22 minute read
La svolta navale di Israele
Lorenzo Vita
Il Mediterraneo orientale rappresenta uno dei teatri più interessanti e che pongono più interrogativi per i suoi potenziali sviluppi strategici. Le scoperte di nuovi giacimenti di gas, le rotte commerciali che legano Oceano Indiano e Mediterraneo, l’ascesa di antiche e più recenti potenze regionali, il ripensamento strategico delle grandi potenze come Russia e Stati Uniti e l’inserimento di una nuova forza, quella cinese, nel contesto mediorientale e del Levante, hanno imposto all’attenzione del mondo un’area che sembrava contraddistinta dalla sua conflittualità rivierasca.
Advertisement
Giornalista professionista. Laureato in Giurisprudenza, ha conseguito un master in Geopolitica e sicurezza globale presso l’Università La Sapienza di Roma. Ha seguito corsi di specializzazione su terrorismo internazionale e guerre ibride presso la SIOI e su paesi ad alto rischio e sicurezza personale presso ISPI. Nella redazione de il Giornale e InsideOver dal 2017, si occupa di politica estera e internazionale. È autore del libro L’onda turca. Il risveglio di Ankara nel Mediterraneo allargato (Historica-Giubilei Regnani, 2021).
Questa miscela esplosiva fatta di vecchie e nuove sfide (e tensioni) ha condotto a una recente dinamicità da parte degli Stati che si affacciano sul bacino orientale del Mediterraneo e che hanno concentrato i loro sforzi sulle opportunità e sui pericoli di questa regione. Basti pensare alla Turchia, attore che sta promuovendo la sua marittimità attraverso l’assertiva dottrina di «Mavi Vatan» («Patria blu»); o all’Egitto, che sta confermando il rafforzamento della propria potenza navale insieme a un rinnovato interesse per le problematiche regionali. Infine, non va dimenticata la nascita di una nuova piattaforma di cooperazione, se non di una vera e propria alleanza, tra Grecia, Cipro, Israele ed Egitto. Un’alleanza che si è costruita in larga parte per tutelare gli interessi sul gas e in contrapposizione alle ambizioni turche nell’area e che ha ottenuto il sostegno di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, oltre che il placet statunitense e in parte francese e dell’Unione europea.
Queste attività strategiche più recenti, unite a un già delicato equilibrio mediorientale, hanno fatto sì che tutta l’area del Mediterraneo orientale si sia ritrovata coinvolta in una fase di profonda e pericolosa instabilità. Una condizione in cui Israele, per la sua posizione di principale partner occidentale dell’area esterno alla Nato, assume un ruolo estremamente importante. Ruolo fondamentale non solo per la centralità dello Stato ebraico negli annosi problemi di sicurezza che coinvolgono tutto il Medio Oriente, ma anche perché Gerusalemme si trova a essere una sorta di termometro geopolitico della sicurezza del Mediterraneo orientale, rappresentando di anello di congiunzione tra i rischi connessi tradizionalmente al territorio del Vicino Oriente e le nuove sfide connesse al Mare Nostrum nel contesto del «secolo blu».
L’ascesa della Marina tra le Forze armate israeliane
La Marina dello Stato ebraico è la cartina di tornasole di un paese che si è aperto definitivamente al mare dopo decenni in cui sembrava essere profondamente ancorato a una proiezione terrestre e alle logi-
Formazione navale della Marina israeliana (idf.il).
che tipiche delle guerre che lo coinvolgevano e da cui è circondato.
La Marina dello Stato di Israele è stata considerata per molti decenni come la terza forza, in ordine di importanza, delle Israel Defense Forces (IDF). Per diverso tempo la Heil HaYam HaYisraeli è stata ritenuta importante ma con compiti di esclusiva difesa delle proprie coste se non simili a quelli di un corpo di controllo delle acque territoriali. E una prova di questa scarsa rilevanza nell’agenda dei governi è data dal fatto che, come ricordato da Giovanni Martinelli su Analisi Difesa: «dei 22 capi di Stato Maggiore della Difesa israeliani, ben 21 sono provenuti dalle fila dell’Esercito e uno dall’Aeronautica» (1). Nessuno dei vertici della Difesa israeliana ha avuto quindi un passato nella Marina.
Le ragioni, dal punto di vista storico, sono molteplici. A livello tecnologico e finanziario, Israele nella sua prima fase di esistenza dopo il 1948 non aveva le capacità né le conoscenze per creare e gestire una flotta moderna e già in grado di combattere. Costruire una Marina, pur con l’aiuto di diversi partner internazionali, non è un qualcosa che si può inventare da un momento all’altro. Tuttavia, se gli ostacoli fossero stati meramente quelli della ricerca di finanziamenti e di «know-how», questi sarebbero stati molto probabilmente superati qualora le esigenze dei primi governi israeliani si fossero dovuti concentrare sul dominio marittimo. La necessità di affrontare un problema e dominarlo è, infatti, la chiave per qualsiasi tipo di evoluzione bellica in seno a uno Stato. Ed è chiaro che l’approccio strategico di un qualsiasi paese vari a seconda del tipo di minaccia che si deve affrontare e delle azioni che devono essere introdotte per evitare che l’ostacolo — sia esso un nemico o un problema di natura strutturale — possa limitare il perseguimento degli interessi nazionali.
Israele, come confermato anche dal nodo del nucleare, quando ha potuto e voluto consolidare le proprie aspirazioni e imporre una propria posizione dominante all’interno del quadrante mediorientale, lo ha fatto in tempi rapidi e con un imponente dispiegamento di mezzi e di uomini. Ma sul fronte marittimo, la necessità di una rapida crescita delle Forze armate israeliane non sembrava essere un’urgenza. E quello che ha reso per certi versi secondario lo sviluppo di una Marina molto efficiente, quantomeno alla pari di esercito e aeronautica, è stato principalmente il tipo di nemici che doveva affrontare lo Stato ebraico nei primi anni di vita e nei decenni successivi.
Israele si è considerato per molto tempo minacciato nella propria esistenza esclusivamente in rapporto ai vicini che lo circondavano, cioè gli Stati arabi. E questo pericolo consisteva, come poi del resto avvenuto, in possibili invasioni via terra. Erano i confini a nord, a est e a sud a risultare i più a rischio per gli strateghi israeliani, o al limite il fronte interno palestinese. E questo ha fatto sì che le risorse
La motovedetta per missili guidati della
marina israeliana INS HETZ classe «Sa'ar 4.5»
(wikipedia.org).
del paese fossero messe al servizio di un efficientamento complessivo della componente terrestre e aerea e dell’intelligence. Forze che potessero fornire immediatamente capacità di contrasto alle truppe degli Stati arabi, di controllo dello spazio aereo e di prevenzione delle minacce esterne e terroristiche. Inoltre, gli Stati con cui Israele si interfacciava come avversari erano in larga parte privi di flotte tali da potere essere ritenute minacce di fondamentale importanza. Il bacino del Levante si presentava con forze tendenzialmente legate al fattore terrestre, al limite costiero, ma difficilmente esistevano Marine utilizzate come veri «game-changer» nella politica regionale.
Il fattore commerciale
L’importanza della Marina israeliana si è così evoluta in base ai cambiamenti che hanno caratterizzato da un lato gli stessi interessi nazionali di Gerusalemme, che nel tempo si sono modificati aprendosi proprio al dominio marittimo, dall’altro lato gli avversari dello Stato ebraico.
Per quanto riguarda il primo fattore, cioè quello degli interessi economici di Israele nel Mediterraneo, è possibile evidenziare in particolare due tipi di esigenze che nel tempo si sono rivelate sempre più centrali nelle logiche degli strateghi israeliani: quella commerciale e quella energetica.
Dal punto di vista commerciale, Israele è uno Stato che dipende dall’import-export via mare. Gli Accordi di Abramo hanno avviato una fase di trasparenza e rasserenamento dei rapporti con molti paesi arabi, in particolare quelli del Golfo, e hanno evidenziato un nuovo approccio nelle relazioni tra Israele e alcuni dei principali attori regionali. Ma a livello di vicinato, i problemi di Gerusalemme sono quelli di non riuscire a costruire delle relazioni stabili con paesi attraverso cui dovrebbero passare le infrastrutture per soddisfare il proprio fabbisogno. E oltretutto, di dovere interloquire con economie che non rappresentano né mercati né potenze tali da alimentare in modo sensibile il commercio del paese. Queste due condizioni implicano che i governi della Stella di Davide si trovino necessariamente a dover fare i conti con paesi con cui hanno rapporti complessi, se non in parte conflittuali, e non in grado di sostenere l’economia israeliana attraverso gli scambi commerciali. Israele deve dunque rivolgersi all’esterno della cerchia dei vicini. E per farlo, l’unica via è quella marittima: in particolare quella del Mediterraneo. Un dato che può essere ben sintetizzato dai numeri. Secondo quanto affermato dal ministero dei Trasporti, il 98% del commercio israeliano con l’estero avviene via mare, in particolare attraverso i porti di Haifa, Ashdod ed Eilat. E, spiega sempre il Governo di Gerusalemme, «nell’ultimo decennio la quantità di merci che passa attraverso i porti israeliani è raddoppiata e si può presumere che questa tendenza continuerà con l’ulteriore espansione del commercio internazionale» (2).
Il gas del Levante
A questa esigenza di carattere commerciale, che ha portato Israele a dover rendersi sempre più consapevole della sicurezza del traffico marittimo e dei porti, si è aggiunta poi di recente la scoperta dei giacimenti di gas nel bacino del Levante. La presenza di giacimenti quali Leviathan, Tamar, Tanin, Karish, Mari-B e Noa, oltre al conteso campo di Gaza Marine di fronte alle coste della Striscia di Gaza, ha modificato radicalmente l’approccio di Israele nei confronti del Mediterraneo, dal momento che ora il controllo di quell’area è un punto fondamentale dell’intera agenda strategica del paese. Importanza data innanzitutto dallo sfruttamento diretto delle risorse estratte allo scopo di soddisfare il proprio fabbisogno energetico, visto che, come scrive un’analisi di Ispi, «l’attuale riserva offshore di gas di Israele è stimata a circa 900 miliardi di metri cubi (bcm), in grado di rendere il paese autosufficiente dal punto di vista energetico per diversi decenni» (3). Ma in secondo luogo, il controllo di quei giacimenti e lo sviluppo delle capacità di estrazione è importante anche in ottica di vendita di quanto racchiuso nei fondali, non solo per motivazioni economiche, ma anche al fine di blindare l’asse con la vicina Europa, i clienti nordafricani e mediorientali e anche con quelli attraverso cui dovrebbe transitare l’oro blu estratto nel bacino del Levante. Basti pensare che proprio grazie alla scoperta del gas nei giacimenti dell’area marittima sotto il proprio controllo, Israele ha potuto siglare un accordo con
l’Egitto per esportare gas naturale verso il paese nordafricano che ha rivoluzionato i rapporti politici ed economici della regione. Fino ad alcuni anni fa era Il Cairo a cedere il proprio gas naturale al vicino (4). E questo dimostra come la scoperta di questi nuovi giacimenti
possa rovesciare anche delle logiche e delle gerarchie regionali che sembravano ormai cristallizzate.
Dal momento che l’energia, soprattutto in questa fase storica, è una chiave essenziale per comprendere le logiche geopolitiche che alimentano le decisioni dei governi mondiali, dal tema dei rapporti con la Russia e la diversificazione delle fonti energetiche europee, fino alla transizione ecologica, va da sé che il controllo e la successiva messa in sicurezza delle aree estrattive — per altro così importanti — non può che essere considerata prioritaria per qualsiasi esecutivo dello Stato ebraico.
Le minacce più prossime al territorio israeliano
La tutela degli interessi strategici israeliani nel Mediterraneo si unisce, inevitabilmente, ai problemi legati ai nemici dello Stato ebraico e all’evoluzione che essi hanno avuto anche nel contesto marittimo.
Un primo livello di minacce è rappresentato da quelle che sono le entità nemiche più prossime al territorio israeliano, e cioè le milizie e le organizzazioni terroristiche che circondano il paese. Hamas, la Jihad islamica e Hezbollah, in modo diverso e con differenti approcci, hanno dimostrato di poter minacciare lo Stato di Israele non solo dai tradizionali bastioni in Libano e nei territori palestinesi, ma anche dal mare verso il territorio nazionale e dalle coste verso le postazioni offshore per l’estrazione del gas. Un tema centrale per l’economia israeliana, tanto che non a caso negli ultimi anni la propaganda del partito-milizia libanese ha più volte fatto riferimento proprio ai giacimenti israeliani come possibili obiettivi di attacchi missilistici.
Avere un oggetto così prezioso e alla mercé degli attacchi implica per i decisori israeliani la necessità di difendere a ogni costo quelle piattaforme. L’arsenale missilistico di Hezbollah, unito alle capacità di guerriglia navale che possono applicare sia Hamas che la Jihad islamica, possono essere armi estremamente letali contro i sistemi di estrazione e trasporto del gas nelle acque israeliane. Pericoli cui si aggiungerebbero anche quelli derivanti dalle milizie dei Pasdaran iraniani, delle forze Quds, che sono presenti in particolare in territorio libanese insieme al «Partito di Dio» ma anche nella non lontana Siria. A queste minacce, si uniscono anche gli interessi che, proprio sul fronte gasiero, dividono (o hanno diviso) lo Stato ebraico dai vicini in cui vivono queste organizzazioni. Sul lato palestinese, la questione di Gaza Marine, il giacimento al largo della Striscia, rappresenta un punto interrogativo non secondario nei rapporti tra Israele e l’Autorità nazionale palestinese ma soprattutto sul futuro delle relazioni tra gli sponsor dei Territori palestinesi e della pacificazione con Gaza. Mentre per quanto riguarda la disputa sul gas al confine delle acque territoriali libanesi e israeliane, il recente processo di negoziati per risolvere la controversia tra Beirut e Gerusalemme (pare col placet di Hezbollah) implica che nel Partito di Dio il tema dello sfrutta-
mento del gas nel mare non è sconosciuto. E quindi la sicurezza del Mediterraneo orientale può diventare una leva negoziale di non poco conto.
Proprio per questi motivi, Israele ha iniziato da diverso tempo a riflettere su uno strumento di prote-
zione della fascia costiera e dei giacimenti offshore del Mediterraneo. Questa pianificazione si è tradotta nel sistema di difesa aerea C-Dome, una versione navale del noto Iron Dome utilizzato per contrastare gli attacchi missilistici sul territorio israeliano. Il sistema C-Dome, testato a febbraio del 2022 (5), è progettato per essere installato sulle corvette di ultima generazione classe «Sa’ar 6». Temi che, come vedremo più avanti, possono dimostrare il mutamento radicale dell’approccio di Israele con il Mediterraneo anche a livello dottrinale.
Il duello con l’Iran
Nella lettura delle entità che rappresentano le maggiori minacce strategiche per Israele, è possibile procedere a un’analisi per cerchi concentrici. A un primo livello, come abbiamo già visto, è possibile individuare quelle organizzazioni che si trovano al ridosso dei confini dello Stato ebraico e della sua Zona economica esclusiva.
Ma allargando la visuale sugli altri avversari, distanti dalla linea della frontiera ma vicini in termini di rapporti di forza e di interessi, è possibile trovare diverse entità statali che possono mettere a serio rischio l’espansione degli interessi israeliani in mare.
In questi anni, un ruolo di primo piano se lo è senza dubbio ritagliato la Repubblica islamica dell’Iran. Ed è anche per i pericoli connessi alle attività navali iraniane che la Heil HaYam HaYisraeli si è dovuta dotare di una nuova dottrina strategica capace di tutelare i propri asset marittimi. Nel corso degli ultimi anni, la Ma-
rina di Teheran, cui si deve aggiungere quella dei Guardiani della Rivoluzione, ha notevolmente ampliato la propria proiezione di forza, andando a estendere il raggio d’azione in un’area che va ben al di là del Golfo Persico (6). Il bacino che va dal Kuwait allo Stretto di Hormuz rimane inevitabilmente il cuore della dottrina navale iraniana; tuttavia, non va sottovalutato l’allargamento del raggio operativo che si è concretizzato in quella «guerra ombra» tra Gerusalemme e Teheran dal Mare Arabico fino al Mar Rosso allo stesso Mediterraneo orientale.
Se la Marina della Repubblica iraniana è un elemento importante e che rappresenta inevitabilmente un fattore decisivo nella tutela degli asset marittimi degli Ayatollah, è però la forza navale dei Pasdaran a essere quella più oggetto di attenzione da parte di Israele, sia a livello navale che di intelligence. Lo dimostrano anche i colpi messi a segno di recente proprio in questo conflitto sotterraneo che si è acceso tra i due paesi. Nel tempo, la divisione dei compiti tra le due marine facenti capo a Teheran si è andata assottigliando. La commistione politica e strategica ha infatti superato le tipiche distinzioni geografiche che hanno codificato le rispettive modalità di azione. E se è possibile osservare delle differenze dottrinali notevoli, specialmente per chi è impegnato nel mare Arabico e nel Golfo di Oman e chi,
Il giacimento di gas a largo della costa di Gaza, noto come
Gaza Marine (infopal.it).
invece, nello Stretto di Hormuz, non va dimenticato che sabotaggi e attacchi tra Israele e Iran hanno coinvolto aree dove prima non operavano le unità dei Guardiani della Rivoluzione (7).
La sfida turca
Alla forza dell’Iran, si deve aggiungere poi la crescita di un altro paese dell’area del Mediterraneo orientale, la Turchia. Come attore esterno ma partner dell’Alleanza Atlantica, Israele non può considerare il paese anatolico formalmente un alleato né un nemico. E questo comporta l’osservazione dell’aumento delle attività in mare di Ankara come di un fattore di rischio, se non di minaccia per i propri asset strategici marittimi.
In questo senso, è opportuno ricordare come la Turchia, a livello marittimo, giochi su un triplice binario. Di base c’è la volontà di Ankara di ergersi a potenza regionale e marittima riconosciuta dal consesso regionale e internazionale. Una svolta rispetto alla tradizionale concezione «terragna» dell’agenda militare turca che si è estrinsecata nella dottrina nota come «Mavi Vatan». Collegata a questa rivoluzione marittima, si osserva una volontà di estendere sia le alleanze con i paesi un tempo parte dell’orbita ottomana (ma non solo) sia la costruzione di una serie di scudi protettivi per gli interessi nazionali in diverse aree del Mediterraneo, sia centrale che orientale. E questi due elementi, si uniscono a una sempre più evidente attenzione verso le ricchezze dei fondali del Mare Nostrum così come ai percorsi degli attuali e dei futuri gasdotti.
Queste diverse esigenze marittime turche hanno rappresentato le premesse per un notevole investimento sulla flotta e in generale sugli assetti militari, soprattutto attraverso l’industria nazionale. E questa proiezione navale di Ankara interessa Israele per due motivi. Innanzitutto, perché pur rappresentando un partner — complicato —, la Turchia ha giocato spesso sulla sponda dei movimenti islamisti, in particolare nella più recente fase di Recep Tayyip Erdogan al potere. La prossimità con Hamas, per esempio, evidenzia un equilibrismo tipico della politica estera turca che comporta per lo Stato ebraico la necessità di considerare l’ascesa di Ankara come quella di un paese non affine ai propri obiettivi. Inoltre, per Israele rimangono il nodo dello sfruttamento del gas del Levante e il parallelo passaggio dei gasdotti sui fondali contesi tra Turchia, Cipro e Grecia. L’avversione turca nei confronti del progetto East-Med, idea di gasdotto che ha visto un recente interesse ondivago da parte degli Stati Uniti, ha mostrato quanto Erdogan sia consapevole dell’importanza di questo asset strategico. E ha confermato come per gli interessi nazionali israeliani la svolta navale turca, se non incanalata, possa essere un rischio. Negli ultimi tempi vi sono state delle aperture dell’amministrazione anatolica nei confronti dello Stato di Israele — non ultima la visita del presidente Herzog in Turchia — e anche degli apparati strategici; aperture che dimostrano il desiderio di ricomporre la vecchia sinergia tra i due Stati tuttavia, i campanelli d’allarme hanno indotto il Governo israeliano a considerare una complessiva instabilità del Mediterraneo orientale anche per l’ascesa dell’antica potenza ottomana.
Il «problema» egiziano
Sebbene l’Egitto sia considerato ormai a tutti gli effetti un partner di Israele, non deve essere sottovalutato, come nel caso della Turchia, il nodo insito nel riarmo del Cairo. Un fenomeno che deve essere letto alla luce di tutto il processo che si è innescato nel Mediterraneo orientale. La Marina egiziana, grazie a una serie di contratti con diversi fornitori internazionali, ha avviato da tempo un repentino processo di modernizzazione della propria flotta, rafforzando componenti navali che sembrano anche in parte estranee agli obiettivi pubblicizzati dal Governo nordafricano: cioè quelli della difesa delle risorse energetiche e della lotta al terrorismo.
Diversi analisti israeliani hanno precisato che questo riarmo della flotta del Cairo non indicherebbe un rischio diretto per lo Stato ebraico (8). Alcuni però evidenziano che una parte dell’opinione pubblica dei due paesi potrebbe avere dei problemi a considerare il rispettivo e tradizionale rivale regionale come un partner, mettendo in luce quindi i rischi che la crescita delle forze in campo possa provocare delle nuove tensioni politiche. Dall’altro lato, il problema dell’Egitto è legato in particolare
all’attenzione sui pericoli di un dinamismo del paese nordafricano in un’area che per Israele è di vitale importanza, coinvolgendo in particolare il Mediterraneo, Suez e il Mar Rosso. Un Egitto che punta a essere una potenza del Mediterraneo allargato potrebbe innescare indirettamente delle minacce anche alla sicurezza israeliana, che deve necessariamente considerare come un problema qualsiasi tipo di escalation che possa coinvolgere l’area di riferimento per i traffici marittimi dello Stato ebraico e per le sue risorse energetiche. Il prossimo completamento di diversi programmi navali, sia per la componente di superficie che subacquea, unito alla costruzione di un nuovo porto militare al confine con la Libia e alle crescenti tensioni con i vicini della dorsale africana del Mar Rosso, potrebbero essere segnali di una possibile, per quanto non affatto certa, instabilità che coinvolgerebbe l’Egitto. Questione che, se per qualche esperto è già di suo pericolosa, lo sarebbe ancora di più nel caso in cui l’Egitto decidesse per una svolta da «forza trainante del mondo arabo» (9).
La svolta dei «Dakar» e della classe «Sa’ar 6»
La scelta di blindare gli interessi strategici in mare attraverso una crescita della forza navale si sostanzia, per Israele, attraverso due recenti sviluppi: il rafforzamento della componente sottomarina e la ricerca di una flotta di superficie sempre più adeguata alle nuove esigenze del paese.
Per quanto riguarda la parte dei sottomarini, la storia più recente di questa fondamentale arma dell’arsenale israeliano si traduce negli accordi con il colosso tedesco ThyssenKrupp Marine Systems. A gennaio di quest’anno, infatti, in un modo anche abbastanza sorprendente per gli addetti ai lavori, il Governo di Naftali Bennett e l’azienda tedesca hanno concluso il contratto per la fornitura di tre nuovi battelli che fa seguito a una intesa giunta nel 2017 (10). Queste unità,
La nuova corvetta israeliana classe «Sa'ar 6» in navigazione a largo delle coste di Haifa (Reuters/Ilan Rosenberg).
che compongono la nuova classe «Dakar», andranno a sostituire i più vecchi sottomarini — sempre tedeschi — di classe «Dolphin» e si uniranno a quelli prodotti in anni più recenti sempre da ThyssenKrupp e che costituiscono i «Dolphin-II».
In base agli studi dei più importanti analisti del settore, basati in larga parte sulle informazioni filtrate da Israele e dalle grafiche pubblicate dalla TKMS, è possibile notare alcune importanti differenze rispetto ai Dolphin-II (11). Una in particolare risalta di più all’occhio, e cioè la dimensione della vela: elemento che secondo molti esperti potrebbe essere la conferma che questi sottomarini trasporteranno missili balistici, per alcuni probabilmente armati con testate nucleari. Tuttavia, spiega a tal proposito l’analista H.I. Sutton, sulle dimensioni di questa vela «interpretazioni alternative includono una qualche forma di hangar per minisottomarini e veicoli subacquei senza equipaggio. Oppure missili più piccoli o velivoli senza equipaggio». Ipotesi che però lo stesso esperto ritiene meno probabili rispetto a quella dei missili balistici (12).
Alla svolta della classe «Dakar» si deve aggiungere poi quella precedente, e per certi versi anche più importante, delle nuove corvette classe «Sa’ar 6». Il programma ha una storia lunga, le cui radici affondano probabilmente già nei primi anni duemila. Ma come abbiamo visto in precedenza, è stata soprattutto la svolta delle scoperte dei giacimenti del Levante l’evoluzione delle flotte mediterranee a imporre l’accelerazione ai governi israeliani. E si può supporre, in base ai tempi di consegna delle navi, che il programma sarà completato nel 2024.
Secondo uno studio del Begin-Sadat Center for Strategic Studies, le nuove navi classe «Sa’ar 6» sarebbero non solo un elemento-chiave della modernizzazione della flotta, ma un vero e proprio simbolo della più recente e innovativa dottrina strategica di Israele (13). «Con la nuova strategia», spiega Yaakov Lappin nella sua analisi, «la Marina svolgerà un ruolo significativamente maggiore nel rilevare e ingaggiare rapidamente obiettivi nemici a terra. Il progetto Magen rappresenta quindi un balzo in avanti nelle capacità di difesa navale di Israele e un concetto di strategia navale evoluto progettato per il panorama delle minacce del 21esimo secolo». L’idea di base, infatti, è che l’arrivo delle nuove corvette rappresenterebbe in modo concreto l’avvento di una nuova strategia basata sul concetto di «Brown Water»: non più quindi una Marina che ha come dottrina strategica il colpire in mare aperto, nave contro nave, ma incentrata in larga parte su operazioni mare-
Rendering del sottomarino classe «Dakar» (ThyssenKrupp Marine Systems).
terra, quindi per difendersi e colpire le minacce provenienti dalla terraferma basandosi sulla totale interconnessione dei sistemi navali con quelli aerei.
A tal proposito, sono le armi e i sistemi a bordo delle classe «Sa’ar 6» a definire in modo più pratico questa idea. Le unità di fabbricazione tedesca sono infatti armate, oltre che con alcuni elementi internazionali, soprattutto con alcuni sistemi dell’industria bellica dello Stato ebraico, in particolare il C-Dome, appunto la «Cupola di ferro navale», il sistema missilistico Barak 8, e i missili anti-nave Gabriel V. A questi sistemi autoctoni si deve aggiungere la presenza dei più moderni sistemi per la guerra elettronica che consentono non solo lo scambio di dati con le altre Forze delle IDF ma anche una quasi completa capacità stealth. Lo scopo non è solo quello di armare una nave in modo da renderla il più possibile letale, ma creare le premesse per unità di superficie che siano in grado di operare in modo perfettamente integrato con le Forze aeree e terrestri, diventando non più solo imbarcazioni, ma vere e proprie piattaforme capaci di colpire obiettivi terrestri come elementi di un corpo unico quale appunto le IDF. Obiettivi che, viste le sfide che circondano Israele e soprattutto le sue risorse nel Mediterraneo, sono a questo punto considerati le minacce prioritarie per l’agenda strategica della Stella di Davide. 8
NOTE
(1) www.analisidifesa.it/2021/11/saar-6-e-reshef-levoluzione-della-flotta-di-superficie-della-marina-israeliana. (2) www.gov.il/en/departments/topics/large-vessels/govil-landing-page. (3) www.ispionline.it/it/pubblicazione/israele-la-nuova-politica-estera-parte-dal-gas-29356. (4) https://www.bloomberg.com/news/articles/2022-02-15/israel-to-boost-gas-supply-to-egypt-by-up-to-50-this-month. (5) https://www.defensenews.com/training-sim/2022/02/22/israel-successfully-tests-naval-version-of-iron-dome. (6) Come spiega un’analisi del centro studi Iari, in base agli studi dell’ammiraglio Ramoino è possibile ritenere che «l’attuale modus operandi della Marina iraniana è riconducibile alla strategia teorizzata dall’ammiraglio francese Théophile Aube (1826-1890), denominata «Strategia del trinomio». Essa era incentrata su: 1) difesa costiera, assicurata dal naviglio e dalle fortificazioni; 2) guerra di corsa, demandata agli incrociatori; 3) impiego delle corazzate». Non potendo l’Iran attuare, almeno nell’immediato, «forme credibili di sea-control, attua una strategia di sea-denial», tuttavia la graduale uscita dal «guscio» del Golfo Persico vista nella guerra in Siria, così come in operazioni scenografiche che hanno coinvolto il Mar Rosso, o addirittura il Venezuela e la Russia, individua nei comandi di Teheran un’evoluzione nella concezione del mare. Cosa che comporta anche una inevitabile rimodulazione dell’impegno israeliano nel Mediterraneo. (7) www.haaretz.com/israel-news/israeli-owned-ship-attacked-off-oman-u-k-defense-ministry-says-1.10056957. (8) www.defensenews.com/global/mideast-africa/2018/01/10/make-egypt-great-again-israeli-experts-question-neighbors-military-buildup. (9) www.defensenews.com/global/mideast-africa/2018/01/10/make-egypt-great-again-israeli-experts-question-neighbors-military-buildup. (10) www.agi.it/estero/news/2022-01-20/israele-sottomarini-tedeschi-chiusa-intesa-costo-doppio-15302104. (11) https://www.ilgiornale.it/news/mondo/israele-sottomarini-classe-dakar-produzione-2021-1661660.html (12) www.hisutton.com/Israel-Dakar-Class-Submarine.html. (13) https://besacenter.org/saar-6-israel-naval-doctrine.