunga 74,8 metri, ha un dislocamento di 1.800 tonnellate e sarà in grado di raggiungere una velocità massima di oltre 20 nodi.
QATAR Varata la quarta corvetta per la Marina del Qatar
Il 29 marzo 2022 si è svolta, nello stabilimento di Muggiano (La Spezia), il varo tecnico della corvetta Sumaysimah, quarto e ultimo esemplare della classe «Al Zubarah», oggetto di un contratto affidato a Fincantieri dal ministero della Difesa del Qatar nell’ambito del programma di potenziamento navale dell’Emirato. Alla cerimonia, hanno partecipato Khalid bin Yousef Al-Sada, ambasciatore del Qatar in Italia, il brigadier generale Rashid Al Qashouti (in rappresentanza dello Stato maggiore della Difesa del Qatar), il brigadier generale Ali Ameen (in rappresentanza del Comandante delle forze navali qatarine), il maggior generale Hilal Al Muhannadi (addetto della Difesa del Qatar in Italia), il contrammiraglio Riccardo Marchiò (Comandante delle Forze di contromisure e mine della Marina Militare) e l’ing. Marco Acca, vice Direttore Generale della Divisione navi militari di Fincantieri. Lunghe circa 107 metri e larghe 14,70 metri, le corvette classe «Al Zubarah», sono dotate di un sistema di propulsione tutto diesel, possono raggiungere una velocità massima di 28 nodi e hanno un equipaggio di 112 persone. Nel corso del salone DIMDEX, svoltosi a Doha dal 21 al 23 marzo, è stato annunciato che Leonardo fornirà alle forze navali del Qatar un centro di coordinamento delle operazioni aeronavali.
In coerenza con l’espansione delle proprie forze navali, la Repubblica Popolare Cinese sta procedendo anche a un massiccio potenziamento delle propri capacità cantieristiche militari. Il cantiere di Jiangnan, nell’area di Shanghai, vicino la foce del fiume Yangtze, è specializzato nella costruzione di portaerei, unità maggiori di superficie e sottomarini; la sua estensione è pari a 7,3 kmq, in corso di espansione. Jiangnan fa parte del consorzio industriale statale China State Shipbuilding Corporation (CSSC), che produce anche unità mercantili di dimensioni rilevanti come le gigantesche portacontainer da 16.000 TEU. Anche il cantiere di Wuhan, all’estremità nordorientale del Mar Giallo, sta vivendo una fase di potenziamento finalizzata a incrementare la produzione di sottomarini a propulsione nucleare. Questi elementi suggeriscono all’US Navy che verso il 2040 la Marina cinese sarà in grado di schierare 6 portaerei: le prime due sono Liaoning e Shandong, mentre la terza — nota al momento come «Type 003» — è in allesti-
Costruito dal Cantiere navale Vittoria di Rovigo, il pattugliatore d’altura P71
ha iniziato a marzo le prove in mare propedeutiche alla sua consegna alle Forze navali di Malta (Cantiere navale Vittoria).
Il trasferimento alla banchina d’allestimento della corvetta SUMAYSIMAH, va-
rata il 29 marzo negli stabilimenti Fincantieri del Muggiano e ultimo esemplare di una classe di quattro unità in costruzione per la Marina del Qatar (G. Arra).
mento a Jiangnan, a cui ne dovrebbero seguire almeno altre due, presumibilmente a propulsione nucleare. Oltre alle portaerei, l’attenzione degli analisti è concentrata sui cacciatorpediniere classe «Renhai/Type 055» e «Luyang III/Type 052D», nonché sulla realizzazione di fregate e corvette, destinate anche al mercato dell’esportazione.
STATI UNITI Impostazione del cacciatorpediniere lanciamis-
sili Ted Stevens
Il 9 marzo, nei cantieri del gruppo Huntington Ingalls Industries (HII) a Pascagoula, Stato del Mississippi, ha avuto luogo la cerimonia d’impostazione del cacciatorpediniere lanciamissili Ted Stevens, distintivo ottico DDG 128, 78° esemplare della classe «Arleigh Burke» e quarta unità realizzata nella configurazione «Flight III». Caratteristica peculiare delle unità classe «A. Burke Flight III» è il radar attivo a facce piane e scansione elettronica AN/SPY-6(V)1 destinato alla difesa integrata contraerei e antimissili, mentre nel progetto sono state incorporate alcune migliorie per incrementare la generazione di potenza elettrica e le capacità di refrigerazione dei componenti elettronici. Le altre unità classe «A. Burke Flight III» in costruzione nei cantieri HHI di Pascagoula sono il DDG 125, DDG 129 e il DDG 131, mentre sta per essere completata la costruzione del DDG 123, appartenente al «Flight IIA».
…e di una nuova Enterprise
Martedì 5 aprile, negli stabilimenti HII di Newport News ha avuto la posa sullo scalo di costruzione del primo modulo strutturale della terza portaerei a propulsione nucleare classe «Ford», battezzata Enterprise nel solco di una tradizione che dura dagli anni Trenta del XX secolo.
I responsabili dell’US Navy per il programma hanno dichiarato che i lavori di fabbricazione del primo elemento modulare sono iniziati con alcune settimane di anticipo rispetto ai programma e che all’inizio di aprile l’Enterprise (distintivo ottico CVN 80) ha raggiunto il 15% di avanzamento costruttivo: l’US Navy prevede che la nuova Enterprise sia consegnata nel 2028, mentre la quarta unità — Doris Miller, CVN81 — dovrebbe entrare in linea nel 2032. Le due portaerei sono finanziate nell’ambito di una strategia di procurement, negoziata fra US Navy e HHI nel 2019 e il cui valore ammonta a 24 miliardi di dollari.
Consegnato il sottomarino Montana
Il 15 marzo, la divisione Newport News Shipbuilding dell’Huntington Ingalls Industries ha consegnato all’US Navy il sottomarino nucleare d’attacco Montana (SSN 794), che in precedenza aveva completato con successo le prove in mare. La consegna all’US Navy è un passo formale che procede di qualche tempo l’ingresso in servizio propriamente detto. La variante Block IV incorpora alcune modifiche progettuali rispetto alla variante Block III finalizzate alla riduzione dei costi di esercizio complessivi di ciascuna unità e della durata dei periodi di manutenzione fra due dispiegamenti. La situazione dei sottomarini classe «Virginia Block IV» è così riassunta: Vermont (SSN 792) in servizio; Oregon (SSN 793) e Montana consegnati all’US Navy; Hyman G. Rickover (SSN 795) New Jersey (SSN 796), Iowa (SSN 797), Massachusetts (SSN 798) e Idaho (SSN 799) formalmente impostati; Arkansas (SSN 800) e Utah (SSN 801) in costruzione, ma non ancora formalmente impostati.
Nel mese di marzo 2022, il Corpo dei Marines e l’US Navy hanno svolto una dimostrazione del concetto Manned-Unmanned Teaming (MUM-T), cioè le operazioni congiunte fra aeromobili pilotati e non, utilizzando elicotteri pilotati AH-1Z «Viper» e UH-1Y «Venom» e un
Una foto del varo del sottomarino nucleare d’attacco MONTANA, apparte-
nente alla classe «Virginia» e consegnato all’US Navy il 15 marzo. Il battello è stato realizzato nella configurazione Block IV, contenente modifiche progettuali rispetto alla configurazione precedente (HHI).
mezzo non pilotato ad ala rotante MQ-8C «Fire Scout». La dimostrazione si è svolta nel Naval Air Facility El Centro, in California, con i «Venom» e i «Viper» impiegati ad attaccare bersagli designati da un team basato a terra e in collegamento con il «Fire Scout». L’esercitazione è stata un primo passo verso un’integrazione sempre più stretta fra velivoli pilotati e quelli a controllo remoto, finalizzata a incrementare le capacità di pianificazione, comunicazione e ingaggio a fuoco di bersagli terrestri e navali di varie tipologie, operando soprattutto in scenari costieri.
Affidata a Fincantieri la manutenzione dei cacciamine classe «Avenger»
Fincantieri Marine Systems North America (FMSNA), specializzata nella commercializzazione di sistemi, servizi e componenti navali che fa capo alla controllata americana Fincantieri Marine Group (FMG), si è aggiudicata il contratto di manutenzione dei cacciamine classe «Avenger» in servizio nell’US Navy. La classe è composta da otto esemplari, di base in Bahrain con la 5a Flotta e in Giappone con la 7a Flotta, tutti equipaggiati con motori diesel della società Isotta Fraschini Motori, controllata di Fincantieri. Gli «Avenger» sono stati costruiti in Wisconsin, nei cantieri di Marinette e Sturgeon Bay, dove oggi Fincantieri possiede alcuni tra i più grandi e attivi stabilimenti della regione dei Grandi Laghi.
Il cacciamine statunitense GLADIATOR, qui sorvolato da un elicottero MH-
53 dell’US Navy, è una delle 8 unità classe «Avenger» per le quali Fincantieri si è aggiudicata la manutenzione (US Navy).
TURCHIA Testati un nuovo siluro e un nuovo sistema di gestione operativa
A metà marzo 2022, il ministero della Difesa turco ha annunciato di aver testato nel Mar di Marmara il nuovo siluro pesante «Akya» di produzione nazionale, utilizzando allo scopo il sottomarino Preveze: la prova ha avuto luogo anche per verificare l’integrazione del nuovo siluro con l’altrettanto nuovo sistema di gestione operativa «Murena», installato a bordo del Preveze nel corso dell’ammodernamento di mezza vita. Il battello appartiene al tipo «Type 209/1400TN» di progetto tedesco, ma costruito in Turchia, mentre il precedente lancio del nuovo siluro era stato eseguito dal Gür, gemello del Preveze, ma non ancora sottoposto ad ammodernamento e da cui l’ordigno era stato lanciato utilizzando il sistema di gestione operativa ISUS 90-33. Utilizzabile contro bersagli subacquei e di superficie, il siluro «Akya» è un’arma di nuova generazione, operante autonomamente o con guida mediante fibra ottica, equipaggiato con un sensore acustico attivo e passivo. L’arma è accreditata di una velocità massima superiore ai 45 nodi e di una portata massima di circa 27 miglia ed è equipaggiato con un spoletta di prossimità e a impatto. Anche il sistema «Murena» è di produzione turca e riproduce sostanzialmente le funzionalità — con i dovuti aggiornamenti hardware e software — del sistema installato in precedenza sui sottomarini turchi della classe «Preveze»: oltre al battello eponimo, l’ammodernamento di mezza vita, comprensivo di installazione del «Murena» e dell’imbarco dei siluri «Akya» interesserà anche i sottomarini Sakarya, 18 Mart e Anafartalar.
Ingresso in servizio di tre nuovi velivoli a controllo remoto
Il 24 marzo il ministero della Difesa turco ha reso noto che la società Turkish Aerospace ha consegnato alla Marina turca due velivoli a controllo remoto tipo «AnkaS» e uno tipo «Aksungur», tutti armati con ordigni ariasuperficie. La consistenza dei velivoli a controllo remoto in servizio nella Marina turca aumenta dunque a 20 esemplari, in particolare due «Aksungur», dieci «TB2Bayraktar», quattro «Anka-S» e altrettanti «Anka-B». Grazie alla loro capacità di carico, gli «Aksungur» sono impiegabili per missioni di sorveglianza, ricognizione, intelligence e attacco dall’aria, operando anche a lungo raggio grazie a un sistema di guida satellitare.
Michele Cosentino
CHE COSA SCRIVONO GLI ALTRI
«Nella mente di Putin» e «Russia’s Perpetual Geopolitics»
IL CORRIERE DELLA SERA - FOREIGN AFFAIRS, 24 FEBBRAIO 2022
Tra tutti gli Zar, Putin ha sempre preferito Alessandro III (1845-94, imperatore dal 1881), passato alla storia sia per la sua svolta autoritaria che per l’espansionismo territoriale. Tant’è che, nel 2017, tre anni dopo l’annessione della Crimea, è stata inaugurata a Yalta, sulle rive del Mar Nero, una sua statua in bronzo alta quattro metri, sul cui piedistallo è riportata la sua frase più celebre: «La Russia ha due soli alleati: il suo esercito e la sua flotta». Un motto che evoca orgoglio, solitudine armata, disponibilità al sacrificio per la propria giusta causa [ovvero quella che si ritiene tale], tratti distintivi della Russia di fronte all’Occidente decadente e viziato — scrive sulle colonne del quotidiano milanese Paolo Valentino — e oggi l’avventura ucraina suona plastica conferma di una certa idea del potere e della Russia, che Putin ha progressivamente maturato nei suoi ventidue anni al Cremlino. Ma se finora, dalla Crimea alla Siria [e alla Libia], il presidente russo aveva sempre saputo minimizzare gli azzardi geopolitici e vendere abilmente i successi sul palcoscenico interno, il lancio dell’offensiva militare contro Kiev segna un cambio di passo, dove i rischi e i costi appaiono molto più alti di una vaga definizione di successo. Cos’è cambiato nell’approccio mentale di Putin, da spingerlo a una scommessa tanto ambiziosa, pericolosa e non del tutto condivisa perfino da molti dei suoi più stretti collaboratori? Al pari di numerosi analisti (pensiamo, tra gli altri, all’omonimo libro a cura di John Akwood ovvero al saggio di Nicolai Lilin, Putin. L’ultimo zar. Da San Pietroburgo all’Ucraina), l’autore cerca di sondare quali siano i veri piani di Putin che hanno portato all’aggressione contro l’Ucraina (pardon, all’operazione militare speciale nel lessico del Cremlino!). In oltre due decenni al vertice, Putin ha cavalcato diverse narrazioni per la costruzione e il mantenimento del consenso. Prima la crescita economica, perseguita grazie agli alti costi dei prezzi dell’energia. Poi la polemica con l’Occidente, accusato di voler far rivivere la Guerra Fredda con l’ampliamento della Nato ai baltici e agli ex paesi del Patto di Varsavia. Quindi il patriottismo nazionalista con l’annessione della Crimea e il sostegno ai separatisti russofoni del Donbass — sino alla guerra ibrida in corso —. Ora Vladimir Putin ha fretta. Sente l’età avanzare, la salute vacillare. Il tempo non è più dalla sua parte. Vuole di più e lo vuole subito. Ed è disposto a pagare e far pagare al suo paese un prezzo molto alto. «La sua è una guerra non solo per l’Ucraina, ma per il sistema europeo — dice l’ex ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer — vuole ristabilire la Russia come la potenza prevalente nello spazio ex sovietico, cancellando le umiliazioni degli anni Novanta». Lo «Zar» sa che una democrazia funzionante in Ucraina metterebbe a rischio [anche in Russia] la sua regola autoritaria. Così sta puntando al bersaglio grosso, memore di Alessandro III, esercito e flotta unici alleati. «All’evidenza, non si accorge di aver sbagliato secolo». Sulla falsariga della storia, molto interessante poi è l’articolo «Russia’s Perpetual Geopolitics. Putin Returns to the Historical Pattern» di Stephen Kotkin, professore di storia e affari internazionali all’Università di Princeton, che ci viene riproposto dalla corposa newsletter della rivista Foreign Affairs, «dal 1922 la pubblicazione più influente degli Stati Uniti sugli affari internazionali e la politica estera», alla ricerca dei fondamentali della geopolitica russa. Per mezzo millennio, la politica russa è stata caratterizzata da ambizioni crescenti che hanno superato le reali capacità del paese, scrive il Nostro. Ha perso la guerra di Crimea del 1853-56, che pose fine al suo bagliore post-napoleonico; la guerra russo-giapponese del
1904-05, la prima sconfitta di un paese europeo da parte di uno asiatico nell’era moderna, quindi ancora la Prima guerra mondiale, che ha causato il crollo del regime imperiale e, infine, la Guerra Fredda, una sconfitta che ha contribuito a causare il crollo del successore sovietico del regime imperiale, la cui disgregazione nel 1991, ha portato alla perdita di circa due milioni di miglia quadrate di territorio sovrano, più dell’equivalente dell’intera Unione europea. In parallelo la storia registra tre fugaci momenti di notevole ascesa: la vittoria di Pietro il Grande su Carlo XII di Svezia nei primi anni del Settecento, che impiantò la potenza russa sul Mar Baltico e in Europa e quella di Alessandro I su Napoleone, che portò la Russia a Parigi come arbitro degli affari delle grandi potenze, quindi la vittoria di Stalin sul «maniacale giocatore d’azzardo» Adolf Hitler, che ha guadagnato alla Russia Berlino, un impero satellite nell’Europa orientale e un ruolo centrale che ha modellato l’ordine globale del dopoguerra. In questo rutilante alternarsi di vittorie e sconfitte, i russi hanno sempre avuto un senso costante di vivere in un paese provvidenziale con una missione speciale, sulla scia dell’ambizione di essere la «Terza Roma». La sensazione di avere una missione speciale ha contribuito alla scarsità di alleanze formali della Russia e alla riluttanza ad ade-
rire agli organismi internazionali, se non come membro d’eccezione o dominante. Una percezione che fornisce orgoglio al popolo e ai leader russi, ma fomenta anche il risentimento verso l’Occidente per aver sottovalutato l’unicità e l’importanza della Russia. Un altro fattore che ha plasmato il ruolo della Russia nel mondo è stata la geografia unica del paese. La Russia non ha confini naturali, tranne l’Oceano Pacifico e l’Oceano Artico (l’ultimo dei quali sta diventando anche uno spazio conteso). Il monumento allo zar Alessandro III inaugurato da Putin a Yalta il 18 novembre 2017 (moscow-river.com). Colpita nel corso della sua storia da sviluppi spesso turbolenti in Asia orientale, Europa e Medio Oriente, la Russia si è sentita perennemente vulnerabile e ha spesso mostrato una sorta di aggressività difensiva. La sicurezza russa è stata quindi tradizionalmente in parte basata sullo spostamento verso l’esterno, specialmente nell’estero vicino, nello spazio ex-sovietico fatalmente attratto dall’Occidente, in nome della prevenzione di un attacco esterno. Mosca vede i paesi più piccoli ai confini della Russia non come potenziali amici ma come «potenziali teste di ponte per i nemici», in buona sostanza «come armi nelle mani delle potenze occidentali intente a brandirle contro la Russia». L’ossessione geopolitica di Putin è quella di ricostruire il vecchio sistema sovietico di paesi e città satellite che assicurerebbe la protezione della Russia da un presunto attacco occidentale. E l’articolo in parola, scritto all’indomani dell’annessione forzata della Crimea senza colpo ferire e dei disattesi protocolli di Minsk, ci fornisce così, pur nelle sue linee generali, i prodromi della visione neo-imperiale di Putin, intesa a ridisegnare i rapporti di forza internazionali, una visione che ha portato alla tragedia ucraina che si sta consumando sotto i nostri occhi, in una lunga scia di sangue e di devastazioni indiscriminate in spregio alle più elementari norme del diritto umanitario dei conflitti armati.
«Le Terze guerre mondiali»
LA LETTURA, N. 534, 20 FEBBRAIO 2022
Dalla guerra reale alle guerre ipotetiche. Poco prima dell’esplosione della crisi ucraina, due romanzi «strategici» usciti quasi contemporaneamente — e recentemente tradotti anche in italiano — hanno immaginato il pianeta sul baratro di un conflitto atomico. Il primo è «2034» dell’ex-marine Elliot Ackermann e dell’ammiraglio James Stavridis (di cui abbiamo già parlato su queste colonne nella rubrica del mese di ottobre), mentre il secondo, «Per niente al mondo», porta la firma del celebre scrittore Ken Follet, uno dei più popolari autori di best-seller. Differenti gli scenari di crisi presi in esame in cui scoppia la scintilla capace di far esplodere le tensioni internazionali, scoccando anche lontano dal loro centro di gravità, come ha dimostrato la genesi della Grande Guerra (la scintilla a Sarajevo, l’epicentro sul confine belga e franco-tedesco). Se per gli autori di «2034» l’area di crisi era costituita, come ricorderemo, dal Mar cinese meridionale, per Ken Follet lo scenario si sposta nel Sahel, infestato da islamisti, dittature traballanti, interessi occidentali (Francia e Stati Uniti) ed espansionismo cinese. Sulla scia dei due «romanzi» in questione, il settimanale letterario de Il Corriere della Sera, affidandosi alla penna di tre noti autori (Manlio Graziano, Antonio M. Morone e Antonio Fiori) prova a verificarne le trame nei tre articoli, intitolati, rispettivamente, «La Cina agita i suoi mari» (Pechino provoca i paesi vicini e punta a riunificarsi con Taiwan), «Il Sahel in fiamme destabilizza l’Africa» (jihadismo e rivendicazioni etniche, una miscela veramente esplosiva) e «Nucleare e militari: il rebus Nord Corea» (se il regime di Kim Jong-un spaventa, incerte si presentano le opzioni d’intervento). Numerosi sono in giro per il mondo i punti caldi delle relazioni internazionali, oggi assorbiti dall’attenzione mediatica delle urgenze della guerra in Ucraina, ma il più hot si trova nei mari di fronte le coste cinesi, scrive Manlio Graziano, laddove le pretese cinesi dei Nove Trattini (dieci dal 2013) applicati al Mar cinese meridionale, che delineano una frontiera unilaterale rigettata dalla giustizia internazionale, implicano (insieme alle rivendicazioni sulle isole Senkaku-Diaoyu nel Mar cinese orientale) uno stato di perenne conflittualità con gli Stati rivieraschi tra continui alti e bassi. A nord quella linea include anche Taiwan, l’isola ribelle che i dirigenti di Pechino minacciano di voler reintegrare alla madrepatria. Rivendicazioni che l’autore ricostruisce, sia pur con rapide pennellate, nella loro genesi storica, ponendo in evidenza al riguardo anche le oscillazioni e l’indifferenza dell’Occidente negli ultimi decenni. Di fronte a tali reiterate pretese «la soluzione del problema è tutt’altro che semplice; sembra però che Pechino faccia di tutto per complicarla», specialmente dopo che la stretta autoritaria su Hong Kong ha messo fine alla finzione di «un paese, due sistemi» e, ovviamente, più la Cina si fa aggressiva, più il fronte anti-cinese si consolida. «La prima guerra mondiale dimostrò che le crisi militari possono esplodere ovunque, ma anche dimostrato che l’escalation della retorica, degli ultimatum e della mobilitazione, può avere effetti che nessuno aveva previsto né auspicato». Un secondo scenario conflittuale è costituito dalla regione africana del Sahel — da dove prende le mosse il romanzo di Ken Follet — che da dieci anni è al centro di una crisi internazionale che è andata via via estendendosi dal Mali al Burkina Faso al Niger fino al nord della Nigeria. «In realtà la vera origine della crisi maliano-sahelina si può collocare nella guerra civile scoppiata in Libia, un anno prima, con la rivolta e il conseguente intervento internazionale della Nato che portò alla caduta di Gheddafi senza di per sé risolvere il conflitto che ancor oggi lacera il paese», scrive Antonio Fiori, perché le armi utilizzate nella secessione del Mali, arrivavano dagli arsenali smantellati di Gheddafi con il collasso
del sistema di controllo dei confini. Con il ritiro della Francia (annunciato lo scorso 17 febbraio), dopo l’attivismo delle sue missioni militari (Opération Serval, 2013 in Mali e Opération Barkane, 2014 nell’intero Sahel), con risultati modesti conseguiti pur in coordinamento con le Nazioni unite (UN Multidimensional Integrated Stabilization Mission in Mali, 2013), ha aperto le porte alla Russia, già fortemente impegnata alla Libia, sia pur attraverso le sue milizie private del gruppo Wagner. Un tandem quello franco-russo che potrebbe apparire ictu oculi irrituale anche se già di fatto sperimentato nelle ultime battute della guerra civile in Libia, laddove Macron, pur appoggiando formalmente il Governo di Tripoli, riconosciuto dalle Nazioni unite e sostenuto da Ankara, nei fatti si è impegnato a favore delle milizie del sedicente Esercito nazionale libico dell’irriducibile Khalifa Haftar, spalleggiato da Putin. «In fine dei conti la lotta all’islamismo internazionale e l’accesso alle risorse energetiche africane — conclude l’Autore — sono due punti di facile convergenza tra due paesi che, in altri scacchieri, sembrano essere molto più distanti tra loro». E infine l’attenzione, con l’articolo di Antonio Fiori dell’Università di Bologna e della Ewha di Seul, si concentra sul terzo scenario di perenne crisi, cioè la Corea di Kim Jong-un e il suo regime «inossidabile», in merito al quale due sembrano essere le possibili strade attraverso le quali il regime potrebbe essere spazzato via. Innanzitutto quella «esterna» attraverso un attacco militare perpetrato plausibilmente dagli Stati Uniti per esorcizzare una volta per tutte la sua perenne minaccia nucleare ovvero quella «interna», cioè il crollo del regime per cause «non esterne». Entrambe però sono ritenute de facto inverosimili atteso che, in ogni caso, provocherebbero difficoltà tali da far sprofondare la penisola — e l’intera regione — nel caos. «È infatti abbastanza scontato — sottolinea l’autore — che la Cina possa intervenire, sia per mettere in sicurezza l’arsenale atomico nordco-
reano, sia per evitare qualunque forma di unificazione della penisola sotto l’egida di Corea del Sud e Stati Uniti — in conclusione quindi, paradossalmente e con una buona dose di cinismo da Realpolitik — è lecito convenire che un subitaneo crollo del regime sia un’ipotesi indesiderata per tutti gli attori coinvolti. E allora tanto vale tenersi Kim!». Scenari ipotetici che però, dopo l’attacco russo all’Ucraina, si possono trasformare in realtà alle porte della stessa Europa, vista l’affermazione del presidente Biden, tre giorni dopo l’inizio dell’aggressione russa, in base alla quale «l’alternativa alle sanzioni (poste in essere da Washington e Bruxelles contro la Russia di Putin) è la terza guerra mondiale».
«A Failure in the Falklands»
NAVAL HISTORY, MARCH - APRIL 2022
A quarant’anni «dalla tragedia che ha segnato una generazione e ha ribaltato una dittatura nell’improbabile annessione di un pugno di isole sperse nell’Atlantico», colonia britannica da quasi un secolo e mezzo, la testata in parola rievoca la Guerra delle Falkland –Malvinas, lanciata dall’ultimo dei presidenti golpisti argentini, Leopoldo Galtieri, con l’Operazione Rosario e fallita, 74 giorni dopo, con la proclamazione della vittoria nella riconquista dell’arcipelago da parte della Londra di Margaret Thatcher. Il bimestrale di storia del Naval Institute di Annapolis entra infatti nel vivo della guerra navale con l’articolo di Steven Iacono, nell’assunto che «raramente negli annali della storia militare la perdita di una nave, in particolare una nave mercantile, ha avuto un tale impatto sul corso della battaglia come ha fatto l’affondamento della SS Atlantic Conveyor durante la guerra delle Isole Falkland», una portacontainer da 15mila tonnellate adattata per funzionare come ponte di volo aggiuntivo per elicotteri e jet a decollo e atterraggio verticale Harrier. L’autore esamina le dinamiche tattiche della tragica giornata del 25 maggio 1982, in cui l’Atlantic Conveyor venne colpita da due missili Exocet, sicché «anche se il trasporto rimase a galla per tre giorni, il fuoco al suo interno era incontrollabile, e la detonazione di materiali esplosivi sottocoperta alla fine fece esplodere la sua prua. Dodici vite furono perse e la nave affondò con tre elicotteri Chinook e sei Wessex. Casualmente [e fortunatamente!], i 14 jet Harrier che [la portacontainer] trasportava erano stati trasferiti alle due portaerei inglesi solo pochi giorni prima». Di qui da parte dell’autore si leva un atto d’accusa contro la miopia della politica e della strategia navale britannica dei decenni precedenti che credeva, tutt’al più, di doversi impegnare a fianco degli alleati della Nato contro l’Unione Sovietica in teatri marittimi viciniori alle sue coste (se la guerra «fredda» fosse degenerata in guerra «calda») e non certo da sola in scenari distanti ottomila miglia dalla madrepatria dove l’aviazione navale e le relative piattaforme di lancio avrebbero necessariamente giocato un ruolo fondamentale. E fu una vera fortuna che la Royal Navy disponesse al momento ancora di due portaerei (con 20 Harrier), di cui l’una (HMS Invincible) era già stata venduta all’Australia anche se non ancora trasferita e l’altra (HMS Hermes) era avviata alla demolizione! Donde il supporto fondamentale di unità mercantili (l’Atlantic Conveyor era stata caricata con 14 Harrier, diverse centinaia di bombe per aerei e 80 tonnellate di cherosene), senza però essere munita di sistemi di autodifesa adeguati nonché del necessario addestramento del personale mercantile. La lezione di fondo che ne mutua l’autore è che una politica e una strategia navale per essere vincenti devono soprattutto essere «lungimiranti» nel senso che devono prevedere, tous azimut, gli scenari possibili legati alla tutela degli interessi nazionali del paese dovunque essi siano.
Ezio Ferrante
RECENSIONI E SEGNALAZIONI
Andrea RICCARDI (a cura di)
La Chiesa brucia
Crisi e futuro del Cristianesimo
Ed. Laterza Bari 2021 pp. 248 Euro 20,00
Il professor Andrea Riccardi non ha di certo bisogno di presentazioni: insigne studioso di storia del cristianesimo contemporaneo e fondatore della ben nota «Comunità di S. Egidio», attualmente è presidente della «Società Dante Alighieri» e rappresenta una delle voci più autorevoli dell’intellighenzia cattolica italiana e internazionale.
L’interesse della Rivista Marittima nel recensire la sua ultima fatica intellettuale è dovuta a una semplice ragione: la Chiesa cattolica è, da sempre, protagonista attiva della geopolitica e dunque un libro come questo s’impone inevitabilmente all’attenzione della nostra Rivista.
Al fine di dare contezza al lettore, la monografia è articolata in dieci capitoli come segue. Cap. I - Una Chiesa che brucia (pp. 3-38); Cap. II - La Chiesa europea in difficoltà (pp. 39-64); Cap. III - Nazional-cattolicesimo, evangelizzare o che altro? (pp. 65-95); Cap. IV - Al cuore della crisi (pp. 96-133); Cap. V - Giovanni Paolo II: eccezione o illusione? (pp. 134-152); Cap. VI - La franche crisi e il Papa che viene da lontano (pp. 153167); Cap. VII - L’Italia del Covid-19 e la Chiesa nel 2020 (pp. 168-188); Cap. VIII - Un mondo cristiano in transizione (pp. 189-209); Cap. IX - Il mondo, l’Europa e i popoli in movimento (pp. 210-218); Cap. X - C’è futuro? (pp. 219-242); indice dei nomi (pp. 243-248).
Il volume si apre con l’incendio della cattedrale di Notre Dame, episodio del 2019 che diviene un simbolo, vivente e parlante, per le riflessioni che lo stesso autore non esita a sintetizzare con la domanda di fondo che percorre tutto il volume, ossia: qual’è il futuro del cristianesimo e in particolare della Chiesa cattolica (p. 219).
A tale domanda l’autore risponde ripercorrendo e affrontando vari «nodi» quali quelli espressi in ciascun capitolo, ma che si possono riassumere come «crisi» e «senso della crisi». Osservando i dati e i fatti è innegabile constatare che la Chiesa stia vivendo un periodo di criticità, dovuta a varie ragioni, in primis, l’attuale carenza di cultura storica che «[…] nella valutazione dei fenomeni ha condotto a un impoverimento della comprensione della realtà» (p. 123). A questa deve sommarsi il vertiginoso calo delle vocazioni e crisi del clero, il cui effetto è — e sarà — la chiusura delle opere religiose; in parallelo vi è anche una crisi del modello d’autorità (una crisi questa che parte da lontano, dalla «rivoluzione» antropologica del ‘68, in cui si è affermato l’«io senza maestri»).
La Chiesa contemporanea si trova dunque in mezzo a una società che ha visto da un lato il declino della religione e dall’altro una tendenza a forme di integralismo o di settarismo, per cui «Il cristianesimo storico presenta indici di declino. Ma la religione si sviluppa attraverso nuove forme d’origine recente e cerca di rispondere alle domande di donne e uomini spaesati in un orizzonte globale o nel quadro di un nuovo urbanesimo» (p. 133). L’analisi che Riccardi compie è rigorosa, attenta, piena di riferimenti storici e densa di pensiero; un libro dunque che fa riflettere e pensare in profondità.
Su questo scenario si inserisce l’azione del pontificato attuale che — secondo l’autore — inaugura processi più che realizzarli (p.166); questo forse il motivo per cui il presente pontificato è oggetto spesso di «critiche» o di scetticismi. Ma lo storico attento riesce però a cogliere la profondità del messaggio di Papa Francesco, che l’autore non esita a definire come «sorpresa» in quanto il suo messaggio appare «diverso da altri registri religiosi del passato» (p. 228). Certamente vi è un quid novi nell’azione e nel pensiero di Papa Francesco, ma allo stesso tempo vi è anche — come sottolinea l’autore stesso — una linea di continuità con i suoi predecessori, per esempio sul tema delle migrazioni (i cui antecedenti risalgono all’Exul familia di Pio XII del 1952). È ancora troppo presto per dare un giudizio, ma l’azione papale ha in sé già evidente un tratto chiaro di geopolitica religiosa, si pensi, a titolo d’esempio, all’accordo di fraternità del 2019 tra Papa Francesco e il grande imam Ahmad al-Tayyib dell’Università al-Azhar del Cairo.
Il professor Riccardi offre, con sapienza e maestria, al-
l’interno dei vari capitoli, numerose riflessioni e considerazioni che toccano in profondità molti punti; impossibile in una breve recensione sunteggiare tutto ovviamente.
La lettura del libro del professor Riccardi è dunque una lettura multilivello: dagli aspetti «geopolitici» a quelli socio-religiosi, toccando necessariamente anche gli elementi teologici.
In estrema sintesi il pensiero dell’autore si concretizza maggiormente nel capitolo conclusivo che apre le porte a una speranza non solo del Cristianesimo ma del mondo. In un’Europa che non è più geopoliticamente centro ma quasi periferia e che è decisamente meno cristiana, nelle forme e negli atteggiamenti ma anche nei numeri (si pensi per esempio alla Spagna che da «cattolicissima» è diventata laicissima), resta però un sentimento ancora oggi di cristianesimo che in certi casi rischia di diventare addirittura fattore meramente politico (si pensi al nazional-cattolicesimo ungherese o a quello polacco). Dunque la soluzione o le soluzioni alla crisi della Chiesa contemporanea non sarebbero da rintracciarsi in eventuali riforme, bensì dal coraggio di professare e annunciare il Vangelo. Crisi non significa débâcle, bensì necessità di «vivere evangelicamente la crisi» (p. 235) e, come ricorda Papa Francesco, «chi non guarda la crisi alla luce del Vangelo, si limita a fare l’autopsia di un cadavere». In finale l’autore riporta l’esempio di padre Men (pp. 238 ss.), ultimo presbitero trucidato dal KGB, un anno prima del crollo dell’Unione Sovietica, un esempio di speranza che guarda al futuro. La speranza cristiana non è un generico ottimismo, o una inconsapevole aspettativa nel futuro, bensì un atteggiamento di fiducia nel fatto che il Cristo si sia incarnato; dunque il messaggio cristiano è di speranza, di amore, poiché tutto può cambiare e, come detto dall’autore stesso nelle prime pagine del volume, «niente è assicurato nella storia. Anche per la Chiesa».
La Rivista Marittima esprime particolari rallegramenti e felicitazioni al professor Riccardi per questa sua ultima fatica, che costituisce un testo che certamente farà discutere e poiché induce riflessioni notevoli non solo sulla Chiesa ma, implicitamente, anche sulla contemporanea civiltà occidentale.
Danilo Ceccarelli Morolli
Vincent P. O’HARA (a cura di)
Lotta per il mare di mezzo
U.S.M.M. Roma 2022 pp. 400 Euro 18,00 (Rid. € 12,00)
Uscito negli Stati Uniti nel 2009 per i tipi del prestigioso Naval Institute di Annapolis e più volte ristampato, Struggle for the Middle Sea è un classico. Ottima, quindi, l’idea di tradurlo in italiano per tre eccellenti motivi.
Il primo, mai abbastanza apprezzabile, è quello di una necessaria modernizzazione della storia navale nostrana, grazie a un puntuale aggiornamento a livello internazionale. Solo il confronto tra le varie culture — prima ancora di quello tra le differenti versioni proposte dalle varie Marine coinvolte in quel crocevia del mondo che è, da sempre, il Mediterraneo — può davvero giovare alla reciproca comprensione e a un sereno giudizio in merito a quei tempi di ferro, i quali sono alla base, nel bene e nel male, del mondo di oggi.
Il secondo, altrettanto importante, consiste in una questione di metodo. Laureato in storia, anche se cartografo di professione, Vincent O’Hara rispetta quelle che sono le regole vere della storiografia: dal confronto critico delle fonti alla pretesa, giustificata, di basarsi sugli originali e non sui troppo facili — e spesso moraleggianti — resoconti postbellici (spesso di parte, quando soprattutto a scrivere furono i vincitori), scritti a bocce ferme assegnando per sempre ai protagonisti, maggiori o minori, di quei drammi, ruoli e parti immutabili e stereotipate.
La ricchezza delle note e della bibliografia, ben 30 e passa pagine redatte con la puntigliosità propria delle università anglosassoni, parlano da sole, al pari dell’uso, ben padroneggiato, degli archivi e delle fonti britanniche, italiane, statunitensi, tedesche e francesi.
L’autore di questa recensione ha già scritto, oltre 10 anni fa e su queste stesse pagine, in merito all’origine
e alla natura di questo libro nella sue veste originaria in lingua inglese. Posso pertanto testimoniare personalmente circa l’attenzione spinta fino allo scrupolo da parte dell’autore e la lunga gestazione di quello che è diventato, da allora, il punto di riferimento (e di partenza) dell’attuale storia navale anglosassone, come confermano gli altri volumi di O’Hara e le sue apprezzate collaborazioni alle maggiori testate statunitensi, britanniche e italiane del settore storico navale, oltre alle relative traduzioni in spagnolo e in cinese.
Il terzo motivo di soddisfazione consiste, infine, nel fatto, punto e semplice, che siamo davanti a un’opera migliore dell’originale. L’autore non si è cullato sugli allori, ma ha proseguito col proprio collaudato metodo. Le fonti, pertanto, non bastano mai; nulla deve essere dato per scontato e il quadro strategico va costantemente aggiornato sulla base, inevitabile, delle vicende tattiche. L’aveva già detto, due secoli fa, von Clausewitz, generale prussiano e padre della polemologia. È bene, tuttavia, ripeterlo in un tempo in cui, da un lato, la guerra sta tornando alla ribalta in Europa e, dall’altro, troppi commentatori improvvisati si affannano a tranciare giudizi non richiesti e analisi improbabili. Eppure, come ha ben insegnato per decenni, proprio sulla Rivista Marittima, il grande Aldo Fraccaroli, la forma è sostanza, per tacere del fatto che le parole hanno significati e valori precisi e che il pubblico, si tratti del lettore cosiddetto comune o del legislatore, ha in un caso il diritto — e, nell’altro, il dovere — di essere informato e messo in condizione di trarre le proprie conclusioni, senza trucchi e con tutti i possibili (e aggiornati) riferimenti del caso.
Un esempio per tutti. Vincent ha riscritto, tra l’altro, sulla base della rigorosa revisione professionale del testo fatta dell’ammiraglio Marco Santarini, la parte relativa all’azione di Gaudo del 28 marzo 1941. Prima del 2009 il riferimento obbligato era rappresentato dalla descrizione di quella vicenda dato alle stampe nel 1946 dall’ammiraglio Angelo Iachino, Comandante superiore in mare della Squadra. Rintracciati, per l’occasione, i vari rapporti di tiro, è emerso un quadro piuttosto differente e, mediante un intenso scambio di corrispondenza attraverso l’Atlantico, è stato possibile giungere, alla fine, a un quadro diverso e nuovo. Né si è trattato di un episodio isolato.
Beninteso: non mancheranno le critiche, in quanto O’Hara ha idee piuttosto precise circa i ruoli rivestiti, tra il 1940 e il 1945, dalle varie Marine coinvolte e in merito ai momenti cruciali davvero significativi di quel conflitto, rifiutando in tal modo il copia e incolla che ha afflitto, per troppo tempo, certe opere (tutte uguali tra loro) apparse di qua e di là della Manica. I fatti, però, sono fatti e tali restano. Quello che veramente conta, come sempre succede in democrazia e in editoria, è il giudizio, inappellabile, del lettore che è l’unico veramente importante e al quale corre l’obbligo prima di tutto morale e poi storico di narrare la verità senza pregiudizi di parte! La risposta anglosassone e, diciamolo pure, financo il ripensamento culturale maturato in seguito all’uscita di questo libro di Vincent O’Hara è stata radicale: un giro di boa. Certo non sono mancati i difensori di alcune vecchie vulgate propagandistiche o celebrative, ma si tratta di una ristretta minoranza. Il lettore sereno che è già a parte della materia non può che trovare motivi d’interesse e di curiosità leggendo questo volume, scritto bene e ben tradotto. Il lettore pignolo formulerà, a sua volta, qualche piccola osservazione. Forse perché attenti a rispettare al massimo il testo originario, i curatori non hanno pensato, tanto per citare un caso, di rendere l’«Antikythira Strait» nell’italiano Canale di Cerigo che gli italiani, a partire dai diportisti, conoscono con quel nome da un paio di millenni. Anche le didascalie dei quadri di Claudus utilizzati, con ottimo gusto, per arricchire il volume rispetto all’edizione statunitense, hanno risentito di un rispetto fin troppo rigido nei confronti dei titoli con cui sono state catalogate oltre mezzo secolo fa, alcune tele. Si tratta di dettagli minori nell’ambito di un formato editoriale ricco, elegante, pratico e molto curato. Una conferma che il motto di O’Hara e dei veri cultori: «Provando e riprovando» (alias Dante, alias quello della Accademia fiorentina del cimento, prima istituzione galileiana della storia) è quello giusto.
Enrico Cernuschi