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MARITTIMA MENSILE DELLA MARINA MILITARE DAL 1868
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* RIVISTA MARITTIMA *
NOVEMBRE 2015 - Anno CXLVIII
NOVEMBRE 2015
All’interno: PRIMO PIANO
Mito e realtà delle «guerre umanitarie» Massimo de Leonardis PANORAMICA TECNICO-PROFESSIONALE
Il regime giuridico delle navi da guerra affondate 10
Natalino Ronzitti
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MARITTIMA MENSILE DELLA MARINA MILITARE DAL 1868
NOVEMBRE 2015 - anno CXLVIII
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Editoriale
l Regional Seapower Symposium, tradizionale meeting internazionale tenutosi a Venezia alla fine di ottobre e giunto alla 10… edizione, ha permesso questÊanno ai rappresentanti di ben 38 marine militari e 7 organizzazioni mondiali di confrontarsi e affrontare in un unico ambito tutti i temi più significativi legati agli aspetti marittimi del Mediterraneo e del Mar Nero, dagli effetti dei cambiamenti climatici alla sicurezza marittima e la cooperazione tra le Marine alla luce dei significativi aspetti legati ai fenomeni dellÊimmigrazione e del terrorismo. In tale contesto giusta rilevanza è stata data alle operazioni condotte nel Mar Mediterraneo dalle Marine europee e dalla Marina Militare in particolare impegnata nellÊoperazione Mare Sicuro e nella missione Eunavfor Med Operation Sophia. QuestÊultima operazione, lanciata dallÊUnione Europea nel giugno scorso al fine di contribuire al contrasto dei contrabbandieri e dei trafficanti di esseri umani nel Mediterraneo Centrale, è entrata proprio lo scorso mese di ottobre nella ÿFase 2Ÿ, dopo una prima fase dedicata prioritariamente alle operazioni di intelligence volte a comprendere a pieno il modus operandi dei trafficanti. In particolare, le navi di Eunavfor Med Operation Sophia potranno ora procedere, nel rispetto del diritto internazionale, a fermi, ispezioni, sequestri e dirottamenti di imbarcazioni sospettate di essere usate per il traffico di esseri umani. E i primi risultati positivi non si sono fatti attendere: sotto il controllo operativo dellÊEU Italian Operational HQ, presso la sede del COI (Comando Operativo Interforze) a Roma, da quando la missione europea è diventata pienamente operativa, lo scorso 27 luglio, ai primi di novembre, sono stati individuati e consegnati alle autorità di polizia 42 sospetti trafficanti e ben 41 imbarcazioni sono state rese inefficaci e quindi non più nella disponibilità delle organizzazioni criminali. In aggiunta, le navi di Eunavfor Med hanno salvato più di 5.300 vite. Risultati, questi, che traggono origine dallÊintensa attività di intelligence condotta durante la prima fase dellÊOperazione, tema che si collega direttamente allÊarticolo del professor Baldacci nella sezione Primo Piano relativo alle strategie di comunicazione e di propaganda jihadista sui social network: lÊanalisi di internet quale strumento ampiamente utilizzato dai terroristi per diffondere la propria propaganda vuole allo stesso tempo stimolarci a trovare risposte adeguate utilizzando gli stessi mezzi. Un mondo dunque globalizzato, grazie non solo a internet e ai social media ma a interessi economici e finanziari che portano nazioni, un tempo interessate a curare unicamente i propri interessi a livello regionale, sempre più distanti dalle proprie aree geografiche: vedi il caso di Cina e India, le cui Marine Militari si sono affacciate negli ultimi anni sempre più spesso nei nostri mari, cosa non certo abituale nel passato, come si evince nellÊarticolo del dottor Da Frè, relativo allÊanalisi delle marine cinese e indiana e dei loro ambiziosi programmi navali. Unitamente al riapparire della marina russa in Mediterraneo, anche per il suo coinvolgimento nel conflitto siriano, tali nuove attività ci portano dunque a pensare a un mare sempre meno ÿNostrumŸ, come suggerito dallÊautore? In effetti, nonostante gli Stati Uniti potrebbero rivalutare il loro disimpegno degli ultimi anni nel Mediterraneo proprio per lÊaumentata presenza di navi da guerra e sottomarini russi nellÊarea, allo stesso tempo la centralità del bacino del Mediterraneo nello scenario internazionale e il significativo aumento di attività navali nello stesso non possono che chiamare lÊEuropa e lÊItalia ad assumersi crescenti responsabilità nella regione. Parallelamente non si può infine non ricordare che proprio a fine ottobre è partita lÊultima campagna navale di Nave Maestrale, che sta toccando tutti i principali porti italiani, prima della sua dismissione allÊinizio del prossimo anno: un periplo dellÊItalia dunque per la prima delle otto unità della classe ÿVentiŸ, fregate antisommergibile costruite a seguito della Legge Navale degli anni Settanta, rivelatesi ben presto multiruolo grazie allÊelevato grado di flessibilità dÊimpiego, e spina dorsale della flotta italiana per oltre trentÊanni, partecipando e conseguendo risultati di rilievo in tutte le più recenti operazioni della Marina Militare, dalla missione in Golfo Persico nei primi anni Novanta nellÊambito delle operazioni per la liberazione del Kuwait allÊoperazione Mare Nostrum nello stretto di Sicilia lo scorso anno a salvaguardia della vita umana in mare e a contrasto del traffico illegale dei migranti. Una carriera trentennale che inizia dunque ad avviarsi a conclusione per questa classe di fregate e che ci auspichiamo trovi nei programmi in corso di nuove costruzioni navali le giuste unità a cui passare il prezioso e oneroso testimone di tante attività di successo. Stefano Romano Rivista Marittima Novembre 2015
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Sommario PRIMO PIANO
10 Mito e realtà delle «guerre umanitarie» Massimo de Leonardis
16 Nuovi scenari per l’economia cinese Augusto Grandi - Daniele Lazzeri
SAGGISTICA E DOCUMENTAZIONE
62 Mino Milani e le grandi avventure di pace e di guerra Enrico Cernuschi
70 La navigazione a vapore sul fiume Po Mario Veronesi
STORIA E CULTURA MILITARE
76 I Dirigibili della Regia Marina Michele Cosentino
20 Strategie di Comunicazione e Propaganda Jihadista sui Social Network Massimo Baldacci
PANORAMICA TECNICO-PROFESSIONALE
34 Il regime giuridico delle navi da guerra affondate Natalino Ronzitti
86 Mers-el-Kébir Domenico Vecchioni
92 La caduta di Saigon e l’operazione Frequent Wind Francesco Lombardi - Stefano Felician Beccari
RUBRICHE
100 Lettere al direttore 102 Osservatorio internazionale 42 La dimensione mediterranea nell’espansione navale di Cina e India Giuliano Da Frè
54 «Strategie marine» per la salvaguardia dell’ambiente Fabrizio Zuppante
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110 Marine militari 118 Diario di guerra 120 Che cosa scrivono gli altri 124 Recensioni e segnalazioni 7
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Mensile della Marina dal 1868
EDITORE
Ministero della Difesa DIREZIONE E REDAZIONE Via Taormina, 4 - 00135 Roma Tel.: 06 3680 7248-54 Telefax: 06 3680 7249 Internet: www.marina.difesa.it/conosciamoci/ editoria/marivista/Pagine/default.aspx e-mail redazione: rivistamarittima@marina.difesa.it
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Operatore di volo. Sullo sfondo nave CAVOUR e nave ETNA in operazione di rifornimento. A questo numero hanno collaborato
Professor Massimo de Leonardis Dottor Daniele Lazzeri Dottor Augusto Grandi Professor Massimo Baldacci Professor Natalino Ronzitti Dottor Giuliano Da Frè Capitano di corvetta Fabrizio Zuppante Dottor Enrico Cernuschi Dottor Mario Veronesi Contrammiraglio (aus) Michele Cosentino Ambasciatore Domenico Vecchioni Generale Francesco Lombardi Dottor Stefano Felician Beccari Dottor Enrico Magnani Capitano di vascello (ris) Giuseppe Baldacci Contrammiraglio (ris) Ezio Ferrante Professor Mariano Gabriele Ammiraglio Ispettore Capo (ca) Renato Ferraro Contrammiraglio (ris) Pier Paolo Ramoino Rivista Marittima Novembre 2015
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PRIMO PIANO
Mito e realtà delle «guerre umanitarie» Da Da Cuba Cuba ((1898 1898)) alla alla Libia Libia ((2011 2011)) Massimo de Leonardis (*)
«Intervento» e «non intervento» nelle relazioni internazionali contemporanee in Europa In alcune pagine illuminanti del 1932 e del 1938 Carl Schmitt sottopose a una serrata critica la Società delle Nazioni e uno dei documenti più inutili e curiosi della storia diplomatica, il patto Kellogg-Briand del 1928 (1), prevedendo che i loro effetti sarebbero stati non la rinuncia all’uso della forza nelle relazioni internazionali, ma semplicemente la scomparsa delle dichiarazioni di guerra (2). Soprattutto egli smascherava la realtà nascosta dietro i principi: «Se uno Stato combatte il suo nemico politico in nome dell’umanità, la sua non è una guerra dell’umanità, ma una guerra per la quale un determinato Stato cerca di impadronirsi, contro il suo av-
versario, di un concetto universale per potersi identificare (a spese del suo nemico) (...). L’umanità è uno strumento particolarmente idoneo alle espansioni imperialistiche ed è, nella sua forma etico-umanitaria, un veicolo specifico dell’imperialismo economico. A questo proposito vale, pur con una modifica necessaria, una massima di Proudhon: chi parla di umanità, vuol trarvi in inganno». A cavallo tra i secoli XX e XXI il tema della «ingerenza umanitaria», che talora, come in Kosovo nel 1999 e in Libia nel 2011, è diventata un vero e proprio intervento militare, è venuto in primo piano. Sorprenderà qualche progressista ignaro della storia, ma la politica della Santa Alleanza e del Principe di Metternich fu formalmente la più simile, per conce-
(*) Professore Ordinario di Storia delle relazioni e delle istituzioni internazionali e dal 2005 Direttore del Dipartimento di Scienze Politiche nellÊUniversità Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Presidente della International Commission of Military History 2015-2020.
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Mito e realtà delle «guerre umanitarie» zione del sistema internazionale, a quella odierna di «ingerenza umanitaria» e di peacekeeping. Infatti lo statista austriaco sosteneva l’esistenza di uno stretto nesso tra ordine politico e sociale interno ai singoli Stati e stabilità internazionale. Se vi era una situazione di disordine all’interno di uno Stato, il «concerto europeo» doveva subito intervenire per evitare che potesse turbare l’ordine internazionale. La differenza è che per Metternich l’ordine interno si identificava con le Monarchie «assolute», i cui principi e istituzioni erano dominanti in Europa, mentre oggi si ritiene che solo sulla democrazia liberale, i cui valori sono universalmente accettati in Occidente, possano fondarsi un ordine interno e una pace internazionale stabili. Per Metternich fonte di disordine era il liberalismo, per i governanti occidentali di oggi lo è la violazione dei principi democratici e dei «diritti umani». Un’altra differenza non da poco è che Metternich sosteneva l’intervento del «concerto europeo» a sostegno dei Sovrani legittimi minacciati da rivoluzioni su richiesta del monarca stesso, come nel caso di Ferdinando I Re delle Due Sicilie alla conferenza di Lubiana nel 1821. Il principio di sovranità era quindi salvo. I sostenitori dell’«ingerenza umanitaria» invece lo violano, perché in genere tali interventi, come in Kosovo, avverrebbero contro un governo in carica che non rispetti i «diritti umani». Si potrebbero fare molti esempi di come i principi di «intervento» o di «non intervento» venissero alternativamente invocati dalle Potenze a seconda della convenienza del momento. Lord John Russell, ministro degli esteri britannico, ammise che in politica estera «è molto difficile porre un qualche principio dal quale non ci si scosti frequentemente» (3). Si citano precedenti storici di interventi militari per scopi umanitari promossi dal Concerto europeo: Francia, Gran Bretagna e Russia a sostegno dei Greci nella guerra d’indipendenza dall’Impero ottomano (1827-28); l’intervento della Francia a difesa dei Cristiani Maroniti libanesi minacciati di sterminio dai Drusi musulmani (186061); le potenze europee a Creta nel 1866-68 e nel 18971900 e in Macedonia (1903-1908). Allo stesso tempo si osserva che il Concerto europeo decise di non intervenire a favore dei Bulgari nel 1876 (ma lo fece comunque la Russia l’anno seguente) e degli Armeni tra
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il 1890 e il 1911, nonostante la prova dei massacri perpetrati su scala massiccia. Anche senza esaminare ogni singolo caso, basta quest’ultima circostanza per comprendere come la scelta di quando intervenire rispondesse sempre a criteri politici e non etici. Le preoccupazioni morali non erano assenti, ma erano nettamente subordinate alla politica di potenza e di equilibrio; la differenza con oggi è che allora lo si ammetteva più apertamente. Al congresso di Berlino del 1878 Bismarck esclamò che ci si riuniva per garantire la pace dell’Europa, non la felicità dei bulgari e nel 1880 dichiarò: «Quando vengo a sapere delle sofferenze di un negro […] in qualche parte del mondo, posso ricordarlo nelle mie preghiere, ma non posso farne un oggetto della politica tedesca» (4).
L’«eccezionalismo» americano La guerra ispano-americana per Cuba nel 1898 fu un evento carico di insegnamenti ancora attuali. Nel suo messaggio di guerra al Congresso dell’11 aprile 1898 il presidente William McKinley mescolò significativamente etica e affari, affermando: «In nome dell’umanità, in nome della civiltà, nell’interesse degli affari americani messi in pericolo, che ci danno il diritto e il dovere di parlare e di agire, la guerra a Cuba (tra spagnoli e ribelli, ndr) deve finire» (5). Una guerra giustificata con ragioni «umanitarie» ebbe conseguenze chiaramente imperialistiche: l’invio della flotta in Estremo Oriente e l’«annessione» delle Filippine (anch’esse colonia spagnola), allo scopo, come disse il Presidente McKinley, di «educare i filippini, e civilizzarli e cristianizzarli», ovviamente in senso protestante, essendo essi già all’85% cattolici, in realtà per motivi commerciali e militari e per non correre il rischio che l’arcipelago venisse preso dalla Germania o dal Giappone. Nel 1902, domati a fatica gli insorti che aspiravano alla completa indipendenza, le Filippine furono dichiarate «territorio non incorporato» degli Stati Uniti e gli abitanti «cittadini delle Filippine», in quanto tali aventi diritto alla «protezione» di Washington. La piena indipendenza, soggetta però a servitù militari, fu ottenuta dalle Filippine solo nel 1945. Cuba divenne di fatto un protettorato, grazie all’«emendamento Platt», che dava a Washington il diritto d’intervenire nel-
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Mito e realtà delle «guerre umanitarie» l’isola, anche militarmente, a suo piacimento, come di fatto avvenne più volte. Il 12 luglio 1900 il presidente McKinley dichiarò che «una guerra giusta era stata condotta per l’umanità». Mark Twain scrisse invece il 15 ottobre 1900 sul New York Herald: «Ho visto che non intendiamo liberare, bensì soggiogare il popolo delle Filippine. Siamo andati là per conquistare non per redimere». Il senatore Henry Cabot Lodge, uno dei principali imperialisti dell’epoca, in un discorso del 21 settembre 1900, aveva ammesso la complessità delle motivazioni americane: «Noi non abbiamo la pretesa ipocrita di interessarci alle Filippine solo a beneficio di altri. Mentre consideriamo il benessere di quelle popolazioni come un compito sacro, mettiamo al primo posto il benessere del popolo americano. Noi (…) intendiamo promuovere l’espansione del nostro commercio e aprire nuovi mercati». Col suo cosiddetto corollario alla dottrina Monroe, nel 1904 il presidente Teodoro Roosevelt rivendicò agli Stati Uniti «un potere di polizia internazionale» nei confronti degli Stati americani incapaci di mantenere l’ordine interno e di «agire con ragionevole efficienza e correttezza nelle questioni politiche e sociali». Un concetto esteso, negli anni Novanta del secolo XX, almeno in teoria, a tutto il mondo, con la rivendicazione agli Stati Uniti del ruolo di «poliziotto globale», o di «sceriffo planetario». Durante la presidenza del successore di Roosevelt, il repubblicano William Taft, si ebbe il pieno sviluppo della «diplomazia del dollaro», con molteplici interventi politico-militari degli Stati Uniti in America Latina a sostegno dei propri inManifesto propagandistico di McKinley teressi economici. per la campagna di rielezione presidenziale del 1900, con il motto «prosperità inSecondo il presiterna, prestigio all'estero» e il robusto dente Woodrow sostegno di una moneta «solida» come l'oro (fonte: wikimedia). Wilson gli Stati
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Il futuro Presidente T. Roosevelt a Cuba nel 1898 insieme ai Rough Riders sulla collina conquista di San Juan nel coros della guerra IspanoAmericana (fonte: wikimedia).
Uniti non entrarono nella prima guerra mondiale per rivendicazioni territoriali o interessi di potenza. Nel suo messaggio al Congresso il 2 aprile 1917, per la dichiarazione di guerra alla Germania, egli proclamò: «La nostra motivazione non sarà la vendetta o la vittoriosa affermazione della forza materiale della nazione, ma solo la difesa del diritto, del diritto dell’umanità, del quale noi siamo soltanto uno dei campioni». Nelle medaglie commemorative della vittoria i vincitori posero con impudenza l’iscrizione: «La Grande Guerra per la civiltà», come se l’Impero Austro-Ungarico e la Germania fossero stati barbari. Non è certo possibile ricostruire qui i molteplici interventi americani nel XX e XXI secolo. Basti ricordare che un secolo dopo la guerra ispano-americana gli Stati Uniti promossero un’altra «guerra umanitaria», contro la Serbia per la questione del Kosovo. La sera dell’inizio delle ostilità, il 24 marzo 1999, il Presidente Bill Clinton fece una dichiarazione televisiva nella quale, come McKinley, mescolò significativamente etica e affari: si agiva per «sostenere i nostri valori, proteggere i nostri interessi», per un «imperativo morale, importante per gli interessi nazionali dell’America»; si parlava di «pericoli per gente indifesa e per i nostri interessi nazionali» e di «genocidio», in un Kosovo «collocato su una importante linea di frattura tra Europa, Asia e Medio Oriente». Ancora una volta era la mistura di moralità e potenza tipica della politica estera americana.
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Mito e realtà delle «guerre umanitarie»
La Guerra Fredda Durante la Guerra Fredda la Realpolitik prevaleva su altre considerazioni: «i grandi temi dei diritti umani e del Nuovo Ordine Morale furono quasi sempre subordinati agli imperativi del realismo politico» (6), divenendo terreno di manovra nel quadro dello scontro politico-ideologico generale. Ciò fu chiaro fin dal processo di Norimberga, dove i sovietici imposero di evitare riferimenti al massacro a Katyn (7) di più di 15.000 ufficiali, sottufficiali e soldati polacchi prigionieri. Era evidente fin da allora che il massacro era opera dei Sovietici, che lo attribuirono però ai Tedeschi e colsero come pretesto per rompere le relazioni diplomatiche con il governo polacco in esilio a Londra il fatto che esso rifiutasse di aderire acriticamente a tale versione, avallata alla Camera dei Comuni dal ministro degli esteri britannico Anthony Eden. È però significativo che Mosca non chiese che il massacro venisse elencato a Norimberga tra i capi d’imputazione a carico dei Tedeschi. Scoppiata la Guerra Fredda, gli Occidentali ritrovarono il coraggio di accusare i Sovietici, ma naturalmente i comunisti di tutto il mondo considerarono ciò una volgare calunnia propagandistica, finché la Russia post-sovietica non ammise le sue responsabilità. Naturalmente, durante la Guerra Fredda era impensabile che l’Occidente intervenisse a sostegno di chi si ribellava al comunismo e quindi gli insorti di Berlino Est nel 1953 e quelli ungheresi del 1956 furono lasciati al loro destino, nonostante proprio gli Stati Uniti negli anni precedenti avessero fomentato la ribellioni delle nazioni prigioniere del comunismo. Allo stesso modo si valutò che l’invasione sovietica della Cecoslovacchia nel 1968 non avrebbe dovuto turbare la distensione tra Est e Ovest.
saminare i loro piani»; «è in nostro potere fermare ciò e lo faremo», ribadì alle truppe americane in Macedonia. Pochi mesi dopo però il Consigliere per la sicurezza nazionale Sandy Berger, in riferimento alla situazione di Timor Est, dichiarò: «Non penso che qualcuno abbia mai articolato una dottrina che dica che l’America deve intervenire ogni volta che c’è un’emergenza umanitaria. Una simile dottrina non esiste» (8). In realtà, nella guerra del Kosovo, al di là dei «diritti umani», erano in gioco «interessi», perché le «guerre etiche» sono una leggenda: «Gli Stati non combattono per valori, ma per interessi: combattono per i valori soltanto quando essi sono funzionali ai loro interessi» (9). La new left, i «moralisti con l’elmetto in testa» (10), al potere a Washington, Londra, Berlino, Roma al momento dell’intervento in Kosovo (tutti i paesi della NATO, tranne la Spagna e la Turchia, difficilmente classificabile, avevano governi di sinistra o centro-sinistra), fu la più convinta della necessità di promuovere i diritti umani con la forza militare. I giuristi prediligono le classificazioni rigide attraverso le quali giudicare ogni singola esperienza umana. Diversamente gli storici e i politologi sono consapevoli che il modus operandi degli Stati all’interno del sistema anarchico internazionale è simile a quello dell’uomo allo stato naturale, ovvero le guerre accadono quando interessi differenti si contrappongono; dal diritto sono dunque ricavabili «principi, linee guida, procedure ma non sempre assolute risposte» (11). «Si parla di una “norma emergente” di diritto inter-
Etica, diritto, Realpolitik e «guerre umanitarie» Finita la contrapposizione bipolare, sembrò aprirsi una nuova stagione nella quale etica e diritto avrebbero posto le basi di un «Nuovo Ordine Mondiale». Visitando nel giugno 1999 il Kosovo, Clinton dichiarò che la NATO potrebbe intervenire «adesso, domani se necessario. In Africa o Europa Centrale (...) non permetteremo che un popolo venga attaccato per la religione o l’etnia (...) Anche in altre regioni i futuri dittatori faranno bene a rie-
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Il Generale John P. Jumper, Comandante dell'Aeronautica Statunitense in Europa, scorta il Presidente Clinton dopo il suo arrivo alla Base Aerea di Ramstein, in Germania, il 5 maggio 1999. Il Presidente visitò molte basi europee per ringraziare le truppe per il loro supporto alle operazioni NATO (fonte: wikipedia).
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Mito e realtà delle «guerre umanitarie» nazionale che tuttavia non è ancora pienamente stabilita e la cui forza vincolante deve essere valutata caso per caso (…). L’intervento umanitario continua a rimanere una pratica controversa in cui la discrezionalità degli stati gioca un ruolo determinante» (12). Perché un dittatore di un Paese piccolo (senza armi atomiche) deve essere processato, ma quello di uno grande lasciato in pace? Naturalmente gli «istituzionalisti» risponderanno che all’inizio potranno esservi abusi, parzialità, «danni collaterali», ma bisogna pur iniziare a costruire la società internazionale del futuro, dove un’autorità mondiale eserciterà l’azione penale e deterrà il monopolio della forza legittima. I «realisti» non credono che la società internazionale perderà mai il suo carattere anarchico e quindi il potere a livello internazionale continuerà a essere esercitato dagli Stati egemoni secondo i loro interessi. In realtà i problemi della politica internazionale non sono risolvibili con strumenti giuridici. Soprattutto «le peculiarità del diritto internazionale rispetto al diritto interno lo rendono inevitabilmente permeabile ai rapporti di potere» (13). «Non è vero che questa tendenza del diritto internazionale a compromettersi con la politica di potenza sia un difetto infelice ma rimediabile, che si presta facilmente a essere corretto dal buon lavoro di qualche illuminato professore di diritto internazionale o da qualche ingegnosa relazione della Commissione per il diritto internazionale. E ci sono tutte le ragioni per credere che questa caratteristica, che pone il diritto internazionale in violento contrasto con un elementare senso di giustizia, è vitale per il suo funzionamento; qualora la perdesse, non sarebbe più in contatto con la realtà della politica internazionale e diventerebbe incapace di ricoprire un qualsiasi ruolo» (14). «Saranno le forze dominanti nella comunità internazionale a determinare l’evoluzione delle norme di diritto internazionale, come, del resto, le forze dominanti di una determinata comunità statale ne determinano l’ordinamento interno. Con buona pace di quanti vorrebbero vedere l’ordinamento internazionale congelato su norme che corrispondono alle loro inclinazioni ideologiche» (15). Ora i Paesi che si profilano come future Grandi Po-
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tenze sono tutti gelosi custodi della sovranità e contrari a ingerenze negli affari interni: Brasile, Cina, India, Russia, Sudafrica. Gli Stati Uniti predicano la limitazione della sovranità altrui, ma sono gelosi difensori della propria. A dettare l’agenda della politica internazionale, non sarà certo il Belgio, che nel 1993 approvò una legge sulla «competenza universale», per permettere ai suoi tribunali di istruire processi per presunte violazioni dei diritti umani commesse ovunque nel mondo! «L’«intervento umanitario» è un concetto occidentale, mal definito (moralmente e giuridicamente) (…). L’«intervento umanitario» è e può essere solo il terreno per un decisione scaltra e selettiva politica, piuttosto che morale, da parte dei (…) politici» (16). Vi è poi, collegato, un problema filosofico rilevante. L’Occidente è oggi immerso in una «dittatura del relativismo» più volte denunciata dal pontefice Benedetto XVI. In altre parole non riconosce più alcuna Verità, anzi afferma che la Verità non esiste e tende a emarginare o addirittura perseguitare chi come i cattolici vi crede ancora. Come può pretendere quindi di imporre come universali, a Paesi espressione di culture diverse dalla propria, «diritti umani» che sono tali solo per le sue élites relativiste e che valgono anche per l’Occidente in questa fase storica ma per esempio non valevano ancora pochi decenni fa? Giustamente osservava Morgenthau che è «impossibile postulare un plausibile codice morale senza un fondamento teologico (…). Non credo che si possa, per esempio, postulare la dignità della vita umana o il suo carattere sacro senza un fondamento teologico» (17). In conclusione è evidente che «il principio della difesa dei diritti umani non può essere coerentemente applicato in politica estera poiché può e deve essere in conflitto con altri interessi che in un particolare caso possono essere più importanti della difesa dei diritti umani» (18). Anche un autore come Michael Walzer che ha approvato le recenti «guerre umanitarie», ammette, a proposito degli «interventi umanitari»: «non sono riuscito a trovarne neanche uno allo stato puro; esistono infatti soltanto casi misti in cui il motivo umanitario è soltanto una delle cause dell’intervento», pur osservando che ciò «non costituisce un argomento a sfavore dell’intervento umanitario stesso,
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Mito e realtà delle «guerre umanitarie» tuna!) contro il dittatore siriano Bashar Hafiz al-assad. Né può sorprendere che il 27 giugno 2011 il Rais libico, il suo primogenito Saif Al-Islam Gheddafi e Abdullah AlSenussi, capo dei servizi di intelligence di Tripoli, fossero colpiti da un mandato d’arresto della Corte penale internazionale dell’Aja per crimini contro l’umanità, mentre ciò non è avvenuto contro Assad. Il procuratore della Corte Penale Internazionale non è vincolato all’obbligatorietà delMar Mediterraneo marzo 2011 - Lancio di un «Tomahawk» dalla USS BARRY (fonte: wikimedia). l’azione penale, ma «forse è inutile parlare di obbligatorietà e discrezionalità, cercando l’intima coerenza di un sistema che è stato pensato per semmai un invito a mantenersi scettici e a esaminare atadattarsi alle relazioni internazionali più che per rispontentamente gli altri fattori» (19). dere a una stringente logica giuridica» (21). «L’ordine internazionale non garantisce nessuna proCiò non significa che la politica estera sia amorale, tezione generale dei diritti umani, ma solo una protema semplicemente riconoscere, come già rilevato, che zione selettiva determinata non dalle qualità del caso ma essa deve seguire l’etica della responsabilità e non l’etica dai capricci della politica internazionale» (20). Non vi è della convinzione (22). Il Political Realism non può non quindi da stupirsi che la «comunità internazionale» abbia prevalere sul Judicial Romanticism (23) e soprattutto sul promosso un intervento militare contro Muammar fervente sdegno di invecchiati Nouveaux Philosophes.8 Gheddafi, ma nulla del genere sia stato fatto (per forNOTE (1) Il cui articolo 1 recitava: «Le Alte Parti contraenti dichiarano solennemente in nome dei loro popoli rispettivi che esse condannano il ricorso alla guerra per il regolamento delle controversie internazionali, e vi rinunciano in quanto strumento di politica nazionale nelle loro relazioni reciproche», ammettendo quindi solo la guerra dichiarata dalla comunità internazionale contro un Paese riconosciuto aggressore dalla Società delle Nazioni. (2) Il concetto di “politico” e Sulla relazione intercorrente fra i concetti di guerra e di nemico, ora in C. Schmitt, Le categorie del “politico”. Saggi di teoria politica, a cura di G. Miglio e P. Schiera, Bologna, 1972, pp. 101-65 e 193-203. (3) Cit. in H. J. Morgenthau, Politica tra le nazioni. La lotta per il potere e la pace, Bologna, 1997, pp. 249-50. (4) Cit. in W. Langer, L’Europa in pace 1871-1890, I vol., tr. it. Firenze, 1955, p. 336. (5) Cit. in O. Foppiani, La nascita dell’imperialismo americano (1890-1898), Roma, 1998, p. 153. Washington dichiarò guerra nonostante la Spagna avesse accettato l’armistizio con gli insorti e la mediazione americana. (6) La pace perduta, Milano, 2001, p. 85. (7) Sulla vicenda di Katyn cfr. V. Zaslavsky, Il massacro di Katyn: il crimine e la menzogna, Roma, 1998 e Pulizia di classe: il massacro di Katyn, Bologna, 2006. (8) Corriere della Sera, 12-9-99, p. 4. (9) C. Jean, La rivoluzione geopolitica del dopoguerra fredda, in Affari Esteri, Inverno 1997, p. 122. (10) La definizione è di G. E. Rusconi (L’Unità, 11-4-99, p. 5). (11) A. Roberts, NATO’s «Humanitarian War» over Kosovo, in Survival, vol. 41, n. 3, Autumn 1999, p. 105. (12) P. Magri, Editoriale, in «L’ingerenza umanitaria tra protezione dei diritti e realismo», Quaderni di Relazioni Internazionali, n. 15, novembre 2011, p. 2. «In dottrina sono state espresse forti perplessità circa la possibilità di ricorrere alla forza armata per reagire a gravi violazioni dei diritti umani» (S. Zappalà, «Nuovi sviluppi in tema di uso della forza armata in relazione alle vicende del Kosovo», in Rivista di diritto internazionale, n. 4/1999, p. 1001). (13) A. Colombo, «I nodi politici dell’ingerenza umanitaria», in L’ingerenza umanitaria tra protezione dei diritti e realismo, cit., p. 18. (14) H. Bull, La società anarchica. L’ordine nella politica mondiale, Milano, 2005, pp. 110-11. (15) U. Draetta, Il diritto internazionale e i nuovi conflitti, in M. de Leonardis-G. Pastori (a cura di), Le nuove sfide per la forza militare e la diplomazia: il ruolo della NATO, Bologna, 2007, p. 96. (16) M. Radu, Putting National Interest Last: The Utopianism of Intervention, in Global Dialogue, vol. 7, n. 1-2, Winter/Spring 2005. (17) H. J. Morgenthau, Human Rights & Foreign Policy, New York, 1979, p. 10. (18) Ibi, p. 7. (19) M. Walzer, Guerre giuste e ingiuste. Un discorso morale con esemplificazioni storiche, Napoli, 1990, p. 143. (20) Bull, op. cit., pp. 106-7. (21) P. Tacchi Venturi, L’esercizio dell’azione penale negli organi di giustizia internazionale: tribunali ad hoc e la Corte Penale Internazionale, p. 161, Http://Www.Studiperlapace.It/. (22) Secondo Max Weber, l’etica della convinzione (Gesinnungsethik), detta anche etica dei principi o delle intenzioni, persegue i propri scopi senza riguardo per considerazioni di tipo realistico, facendo riferimento a valori morali tali che l’azione da essi ispirata possa essere valutata come giusta o ingiusta, ignorando le possibili conseguenze; l’etica della responsabilità (Verantwortungsethik), deve invece «rispondere delle conseguenze (prevedibili) delle proprie azioni» in base al principio dell’agire razionale rispetto allo scopo. Le due etiche «non sono assolutamente antitetiche ma si completano a vicenda» («La politica come professione», in Il lavoro intellettuale come professione. Due saggi, Torino, 1948, pp. 141-51) Tra due leggi (1916). Ciò che è clamorosamente mancato nell’intervento in Libia. (23) P. Akhavan, Are lnternational Criminal Tribunals a Disincentive to Peace?: Reconciling Judicial Romanticism with Political Realism, in Human Rights Quarterly, 31 (2009), pp. 624-654.
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Nuovi scenari per l’economia cinese Augusto Grandi (*) - Daniele Lazzeri (**)
Un gigante economico: la forza della demografia Di fronte alla sostanziale stagnazione dell’economia in Italia e in Europa, la crescita del 6,9% del Pil cinese, registrata nel terzo trimestre di quest’anno, appare quasi miracolosa. In realtà si tratta del peggior risultato, per Pechino, dal primo trimestre del 2009. Quando anche la Cina risentì della crisi finanziaria globale. Dunque un rallentamento, ma inferiore a quello temuto dagli analisti. E anche se Pechino dovesse chiudere l’anno con una crescita del Pil inferiore al 7% previsto, la frenata sarebbe comunque modesta. Ciò non toglie che i problemi strutturali del Paese rimangano. E non siano facilmente risolvibili nel breve periodo. A partire dalla questione demografica. L’immenso
La Cina modifica i rapporti economici con Europa e Stati Uniti Paese aveva deciso di frenare una ingestibile crescita del numero degli abitanti imponendo il limite di un solo figlio per coppia. Al di là del mancato rispetto della regola in non pochi casi, la Cina si è ritrovata alle prese con conseguenze inattese. Da un lato le coppie hanno puntato soprattutto sui figli maschi, ricorrendo ad aborti selettivi o all’eliminazione delle neonate. In secondo luogo i bambini senza fratelli e sorelle, nelle città, sono stati allevati tra protezioni eccessive che li hanno resi molto meno «grintosi» e combattivi rispetto alle generazioni precedenti. E questo, per un Paese che ha fatto della sua aggressività in campo economico e internazionale la sua caratteristica principale e vincente, si è rivelato un problema considerevole. Inoltre la popola-
(*) Giornalista del Sole 24 Ore è Senior fellow del think tank Il Nodo di Gordio. (**) Scrittore e saggista è Chairman del think tank Il Nodo di Gordio.
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Nuovi scenari per l’economia cinese zione è invecchiata ma senza che la frenata dell’espansione demografica risolvesse la questione agraria: troppi contadini nelle campagne, poca meccanizzazione perché un rapido incremento nell’utilizzo di strumenti moderni di coltivazione ed allevamento provocherebbe disoccupazione, povertà e tensioni sociali. Una risposta è arrivata dall’acquisto di intere regioni dell’Africa, dove Pechino ha trasferito centinaia di migliaia di abitanti cinesi. Una colonizzazione economica e sociale del Continente Nero. Utile per la Cina, perché garantisce anche lo sfruttamento del suolo (cibo) e del sottosuolo (risorse minerarie). Ma del tutto insufficiente per alleviare i problemi strutturali dell’ex Celeste Impero. Un’altra risposta è consistita nella costruzione di nuove città, in grado di ospitare milioni di persone. Milioni di contadini che avrebbero dovuto abbandonare le campagne e trasferirsi. Ma in mancanza di prospettive di lavoro credibili, i trasferimenti non ci sono stati. E le città, perfettamente finite, sono rimaste deserte, evidenziando i rischi di una colossale bolla immobiliare. Il governo di Pechino è intervenuto prontamente e la sostanziale tenuta del Pil dimostra che le misure sono servite. Per fronteggiare la crisi, non ancora per rilanciare l’economia. Perché i servizi hanno ripreso vigore ed anche i consumi sono ripartiti. Ma la manifattura ha continuato a rallentare. Da un progresso annuo del 6,1% di agosto si è scesi al 5,7% a settembre. Indubbiamente un sogno per le industrie italiane ed europee, non per quelle cinesi abituate, per anni, a incrementi a due cifre. Il segnale positivo è invece arrivato dalle vendite al dettaglio, in progresso del 10,9% a settembre, leggermente di più di quanto previsto dagli analisti. Dunque i cinesi hanno ripreso a comprare. E questo dovrebbe rasserenare gli esportatori europei e quelli italiani in particolare. I margini di crescita del made in Italy sul mercato cinese non mancano, ma non è così automatico riuscire a conquistare nuove quote. Sia perché la concorrenza internazionale è sempre più agguerrita, sia perché gli imprenditori italiani non dimostrano sempre una adeguata preparazione nell’affrontare i mercati. Penalizzati, indubbiamente, dalle piccole dimensioni aziendali che mal si conciliano con un mercato immenso come quello cinese. Se una catena della grande distribuzione del Paese asiatico vuole un particolare
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prodotto, chiede quantità e volumi tali che solo grandi aziende italiane possono assicurare. Il piccolo produttore italiano di abbigliamento o di enogastronomia può rifornire solo piccolissime nicchie di mercato. Nicchie qualificate, di alta gamma, ma confinate in rare città. Inoltre la Cina sta facendo crescere una sempre più competitiva industria interna. In tutti i settori, compresi quelli dove è più forte il made in Italy. Si acquistano marchi italiani e si sposta la produzione in Cina mantenendo l’italianità del marchio; si acquistano le tecnologie per produrre in loco. E, progressivamente, si sposta anche il gusto cinese verso uno stile meno occidentale. Gli accordi stipulati con designer italiani ed europei hanno vista dapprima l’accettazione di uno stile occidentale; poi, progressivamente, è stato chiesto di modificare lo stile adeguandolo ai canoni cinesi. Gli stessi canoni che, sempre di più, vengono esportati approfittando dei quartieri cinesi che sono sorti in tutte le grandi città. Tuttavia competenze e tecnologie continuano a essere importate. Con offerte di lavoro ai migliori laureati europei (pagati molto di più rispetto ai colleghi cinesi), con l’acquisto di tutto ciò che è innovativo in ogni settore. È sufficiente vedere ciò che la Cina sta facendo in campo ambientale, per cercare di ridurre un inquinamento che ha raggiunto livelli drammatici. Pale eoliche ovunque, moto e scooter elettrici nelle città. Una crescita legata a tecnologie importate ma che è sempre più accompagnata dallo sviluppo di tecnologie e imprese locali. Destinate a diventare competitive anche sui mercati mondiali grazie a prezzi ridotti. La forza, d’altronde, è nei numeri. Anche per ciò che riguarda il turismo. Città cinesi semisconosciute hanno più turisti di Venezia: turisti quasi esclusivamente locali, certo. E il turismo cinese nel mondo sta determinando cambiamenti nell’offerta degli Hotel di tutti i Paesi. Dall’accoglienza in camera sino ai menu dei ristoranti.
Un gigante dai piedi d’argilla: gli squilibri finanziari Ma è il settore finanziario cinese che potenzialmente potrebbe arrecare pericolosi scossoni ai mercati globali. Anche se in Cina, il modello di capitalismo di stato (1) — e su questo concordiamo con l’analisi di Ian Bremmer,
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Centro finanziario di Shanghai (fonte: wikipedia).
Direttore di Eurasia Group — reggerà per molti anni a venire «perché i leader cinesi credono che sia il solo sistema in grado di soddisfare le loro esigenze politiche a lungo termine» (2), i volumi di interscambio valutario e finanziario tra Pechino e il resto del mondo potrebbero nel medio periodo generare squilibri di portata epocale. Non è un caso se le due maggiori economie del mondo, Stati Uniti e Cina, si riuniscano periodicamente nel cosiddetto G2 e che, anno dopo anno, stia assumendo una valenza sempre più cruciale l’«Incontro annuale del Dialogo strategico ed economico sino-americano». Un evento durante il quale si è spesso parlato del cambio tra lo yuan cinese e il dollaro. Un continuo tentativo da parte di Washington di convincere i leader cinesi a rivalutare la loro moneta, tenuta artificialmente bassa dalle autorità monetarie di Pechino per agevolare le esportazioni. Inviti sempre declinati, tanto che la scorsa estate, quando la Banca Popolare Cinese ha deciso d’imperio di svalutare ulteriormente il cambio dello yuan contro il dollaro, la borsa di Shanghai è crollata pesantemente trascinando a ribasso le altre piazze finanziare del globo (3). Non solo. È risaputo che una fetta consistente del debito pubblico americano è in mano al Governo e ai Fondi sovrani cinesi. Attualmente la Cina è il secondo detentore mondiale — in continua competizione con il Giappone — di Treasury bond statunitensi per la cifra astronomica di 1.223 miliardi di dollari. Ma è altrettanto vero che molte multinazionali statunitensi lavorano con Investimenti Diretti Esteri in Cina.
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La crescita iperbolica negli ultimi decenni delle esportazioni cinesi in tutto il mondo ha, infatti, generato un corrispondente incremento delle riserve valutarie in dollari accumulate da Pechino. Riserve che in gran parte sono state utilizzate dalla Cina per l’acquisto di titoli emessi dal Tesoro americano. Un’operazione che ha consentito sinora a Washington di finanziarsi sul mercato a tassi di interesse molto bassi anche grazie al consistente afflusso di capitali cinesi. Ci troviamo, dunque, di fronte a due possibili scenari nei rapporti tra Stati Uniti d’America e Repubblica Popolare Cinese: un più stretto intreccio tra le due economie più forti del pianeta con tentativi di accordo/collaborazione/cooperazione nell’ottica di un G2 ancora più rafforzato o il rischio di uno scontro tra Washington e Pechino per l’egemonia nella governance unilaterale del pianeta. A tale proposito, giova ricordare come — pur continuando a correre a ritmi sostenuti — l’economia cinese potrebbe subire una battuta d’arresto causata dal vertiginoso incremento del debito pubblico in capo ai governi locali che raggiunge in molti casi il 40-50% del Pil. Così come la mole di investimenti effettuati in infrastrutture a partire dal 2008 dovrà, in un tempo ragionevolmente breve, rallentare il suo corso, con effetti significativi sulla crescita economica del mercato interno. Di quest’avviso è anche il noto politologo americano Edward Luttwak, per il quale «il debito pubblico americano, in realtà, è un’arma importante in mano agli Stati Uniti, poiché potrebbero facilmente realizzare una riduzione del valore dei titoli applicando una tassa sugli interessi per esempio. Oppure per mezzo di una svalutazione del dollaro, utile anche a stimolare le esportazioni o con nuove manovre di Quantitative Easing». Parlando del suo volume Il risveglio del Drago (4) dedicato agli scenari futuri della potenza cinese, Luttwak illustra in modo efficace quale potrebbe essere il risvolto della medaglia: «È vero che la Cina possiede una fetta importante di buoni del Tesoro americani ma se il debito è molto grosso, è il creditore che sta sveglio la notte…» (5). L’evidenza dei dati e l’accelerazione nel processo di globalizzazione dei mercati sta, dunque, progressivamente spostando il baricentro delle relazioni economi-
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Stati Uniti-Cina, il presidente americano Barack Obama e il presidente cinese Xi Jinping (fonte: reuters.com).
che e commerciali dall’Atlantico al Pacifico. Gli interessi strategici finanziari e militari che vedono confrontarsi Cina e Stati Uniti sono sempre più evidenti. Non sarà solo la Sesta Flotta ad abbandonare progressivamente il Mediterraneo per concentrarsi sull’oceano che divide Washington e Pechino, lasciando all’Europa e all’Italia sempre maggiori responsabilità in tale area. D’altronde, ai primi del Novecento, fu lo stesso Presidente americano Theodore Roosevelt che da San Francisco, durante le attività di posa del cavo di telecomunicazioni sottomarino tra America e Asia, preannunciò che l’Oceano Pacifico «sarebbe diventato per gli Stati Uniti il nuovo Mediterraneo». Ma a complicare ulteriormente la situazione c’è stata la decisione dei Paesi cosiddetti «Brics» (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) di realizzare una propria Banca di Sviluppo con sede a Shanghai in alternativa al Fondo Monetario Internazionale. Il capitale iniziale della nuova Banca di Sviluppo è pari a 100 miliardi di dollari, dei quali ben 41 finanziati dalla Cina. Tuttavia, risulta difficile ipotizzare un’alleanza strutturata e
coesa che comprenda quadranti geopolitici e situazioni economiche così differenti, anche in considerazione della rinnovata richiesta da parte di Pechino all’FMI di entrare a far parte del ristretto «club» riservato alle principali valute estere. L’attesa, che dura da qualche anno, rivoluzionerà i rapporti interni all’Ente internazionale guidato da Christine Lagarde, dimostrando nel contempo come la Cina sia in grado di giocare le sue carte su tavoli separati. In questo caso gli equilibri e i rapporti di forza nella gestione della finanza globale cambieranno ulteriormente. Ma Pechino dovrà attendere almeno un anno ancora. Se Francia, Spagna e Regno Unito, infatti, si sono già espressi favorevolmente, gli Stati Uniti, invece, hanno bloccato l’ingresso dello yuan nel paniere delle divise dell’FMI fino a settembre 2016. In conclusione, gli approcci geopolitici e militari volti a contenere il crescente ruolo della Cina sulla scena internazionale non possono prescindere da un’attenta analisi delle questioni legate ai suoi capillari e diffusi interessi economici. La stretta di mano dopo 66 anni tra il Presidente cinese Xi Jimping e il Presidente di Taiwan Ma Ying-jeou e i movimenti marittimi nel Mar Cinese Meridionale sono solo due esempi dell’ampliamento dell’influenza di Pechino e della sua proiezione verso l’esterno. La politica del Pivot to Asia del Presidente Obama va anche in questa direzione. «Si tratta — ricorda l’analista Vali Nasr — di una diplomazia da “schieramento avanzato” per affrontare la Cina nel suo cortile di casa» (6). Gli Stati Uniti cercheranno di impedire che la Cina diventi la potenza egemone nell’emisfero orientale. E come giustamente suggerisce Robert Kaplan nel suo The revenge o Geography, la geografia si sta prendendo la propria rivincita (…). «E di questo Mackinder non ne sarebbe affatto sorpreso» (7). 8
NOTE (1) Volutamente, non ci addentreremo nella disamina della possibile dicotomia tra Democrazia e Capitalismo, poiché esula dalle finalità di questo lavoro. Ci limitiamo a rinviare agli approfondimenti politologici in merito che, a partire proprio dall’esempio cinese, dimostrano come Democrazia e Capitalismo non debbano necessariamente marciare di pari passo e che il diverso approccio all’economia da parte del Celeste Impero, potrebbe trovare origine — parafrasando l’opera di Max Weber L’etica protestante e lo spirito del capitalismo — nel rapporto tra «l’etica confuciana e lo spirito del capitalismo». (2) Ian Bremmer, The End of the Free Market. Who wins the war between State and Corporations? Portfolio-Penguin Group 2010, p. 145. (3) A tal proposito, giova ricordare che il 12 giugno 2015 la Borsa di Shanghai aveva raggiunto il suo massimo storico con un +150% in un anno. Inevitabile, dunque, un ritracciamento del corso dei titoli azionari oggetto di una bolla speculativa della quale anche il mercato immobiliare cinese non è esente. (4) Edward N. Luttwak, Il risveglio del Drago. Rizzoli, 2012. (5) Il risveglio del Drago. Intervista a Edward Luttwak, Il Nodo di Gordio, n. 2 Anno II, Febbraio 2013. (6) Vali Nasr, The dispensable nation. American foreign policy in retreat. Doubleday 2013, p. 215. (7) Robert Kaplan, The revenge of Geography. Random House 2012, p. 227.
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Strategie di comunicazione e propaganda jihadista sui Social Network Massimo Baldacci (*) Internet è diventato un grande mezzo per diffondere la chiamata alla Jihad e per seguire le novità che riguardano i mujahideen. I modi con cui i fratelli e le sorelle possono diventare «internet mujahideen» sono costituite dal fatto di contribuire a una o più delle seguenti attività: organizzare forum di discussione che offrano un mezzo libero e non censurato di postare informazioni riguardanti la Jihad; creare liste di email con fratelli e sorelle che siano interessati a ricevere informazioni; mettere in Rete novità e letteratura sulla Jihad; organizzare siti Web dedicati ad aree specifiche per la Jihad. Anwar al-Awlaqi, 44 modi per aiutare la Jihad (gennaio 2009).
Il Cyber-spazio ha una capacità per cui, quando inserito ed utilizzato da una forza militare, ne aumenta significativamente il potenziale di combattimento, migliorando le possibilità di successo. American Department of Defence, Joint Special Operations Task Force (aprile 2007).
L’hacking su Internet è uno dei più importanti eventi della Jihad e noi raccomandiamo ai musulmani che abbiano conoscenze in questo campo di prendere di mira i siti Web e le reti elettroniche delle più importanti amministrazioni dei Paesi coinvolti nella guerra contro i musulmani, focalizzandosi su quei Media che combattono l’Islam, la Jihad e i Mujahideen. 3 giugno del 2011, video diffuso dall’emittente al-Sahab di al-Qaeda, in arabo e in due parti titolato «Non demandare ad altri, fallo tu stesso» con cui si cercava di guadagnare esperti informatici alla causa della Jihad. (*) Professore Associato di Lingua e Letteratura Pashto nellÊUniversità di LÊAquila e Associated Professor di Storia dellÊAsia Centrale nellÊUniversità di Stuttgart. Autore di oltre centodiciannove pubblicazioni scientifiche indicizzate (Impact Factor: 138, H-Index: 63). Come saggista, in Italia ha pubblicato con le più importanti Case editrici. ˚ considerato tra i migliori analisti per lÊAsia Centrale e lÊinsorgenza islamista.
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Strategie di comunicazione e propaganda jihadista sui Social Network ralità e corruzione, ci siamo infilLe guerre di oggi continuano a ditrati in modo virtuale nella tua mostrarsi asimmetriche. fortezza. Domani, a Dio piaQuella contro gli «apostati» cendo, lo faremo in modo (murtaddun) dell’Occidente reale». non avviene solo sul campo Le potenzialità della di battaglia, ma investe Rete sono enormi, i mezzi anche il cloud — virtuale molto modesti: un compuma non per questo meno ter, il collegamento a Indannoso — che le tecnoloternet, il know-how gie mediatiche online mettecnico. Il Cyber-Califfato tono a disposizione di chi è (#CyberCalipHATE, con un in grado di usufruirne. Jihad arguto gioco linguistico), dal compresa. Solo la finalità riesuo battesimo con CentCom all’inisce ancora a differenziare le due zio del 2015, si è mostrato particodiverse armi: quella fisica al serDiagramma dei flussi di contatto tra i 500 top accounts attivo: secondo vizio della conquista di territori pro IS di Twitter. Le linee rosse rappresentano i contatti larmente reali, quella virtuale come molti- (fonte: J.M. Berger – J. Morgan, The ISIS Twitter Census, l’intelligence del Web sono oltre Center for Middle East Policy, march 2015). 19.000 gli attacchi informatici plicatore di forze per costruire, nella sola Francia all’indomani dei alimentare e supportare l’altra, atfatti ben noti del Charlie Hebdo. In molti casi questi tività queste ultime espletate sia attraverso l’uso di siti attacchi non hanno coperture ma spesso partono da e di applicativi che funzionano da cassa di risonanza azioni di fishing delle e-mail con abbinati file esca conper il radicalismo e dunque con ampie possibilità di retenenti a loro volta programmi o sotto-programmi malclutamento, consolidamento della visione jihadista e ware non particolarmente sofisticati (usano tecnologie specifiche messaggistiche pro-Jihad, sia attraverso l’at7zip SFX per autoestrarsi) in grado di convertire l’intività di «attacco elettronico» (ghazwa) a siti Web ocdirizzo IP della potenziale vittima e la sua mail in strucidentali, come quello recentemente condotto al sito menti gestiti dalla Cyber-Jihad a ogni riavvio di Twitter @Centcom (US Central Command). computer: ciò indica che, in questi casi, il malware serva solo come strumento di cattura di utenze da geSoldati Americani, stiamo arrivando. Guardatevi stire. Il gruppo di lavoro che opera con Infosecurity alle spalle! ISIS. Magazine ha notato la mancanza delle stringhe RAT Il Cyber-Califfato sotto gli uspici dell’ISIS continua (Remote Access Trojan) e ciò confermerebbe ulteriorla sua Cyber-Jihad. Mentre gli Stati Uniti e i suoi mente la non necessità di dover mantenere un controllo satelliti uccidono i nostri fratelli in Siria, Iraq e Afon-line continuativo, indicando al contrario la possibighanistan, noi entriamo nelle vostre Reti e nei perlità di poter interrompere in qualunque momento la sonal devices e sappiamo tutto di voi. ISIS è già qui: connessione internet: tutto ciò farebbe pensare, anche siamo nei vostri PC, in ogni base militare. Con il secondo una analisi dell’FBI pubblicata il 7 aprile permesso di Allah siamo adesso in CentCom. 2015, a gruppi di fiancheggiatori come per esempio 12 gennaio 2015 12:34 PM #Electronic_Jihad_Team, al-Mukhabarat al-Islamiyya (Servizi Islamici di Intelligence), ISIS Cyber Army o i Il passaggio dall’una all’altra tipologia di azione è molto attivi @Soldier_Allah_X e @terrorist0011. molto labile e sicuramente rapido: in un tweet postato Un video di tre minuti e mezzo in lingua araba titoin occasione dell’hackeraggio nei confronti dell’emitlato «Messaggio all’America dal mondo virtuale», ditente musicale egiziana Nogoum (@NogoumFM) si fa stribuito l’11 maggio 2015 via Twitter tramite un riferimento proprio a questo: «Oggi, media di immo-
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Strategie di comunicazione e propaganda jihadista sui Social Network di sconfiggere l’Islam: gli hackers hanno già iniziato il loro lavoro. Stiamo osservando ogni vostra mossa attraverso i vostri computers. Presto vi accorgerete come controlleremo il vostro mondo digitale. Nonostante l’America incrementi la sua sicurezza informatica, oggi abbiamo informazioni sui suoi militari. Oggi l’elettronica testimonia la nostra vittoria e presto non avrete più nessun controllo su Internet. Daesh nei social network.
account pro-IS (@is_caliphate_n), indica con chiarezza la strategia virtuale di supporto a quella reale. Sul sottofondo del canto nasheed rilasciato nell’aprile 2015 da Ajnad Media «annulleremo le umiliazioni che abbiamo conosciuto e porremo fine alla tirannia idolatra», un personaggio senza volto seduto davanti a un portatile dà infatti alcune informazioni Siamo i difensori dello Stato Islamico su Internet. Messaggio al mondo intero, siamo i supporters dello Stato Islamico che ha umiliato ovunque gli eserciti dei miscredenti. Grazie ad Allah, ci stiamo espandendo non solo sulla terra ma anche su Internet. Inviamo questo messaggio all’America e all’Europa: siamo gli hackers dello Stato Islamico. La guerra elettronica non è ancora iniziata. Ciò che avete fino a ora visto è solo una anticipazione del futuro. Siamo già in grado di oscurare siti web delle dirigenze americane, il sito degli aereoporti australiani e molti altri. Nonostante sborsiate miliardi per rendere sicuri i vostri siti web, è stato facile per noi inserirci in poco tempo nei vostri siti: ora le informazioni sulla vostra sicurezza sono nelle nostre mani. Non avete la capacità di sconfiggere lo Stato Islamico. Soldati dello Stato Islamico, siamo quelli che vi supportano, siamo il vostro esercito elettronico e con l’aiuto di Allah faremo vedere all’Occidente il nostro potere e l’Occidente realizzerà presto che non ha potere contro di noi. Presto pubblicheremo i vostri piani per cercare
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Il Web della Jihad non mostra segni di stanchezza. L’11 agosto 2015 lo Islamic State Hacking Division (ISHD), che fa capo al giovane hacker britannico Abu Hussain al-Britani (alias Junaid Hussain) in contatto con il gruppo di CyberCalipHATE, fa apertamente sapere di essere in possesso di una ampia lista di nomi, e-mail e altre informazioni sensibili di militari americani e lo fa attraverso l’account ufficiale di ISHD su Twitter (@IS_Hacking_Div). Sul messaggio si legge: «Vi stiamo osservando da mesi … Ora passeremo tutte le informazioni ai soldati del Khilafah (= Califfato)» e il Califfato dà un’idea tutt’altro che statica di sé, diversificando la propria visibilità e ottimizzando il risultato finale: Gruppo politico, proto-Stato, movimento ideologico e con lo scopo di consolidare il Califfato e di catalizzare l’entusiasmo dei musulmani di tutto il mondo, l’IS amalgama il grado di violenza che gli consente di imporsi con un uso sapiente dei Social Media, una narrativa jihadista nuova e a tutto tondo — diversamente da al-Qaeda che privilegia una struttura centralizzata con attacchi spettacolari meticolosamente organizzati —, una capacità anche militare di conquistare territori e mantenerli, un’aperta e manifesta ostilità nei confronti dell’Occidente. Lo scopo — se ce ne fosse bisogno — è chiarito in calce al documento. O fratelli in America, sappiate che la Jihad contro i Crociati non è limitata ai territori del Califfato: è una Jihad estesa al mondo intero e la loro guerra non è solo una guerra contro lo Stato Islamico, è una guerra contro l’Islam. Questi infedeli (kuffar) che bombardano la Siria, l’Iraq, lo Yemen, l’Afghanistan (Khurasan) e la Somalia sono gli stessi Paesi in cui voi risiedete: quando
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Strategie di comunicazione e propaganda jihadista sui Social Network dunque diverrete attivi? Sappiate che è un «obbligo religioso» (wajib) per voi uccidere questi infedeli! Oggi vi abbiamo facilitato il compito, fornendovi gli indirizzi: tutto ciò che dovete fare è dare il via alla fase finale. Che cosa state aspettando? Uccideteli nei loro luoghi, decapitateli nelle loro case, pugnalateli a morte mentre camminano per le strade ritenendosi al sicuro. Due giorni dopo, un account Twitter offriva aiuto a chiunque intendesse fiancheggiare con i propri account Twitter l’attività informatica dell’IS e dare maggiore ampiezza e risalto ai dati ottenti dall’hackeraggio dell’11 agosto, secondo la prassi consolidata di aprire nuovi account per sopperire alla chiusura — volontaria o imposta — di account considerati suscettibili e dunque pericolosi: Lo ripetiamo per la milionesima volta: siamo pronti a fornire account per i fiancheggiatori della Jihad. Al-fateh — un software di sicurezza usato per mascherare la localizzazione di jihadisti on-line — è ora operativo su Twitter.
Blowfish, DES, DESede, GOST28147, IDEA, ISAAC, Noekeon, RC2, RC4, RC532, RC564, RC6, Rijndael, SKIPJACK, Serpent, TEA, Twofish, CCM, EAX, GCM) messi on-line dalla Jihad — Tashfeer alJawwal o Amn al-Mujahid o Asrar al-Ghurabaa — sono dedicati allo stesso risultato; sulla stessa scia si inserisce la nuova chatroom messa on-line da IS il 25 agosto 2015 che utilizza la messaggistica testuale criptata dell’app Telegram: molti jihadisti che in passato utilizzavano Whatsapp oggi sono passati, per motivi di sicurezza, ad app criptate come Kik, Telegram o Surespot. Al di là dei software specifici, la strategia attraverso la quale viene evasa la censura on-line è chiaramente pianificata oltre che di particolare efficacia: la popolarità dei Social Media ha reso la propaganda jihadista più forte che mai (da settembre a dicembre 2014 si sono avuti 46.000 Twitter account in supporto alle attività dell’IS; ogni account ha circa 1.000 contatti); gli informatici della Jihad hanno saputo approfittare di un «contenitore» — Internet appunto — in continua riconfigurazione e ciò by-passa ogni eventuale sospensione di account o cancellazioni di pagine. Vengono inoltre utilizzate contemporaneamente più piattaforme, allo scopo di minimizzare gli effetti di una possibile censura: gli utenti, sapendo di essere nel mirino, hanno at-
È dal 2007 che la Jihad ha iniziato a utilizzare software di criptamento (Asrar al-Mujahideen, i «segreti dei Mujahideen») messi on-line da Global Islamic Media Front (area al-Qaeda) localizzato a Singapore e implementati attraverso chiavi informatiche pubblicate via via sulle riviste on-line del tipo Inspire o Dabiq per permettere di criptare i files direttamente dai cellulari con sistema Android. Il 18 settembre 2013 il franchising al-Qaeda per il Maghreb ha pubblicato via Twitter informative sul software TOR (The Onion Router) per garantire l’anonimato e la censura online, software diffuso attraverso account Twitter di gruppi fiancheggiatori (per esempio, Warshat Fursan al-Nashr, una sussidiaria del network mediale al-Battaar, il 13 ottobre 2014). Altri recenti Cyber Jihad Android (fonte: Memri.org). software con potenti algoritmi (AES,
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Strategie di comunicazione e propaganda jihadista sui Social Network tività sul Web molto rapide; ognuno di loro ha non meno di venti versioni del proprio nome, tutte on-line e tutte pronte a essere utilizzate. Con questa velocità, si riesce ad accedere per esempio ai video prima ancora che YouTube li abbia cancellati e ciò ne assicura una immediata diffusione, venendo postati attraverso nuovi siti, link e programmi tipo JustPaste.it o operazioni automatiche di server sharing come Rapidleech. Tutto ciò sembra essere stato vincente: come riporta The Hacker News, i siti della Jihad sono quelli che denotano la maggiore presenza sui Social Media risultando tra i più attivi sulle pagine di YouTube, Instagram, Twitter e Facebook; grazie a questo, in Iraq e Siria combattenti stranieri da più di 80 Paesi si sono aggiunti alle fila dell’IS, migliaia dei quali hanno passaporto occidentale: anche se non c’è una precisa indicazione, il loro numero, come risultato della propaganda on-line sui Social Media, è calcolabile intorno alle 22.000 unità, di cui circa 4.000 occidentali (1.000 dalla Francia, 700 dall’Inghilterra, 400 dalla Germania, 440 dal Belgio (al luglio 2015), 100 dall’Austria, 50 dall’Italia, 80 dalla Danimarca). Anche in questo caso l’azione dei Social Media ha avuto un ruolo chiave: l’attività on-line fa dell’IS un marchio vincente incoraggiando chi lo desidera a unirsi; nulla è lasciato al caso e un e-book titolato Hijrah to the Islamic State è online per essere scaricato e favorire ulteriormente l’affiliazione. Perfino la stessa economia globale sembra legata alle azioni jihadiste sul Web: nell’aprile 2013 il gruppo informatico Syrian Electronic Army, erroneamente ritenuto gravitante nell’ambito del regime di Assad, dopo aver preso il controllo dell’account Twitter di Associated Press determinava il panico in Borsa e il Dow Jones registrava 200 miliardi di dollari volatilizzati dai mercati. YouTube, Twitter, Facebook (oggi in declino per via della sua capacità di chiudere i siti jihadisti), Instagram, Flickr e i nuovi Media da questi nati — Ask.FM, Kik Messenger, Friendica.eu, VK.com (dopo Facebook il maggiore sito di Social network per lo più utilizzato da russofoni), JustPaste.it (localizzato in Polonia), Vidme, Statigram, Diaspora, SoundCloud, Skype, VoIP — sono diventati, anche per la continua miopia dell’Occidente, potenti strumenti di reclutamento giova-
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nile per i quali i Social Media riempiono buona parte della vita quotidiana, venendo di fatto a sostituire, nell’ottica di una fruibilità open e in tempo reale, i blog legati a password diversamente non necessarie Facebook è una grande idea, meglio dei forum. Invece che aspettare i contatti in modo da informarli, sei tu che vai da loro e li istruisci. Aggiungimi come amico su Skype. Faccio parte di un gruppo … Le normali porte sono chiuse ma non le nostre! C’è un gruppo di fratelli che è partito (per la Jihad). Io mi preoccupo di radunare i fratelli e di inviarli al loro posto di lavoro. Ora lavoro su Internet. Faccio anche arrivare i fartelli in Siria, e là la strada è aperta. Posso lavorare anche per te. La guerra delle idee è oggi molto più pericolosa di quella che costruì e seguì l’11 settembre: i molti Organismi — al-Qaeda, IS, al-Shabaab, Taliban, Boko Haram — raggiungono con i loro spot attraverso Internet nuovi affiliati per le loro schiere, fornendo risposte alla profonda crisi di identità che ha colpito soprattutto i giovani, musulmani ma non solo. La motivazione è di carattere sociale oltre che generazionale: mentre le generazioni più adulte si sono potute riferire all’interno delle loro società o delle famiglie per trovare risposte ai problemi esistenziali (identità, sottoimpiego e precariato, senso di abbandono, pessimismo per il futuro), i giovani oggi si riferiscono a Internet per confrontarsi o superare le stesse problematiche — esterne a loro e oggi create dalla globalizzazione e/o dalla rivoluzione post-industriale —, trovando abili interlocutori che con riviste on-line o app — è del 2 agosto 2015 la notizia del rilascio attraverso Twitter e l’account Juhaiman (@Jo_007) di una app dell’IS chiamata Nasher https://t.co/l12LnnVkempic.twitter.com/7Brjdld0VK, o Social Networks o Hip Hop hanno saputo convogliare rassegnazioni, aspettative ed energie: le tecnologie avanzate utilizzate in parallelo a slogan e a una ideologia radicale hanno infatti saputo catturare attenzioni ed emozioni e reclutare nuovi elementi — la strategia del winning hearts and minds ancora una volta ha preso
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Strategie di comunicazione e propaganda jihadista sui Social Network strade non previste dai suoi formulatori. Essere accettato ed essere qualcuno: ecco cosa prevede la strategia jihadista del winning hearts and minds. I contatti ottenuti in anonimato e full-day hanno fatto il resto. La guerra asimmetrica che si combatte sul Web si rivolge, con le stesse capacità del marketing commerciale, al proprio target con strategie costruite appositamente e differenziate a seconda del sesso: quelle rivolte ai maschi si avvalgono di immagini — è sempre la cultura del visivo quella maggiormente presente sul Web — di cavalieri dei primi periodi dell’Islam, quando le battaglie erano epiche e la gloria guadagnata sul campo rendeva immortali; quelle rivolte invece alle donne (spesso seconda o terza generazione di immigrati) utilizza immagini delicate, cariche di romanticismo e frasi adatte a fare intuire l’importanza di un mondo ideale, di un coinvolgimento nel sociale, giungendo fino a consigliare un certo tipo di azioni che vanno al di là della semplice attività di supporter on-line: «Non lo dire ai tuoi, puoi fidarti di me». Il rapporto è già creato, attraverso gli impalpabili meccanismi psicologici del segreto e della complicità. Il risultato non si fa attendere: «Non vogliamo ricorrere alla violenza — scrive su Tumbrl il 24 settembre 2014 Umm Ubaydah — solo perché sbagliando l’ha fatto l’America. Stiamo cercando di costruire uno Stato Islamico che permetta di vivere ed abitare secondo la legge di Allah. Non sempre tuttavia immagini e frasi suadenti producono nelle donne pensieri altrettanto in linea ed è possibile vedere le donne schierarsi accanto agli uomini, come quelle della Brigata al-Khansaa dove «le donne imbracciano armi e sono in grado di difendersi da sole». Il messaggio di base, allettante e chiaro, ancora una volta si avvale delle tecniche del marketing: le donne musulmane che scelgano l’IS otterranno — in termini di status sociale — più di quello che potrebbero ottenere altrove, oltre a contenere il «nemico», l’Occidente in generale. Anche per le donne, le motivazioni sono di carattere sociale oltre che generazionale: molte sono diventate più «conservatrici» delle generazioni che le hanno precedute e non poche ragazze vanno in giro velate con l’hijab differentemente da madri e nonne; le musiche scaricate dal web — i Jihad anashid, i «canti della
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Jihad», costruiti per infiammare gli animi —, i blog femminili e le raccolte di poesie socio-politiche come quella pubblicata on-line nel 2014 della poetessa dell’IS Ahlam al-Nasr contribuiscono a proiettare nella psicologia giovanile un certo tipo di idee: musica e immagini costituiscono parte rilevante, per la ricercatrice tedesca Claudia Dantschke, della «cultura giovanile di stampo jihadista» oggi di moda in Germania anche tra i non musulmani. Il prodotto culturale messo on-line sui siti della Jihad non fa altro, quindi, che alimentare quella persuasione emotiva in modo da rinforzare la persuasione cognitiva a sua volta determinata dalla dottrina islamica: immagini, allusioni storico-culturali, raffinatezza linguistica e stilistica, ritmo sono alcuni degli ingredienti di questo vincente cocktail. L’abilità della Jihad nel settore della comunicazione on-line è stata quindi quella di aver saputo confezionare un prodotto in cui ognuno può riconoscersi: chi cerca vendetta può trovare argomenti per le proprie frustrazioni; chi cerca identità può inserirsi in un gruppo a cui appartenere; chi cerca azione trova adrenalina. L’interattività di base propria di Internet rende ognuno protagonista e parte integrante di un più ampio movimento jihadista e non soltanto un utente occasionale. Sono i singoli utenti, infatti, che avendo necessità di arrivare ai contenuti prima che gli accounts di questi vengano sospesi, si rendono parte attiva, scaricandoli e reinviandoli a loro volta nel più breve tempo possibile, anche attraverso più identità con lo scopo di non fare perdere visibilità a quanto messo in rete. Sono oltre 90.000 i tweets generati ogni giorno dagli operativi dell’IS e dai loro simpatizzanti, mentre 46.000 risultano gli account Twitter indipendenti, di cui un numero variabile tra 200 e 500 sono attivi quotidianamente. Per un breve periodo (aprile 2014) è stato reso disponibile sulla piattaforma Google Play un applicativo in arabo per smartphone chiamato «L’alba della buona novella» (Fair al-Basha’ir, Hamza Media) che consentiva agli utenti aggiornamenti in tempo reale e all’IS di utilizzare temporaneamente i loro account e pubblicare messaggi, generando in tal modo un volume di attività on-line notevolmente superiore alle reali dimensioni dell’Organizzazione stessa. È la cultura della Jihad quella che si trova in rete. La
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Strategie di comunicazione e propaganda jihadista sui Social Network propria interpretazione del Corano — abrogando (mansukh) alcune parti e interpretandone (ta’wil) altre —, la fondamentale fase del reclutamento, la costruzione di un sistema di comando e di controllo al tempo stesso di azioni locali e decentralizzate rispetto al centro direttivo e buona parte delle attività di marketing della più moderna Jihad, quella argutamente definita 3.0, avvengono oggi in Rete con l’utilizzo di piattaforme multiple in rapida successione e sostituzione per evitare possibili problemi di censura. Nel 1998 vi erano in Internet 15 siti web associati a Gruppi rifacentesi all’insorgenza islamista; nel 2005 se ne contavano più di 4.000, oggi questo numero è più che raddoppiato: nel 2005 Ayman al-Zawahiri, l’ideologo di al-Qaeda, scrive: Siamo in guerra e più della metà di questa battaglia si combatte attraverso i media. In questa battaglia dei media siamo alla rincorsa per arrivare ai cuori e alle menti della nostra ummah (= la comunità dei fedeli). Le piattaforme dei social networks (Facebook, Twitter, YouTube, Whatsapp, Instagram, Ask.fm, Kik, Tumblr), con la loro recente esplosione di popolarità, anche per il rapido flusso di informazioni che generano, e un target spesso costituito, come detto, da giovani insoddisfatti e alla ricerca di emozioni, hanno notevolmente incrementato l’attività jihadista on-line, aumentando il ventaglio dei possibili utenti — di cui spesso è diminuita l’età, complice anche l’uso di appropriati video game, come il popolare Umma Defense. Quanto quest’arma possa essere letale lo si è visto recentemente in occasione dell’attentato durante la maratona di Boston compiuto dai fratelli Tsarnaev: l’attività on-line ha preceduto e preparato l’evento, ma la stessa attività on-line lo ha anche seguito; uno dei Twitter postati e ripresi dalla pubblicazione on-line Inspire (numero 11, primavera 2013, pagina 17) indica l’esatta dimensione del problema: come spesso accade sulla Rete, soprattutto in quest’epoca di forti e rapidi cambiamenti, i testi o gli scritti sono sostituiti da una letteratura non più scritta bensì visiva ma le poche parole che sopravvivono hanno la stessa valenza di un libro intero:
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Allahu Akbar. Sono così felice! Due soli soldati di Allah hanno sconfitto l’America, il suo esercito e l’America #intel non può più arrestare la sentenza di Allah. Conoscere quella che si sta delineando come la «cultura della Jihad» nel Web ha una importanza strategica rilevante, riuscendo a evidenziare i motivi per cui alcune persone entrano a fare parte della Jihad e ciò, a sua volta, può portare a idee in grado di effettuare una reale controcultura della Jihad che si poggi sulle stesse prerogative che hanno reso vincente la parte dark, per esempio l’uso di audiovisivi: in tutti i siti oggetto di azioni di hakcheraggio, il gruppo informatico (pro-IS) Hacker of the Caliphate State (@Ica_IS6, ex @Ica_isis5 chiuso l’11 aprile 2015) che si appoggiava su server russi (@mail.ru), oltre a inserire la bandiera dell’IS e la firma (Hacked by Islamic State) e talora anche l’hashtag #we_Will-Burn_America, mandava in onda in sottofondo un nasheed — un canto religioso che galvanizzasse: Qariban Qariban, «presto, presto».
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Strategie di comunicazione e propaganda jihadista sui Social Network Twitter è diventata piattaforma di scelta per la Jihad, quella su cui convogliare e da cui fare partire una miriade di links a contenuti digitali e collegati a siti Web, ad altre piattaforme di contenuto sociale o a forum di discussione: l’ideologia jihadista trae un incommensurabile vantaggio dall’iconografia a essi associata; ne sono riprova le numerose riviste on-line, graficamente e psicologicamente perfette, che i maggiori Gruppi jihadisti immettono con regolarità in Rete, usando l’arabo, l’urdu o l’uzbeko, ma anche l’inglese, il francese o il russo; ne sono riprova, ancora, le immagini o i video realizzati attraverso le telecamere dei telefoni cellulari direttamente sul campo d’azione e postati online in tempo reale, con lo scopo di creare «rapporto». Prendendo spunto dal lavoro degli analisti che sembrano avere finalmente compreso l’importanza che la guerra delle parole può avere, all’inizio del 2015 il Presidente americano Obama ha indicato l’utilizzo delle tecnologie di Internet come la principale fonte di reclutamento per le Organizzazioni jihadiste. L’alta qualità dei video, le riviste on-line, l’impiego dei social media, gli account terroristici su Twitter: tutto, oggi, è disegnato per raggiungere on-line i giovani, nel Cyberspazio. Office of the Press Secretary, «Remarks by the President in Closing of the Summit on Countering Violent Extremism,» The White House, February 18, 2015.
Quasi un anno dopo da che Obama ha in pratica commissionato l’annullamento e la definitiva sconfitta dell’IS, il Gruppo ha visto aumentare il proprio risvolto internazionale, si è duplicato in strutture affiliate in numerose regioni e ha incrementato la percezione che in generale il mondo ha della sua realtà. Anche se il Governo degli Stati Uniti cita una presunta riduzione della sua entità in Iraq e in Siria, la caduta di Ramadi e della gran parte della provincia di Ambar in mano dell’IS e l’avanzata effettuata in Libia e nel Sinai fanno ritenere che gli attuali sforzi per contenere l’IS non siano in linea con gli scopi prefissati: pochi e timidi sono stati fino a ora gli interventi americani e internazionali a seguito dell’appello di Obama. È dunque comprensibile l’amarezza che una delle più seguite giornaliste d’America, Pamela Geller, ha inserito in una delle ultime pagine del suo blog (pamelageller.com/2015/08/the-
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islamic-state-of-america-white-house-in-thecrosshairs.html/#sthash.EymX1jFz.dpuf). Obama è totalmente impreparato a contrastare la minaccia dell’ISIS: lui ha creato questa minaccia lasciando l’Iraq precipitosamente e dando opportunità a questo gruppo… lui ha armato i ribelli siriani e molte di queste armi sono ora nelle mani dell’ISIS, mentre i ribelli siriani che lui ha armato hanno gli stessi obiettivi jihadisti dell’ISIS. La minaccia maggiore per l’America è la prossima mossa di Obama. Il Web della Jihad e la guerra delle parole trovano spiegazione in una frase detta oltre 700 anni fà da uno studioso della scuola teologica Hanbali, Ibn Taymiyya (1263-1328), oggi più che mai attuale: «il fondamento della religione è un Libro che insegna la giusta strada e una spada che lo affianca (qawam al-din kitab yahdi wa-sayyf yansur)» e proprio Kitab yahdi wa-sayyf yansur è il titolo di un video pro IS messo in rete da alFurqan Media Foundation nel luglio 2013. Anche se non può certo risalire a Ibn Taymiyya, l’utilizzo della e-Jihad è comunque datato: già nel 2003 circolava on-line un manuale di area salafi sulla «Jihad elettronica» (4) che invitava a partecipare ai forum o a collegarsi ai siti di hacking come modo alternativo di porsi nei confronti dell’Occidente. L’anno prima, in una lettera inviata al Mullah Omar, Osama bin Laden scriveva che «è chiaro come la guerra mediatica sia in questo secolo uno dei metodi più validi; la sua preparazione dovrebbe investire il 90% del tempo impiegato ad organizzare una battaglia» (documento n° AGFP 2002 600321 nel database del Combating Terrorism Center of US Military Academy di West Point); nel 2001, Ayman al-Zawahiri esternava analoghe preoccupazioni: «dobbiamo evidenziare l’esistenza di un gap nella comunicazione tra il Movimento jihadista e la gente comune» (5). Il gap è stato ampiamente colmato e negli ultimi tempi la tecnologia della e-Jihad è stata notevolmente implementata e il prodotto finale ha raggiunto livelli molto alti non solo con l’accessibilità per chiunque anche a migliaia di kilometri di distanza, ma soprattutto per i risvolti psicologici e ideologici che
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Strategie di comunicazione e propaganda jihadista sui Social Network esso ha sull’utenza finale: nelle azioni della Jihad online tutto concorre a creare forte coesione, comunanza emotiva, spirituale e politica facendo emergere due concetti, quello della persecuzione per motivi di fede — e in questo rientra purtroppo appieno il concetto di islamofobia tipico della cultura Occidentale — e quello delle fantasie legate a motivi di rivalsa che, coltivate nel limbo di quello spazio indifferenziato on-line-offline, trovano proprio attraverso Internet operatività e collegamenti alla vita di ogni giorno. Le barriere eventualmente poste dagli Stati e dagli Organismi preposti alla sicurezza sono in tal modo oltrepassate e il messaggio di «chiamata» alle armi contro l’Occidente e gli infedeli può essere diffuso con la certezza del risultato. Qualunque fratello che voglia lavorare per questa religione non intraprenda alcuna azione prima di aver tratto vantaggio dalla grande mole di risorse oggi disponibili su Internet, in particolare dai molti manuali ed enciclopedie e corsi che hanno a che fare con l’operatività dei mujahideen, con la sicurezza elettronica e la sicurezza in generale. Adam Gadhan = Azzam al-Amriki, La tukallafu ila nafsaka (as-Sahab Video, giugno 2011)
I musulmani in Occidente sono messi nel posto giusto per creare il danno maggiore; una opportunità d’oro per fare comprendere la benedizione che ognuno ha di combattere avendo tutto a disposizione.
quello di incitare (tahrid) il credente al combattimento e fare trionfare il proprio credo (iman), la propria religione (din) e la propria fede (manhaj) anche se attraverso la metodologia jihadista di combattere ciò che è falso (batil) per fare emergere la verità (haqq). Il tutto si fonde, attraverso il Web, con i comportamenti reali di chi combatte come mujaheed su un campo di battaglia reale, trasferendo le proprie esperienze su chi ha ancora bisogno di essere guidato verso un’operatività di campo: nella filosofia dei media sono entrambi protagonisti, il mujaheed reale e il mujaheed virtuale. Un commento pubblicato sul sito di al-Fajr il 6 maggio 2011 serve a capire meglio questo concetto: Internet è un campo di battaglia per la Jihad, un posto dove espletare un lavoro missionario, un campo dove poter confrontarsi con i nemici di Dio. Sta a ognuno considerare se stesso come un media-mujaheed dedicando se stesso, le proprie potenzialità e il proprio tempo a Dio. Oggi Internet ci ha reso concettualmente lontani dall’epoca in cui as-Sahab Media diffondeva on-line il video sull’atto terroristico dell’11 settembre per commemorare gli artefici di quell’evento; oggi chiunque, il lone-wolf media-mujaheed per esempio — quello a cui è indirizzato il video messo on-line sull’account
al-Fajr Media, 6 maggio 2011
Se analizzati con attenzione, i territori virtuali sono non soltanto attivi ma produttivi, indipendentemente (e a volte differentemente) dai corrispettivi territori fisici. L’unità virtuale che si crea a livello di ummah — la comunità dei credenti — assume connotazioni internazionali, molto più ampie di quanto potrebbe avere diversamente: si diventa referenziali, divenendo il punto di riferimento ideologico e di soluzione ai problemi che costituiscono le classiche narrative della Jihad; i video per lo più postati in tempo reale direttamente dal campo di battaglia, gli scritti, i canti nasheed trasmessi da YouTube non hanno altro scopo se non
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Strategie di comunicazione e propaganda jihadista sui Social Network twitter di al-Battaar Media (area IS) il 23 agosto 2015 e relativo a un hacking di un sito occidentale di vendita di armi che ha fornito informazioni sul personale militare occidentale —, può preparare, attraverso gli strumenti che il Web mette a sua disposizione, un attacco terroristico ed essere certo del risalto che ancora sul Web ne verrà dato, aggiungendo in tal modo fama e onore alla gloria del martirio: Io vivevo in America — dice un venticinquenne morto in un attacco suicida il 25 maggio 2014 in una intervista rilasciata a Global Islamic Media Front (area al-Qaeda) e successivamente messa on-line — So come è. Hai tutto quello che puoi desiderare, divertimento, ristoranti, macchine. Tu pensi di essere felice, ma non sei felice. Non sarai mai felice. Io non sono mai stato felice. La vita veniva succhiata. La vita del mujaheed è invece una vita incredibile: è la migliore vita che ho mai vissuto. Queste affermazioni indicano il livello di manipolazione di certi soggetti, ma anche la capacità di capirne e sfruttarne i risultati, che saranno globali una volta messi on-line: la pressione si trasforma in convincimento e questo in unione (appartenenza) e azione. Studiando Internet si può avere una idea precisa sui nuovi
Rete di connessioni nel mondo.
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modi che la Jihad utilizza, con piena padronanza delle cyber-tecnologie come sembra dimostrare l’elevato livello raggiunto oggi dall’attività mediatica dell’IS: nel bimestre ottobre-novembre 2014 sono stati almeno 46.000 soltanto gli account @Twitter di pertinenza visualizzati nella Rete. Negli ultimi anni la politica e il mondo accademico occidentale hanno iniziato a interrogarsi sul ruolo che Internet può avere nel processo di radicalizzazione dei suoi cittadini: una grande mole di lavoro è stata effettuata per cercare di capire il radicalismo islamico e varie scuole di pensiero sono nate riguardo ai possibili fattori che spingono gli individui ad abbracciare il radicalismo fino al punto di utilizzare azioni violente contro se stessi e gli altri. Ciò ha portato alla conclusione che vi siano implicazioni globali, sociali e politiche in grado di influenzare chi, in relazione a proprie vulnerabilità — aumentate nel caso di migrazione verso Paesi caratterizzati da marginalizzazione o da razzismo, o per difficoltà di trovare lavoro che non sia solo di basso livello —, appare più ricettivo verso queste ideologie: per chi vive ai margini della società, con minime speranze di lavoro o con un lavoro minimale e con nulla o poco da perdere, unirsi a Gruppi jihadisti conferisce un certo significato alle proprie vite, dato dalla percezione di poter contrastare coloro che sono visti come oppressori. Anche se l’esperienza della marginalizzazione da sola non costituisce l’unica leva per diventare jihadisti, è comunque uno dei motivi che aggrava situazioni di isolamento e di distanza dalla cultura in cui si vive: «Odiavo così tanto l’Inghilterra» dice una giovane inglese aderente all’IS nel corso di una intervista. Mentre fino a poco tempo fa il processo di radicalizzazione richiedeva un certo percorso temporale, oggi tutto è diventato più rapido anche per l’aumentato livello di propaganda disponibile on-line e per l’aiuto fornito da una nuova tipologia lavorativa, quella del broker jihadista in grado di assistere il nuovo membro all’interno di un certo tipo di percorso e soprattutto di un gruppo, cosa che conferisce un senso di appartenenza psicologica maggiore che non una attività solitaria. Internet infatti, pur creando notevoli opportunità per intraprendere un percorso radicale individuale, in
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quanto dotato del grande ruolo sociale di camera di risonanza, non prescinde dal contatto off-line né si sostituisce ai reali contatti interpersonali. Il caso di «Jihadi» Jake Bilardi (alias Abu Abdullah al-Australi), il diciottenne australiano morto suicida il 12 marzo 2015 in una operazione IS a Ramadi, è esemplificativo e non è certo l’unico a questo proposito: Poiché le operazioni relative al mio martirio sono diventate più serrate, voglio raccontare la mia storia, di come sono passato dall’essere uno studente di Melbourne a un soldato del Califfato addestrato per sacrificare la propria vita per l’Islam a Ramadi, Iraq. …Non avevo contatti che mi potessero aiutare. Dopo alcuni tentativi falliti di reperire un contatto… furono alcune conversazioni on-line con i fratelli dello Stato Islamico attraverso le quali migliorai la mia conoscenza dell’Organizzazione… Sono adesso determinato a lasciare questo Paese. Ho continuato la mia ricerca di un contatto, arrivando persino a considerare di espatriare da solo senza alcun aiuto. Finalmente ho trovato un
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contatto in un fratello on-line che mi ha promesso di trasportarmi oltre confine. Blog di Abu Abdullah al-Australi. Da Melbourne a Ramadi: il mio viaggio 13 gennaio 2015.
Le testimonianze dirette hanno una forte presa sugli aderenti, vecchi e nuovi, dei movimenti jihadisti, anche secondo il parere del teorico qaedista Abu Mus’ab alSuri che perciò ne auspica una capillare diffusione attraverso Internet. Così, l’intensa attività su Facebook, Twitter e YouTube del convertito americano Abu Mansour al-Amriki perdura ancora oggi, a un anno di distanza dalla sua morte, attraverso i suoi account Twitter e Facebook, oltre all’e-book «Story of an American Jihaadi». La notizia del martirio di uno dei membri acquisisce risonanza e autorevolezza dal Web e crea ulteriori motivazioni tramite il meccanismo disseminativo proprio dei Social Media: Questa è una guerra delle idee oltre a essere una guerra fisica e proprio come una guerra fisica deve essere combattuta sul campo di battaglia,
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Strategie di comunicazione e propaganda jihadista sui Social Network allo stesso modo la guerra delle idee deve essere combattuta nei Media. È infatti il testo messo on-line da Nasser Balochi il 6 febbraio 2013 sull’account twitter @rpg_5. I messaggi sanno come raggiungere il loro obbiettivo: il jihadista danese Abu Fulan al-Mujahir inizia il suo utilizzo di Twitter nell’aprile del 2013, in occasione del coinvolgimento militare in Siria, con lo scopo di raggiungere attraverso i suoi tweet di guerra il maggior numero di utenti possibile; la sua attività sui Social Media ha fruttato oltre 3.400 contatti; il suo messaggio è semplice ma ficcante: in primo piano figura il nome di battaglia — Abu Fulan al-Mujahir — subito dopo viene il testo «Uno straniero. Oggi combatte in Siria per rendere grande la parola di Allah». Nulla manca nelle tecniche di comunicazione: il combattimento (dunque qualcosa che colpisce l’immaginario maschile), l’essere straniero (dunque l’esemplificazione del «posso anche io»), una motivazione forte (dunque una finalità precisa e chiara e non vaga come quelle che dovevano motivare le forze militari della Coalizione). L’utilizzo dei Social Media in occasione della guerra di Iraq e Siria e dell’escalation di IS testimonia il raggiunto livello nell’impiego di Internet da parte dei movimenti jihadisti. Ingegneri e tecnici informatici sono tra i più ricercati: poco dopo essersi proclamato neo Califfo dello Stato Islamico, Abu Bakr al-Baghdadi il 5 luglio 2014 sul primo numero della rivista on-line Dabiq chiama all’appello appunto gli informatici: Rivolgiamo un appello speciale agli studiosi, agli esperti in giurisprudenza islamica, ai giudici, così come a esperti in campo militare e amministrativo, ai medici e agli ingegneri di ogni specializzazione. Ci rivolgiamo a loro e ricordiamo loro che la loro emigrazione (= adesione all’IS) è un obbligo personale, in modo che possano ottemperare alle necessità dei musulmani. La gente conosce poco la loro religione e hanno sete di persone che possano insegnare loro e aiutarli a capire. Dabiq n° 1
La risposta del Web non si fa attendere: pochi giorni
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dopo il jihadista canadese Abu Muslim, ucciso in Siria, richiamava all’ordine i simpatizzanti on-line in un video postumo (www.memrijttm.org/in-posthumousappearance-canadian-islamic-state-is-fighter-urgesmuslims-in-west-to-travel-to-syria-says-is-can-easily-f ind-accommodation-for-you-and-your-families.html). Il valore mediatico e la pressione psicologica esercitata da testimonianze (wasiyya) come queste di persone qualunque è enorme nell’ambito delle comunità jihadiste (6): Dovete vivere come musulmani al cento per cento… ciò vuol dire combattere. Abbiamo bisogno di ingegneri, abbiamo bisogno di medici, abbiamo bisogno di professionisti, abbiamo bisogno di volontari, abbiamo bisogno di gente che trovi fondi, abbiamo bisogno di tutto. C’è un ruolo per chiunque. Ognuno può contribuire allo Stato Islamico. Se non puoi combattere, versa soldi; se non puoi dare soldi, assistici con la tecnologia. Obblighi religiosi, antagonismo verso la politica occidentale, senso dell’avventura: sono queste in definitiva le principali narrative dell’IS e il vero motivo del loro successo. Nessuna di queste ha motivo di essere confutata né rifiutata: diversamente, ciò avrebbe un impatto negativo sull’intera organizzazione che in pratica non c’è e non ci deve essere. Il tutto è supportato da una fraseologia studiata nel dettaglio, come il messaggio diffuso on-line sulle piattaforme dei Social Media da Abu Muhammad al-Adnani, il portavoce dell’IS: La migliore cosa da fare sarebbe uccidere ogni infedele francese o americano o chiunque dei loro alleati. Se non sei in grado di far detonare una bomba o sparare una pallottola, cerca di trovarti solo con un infedele francese o un americano e colpiscilo in testa con una pietra, sventralo con un coltello, passagli sopra con la tua auto, gettalo da una scogliera, strangolalo, iniettagli un veleno. Non stare inerme, inetto e senza speranza! Se proprio non sei capace di fare tutto ciò, bruciagli la casa, la sua auto, il suo ne-
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Strategie di comunicazione e propaganda jihadista sui Social Network gozio o il suo campo. E se sei incapace anche di questo, almeno sputagli in faccia. Il mondo occidentale non è stato fino a oggi in grado di contrastare la propaganda dell’IS, sia per la rapidità mediatica di cui IS si serve, sia per una instrinseca mancanza di credibilità verso coloro che costituiscono il bacino di utenza per il reclutamento IS, sia per una serie infinita di pastoie burocratiche che ne hanno ritardato e reso inefficaci i pochi programmi di de-radicalizzazione che sono stati intrapresi o che avrebbero potuto esserlo. Anzi, secondo un intelligente articolo dal titolo provocatorio What the Islamic State Is Teaching the West About Social Media pubblicato il 23 marzo 2015 (www.huffingtonpost.com/daniel-wagner/what-the-islamic-stateis-teaching-the-west-about-social-media_b_6918384 .html), l’Occidente ha perfino contribuito a diffondere — per esempio attraverso Fox News — video IS e dunque propaganda jihadista. Sarebbe necessario creare situazioni tali da riuscire a modificare le idee di vittoria e di forza trasmesse dalla Jihad in realtà di debolezza e di sconfitta. Ciò potrebbe essere fatto utilizzando una contro-propaganda che ponesse l’attenzione sulle sconfitte del Gruppo, contra-
stando le dichiarazioni di vittoria ed evidenziando ogni possibile inesatta enfatizzazione. È infatti sulla credibilità che viene giocata la carta mediatica: l’IS mette on-line messaggi che mostrano vulnerabilità le quali, se debitamente indicate e senza usare informazioni false o non verificabili (in caso contrario, il boomerang mediatico si ritorcerebbe contro con forza, come è stato nel passato), potrebbero minare la percezione interna della sua credibilità. Sarebbe anche necessario non esacerbare — come invece è stato fatto dopo l’11 settembre — la comunicazione dell’idea che tutto quello che è Islam e musulmano si debba identificare con il terrorismo: «Voi, musulmani di oggi potete simpatizzare con gli infedeli finchè volete, ma alla fine essi vi incolperanno e vi etichetteranno come terroristi» scrive in un Tweet una canadese emigrata all’IS. Sarebbe infine necessario utilizzare — con gli stessi mezzi dei Social Media (brevi messaggi ma molto espressivi ed emozionali) — le esperienze di coloro che hanno intrapreso la via della Jihad, da cui poi sono usciti perché qualcosa non ha funzionato: disillusione, de-radicalizzazione e conseguentemente disimpegno possono infatti servire da lezione anche per i soggetti considerati vulnerabili. 8
NOTE
(1) J. Johnson, Remarks to the United Nations Interior Ministerial Security Council Briefing on Countering Foreign Terrorist Fighters, May 29, 2015 (http://www.dhs.gov/news/2015/05/29/remarks-secretary-homeland-security-jeh-charles-johnson-united-nations-interior). (2) Il rapporto di F. Pandith, The Rise of Radicalization: Is the U.S. Governement Failing to Counter International and Domestic Terrorism?, letto e discusso il 15 luglio 2015 davanti alla Commissione per la Sicurezza Nazionale (United States House of Representatives, 1st Session, 114th Congress) ritengo che sia valido non solo per gli USA: un lavoro pubblicato da Erin Marie Saltman e Melanie Smith, Till Martyrdom do us part, Institute for Strategis Dialogue, London 2015, e derivato da una serie di interviste approfondite con ragazze occidentali, spesso di famiglie di immigrati, partite per raggiungere l’IS, evidenzia nelle loro risposte l’odio per i loro Paesi dovuto alla emarginazione e al sottolavoro a cui erano costrette. Ulteriore frustrazione deriva loro dal notare come gli Organismi Internazionali non difendano i musulmani, come ad esempio nel caso delle atrocità del Governo alawita di Assad: ‘L’uccisione di musulmani innocenti è non soltanto un effetto collaterale tollerato dai capi dell’Occidente, ma perfino diretto da loro’ è scritto in un Tweet; ‘Avrei voluto indossare il niqab (= velo) al lavoro, ma avrei avuto zero possibilità di lavoro’, scrive un’aderente all’IS, partita dall’Australia. Tutto poggia su un sottile meccanismo psicologico ed emotivo binario: l’empatia verso un certo tipo di narrative unita alla non condivisione di strategie occidentali crea i presupposti per una responsività, lasciando l’Occidente e cercando di costruire qualcosa di alternativo: lo slogan ‘from zero to hero’ sembra indovinato. L’idealismo, il senso di appartenenza, l’avventura (o la romanticizzazione dell’avventura, nel caso delle donne) fanno il resto. R. Coolsaet, Jihad as a Lifestyle, Not in Our Name. The Lost Generation of Violent Extremists, Freedom From Fear Magazine, UNICRI 2015; R. Coolsaet, What drives Europeans to Syria, and to IS? Insights from the Belgian case, Egmont Royal Institute for International Relations: Academia Press, March 2015, (www.egmontinstitute.be/wp-content/uploads/2015/03/academiaegmont.papers.75_16x24.pdf). (3) Molti links di poesie dai contenuti paticolarmente violenti, come ad esempio Mutafa’il wa-l-ya’s bi-l mirsad (Sii ottimista poiché la disperazione è in agguato) inneggiante alla uccisione di appartenenti alla religione ebraica ed apparsa per la prima volta sulla Rivista Sada al-Malahim nel 2008, sono stati – ma non tempestivamente - bloccati da YouTube; le stesse poesie sono tuttavia ricomparse, sempre su YouTube, immutate, ma sotto forma di nasheed: al 7 novembre 2013 il canto-poesia di cui sopra aveva avuto 49.000 contatti. (4) Muhammad bin Ahmad as-Salim, 39 Ways to serve and participate in Jihad, at-Tibyan Publications, Riyadh agosto 2003 (trad. inglese 29 novembre 2003). (5) Ayman al-Zawahiri, Fursan tahat rayah an-Nabi’ (Cavalieri sotto la bandiera del Profeta), tradotto in inglese come Knights under Prophet’s Banner, I ed. al-Sharq el-Awsat 2001 con 252 pagine; II ed. as-Sahab Media 2009 con 507 pagine (www.tawhed.110mb.com/books/Knights_Under_the_Prophet_Banner_english.pdf). (6) al-Furqan (‘Vittoria’), un Media iraqeno, ha avuto un enorme successo con la pubblicazione online di una serie di video titolata Fursan alshahada (Cavalieri del martirio) e costruita sul ritratto di combattenti suicidi (istishhadi) e sui risultati dei loro attacchi. La loro testimonianza riferisce su azioni compiute per salvare i loro fratelli dall’ingiustizia, dalla tirannia e dall’occupazione straniera.
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PANORAMICA TECNICO-PROFESSIONALE
Il regime giuridico delle navi da guerra affondate
L’affondamento della MERCEDES dipinto da Francis Sartorius (wikipedia).
Natalino Ronzitti (*)
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li oceani, incluso il Mar Mediterraneo, sono pieni di relitti di navi da guerra, affondate per i più diversi motivi. I maggiori disastri sono dovuti a eventi bellici, ma non mancano relitti di navi affondate a causa di una tempesta o di una collisione. Taluni di questi relitti, risalenti a epoche storiche meno recenti, contengono beni di valore non indifferente come lingotti d’oro e oro monetato. Questo ha scatenato la cupidigia dei «cacciatori di tesori», in particolare di imprese che si dedicano al loro recupero, attratte dal valore venale del bene senza tener conto del suo valore archeologico e storico. Per quanto riguarda l’Italia il tema è d’importanza non indifferente. Basti pensare alle navi affondate durante la battaglia di Lissa (1866) e alla sorte del Re d’Italia (con a bordo secondo voci non confermate una notevole quantità di monete d’oro) e del Palestro, alla
nave da battaglia Regina Margherita, affondata nel 1916 al largo delle coste albanesi, allo Sciré, sommergibile affondato al largo di Haifa durante la seconda guerra mondiale, che era stato sigillato dopo il recupero dei resti di buona parte dell’equipaggio, ma successivamente «disturbato» durante un’esercitazione navale israelo-statunitense (2002). Senza contare la sorte del transatlantico Ancona, silurato nel 1915 tra la Sicilia e la Sardegna, con un carico di oro e argento, che doveva servire da corrispettivo per l’acquisto di armamenti negli Stati Uniti. L’Ancona, pur essendo una nave privata, era in qualche modo «commissioned» e il relitto ha suscitato gli appetiti della società di recupero Odyssey Marine Exploration, Inc., che aveva chiesto al giudice di Tampa (Florida) un’«injunction» volta a salvaguardare i diritti di recupero del relitto. La Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del
(*) Professore emerito di Diritto internazionale presso lÊUniversità Luiss di Roma e Membro dellÊInstitut de Droit international.
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Il regime giuridico delle navi da guerra affondate Mare del 1982 (d’ora in avanti Unclos, secondo l’acronimo inglese) non contiene specifiche disposizioni per i relitti delle navi da guerra. Disciplina lo status delle navi da guerra in servizio, definendole e disponendone l’immunità (artt. 29-32) e dettando poi una serie di disposizioni a seconda dello spazio marino in cui la nave si trova. Per quanto riguarda i relitti, l’Unclos si interessa solo di quelli aventi valore storico e archeologico, indipendentemente dalla loro qualifica di relitti di navi da guerra o private, siti nella zona contigua (art. 303) o nell’Area (art. 149). In realtà tali disposizioni riguardano tutti gli oggetti aventi valore storico e archeologico, inclusi, ovviamente, anche i relitti delle navi da guerra.
Il diritto consuetudinario D’importanza fondamentale è la vicenda della nave Nuestra Senora de las Mercedes, con un carico di monete d’oro e altri manufatti affondata nel 1804 al largo di Gibilterra dopo uno scontro a fuoco con una nave britannica. La nave, una fregata di nazionalità spagnola, era stata recuperata (salvaged) dalla società Odyssey Marine Exploration, Inc. con sede a Tampa, in Florida. La Odyssey era intervenuta di fronte al Tribunale di Tampa per farsi assegnare i diritti sul relitto. La Spagna rivendicava invece l’immunità del relitto e la sua proprietà, inclusa quella degli oggetti che si trovavano a bordo. Il Tribunale, con una sentenza del 2009, statuì in favore della Spagna. La sentenza del Tribunale è stata confermata in appello (2011) e successivamente dalla Corte suprema degli Stati Uniti (2012). All’Odyssey fu ordinato di restituire alla Spagna 594.000 monete e altri manufatti che erano stati sottratti dal relitto. L’importanza della sentenza Mercedes può essere così riassunta: — La Mercedes era una nave da guerra e il relativo relitto gode d’immunità sovrana; — La nave non operava come una nave privata e quindi il carico a bordo godeva d’immunità come la nave e il relitto; — Spettava ai giudici spagnoli statuire sulla titolarità
del carico, in particolare degli oggetti che non appartenevano al Regno di Spagna. Il Tribunale ha quindi applicato la legislazione Statunitense in materia di immunità dalla giurisdizione (FSIA, Foreign Sovereign Immunity Act) e di relitti di navi da guerra (SMCA, Sunken Military Craft Act). Altre manifestazioni della prassi depongono in favore dell’immunità dei relitti delle navi da guerra: i numerosi precedenti sono riportati nel nostro rapporto alla sessione di Rodi dell’Institut de Droit international del 2011 (1). Occorre anche considerare la legislazione interna, tra cui quella degli Stati Uniti, che hanno adottato nel 2005 il SMCA, a modifica della legislazione precedente. Rilevante è altresì lo statement del Presidente Clinton sulla policy Statunitense in materia di protezione dei relitti di navi da guerra. Da tale legislazione e prassi si desume che: — Il titolo degli Stati Uniti sui relitti delle navi da guerra americane non si estingue a causa del decorso del tempo e la perdita del titolo presuppone una espressa rinuncia (abandonment); — Il recupero (salvage) è consentito, previo espresso consenso del detentore del titolo; — Ogni attività sul relitto deve essere espressamente autorizzata. L’applicazione del SMCA presenta problematicità, qualora il relitto sia localizzato sulla piattaforma continentale o nelle acque territoriali altrui. Comunque il SMCA va letto in congiunzione con la prassi precedentemente citata, secondo cui il relitto continua a essere sottoposto alla giurisdizione dello Stato della bandiera.
Relitti e guerra marittima Come si è osservato, molti relitti di navi da guerra sono dovuti ad attività belliche. Il relitto resta di proprietà e sotto la giurisdizione dello Stato della bandiera, tranne che la nave, prima di affondare, venga catturata dall’avversario, nel qual caso la titolarità dei diritti sulla nave viene trasmessa allo Stato che cattura senza necessità di giudizio delle prede. Il caso di scuola è rappresentato dall’Admiral Nakhimov, nave russa
(1) N. Ronzitti, «The Legal Regime of Wrecks of Warships and Other State-owned Ships in International Law», Annuaire de l’Institut de Droit international, Vol. 74, 2011, pp. 131-177. A tale scritto si rinvia anche per la bibliografia rilevante.
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Il regime giuridico delle navi da guerra affondate affondata nello stretto di Korea dopo essere stata catturata dal Giappone durante la guerra russo-giapponese del 1904-1905. Nel 1980 un’impresa giapponese procedette al recupero della nave, ma il governo sovietico protestò asserendo i suoi diritti di proprietà e l’immunità dalla giurisdizione. In una nota di risposta il governo giapponese correttamente affermò che in caso di cattura la nave nemica e gli oggetti che si trovano a bordo diventano ipso facto proprietà dello Stato catturatore. Beninteso i diritti sono trasferiti solo in caso di cattura. Qualora la nave sia affondata senza essere stata catturata, i relativi diritti permangono in capo dello Stato della bandiera. Tesi, per esempio, fatta propria dalla Corte Suprema di Singapore nel caso dell’U-boat 895, affondato nel 1944 nello stretto di Malacca, qualificato dalla Corte Suprema di Singapore come proprietà della Germania.
Il rispetto dovuto alle vittime È tradizione marinara che le vittime possano riposare nella nave affondata che diventa una sorta di cimitero. Nel 2000, la Corte d’Appello della Virginia sentenziò, nel caso La Galga e Juno (galeoni spagnoli affondati al largo della Virginia, rispettivamente nel 1750 e 1802) quanto fosse inopportuno interferire con relitti con a bordo i resti delle vittime. Nel 1995 una dichiarazione congiunta di Francia, Stati Uniti, Germania, Giappone, Federazione Russa e Regno Unito si pronunciò a favore del rispetto dovuto al relitto come luogo di «riposo finale» per coloro che avevano servito fedelmente la loro nazione. Gli Stati Uniti, in una dichiarazione presidenziale del 2001, ribadirono il concetto, che è fatto proprio, ampliandolo a tutte le vittime, militari o civili, dalla Convenzione UNESCO del 2001, di cui si dirà più oltre.
Relitti di navi da guerra, ostacoli alla navigazione e pericoli ambientali Un relitto di una nave militare può costituire un ostacolo alla navigazione e nello stesso tempo un pericolo per l’ambiente dovuto alla fuoriuscita di carburante. Addirittura vi possono essere pericoli più gravi di inquinamento, qualora la nave fosse stata a propulsione nucleare o avesse imbarcato sostanze altamente tossiche come le
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Il relitto del Sommergibile SCIRÈ affondato al largo di Haifa durante la seconda guerra mondiale.
armi chimiche. Il Pacifico è pieno di relitti della seconda guerra mondiale. Noto è per esempio il caso della petroliera US Mississinewa, nave ausiliaria degli Stati Uniti, affondata durante la seconda guerra mondiale, che aveva inquinato la Laguna di Ulithi negli Stati Federati della Micronesia. In tutto i relitti della seconda guerra mondiale, tra navi da guerra e petroliere convertite a navi ausiliarie, ammonterebbero a circa 3.800. Il problema è che le norme convenzionali rilevanti non si applicano alle navi da guerra e ai loro relitti. La Convenzione di Nairobi del 2007 sulla rimozione dei relitti non si applica alle navi da guerra, tranne che lo Stato della bandiera decida altrimenti. Anche le convenzioni IMO in materia di responsabilità per inquinamento non si applicano alle navi da guerra (Convenzione internazionale concernente la prevenzione dell’inquinamento marino da idrocarburi, 1954, art. II, i; Convenzione in-
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Il regime giuridico delle navi da guerra affondate ternazionale del 1969 sulla responsabilità civile per i danni derivanti da inquinamento di idrocarburi, come emendata dal Protocollo del 1992, art. XI; Convenzione del 1969 sull’intervento in alto mare in caso di sinistri che causano o possano causare inquinamento da idrocarburi, art.1, par. 2). La Convenzione internazionale per la prevenzione dell’inquinamento causato da navi del 1973 (MARPOL) esclude dal suo campo di applicazione le navi da guerra e le navi di Stato, ma impone agli Stati parti l’obbligo di prendere adeguate misure, «per quanto possibile e praticabile». Eguali considerazioni valgono per la Convenzione di Londra sulla responsabilità civile per i danni da inquinamento del combustilbile delle navi del 2001 (art. 4, par.2), ma le parti sono libere di applicarla alle navi da guerra affondate. Lo stesso dicasi per l’Unclos (art. 236), quantunque gli Stati dovrebbero conformarsi per quanto possibile agli obblighi previsti dalla Convenzione. L’unica convenzione che contiene disposizioni appropriate è la Convenzione del 1993 sulla proibizione delle armi chimiche. In base a una corretta interpretazione del combinato disposto dell’art. I della Convenzione e dell’Annesso IV (B) relativo alle armi chimiche «vecchie e abbandonate», corre l’obbligo della loro rimozione quantunque site sul relitto di una nave da guerra. A nostro parere, la minaccia ambientale dovrebbe essere valutata sia sotto il profilo dell’obbligo generale di protezione dell’ambiente sia sotto quello del pericolo per gli individui (quindi sotto il profilo dei diritti umani). Il combinato disposto dovrebbe quantomeno portare alla costruzione di un obbligo di «due diligence” per gli Stati, volto a rimuovere le cause della minaccia.
zione, che è entrata in vigore nel 2009 ed è stata ratificata da oltre cinquanta Stati, compresa l’Italia, si applica agli oggetti che siano stati sommersi per almeno 100 anni. Il termine dei 100 anni è una «rolling date» nel senso che esso matura man mano che il centennio venga raggiunto. Allo stato attuale, i relitti della prima guerra mondiale, di cui si è celebrato il centenario, ricadono quindi in larga parte sotto la previsione della Convenzione. La Convenzione si applica anche ai relitti delle navi da guerra e detta in materia un regime speciale. Il regime dei relitti delle navi da guerra è modulato a seconda della zona marina in cui si trovano. Qualora il relitto si trovi nelle acque territoriali o arcipelagiche, lo Stato costiero, allo scopo di prendere le misure migliori volte alla protezione del relitto, dovrebbe notificare allo Stato della bandiera il ritrovamento. Dovrebbero altresì essere informati gli Stati che hanno un legame di natura storica, culturale o archeolgica. Qualora il relitto si trovi nella ZEE o nella piattaforma continentale, ogni attività dovrà implicare la collaborazione tra Stato costiero e Stato della bandiera. Per quanto riguarda l’Area, il consenso dello Stato costiero è sempre richiesto. Come si è detto, la Convenzione è stata ratificata da una cinquantina di Stati, tra cui, recentemente, la Francia, che aveva manifestato riserve in sede di redazione proprio in merito al regime dei relitti di navi da guerra, non conforme, a suo parere, al principio dell’immunità sovrana del relitto. Riserve espresse anche da Regno Unito, Stati Uniti, Federazione Russa e Paesi Bassi, che per il momento ne hanno impedito la ratifica.
La Convenzione UNESCO Come abbiamo visto, molti relitti di navi da guerra sono risalenti nel tempo e possono essere considerati oggetti di valore storico e archeologico. Lo strumento più completo in materia di protezione del patrimonio culturale sommerso è costituito dalla Convenzione UNESCO del 2001, che si applica non solo ai relitti, ma anche a opere fisse, per esempio una città sommersa. Scopo della Convenzione è di preservare il patrimonio culturale a beneficio dell’intera umanità e di impedirne lo sfruttamento commerciale, preferibilmente mediante la preservazione in situ. La Conven-
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La Risoluzione dell’Institut de Droit international Come anticipato in premessa, il regime giuridico delle navi da guerra affondate non è mai stato oggetto di codificazione da parte della comunità internazionale. Derek Bowett, membro della Commissione del diritto internazionale, si limitò a introdurre la questione, ma essa restò senza seguito in seno alla Commissione che, com’è noto, è il massimo organo codificatorio delle Nazioni Unite. Il tema è stato ripreso dall’Institut de Droit international (IDI), che ha adottato nella sessione di Tallinn
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Il regime giuridico delle navi da guerra affondate (2015) una Risoluzione intitolata «The Legal Regime of Wrecks of Warships and Other State-owned Ships in International Law», di cui chi scrive è stato rapporteur (2). Le risoluzioni dell’IDI non sono fonte di diritto e costituiscono solo uno strumento di soft law. Esse, tuttavia, contribuiscono a chiarificare il diritto esistente in materia e possono servire da base per una futura codificazione. Quali i punti principali della Risoluzione, i cui testi sono in inglese e in francese («Le régime juridique des épaves de guerre et des épaves des autres navires d’Etat en droit international»), tenendo presente che la versione inglese costituisce il testo negoziale? La Risoluzione consta di 15 articoli e di un preambolo, che ne indica i nodi principali mediante il richiamo alle pertinenti convenzioni internazionali. Il suo scopo è quello di contribuire a chiarificare il diritto applicabile ai relitti delle navi da guerra, materia ancora piena di incertezze. La Risoluzione, che contiene una definizione di relitto (wreck, épave), è ancorata a due principi fondamentali: i relitti delle navi da guerra come patrimonio culturale e la loro immunità dalla giurisdizione. Quanto alla definizione, viene precisato che il relitto si riferisce a una nave affondata, non più operativa. Il relitto può comprendere anche una parte della nave, inclusi gli oggetti che si trovano a bordo. La Risoluzione disciplina i relitti delle navi di Stato, cioè delle navi da guerra, di quelle ausiliarie e di ogni altra nave utilizzata a fini governativi non commerciali. Si riprende la definizione dell’Unclos, che ripete sul punto la Convenzione di Ginevra del 1958 sull’alto mare. Nella definizione è incluso il carico e qualsiasi altro oggetto appartenente allo Stato o a privati. Navi in secca o in procinto di affondare non sono comprese nella definizione. Sono altresì escluse le piattaforme petrolifere, anche quelle semoventi e che si ancorano sul fondo. Come precisato, uno dei principi fondamentali della Risoluzione è la protezione del patrimonio culturale, cioè i relitti di interesse storico e archeologico, vecchi almeno 100 anni (art. 2). Sul punto la Risoluzione riprende il regime della Convenzione UNESCO del 2001, obbligando gli Stati ad adottare le misure necessarie per impedirne
lo sfruttamento commerciale e il saccheggio. La preferenza è per la conservazione in situ del relitto. Ove questa non sia possibile, il relitto dovrà essere recuperato ed esposto in modo conveniente, per esempio in un museo. L’altro principio fondamentale è quello dell’immunità dalla giurisdizione (art. 3), che comporta l’assoggettamento del relitto allo Stato della bandiera. Il relitto rimane inoltre sua proprietà, tranne che lo Stato della bandiera abbia chiaramente disposto una rinuncia o ne abbia trasferito ad altri il titolo. La stessa disciplina vale per il carico, che resta soggetto alla giurisdizione dello Stato della bandiera, il cui ordinamento ne determinerà anche i diritti di proprietà (per esempio, il carico appartenente ad altri Stati) (artt. 4 e 5). La proprietà dei relitti delle navi affondate durante una battaglia sarà determinata secondo le regole del diritto dei conflitti armati (art. 6), mentre quelle della successione tra Stati determineranno i diritti sui relitti delle navi appartenenti allo Stato predecessore (art. 11). La Risoluzione fa riferimento al diritto consuetudinario e si è astenuta dal citare la Convenzione di Vienna del 1983 sulla successione in materia di beni, archivi e debiti di Stato, di chiara impronta radicale, che ha attratto un numero molto basso di ratifiche e non è neppure in vigore. Uno dei principali problemi in materia di regime giuridico dei relitti delle navi di Stato — che, è bene ricordare, include le navi da guerra, le navi ausiliarie e quelle adibite a servizio pubblico non commerciale — è costituito dai rapporti tra principio dell’immunità dalla giurisdizione di cui gode il relitto e poteri dello Stato costiero, qualora il relitto si trovi nelle acque altrui. Sul punto la Risoluzione si ispira alla Convenzione UNESCO del 2001 (artt. 7-10). Nelle acque interne, territoriali e arcipelagiche, la regolamentazione delle attività sul relitto spetta allo Stato costiero, che dovrà però tener conto del principio dell’immunità sovrana sul relitto spettante allo Stato della bandiera. Nella zona contigua, si applica l’art. 303 Unclos, che accorda allo Stato costiero il potere di disciplinare la rimozione del relitto. Al contrario nella ZEE e sulla piattaforma continentale, i poteri di regolamentazione spettano allo Stato della bandiera, che
(2) La Risoluzione è reperibile sul sito dell’Institut, sia in versione inglese sia in versione francese: www. idi-iil.org.
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Il regime giuridico delle navi da guerra affondate dovrà però tener conto dei diritti sovrani dello Stato costiero (per esempio in materia di pesca o per lo sfruttamento delle risorse naturali della piattaforma continentale). Se il relitto costituisce un ostacolo all’esercizio di tali diritti, lo Stato costiero potrà procedere alla sua rimozione, qualora lo Stato della bandiera non prenda alcuna misura, nonostante la richiesta dello Stato costiero. Per quanto riguarda l’Area, il relitto è sottoposto alla giurisdizione esclusiva dello Stato della bandiera, fatto salvo l’art. 149 Unclos. Opportunamente la Risoluzione contiene disposizioni umanitarie, in particolare per quanto riguarda il rispetto dovuto alle vittime. Per quanto riguarda le vittime della guerra, la Risoluzione prospetta la possibilità di stabilire dei cimiteri di navi affondate. Comunque le vittime devono trovare degna sepoltura, qualora il relitto dovesse essere recuperato (art. 12). Merita inoltre di essere ricordata la disposizione relativa sia ai pericoli della navigazione rappresentati dalla presenza di relitti sia ai pericoli per l’ambiente marino. Come si è detto, la Convenzione sulla rimozione dei relitti del 2007 non si applica alle navi da guerra. Per questo la Risoluzione dispone che lo Stato della bandiera dovrà procedere alla rimozione dei relitti della nave da guerra pericolosi per la navigazione o fonte di inquinamento. Si dovrà in ogni caso tener conto dei diritti dello Stato costiero ove la rimozione debba avvenire nelle acque soggette alla sua giurisdizione. In caso di imminente pericolo, lo Stato costiero potrà prendere le misure necessarie per farvi fronte (art. 14). La Risoluzione non abolisce l’istituto del recupero («salvage»), spesso criticato poiché sfruttato impropriamente dai «cacciatori di tesori». Secondo la legislazione di common law, che le corti Americane estendono impropriamente al di fuori delle acque statunitensi quasi che l’istituto appartenesse al diritto internazionale consuetudinario, il salvor ha diritto a una ricompensa e addirittura diventa proprietario del relitto se questo è res nullius. La Risoluzione stabilisce che il salvage deve essere effettuato conformemente alle pertinenti regole di diritto internazionale, a quelle stabilite dalla Risoluzione e in conformità alle pratiche archeologiche, onde evitare la distruzione del bene (art. 13). Infine, la Risoluzione stabilisce un dovere di coope-
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razione sia per quanto riguarda la preservazione dei relitti che costituiscono patrimonio culturale sia per quanto riguarda la loro rimozione qualora costituiscano un pericolo per la navigazione (art. 15). Tra l’altro, gli Stati devono assicurare che i relitti non costituiscano una minaccia per l’ambiente marino e dovranno prendere misure appropriate di prevenzione. Regole che dovranno trovare un’adeguata esecuzione nei mari chiusi o semichiusi come il Mediterraneo, dove la protezione del patrimonio culturale sommerso assume una concreta rilevanza.
Conclusioni La Risoluzione dell’Institut consolida un dato fondamentale: l’immunità dalla giurisdizione dei relitti delle navi da guerra. Essi, al pari delle navi in esercizio, restano sotto la giurisdizione dello Stato della bandiera. Non solo. Anche il cargo gode dell’immunità dalla giurisdizione e i relativi diritti saranno determinati dall’ordinamento dello Stato della bandiera. I rapporti tra Stato costiero e Stato della bandiera, per quanto riguarda la rimozione del relitto e il suo recupero, saranno determinati a seconda della zona in cui il relitto si trova, con una graduazione che varia d’intensità a partire dalle acque territoriali altrui. Il recupero (salvage) non viene abolito, ma deve essere esercitato in conformità ai diritti dello Stato della bandiera. Preminente resta l’interesse della comunità internazionale in relazione alla preservazione dei relitti costituenti patrimonio storico e archelogico, testimonianza dell’eredità culturale dei popoli. Il dubbio è se gli anzidetti principi, qui sommariamente indicati, possano essere salvaguardati dal riferimento al solo diritto consuetudinario e alla Convenzione UNESCO del 2001, che non è ancora stata universalmente ratificata. E’ da chiedersi quindi se non convenga predisporre una convenzione internazionale che abbia per oggetto la codificazione dei relitti delle navi da guerra. I lavori potrebbero essere intrapresi dalla Commissione del diritto internazionale delle Nazioni Unite e la Risoluzione dell’Institut contribuirebbe certamente a porre le basi per l’opera di codificazione. 8 39
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Il regime giuridico delle navi da guerra affondate
JUSTITIA ET PACE INSTITUT DE DROIT INTERNATIONAL Session de Tallinn – 2015
9th Commission PLENIERE 29 August 2015
NINTH COMMISSION The Legal Regime of Wrecks of Warships andOther State-owned Ships in International Law Rapporteur : M. Ronzitti RESOLUTION The Institute of International Law, Emphasising the duty of co-operation for the preservation and protection of cultural heritage, Conscious of the duty to protect and preserve the marine environment, Guided by the rules of customary international law enshrined in the United Nations Convention on the Law of the Sea (1982), Recalling the Convention on the Protection of Underwater Cultural Heritage (2001) as well as the Convention on the Means of Protecting and Preventing the Illicit Transfer of Ownership of Cultural Property (1970) and the UNIDROIT Convention on Stolen or Illegally Exported Cultural Objects (1995), Taking note of the Nairobi International Convention on the Removal of Wrecks (2007), Taking also note of the United Nations Convention on Jurisdictional Immunities of States and their Property (2004), Bearing in mind the law of armed conflict at sea as well as the customary rules on the succession of States, Being aware of the uncertainties that continue to surround the question of wrecks of warships and desiring to contribute to the clarification of international law concerning this matter, Adopts the following Resolution: Article 1 Definitions For the purposes of this Resolution: 1. “Wreck” means a sunken State ship which is no longer operational, or any part thereof, including any sunken object that is or has been on board such ship. 2. “A sunken State ship” means a warship, naval auxiliary or other ship owned by a State and used at the time of sinking solely for governmental non-commercial purposes. It includes all or part of any cargo or other object connected with such a ship regardless of whether such cargo or object is owned by the State or privately. This definition does not include stranded ships, ships in the process of sinking, or oil platforms.
1. 2. 3. 4. 5.
Article 2 Cultural heritage A wreck of an archaeological and historical nature is part of cultural heritage when it has been submerged for at least 100 years. All States are required to take the necessary measures to ensure the protection of wrecks which are part of cultural heritage. Where appropriate, wrecks of the nature referred to in paragraph 1 should be preserved in situ. Wrecks of the nature referred to in paragraph 1 not preserved in situ should be recovered in accordance with appropriate archaeological practices and properly displayed. States shall take the measures necessary to prevent or control commercial exploitation or pillage of sunken State ships, which are part of cultural heritage, that are incompatible with the duties set out in this Article as well as in applicable treaties.
Article 3 Immunity of sunken State ships Without prejudice to other provisions of this Resolution, sunken State ships are immune from the jurisdiction of any State other than the flag State. Article 4 Sunken State ships as property of the flag State Sunken State ships remain the property of the flag State, unless the flag State has clearly stated that it has abandoned the wreck or relinquished or transferred title to it. Article 5 Status of the cargo 1. Cargo on board sunken State ships is immune from the jurisdiction of any State other than the flag State. 2. Cargo owned by the flag State remains the property of that State.
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Il regime giuridico delle navi da guerra affondate 3 Cargo owned by other States remains the property of those States. 4. The sinking of a ship has no effect on property rights concerning cargo on board. However, cargo may not be disturbed or removed without the consent of the flag State. Article 6 Armed conflict at sea Wrecks of captured State ships are the property of the captor State if the capture occurred in accordance with the applicable rules of international law. Article 7 Sunken State ships in internal waters, archipelagic waters and the territorial sea The coastal State, in the exercise of its sovereignty, has the exclusive right to regulate activities on wrecks in its internal waters, archipelagic waters, and territorial sea without prejudice to Article 3 of this Resolution. Article 8 Sunken State ships in the contiguous zone In accordance with Article 303 of the United Nations Convention on the Law of the Sea, the coastal State may regulate the removal of sunken State ships from its contiguous zone. Article 9 Sunken State ships in the exclusive economic zone or on the continental shelf Any activity of the flag State on a sunken ship in the exclusive economic zone or on the continental shelf of a foreign State should be carried out with due regard to the sovereign rights and jurisdiction of the coastal State. In accordance with applicable treaties, the flag State should notify the coastal State of any activity on the wreck which it intends to carry out. The coastal State has the right to remove a wreck interfering with the exercise of its sovereign rights if the flag State does not take any action after having been requested to co-operate with the coastal State for the removal of the wreck. Article 10 Sunken State ships in the Area Without prejudice to Article 149 of the United Nations Convention on the Law of the Sea, wrecks of sunken State ships in the Area are under the exclusive jurisdiction of the flag State. Article 11 Succession of States The provisions of this Resolution are without prejudice to the principles and rules of international law regarding succession of States. Article 12 War graves Due respect shall be shown for the remains of any person in a sunken State ship. This obligation may be implemented through the establishment of the wreck as a war cemetery or other proper treatment of the remains of deceased persons and their burial when the wreck is recovered. States concerned should provide for the establishment of war cemeteries for wrecks. Article 13 Salvage The salvage of sunken State ships is subject to the applicable rules of international law, the provisions of this Resolution, and appropriate archaeological practices. Article 14 Hazard to navigation and protection of the marine environment 1. Subject to Article 7 of this Resolution, the flag State shall remove wrecks constituting a hazard to navigation or a source of, or threat to, marine pollution. 2. The coastal State may take the measures necessary to eliminate or mitigate an imminent danger. Article 15 Duty of co-operation 1. All States should co-operate to protect and preserve wrecks which are part of cultural heritage, to remove wrecks which are a hazard to navigation, and to ensure that wrecks do not cause or threaten pollution of the marine environment. 2. In particular, States bordering an enclosed or semi-enclosed sea should co-operate in the performance of their duties set out in this Resolution in a manner consistent with the rights and duties of other States.
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PANORAMICA TECNICO-PROFESSIONALE La fregata cinese LINYI («Type 54A») in Mar Nero nel 2015 (fonte: http://news.usni.org/).
La dimensione mediterranea nell’espansione navale
di Cina e India Giuliano Da Frè (*)
Un mare sempre meno «Nostrum»? Il «precedente» sta per festeggiare il suo primo centenario. È l’agosto del 1914: mentre l’intera Europa entra in guerra, nel lontano Oriente anche il Giappone si unisce alla lotta, schierandosi a fianco della Triplice Intesa. L’obbiettivo strategico del Sol Levante è però limitato alla conquista delle colonie tedesche in Cina e nel Pacifico. Pertanto, sul fronte europeo il governo nipponico si limita a inviare solo un pugno di osservatori, mentre basta la mobilitazione della sua flotta, reduce dal trionfo di Tsushima per ribaltare gli equilibri navali nel Pacifico, scacciandone la squadra tedesca dell’ammiraglio von Spee, e sostituendosi alla Royal Navy impegnata a tenere d’occhio la potente marina del
Kaiser. Ma a riprova della stima di cui la flotta giapponese godeva tra gli alleati, questi insistettero per un suo maggior coinvolgimento anche in teatri bellici lontani dal Sud-Est asiatico. Su precisa richiesta dell’Ammiragliato britannico, e dopo aspre divergenze in seno all’alto comando di Tokyo, nell’aprile 1917 gettava le ancore a Malta il 2d Special Squadron, forte di un incrociatore e di 8 modernissimi caccia, cui più tardi si aggiunsero altre unità. La divisione dimostrò le proprie capacità, effettuando 348 scorte a 788 unità mercantili (e 21 navi da guerra inglesi), impegnate a trasportare oltre 70.000 uomini, e salvando quasi 8.000 naufraghi vittime di affondamenti, trascorrendo in media 26 giorni in mare al mese, con un tasso di efficienza ope-
(*) Giornalista, classe 1969, dal 1996 collabora con varie testate specializzate nel settore militare tra cui RID · Rivista Italiana Difesa, Focus Wars e Rivista Marittima. Dal 2002 analista navale per i web magazine Analisi Difesa e Portale Difesa, ha scritto circa 300 articoli dedicati soprattutto alla storia militare, ai conflitti internazionali e allo sviluppo delle forze armate di tutto il mondo. Con Odoya ha pubblicato ÿLa marina tedesca 1939-45Ÿ (2013) e ÿStoria delle Battaglie sul mareŸ (2014), cui è seguito nel 2015, per la Newton Compton, ÿLe grandi battaglie della Prima guerra mondialeŸ.
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La dimensione mediterranea nell’espansione navale di Cina e India rativa pari al 72%, contro il 60% della flotta inglese, e al 45% circa raggiunto dalle flotte francese e italiana. La presenza navale giapponese in Mediterraneo fu un’autentica prima volta, e senza emulazioni per quasi un secolo. Almeno sino ai giorni nostri, se naturalmente si eccettuano le (rare) visite di cortesia effettuate da navi da guerra cinesi, giapponesi, indiane e sudcoreane. Qualcosa però è cambiato, di recente: l’esplodere delle «primavere arabe», che ha rimescolato molte carte sui tavoli da gioco nell’accesso alle fonti energetiche e nel controllo delle vie di traffico marittime, ha portato le due maggiori potenze asiatiche a spedire le proprie navi da guerra in Mediterraneo; non più solo per mostrare la bandiera, ma per affermare vecchi e nuovi principi. Due occasioni d’intervento sono andate in effetti maturando nell’(ex) Mare Nostrum, e nella sua versione «allargata» a Mar Rosso e Golfo Persico. Al largo della Somalia, la lotta alla pirateria generata dal precipitare del paese africano in una crisi inestricabile (e la necessità di difendere gli aiuti umanitari) ha rappresentato per molte forze navali asiatiche un banco di prova. L’India, che ha iniziato un graduale riavvicinamento agli Stati Uniti e agli alleati di Washington nella regione (dal 2007 si sono moltiplicate le esercitazioni congiunte con US Navy, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda), sin dal 2000 ha inviato le proprie navi a toccare i porti del «Mediterraneo allargato», dal Golfo Persico all’Egeo, per poi esercitarsi anche in Atlantico con le marine francese e britannica (1). Contemporaneamente, la flotta indiana (che già si era fatta le ossa in alcuni conflitti asimmetrici locali, come contro la guerriglia navale dei Tamil negli anni Ottanta e Novanta) è scesa in campo contro i pirati somali, dispiegando nel 2008 il caccia Mysore e la fregata Tabar. Proprio quest’ultima, nel novembre di quell’anno scortò 35 navi da carico, sventando con l’elicottero di bordo (che trasportava un team dei MARCOS, o Marine Commando Force) un attacco contro una portacontainer indiana, per poi affondare una nave-madre dei pirati e alcune imbarcazioni veloci in uno scontro svoltosi al largo delle coste dell’Oman. La missione è poi stata inquadrata (dicembre 2010)
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nell’operazione Island Watch, impiegando tra Mare Arabico e Golfo di Aden una media di 3 unità, sia alturiere, sia pattugliatori di medio/forte tonnellaggio della Marina e della Guardia Costiera, che soprattutto nel 2011 hanno sostenuto diversi scontri a fuoco contro i pirati somali. Ma la Marina Indiana non ha esitato a intervenire operativamente anche in Mediterraneo. A fornirle l’occasione, la necessità di assicurare l’evacuazione dei propri concittadini coinvolti nello scoppio di conflitti armati nella regione. Già nel luglio 2006 la Task Force 54, comprendente il caccia Mumbai, le fregate Brahmaputra e Betwa, e il rifornitore Shakti, fu distaccata dalla squadra impegnata in esercitazioni nel Mar Arabico per evacuare — anche impiegando i 7 elicotteri di bordo — quasi 2.300 civili da Beirut, durante la seconda guerra israelo-libanese. Nel febbraio 2011 un’analoga missione (operazione Safe Homecoming) è scattata quando la rivolta contro il regime di Gheddafi in Libia è precipitata in una sanguinosa guerra civile. La Marina Indiana ha così inviato 3 navi (compresa la LPD Jalashwa, un’ex nave anfibia classe «Austin» ceduta dalla US Navy nel 2007, e con a bordo un contingente da sbarco) e 2 traghetti commerciali per evacuare i cittadini indiani da Tripoli e Bengasi, trasferendone quasi 15.000. Due preziose esperienze, che hanno contribuito alla buona riuscita di un terzo intervento umanitario, quando nell’aprile 2015 — e questa volta «sotto un diluvio di
Esercitazione anti-pirateria dei commandos navali indiani MARCOS (fonte: Indian Navy).
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La dimensione mediterranea nell’espansione navale di Cina e India
Navi cinesi evacuano i civili da Aden, nell’aprile 2015 (fonte: Reuters).
La LPD indiana JALASHWA in partenza per evacuare i civili dalla Libia, nel 2011 (fonte: Indian Navy).
Il pattugliatore indiano SUMITRA impegnato a evacuare i civili da Aden, nell’aprile 2015 (fonte: Indian Navy).
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bombe», come affermato dalla stampa indiana — il pattugliatore Sumitra, la fregata Tarkash e 2 navi-traghetto, coperte dal caccia Mumbai (necessario per assicurare la difesa aerea contro eventuali attacchi dei jet in mano ai ribelli) hanno evacuato dal porto di Aden oltre 3.000 civili, con l’operazione Raahat (2). Questi interventi, lungo le rotte marittime che vanno dallo stretto di Hormuz al Levante mediterraneo, sono ormai parte integrante della dottrina operativa della Marina Indiana, come confermava nel maggio 2013 il viceammiraglio Satish Soni, da un anno alla testa del Comando Navale Sud, ricordando che «il pattugliamento della regione compresa tra la costa orientale dell’Africa e lo stretto di Malacca, con frequenti incursioni nel Golfo Persico e nel Mar Rosso, sino al Mediterraneo… sono diventati vitali per mostrare la nostra capacità di rinforzare la difesa e la sicurezza nelle regioni di interesse strategico» (3). Pechino ha seguito in questi anni un percorso simile a quello della Marina Indiana, con la People’s Liberation Army Navy (PLAN) impegnata nella lotta contro i pirati somali, e negli interventi a protezione dei cittadini cinesi posti a rischio dalle nuove fiammate conflittuali esplose nel «Mediterraneo allargato». Il governo cinese, dalla metà degli anni Duemila è però anche impegnato nel rafforzamento del potere navale nazionale, e in un confronto con gli Stati Uniti, e la politica di contenimento delle ambizioni di Pechino avviata dall’amministrazione Obama. Se nel mirino di Washington c’è la strategia insulare e marittima del «filo di perle» cinese, gli ammiragli del Drago hanno deciso di «rilanciare» estendendo il teatro delle proprie operazioni navali dall’Oceano Indiano al Mediterraneo, in concomitanza con il varo di complessi interventi economici e infrastrutturali in Africa e Medio Oriente, sancendo il definitivo passaggio della PLAN da una forza navale essenzialmente costiera ma con capacità alturiera (Green Water Navy, estensione del concetto di Brown Water Navy) a marina dalle ambizioni oceaniche (Blue Water Navy). La lotta alla pirateria nella regione compresa tra Aden e la costa somala ha rappresentato una prima occasione per testare tali ambizioni «fuori area»: e se gli
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La dimensione mediterranea nell’espansione navale di Cina e India ammiragli di Pechino avevano moltiplicato, dopo il 2000, le visite di cortesia nei porti mediterranei (toccando nel 2001 anche l’Italia) per poi compiere nel 2002 la prima circumnavigazione del mondo col caccia Qingdao supportato dal rifornitore Taicang, nel 2008 è iniziato l’impegno della PLAN contro i pirati somali. Dal 26 gennaio 2009, infatti, nelle acque interessate dagli assalti si sono succeduti a rotazione (con turni mediamente di 6 mesi) venti gruppi navali, denominati Escort Task Group, alimentati col naviglio più moderno sfornato dai cantieri cinesi. Le operazioni si sono dimostrate un’eccellente palestra per la flotta di Pechino, che ha confermato un buon livello addestrativo, nonché la capacità di proiettare potenza a lunga distanza dalle proprie basi. Contemporaneamente, l’esplodere negli anni Dieci di una serie di conflitti nell’area euromediterranea «allargata» ha fornito il destro ai vertici politico-militari di Pechino di implementare la loro presenza e l’attività operativa in questa regione. Nel 2011 e nel 2015 la PLAN ha infatti operato al pari della Marina Indiana nelle operazioni di salvataggio di civili, cinesi e non, in Libia e Yemen. All’epoca della rivolta contro Gheddafi, la fregata Xuzhou, capoclasse della versione «Type 054A», impegnata nelle operazioni anti-pirateria, fu distaccata per appoggiare le operazioni di evacuazione; più ampio il ruolo svolto durante la recente crisi yemenita dalle 2 fregate gemelle Linyi e Weifang (inquadrate nel 19th Escort Task Group antipirateria), quando nel marzo 2015 hanno imbarcato ad Aden oltre 800 civili.
Ma le unità cinesi hanno fatto capolino in Mediterraneo in occasione di altre due crisi. Non solo infatti un’altra fregata «Type 054A», la Yancheng, ha contribuito alla scorta delle navi impegnate a smaltire l’arsenale chimico siriano, nel 2014. Nel maggio 2015 due fregate — sempre dello stesso modello, sorta di vetrina della cantieristica navale cinese più avanzata — hanno partecipato a esercitazioni congiunte con la Flotta russa del Mar Nero, epicentro della prima fase del conflitto russo-ucraino, conclusosi con la (non riconosciuta) annessione della Crimea da parte di Mosca. Il 2015 in effetti ha visto le navi cinesi incrementare la propria presenza nel Levante mediterraneo. Alla fine di settembre è stato annunciato l’arrivo di unità da guerra al largo delle coste siriane, per nuove esercitazioni con la flotta russa, nel frattempo impegnata a sostegno del regime di Assad. Anche se per il momento è confermato l’invio solo di una delle solite fregate «Type 054A», l’agenzia israeliana di informazione Debka aveva ventilato che il rafforzamento navale dell’asse Mosca-Pechino potesse passare anche attraverso il dispiegamento al largo della Siria di altre, più potenti unità, compresi cacciatorpediniere lanciamissili ultimo modello, e la stessa portaerei Liaoning, da cui far partire raid aerei! Ipotesi poi smentita ai primi di ottobre, almeno per quanto riguarda il fiore all’occhiello della PLAN, impegnata in esercitazioni aeronavali. Ma anche una suggestiva cartina di tornasole dell’accrescersi delle ambizioni operative della PLAN.
Esercitazione di squadra della flotta indiana (con le portaerei VIKRAMADITYA e VIRAAT) nel Mar Arabico (FONTE: Indian Navy).
La portaerei cinese LIAONING, in servizio dal 2012 (fonte: Wikipedia).
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Le flotte di «Cindia»: due modelli di sviluppo a confronto
A partire dagli anni Ottanta l’India ha diversificato le fonti di approvvigionamento, tornando a comprare prodotti di punta europei, pur mantenendo i rapporti con Mosca (con cui anzi sono stati avviati progetti di sviluppo per sistemi d’arma come il missile antinave «BrahMos»), e aprendo negli anni 2000 alla collaborazione con gli Stati Uniti. Nel frattempo, le capacità produttive sono state potenziate grazie al trasferimento di know-how: e la grande ambizione del XXI secolo è raggiungere una crescente indipendenza tecnologica, nonostante taluni limiti (inefficienza burocratica e amministrativa, ritardi tecnici) ostacolino i principali programmi in corso. Questi ultimi riflettono le rinnovate ambizioni dell’Ammiragliato indiano, messe nero su bianco nel 2005 col Maritime Capabilities Perspective Plan 2022, poi integrato, che punta a una flotta con capacità operative e strategiche globali, confermando inoltre di aver appreso le lezioni delle guerre del 1965 (combattuta senza sommergibili) e del 1971, che aveva mostrato i limiti della componente anfibia. La flotta d’altura, a lungo incentrata su 2 vecchie portaerei impostate negli anni Quaranta e completate nel decennio successivo, punta a disporre di almeno 3 (possibilmente quattro) portaerei. Completati dopo molti problemi i lavori di trasformazione, l’ex incrociatore portaeromobili sovietico Gorshkov è tornato in servizio nel novembre 2013 (5) come portaerei da 45.000 t tipo STOBAR (Short Take-Off But Arrested Recovery) Vikramaditya, equipaggiata con un reparto
In effetti, Cina e India rappresentano ormai due pesi medio-massimi, in campo aeronavale: e se si pensa che dal 2010 la Royal Navy, la «mamma» delle portaerei, è priva di unità di questo genere, e lo sarà sino al 2020, il cambiamento nello scenario marittimo appare spettacolare. Appare, appunto: perché una portaerei non fa una marina efficiente. Entrambi gli strumenti navali dei giganti asiatici mostrano infatti luci e ombre, mentre le differenze tra le due marine sono superiori alle somiglianze. La Marina Indiana ha affrontato il proprio sviluppo in maniera più graduale e bilanciata rispetto a quella cinese, anche grazie alla vasta esperienza accumulata nelle guerre col Pakistan (soprattutto quella del 1971, che ha visto le sue unità navali impegnate in brillanti operazioni in profondità — anche impiegando missili antinave per azioni land attack — e di proiezione aeronavale (4)), accumulando un bagaglio di esperienze operative superiore a quello delle altre potenze navali asiatiche. Influenzata dal retaggio britannico, sul mare la Bhāratīya Nau Senā (BNS) si è posta da subito obbiettivi e ambizioni da Blue Water Navy, creando una flotta alturiera di tutto rispetto (anche grazie alla presenza di portaerei), sacrificandole inizialmente la componente subacquea. Lo sviluppo dello strumento navale di New Delhi ha attraversato più fasi, caratterizzate via via da una diversificazione delle fonti di approvvigionamento, con pesanti conseguenze sulla standardizzazione, dovute alla necessità di integrare sistemi d’arma e sensoristica molto differenti tra loro in quanto a livello tecnologico e filosofia operativa. Alla fase iniziale (1947-1965) legata al saldo rapporto con Londra, che accanto alle navi veterane della seconda guerra mondiale fornì una portaerei ricostruita e alcune fregate di nuovo modello, tra il 1965 e gli anni Ottanta ha preso piede un forte rapporto con l’Unione Sovietica (che ha tra l’altro supportato la nascita della componente subacquea), mentre iniziavano a svilupparsi le capacità cantieristiche nazionali, con la realizzazione delle fregate classe «Nilgiri», de- La portaerei VIKRAMADITYA, in servizio dal 2013. simbolo del potenziamento della flotta indiana (fonte: Indian Navy). rivate dalle «Leander» britanniche.
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La dimensione mediterranea nell’espansione navale di Cina e India aereo di 30 fiammanti caccia multiruolo «MiG-29K» e 6 elicotteri. L’unità affianca la vecchia portaerei (ex Royal Navy) Viraat, acquistata nel 1986: una coesistenza che si annuncia breve, visto che l’unità dovrebbe passare in riserva nel febbraio 2016. Nel frattempo, proseguono i lavori sulla prima portaerei «nazionale», che riprende il nome di Vikrant. L’unità, al cui sviluppo concorre l’industria italiana per l’integrazione di sistemi (l’apparato motore deriva da quello della Cavour), e la vendita di 4 cannoni «OTO-Melara» da 76/62 mm e apparati radar, è stata impostata il 28 febbraio 2009 e varata il 12 agosto 2013: l’entrata in servizio è prevista entro il 2018, con 3 anni di ritardo sul previsto, e le prove in mare inizieranno nel 2016. La Vikrant si presenta come una portaerei da 40.000 t lunga 262 metri e larga 60, in configurazione STOBAR (Short Take Off But Arrested Recovery) e con ponte di volo di 10.000 mq, equipaggiata con «MiG-29K» ed elicotteri, e predisposta per impiegare i nuovi caccia indigeni «HAL Tejas», la cui consegna è iniziata nel gennaio 2015. La realizzazione di una seconda portaerei classe
«Vikrant» (già programmata e ribattezzata Vishal) è però stata posposta, quando nel 2011 l’Ammiragliato ha rilanciato la volontà di dotarsi di una unità da 65.000 t e in configurazione CATOBAR (Catapult Assisted Take-Off But Arrested Recovery), tra l’altro ipotizzando l’impiego di catapulte elettromagnetiche tipo «EMALS», e non escludendo la possibilità della propulsione nucleare. Tra maggio e agosto 2015 sono stati siglati i primi contratti di sviluppo, con l’obbiettivo di completare l’unità attorno al 2025, e la possibilità di realizzarne un secondo esemplare per il 2030. Nel contempo, prosegue il rinnovamento della «cornice» in cui le nuove portaerei devono inserirsi. Le capacità di difesa antiaerea d’area sono state implementate: alle 5 unità classe «Rajput», costruite negli anni Ottanta (derivandole dai «Kashin» sovietici) e ai «Delhi» del 1997-2001 equipaggiati con armi e sensori russi, israeliani ed europei, si stanno affiancando i sofisticati «Kolkata» (Project 15A), caratterizzati da linee stealth e avanzati equipaggiamenti indigeni o occidentali, come il sistema a lancio verticale per missili sup/aria «Barak-8» israeliano, i missili antinave «BrahMos», e il cannone da 76/62 mm «OTO-Melara», e sensoristica di ultima generazione. Il Kolkata è stato consegnato il 16 agosto 2014, seguito un anno più tardi dal Kochi, mentre il Chennai sarà operativo a fine 2016. Nel frattempo, nell’ottobre 2013 è iniziata la costruzione del Visakhapatnam (varato il 20 aprile 2015), prima di 4 unità che rappresentano una versione migliorata — «Project 15B» — dei «Kolkata», e che tra il 2018 e 2024 andranno a sostituire i
La portaerei indiana VIKRANT in bacino, nel 2015, per completare l’allestimento (fonte: Indian Navy).
12 agosto 2013: il varo della VIKRANT, prima portaerei indigena della flotta indiana (fonte: Wikipedia).
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Consegna del cacciatorpediniere indiano KOCHI (classe «Kolkata»), 30 settembre 2015 (fonte: Indian Navy).
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La dimensione mediterranea nell’espansione navale di Cina e India «Rajput». Analogo l’intervento per ammodernare le fregate, la spina dorsale della flotta. Passata in riserva nel 2015 la prima delle 3 «Godavari» (derivate negli anni Ottanta dalle «Nilgiri»), sono in servizio le 3 similari «Brahmaputra» (2000-2005), le 6 «Talwar» tipo «Krivak-III», consegnate dai cantieri russi in due lotti nel 2003-2004 e 2012-2013, e le 3 «Shivalik». Queste ultime sono frutto di un progetto nazionale (Project 17), e sono state consegnate nel 2010-2012: nel febbraio 2015 sono poi stati firmati i contratti per l’avvio, nel 2017, della costruzione di 7 «Shivalik» migliorate
La fregata indiana TALWAR impegnata al largo di Tolone nell’esercitazione indo-francese Varuna 2012 (fonte: Indian Navy).
La moderna fregata SATPURA (classe «Shivalik») in esercitazione con la US Navy nel 2012 (fonte: Wikipedia).
Il sottomarino nucleare indiano ARIHANT in costruzione, nel 2012 (fonte forums.bharat-rakshak.com).
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(Project 17A), con radar più avanzati, e sistemi missilistici «AAW» a lungo raggio. Le unità dovrebbero essere consegnate nel 2024-2030; nel frattempo viene potenziata anche la linea delle corvette, che alle 8 unità da 1.350 t classi «Khukri» e «Kora», affianca ora 4 vere e proprie fregate leggere da 3.400 t e architettura stealth classe «Kamorta» (Project 28), in consegna tra il 2014 e 2017, cui seguiranno 8 unità di tipo migliorato (Project 28A), mentre il 2 gennaio 2015 è stato annunciato il programma Next Generation Missile Vessels (NGMV), per 6 corvette antisom (6). Ma New Delhi sta anche ammodernando le componenti di supporto e specialistiche (si pensi al programma per 12 cacciamine (7), mentre ai 2 rifornitori classe «Deepak» consegnati nel 2011 da Fincantieri è previsto si aggiungano 5 Fleet Support Ships da 40.000 t, il cui sviluppo è stato annunciato nel 2014), e soprattutto, puntando al rafforzamento di quelle componenti dimostratesi carenti all’epoca delle guerre col Pakistan. In realtà, la flotta subacquea indiana ha già raggiunto la maturità negli anni Ottanta-Novanta, quando agli 8 obsoleti battelli tipo «Foxtrot» sovietici si aggiunsero i 10 «Sindhughosh» e i 4 «Shishumar», rispettivamente tipo «Kilo» e «Type 209» (8). Sin dal 2002 questi battelli vengono ammodernati, i «Shishumar» anche per impiegare i missili «Sub-Harpoon»: ma New Delhi ha previsto un gigantesco programma di espansione della forza subacquea, che dopo il 2030 dovrebbe contare su 24 battelli convenzionali e 6 nucleari d’attacco, più un gruppo di sottomarini lanciamissili. Sono così stati varati una serie di programmi, che nonostante la solita ridda di problemi e ritardi, sono ormai entrati nel vivo della prima fase, con la consegna nel 2012 da parte russa di un sottomarino d’attacco classe «Akula» modificato per l’India (che lo ha battezzato Chakra, nome del battello nucleare sovietico già affittato nel 19881991); il sottomarino atomico SSBN Arihant, realizzato localmente, sta invece completando i collaudi, iniziati nel dicembre 2014, e dovrebbe essere consegnato nei primi mesi del 2016. Mentre sono in corso negoziati per la cessione di almeno un altro «Akula» russo, l’Aridhaman, gemello dell’Arihant, è prossimo al varo, cui seguirà l’impostazione di un terzo battello, dei 4 previsti. Infine, il 18 febbraio 2015 il governo indiano ha
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La dimensione mediterranea nell’espansione navale di Cina e India dato il via libera a un programma per la realizzazione di 6 battelli nucleari d’attacco, che farà tesoro dell’esperienza accumulata con Chakra e SSBN. La costruzione della nuova classe di sommergibili convenzionali «Kalvari» (tipo «Scorpène», Project 75) è invece stata avviata su licenza nel 2009. Il programma prevede la realizzazione di un primo lotto di 6 unità, 2 delle quali con propulsione «AIP»; il Kalvari è stato varato il 6 aprile 2015, e l’entrata in servizio è prevista tra un anno, mentre il completamento del programma avverrà nel 2020, andando a sostituire i «Kilo» più datati. Il progetto già prevede l’opzione per altri 6 battelli tipo «Scorpène»: nel frattempo, procede il programma Project 75I, che prevede di realizzare una classe di 6 sottomarini «AIP» di progettazione nazionale, seppur col coinvolgimento di partner stranieri, e con missili land attack. A dimostrazione, infine, della volontà indiana di sviluppare per intero la capacità di force projection dal mare, anche la componente anfibia, sinora relativamente negletta (sono in servizio oltre alla vecchia LPD ex US Navy Jalashwa solamente 5 LST da 5.600 t di tipo recente, ma decisamente inadeguate alle ambizioni indiane), è stata finalmente riportata al centro dell’attenzione, varando nel dicembre 2013 il programma Multi-Role Support Vessel, mirato ad acquisire 4 sofisticate LHD capaci di trasportare 900 soldati e 10 elicotteri: programma per cui sono in gara Fincantieri, con una versione modificata dell’unità appena ordinata dalla Marina Militare, Navantia e DCNS. A confronto con quello indiano, a volte caotico ma incentrato su un notevole bagaglio di esperienza e sul confronto con le maggiori realtà industriali internazionali e su un crescente ritorno di know how tecnologico, lo sviluppo navale cinese risulta decisamente più problematico. Sino al 1980, realizzazioni e operatività sono state legate alla creazione di una forza navale sostanzialmente costiera, impegnata negli anni Cinquanta e Settanta in scontri a bassa intensità con Taiwan e Vietnam, e con un basso livello tecnologico (fatta eccezione per gli sforzi avviati per la componente subacquea nucleare), influenzato negativamente dal ventennale gap creato dalla rottura con l’Unione Sovietica del 1961. Gap che negli anni Ottanta sembrava
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poter essere superato dall’avvicinamento all’Occidente (sempre in chiave anti-sovietica), con i primi trasferimenti di tecnologia, a volte frutto di reverse engineering non autorizzati, e pure bruscamente interrotto dopo il massacro di Tienanmen (1989). Tuttavia, la costruzione in massa avviata negli anni Settanta di rustici caccia lanciamissili, fregate antisom e sommergibili (anche esportati), e il riavvicinamento a Mosca nel 1989, hanno permesso a Pechino di impiantare le basi su cui creare una forza navale più moderna. E se molta strada resta da fare per raggiungere un livello tecnologico avanzato, e crearsi un bagaglio di esperienza paragonabile a quello indiano, nell’ultimo decennio Pechino ha assemblato una flotta forse meglio bilanciata di quella formata dall’ammiraglio Gorshkov tra 1956 e 1985, visto che tenta di coniugare crescita quantitativa con un adeguato livello qualitativo, sia tecnologico che addestrativo (9). Si possono identificare tre fasi, nello sviluppo navale avviato dalla Marina Cinese dopo il 1980. Sino a Tienanmen, le principali realizzazioni avviate localmente nel decennio precedente proseguirono per lotti, introducendo gradualmente armi e sensori acquistati o realizzati più o meno su licenza da Francia, Germania e Italia, sugli ultimi caccia «Luda» o sulle versioni più recenti delle fregate «Type-053», mentre i sottomarini nucleari d’attacco «Han» imbarcavano sonar francesi. Negli anni Novanta gli ammiragli di Pechino si sono affidati alla cantieristica russa per riempire alcune lacune, acquistando 12 sommergibili tipo «Kilo» dalle caratteristiche più avanzate rispetto ai prodotti locali (contemporaneamente venivano infatti realizzati una trentina di «Ming» e «Song», poco apprezzati), e 4 cacciatorpediniere tipo «Sovremennyy», i primi con reali capacità di difesa antiaerea a lungo raggio entrati in servizio con la PLAN, nel 1999-2006. L’ultimo decennio, infine, è caratterizzato da scelte ormai consolidatesi attorno a piattaforme di buon livello qualitativo nei settori sommergibili/caccia/fregate/corvette, mentre semmai l’attenzione è posta sugli assetti destinati a creare una forza navale capace di proiettare potenza in profondità e a lungo raggio, come portaerei e unità anfibie e logistiche sofisticate. Con un percorso simile a quello della Marina Ita-
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La dimensione mediterranea nell’espansione navale di Cina e India liana negli anni Sessanta, quella cinese ha seguito una politica dei piccoli passi, sul tipo della «flotta di qualità» che le ristrettezze economiche trasformavano in «Marina dei prototipi». Tra il 1994 e il 2007 infatti la PLAN ha immesso in servizio 13 cacciatorpediniere di ben 6 modelli diversi, «Sovremennyy» compresi; ossia i 2 «Luhu» («Type-052» del 1994-1996), specializzati nella lotta antisom, seguiti nel 1999 dallo Shenzhen (unico «Type-051B»), il primo con caratteristiche stealth, mentre tra 2004 e 2007 entravano in servizio i 2 «Guangzhou« («Type-052B») multiruolo, i 2 «LuIl caccia cinese KUNMING in allestimento, nel 2014: con i sofisticati mozhou» («Type-051C»), con buone capacità AAW, e i delli «Type-052C» e «Type-052D» la Marina Cinese ha finalmente trovato l’ossatura della sua forza d’altura (fonte: Wikipedia). primi 2 «Lanzhou». Questi ultimi appartengono al modello «Type-052C», caratterizzato non solo da un’architettura stealth più avanzata, ma anche da sofisticati sensori comprendenti radar AESA. Con i «Lanzhou» la PLAN sembra aver trovato la sua strada per avviare la creazione di una componente alturiera più sofisticata e adeguatamente standardizzata. Tra il 2010 e il 2015 sono infatti stati costruiti altri 4 «Type-052C», avviando nel contempo (agosto 2012) la costruzione del Kunming. Questo caccia, Impressione artistica del super-DDG cinese da 12.000 t «Type-055» consegnato il 21 marzo 2014, e seguito entro il 2015 (fonte: Wikipedia). da altre 2 unità, è l’eponimo di una classe di 12-14 esemplari, «Type-052D», derivati dalla precedente: definiti come gli «Aegis cinesi», come ha acutamente sottolineato Ezio Bonsignore (10) «sembrano essere proprio quello che la Marina (cinese) voleva». A ogni modo, nel 2013 è iniziato a circolare il progetto per un super-DDG antiaereo da 10.000 t «Type055», simile ai «Burke» americani, caratterizzato da una cittadella missilistica a lancio verticale per 128-160 ordigni, e nuovo apparato propulsore (sinora uno dei punti deboli dell’industria ciIl futuro super-DDG cinese «Type-055» (fonte: he-naval-report.blogspot.it). nese).
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La dimensione mediterranea nell’espansione navale di Cina e India delle buone prestazioni dimostrate dalle «Type-054» nelle loro crociere, sino al Mar Nero, anche la Marina Russa sembra averci fatto un pensierino. Nel frattempo, è partita la sostituzione dell’enorme flottiglia di unità da difesa costiera (motomissilistiche, motosiluranti e pattugliatori cacciasommergibili e cannoniere, dragamine) con mezzi di nuova generazione: sia leggeri, come le unità d’attacco con scafo a catamarano e idrogetti «Type-022», in produzione dal 2004 in decine di esemplari; sia capaci di effettuare missioni in profondità, come le corvette «Type-096» (classe «Bengbu»), da 1.500 t, architettura stealth e una sofisticata dotazione di armi e sensori: 20 unità sono già state consegnate nel 2013-2015, mentre dal 2014 vengono prodotte nella versione «Type-056A», con una possibile esigenza finale di 50-60 esemplari, anche per la Guardia Costiera. Analogo lo sviluppo delle forza subacquea convenzionale, che dopo le non riuscitissime realizzazioni nazionali, e l’acquisizione di battelli russi, attualmente sta assestandosi su un valido modello di base, il «Type-039» (classe «Yuan», ispirato ai «Kilo»), prodotto dal 2005 in una ventina di esemplari in più versioni e propulsione AIP, mentre il sommergibile lanciamissili Qing in servizio dal 2012, per ora resta un prototipo. Più complicato il rinnovamento della flotta atomica, visto che i nuovi battelli «Type-093» d’attacco e «Type-094 SSBN», con una decina di esemplari pianificati, per ora segnano il passo, al pari delle versioni migliorate «Type-095» e «Type-096», tanto che già si parla di «saltare» direttamente alla generazione successiva. Ma, come accennato, a segnare la volontà di trasforLa moderna fregata cinese QINZHOU: le unità classe «Type-054» stanno diventando la spina dorsale della mare la PLAN in strumento flotta cinese, e una presenza costante nel Mediterraneo allargato, da Aden alla Crimea (fonte: Wikipedia). di proiezione globale a 360
Qualcosa di analogo è avvenuto con la linea delle fregate, dove ammiragli e ingegneri navali cinesi hanno sfruttato sino in fondo le «Type-053» (il cui prototipo risale al 1975) introducendo numerose varianti: negli anni Ottanta le fregate sono state arricchite con armi e sensori di derivazione occidentale, mentre negli anni Novanta tali piattaforme sono state sfruttate per creare unità con maggiori capacità multiruolo, e sperimentare l’architettura stealth (11). Ma le «Type-053» erano piattaforme troppo piccole (2.400 t di dislocamento) per poter accogliere ulteriori modifiche: e così, mentre nel 2005 venivano consegnate le ultime unità della classe, entravano in servizio Maanshan e Wenzhou, prototipi di una nuova classe di fregate («Type-054») caratterizzate da architettura stealth e dimensioni più adeguate alle moderne esigenze di questa tipologia di naviglio, con 4.500 t di dislocamento. Come per i cacciatorpediniere, pertanto anche per le fregate la PLAN ha trovato la sua strada, sviluppando nuove versioni della stessa piattaforma. A oggi risultano in servizio una ventina di fregate «Type-054A», e la produzione continua a ritmi serrati, anche con un occhio all’export: e a dimostrazione dell’efficace politica navale portata avanti da Pechino, e
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La LPD cinese KUNLUN SHAN, prima di 6 unità «Type-071», consegnata nel 2007, scortata da 2 unità d’attacco (fonte: Wikipedia).
gradi sono i programmi relativi agli assetti aeronavale, anfibio e logistico. Mentre i nuovi caccia «Type-052D» forniranno la copertura antiaerea, sotto tale ombrello ha preso posto nel 2012 la già citata portaerei Liaoning, frutto di un compromesso, visto che si tratta di una unità mai completata per la Marina Sovietica, e già destinata a diventare un… lunapark galleggiante. Nonostante le dimensioni (67.000 t di dislocamento e una lunghezza di 305 metri, e 75 di larghezza), l’unità imbarca un gruppo aereo più ridotto rispetto a quello delle nuove portaerei indiane, ossia 24 caccia «J-15» derivati dai «Su-33» russi, e 10 elicotteri. Ma la ricostruzione della Liaoning, e il suo intenso impiego operativo/addestrativo, segnano per la PLAN un passaggio fondamentale, in vista del progetto (ancora ufficioso) mirato a costituire 3 flotte oceaniche incentrate su un gruppo aeronavale imbarcato. E anche se i programmi cinesi restano velati dalla «cortina di bambù», nei cantieri di Dalian (dove fu ricostruita la Liaoning) e Jiangnan risultano essere in costruzione 2 portaerei, verosimilmente simili all’unità ex sovietica, anche se non è chiaro se si tratta del progetto denominato «Type-089», per portaerei da 60.000 t. L’ambizione di Pechino sarebbe di completare almeno una unità già nel 2019, senza contare che si parla di altre 2 portaerei da 90.000 t e propulsione nucleare. Secondo le ultime notizie circolate a settembre-ottobre dopo la diffusione di al-
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cune immagini del cantiere di Dalian, le unità in costruzione — indicate anche come «Type-001A» e «002» — sarebbero già in grado di impiegare la versione navale del caccia di 5ª generazione «Shenyang J-31», in fase avanzata di sviluppo. A confermare le ambizioni oceaniche cinesi ci sono infine anche il rafforzamento della componente anfibia, avviato con la classe di sofisticate LPD da 25.000 t «Type-071», col prototipo Kunlun Shan consegnato nel 2007, seguito dalla costruzione di 5 esemplari migliorati a partire dal 2010, con 2 unità già operative e un’altra a fine collaudi. Tuttavia, Pechino ha avviato anche un programma per 6-8 LHD («Type-081») molto simili alla «Mistral» francesi, e tra l’altro pure proposte per l’export sin dal 2013, anche se non si ha ancora notizia di un avvio della loro costruzione. Infine, dal 2004 sono state introdotte delle moderne rifornitrici da 20.000 t, sempre procedendo prima con la realizzazione di una coppia prototipica («Type 903»), per poi passare alla costruzione della variante migliorata («Type 903A»), con 6 esemplari in consegna tra 2013 e 2016. In tempo per supportare le crescenti ambizioni marittime e geopolitiche cinesi. Quel che è certo, infatti, è che la presenza anche in acque euro-mediterranee delle sempre più moderne e «pesanti» flotte indiana e cinese è destinata a divenire una costante; come lo erano le navi europee in Asia nel secolo Ventesimo. 8
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La dimensione mediterranea nell’espansione navale di Cina e India Tabella IL CONFRONTO DI «CINDIA»* Unità in servizio (al novembre 2015) CINA Portaerei 1 (2012) LHD 0 LPD 4 SSBN 5 SSN 6 Sottomarini conv./AIP 58 (circa) Cacciatorpediniere 25 Fregate 33 Corvette/OPV 27 (circa) Cacciamine 30 (circa) Rifornitori 8 *Viraat, nel 2016 passaggio in riserva
INDIA 2 (1986* e 2013) 0 1 0 1 13 10 14 30 6 4
Principali programmi in corso a fine 2015 CINA INDIA 2 portaerei da 60.000 t (in costruzione) Portaerei da 40.000 t Vikrant (consegna 2018) 2 portaerei da 90.000 t (progetto) 2 portaerei da 65.000 t classe «Vishal» (progetto) 4 SSBN «Type-096» (previsti) 4 SSBN classe «Airhant» (in consegna da 2016) SSBN «Type-098» (progetto) — 2 SSN «Type-093» (in costruzione) 1 o 2 SSN «Akula» (trattativa in corso) 5 SSN «Type-095» (previsti) 6 SSN Indigeni (progetto) SSN «Type-097» (progetto) — 5 SSK «Type-039» (costruzione) 6 SSK classe «Kalvari» (costruzione, 6 in opzione) — 6 SSK «Project 75I» (previsti) Super-DDG da 10.000 t «Type-055» (progetto) 4 DDG classe «Visakhapatnam» (2018-2024) 6 DDG «Type-052D» (2016-2018+3 previsti) DDG Chennai («Kolkata»), in allestimento 5 FFG «Type-054A» (in costruzione) 7 FFG classe «Shivalik» (fine progettazione) 30 corvette «Type-056» (costruzione/previste) 2 corvette classe «Kamorta» (allestimento) Corvette «Type-056A» (programmate) 8 corvette «Project 28A» (programmate) 6/8 LHD simili a «Mistral» (progetto) 4 Multi-Role Support Vessel (progettazione) (*) NB — L’attività frenetica dei cantieri cinesi, e la mutevolezza dei programmi dei 2 paesi rendono i numeri presenti in tabella, soprattutto per quanto riguarda costruzioni e previsioni, non certi.
NOTE (1) L’India si esercita in Atlantico anche con le flotte brasiliana e sudafricana, nell’ambito delle IBSAMAR. (2) Si veda anche di G. Da Frè: «Guerra yemenita: la dimensione navale del conflitto», Rivista Marittima luglio-agosto 2015. (3) http://frontierindia.net/plans-to-establish-reach-in-the-mediterranean-and-beyond-south-china-sea-indian-navy/. (4) Se l’impiego della task force incentrata sulla portaerei Vikrant (che nel 2015 è stata demolita, dopo che nel 1997 era stata trasformata in nave-museo) nel Golfo del Bengala ha svolto un ruolo importante nella guerra per l’indipendenza del Bangladesh, diversi limiti emersero nelle operazioni anfibie, risoltesi senza problemi solo per la scarsa resistenza incontrata. (5) La piena operatività è stata ufficializzata il 14 giugno 2014. (6) Anche per le 16 piccole corvette d’attacco e ASW di progettazione russa classe «Veer» e «Abhay», realizzate tra 1985 e 2002, è prevista la sostituzione con 16 unità da 700 t Marina e Guardia Costiera indiane stanno immettendo in servizio anche nuove classi di pattugliatori, come i 4 «Saryu» (2013-2014, più altri 5 in opzione), e le 14 unità costiere «Car Nicobar», in consegna dal 2009, che presentano limitate capacità antisom. (7) Un contratto assegnato nel 2011 alla sudcoreana Kangnam Corporation, che già aveva realizzato per Seul 6 cacciamine derivati dai «Lerici» italiani, ma entrato in crisi a fine 2014: nell’estate 2015 le trattative con il cantiere erano ripartite con la possibile realizzazione di 8 unità. (8) Il 14 agosto 2013 è andato perduto per incidente il Sindhurakshak (tipo «Kilo»), poco dopo essere stato ammodernato. (9) Il Gorshkov cinese è stato l’ammiraglio Liu Huaqing (1916-2011), comandante della PLAN dal 1982 al 1988, dopo esserne stato uno degli esponenti di punta sin dal 1955, e attivo nell’indirizzare la politica navale dai vertici del PCC sino al 1998. Circa la sopravvalutazione della minaccia navale sovietica, si veda il caustico studio di Giorgio Giorgerini, «La flotta sovietica negli anni ‘80», in Storia Militare nn. 245 e 246/2014. 10) «La gara navale nei mari della Cina», RID-Rivista Italiana Difesa, n. 8/2014, p. 61. 11) Le «Type-053» realizzate negli anni Settanta e Ottanta sono state per lo più radiate o destinate a compiti secondari: ma anche tra le unità più recenti, delle 4 «Type 053H2G» consegnate nel 1992-1994, 3 sono state trasferite alla Guardia Costiera nel 2015. Va detto che tale reparto è in fase di potenziamento con piattaforme combat per poter operare nelle zone insulari contese tra Cina e paesi limitrofi senza che si debba parlare ufficialmente di «presenza militare».
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PANORAMICA TECNICO-PROFESSIONALE
I Pattugliatori ORIONE, SIRIO e LIBRA impegnate nell’esercitzione Aretusa 2015.
«Strategie marine» per la salvaguardia dell’ambiente
La policy e il ruolo della Marina Militare per la protezione e la salvaguardia dell’ambiente marino
Fabrizio Zuppante (*)
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el corso di questi ultimi anni la necessità di preservare lo stato naturale dei mari ha suscitato forte interesse e maggiore attenzione da parte dell’intera collettività, consapevole dell’urgenza di intervenire con tutti i mezzi a disposizione nella salvaguardia dell’ambiente marino nella sua totalità. È infatti innegabile che il mare costituisca una ricchezza e un bene prezioso che necessita di essere preservato, sal-
La scienza è il capitano, e la pratica sono i soldati (Leonardo da Vinci, Aforismi)
vaguardato e, ove necessario, difeso e protetto. La Marina Militare ha sempre prestato una forte attenzione, interesse e sensibilità nei confronti delle tematiche ambientali e della diffusione della cultura marinara e del rispetto del mare. Oggi più che mai la Forza Armata è in prima linea nel campo della tutela dell’ambiente marino, in quanto non solo svolge efficacemente le proprie funzioni istituzionali (1), ma in-
(*) (*) Capitano di Corvetta specializzato in Artiglieria e Direzione del Tiro ed è esperto nel settore dello sviluppo di sistemi d’arma e munizionamento di nuova generazione per le Unità Navali. Attualmente presta servizio presso lo Stato Maggiore della Marina — 3° Reparto Piani, Operazioni e Strategia Marittima (Ufficio Attività Duali e Collaborazioni Esterne).
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«Strategie marine» per la salvaguardia dell’ambiente terpreta anche un ruolo di prestigio nel campo tecnicoscientifico, mettendo a disposizione del Paese i propri mezzi e le proprie expertise nell’ottica di contribuire al raggiungimento di una sempre maggiore competitività ambientale ed economica. Nel corso degli ultimi mesi sono stati infatti stipulati una serie di accordi di collaborazione con alcune Regioni costiere e con i maggiori Istituti scientifici e di ricerca a livello nazionale (vedasi il recente avvio delle collaborazioni con l’ISPRA e il CNR) che prevedono, fra le tematiche di maggior rilievo, lo sviluppo di sinergie e partenariati afferenti la tutela dell’ambiente marino, la ricerca scientifica, la sicurezza marittima e l’innovazione. Il progresso scientifico e tecnologico, lo sviluppo di nuovi sistemi, renderanno possibile tutelare i mari in modo sempre più efficace, anche se una delle più grandi difficoltà nel conseguimento di tale obbiettivo è rappresentata soprattutto dalla scarsa conoscenza dell’ambiente marino e delle sue peculiarità. Solo con il supporto della scienza e della tecnica, attraverso l’estrapolazione, l’analisi, l’elaborazione e l’interpretazione di un’adeguata mole dei dati scientifici, raccolti in modo sistematico, sarà possibile conoscere veramente e approfonditamente il mare; poterne studiare gli aspetti più reconditi, assumere consapevolezza delle sue criticità e delle emergenze, e finalmente agire correttamente mettendo in pratica le azioni necessarie affinché i mari e gli oceani del mondo siano puliti e in buona salute tutelandone le ricchezze e le potenzialità a favore delle generazioni presenti, ma soprattutto pensando a quelle future.
stati individuati tre bacini di notevole interesse per il nostro Paese: — il Mediterraneo occidentale; — il Mar Adriatico; — il Mar Ionio e Mediterraneo centrale. In particolare, ogni Stato membro deve attuare una strategia che permetta di conseguire, entro il 2020, l’obiettivo d’un buono stato ambientale (GES, Good Environmental Status) (2) per ogni regione o sotto-regione marina. L’Italia ha recepito la direttiva 2008/56/CE con il D.Lgs. 13 ottobre 2010, n° 190, che ha conferito al Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare (MATTM) il compito di Autorità Competente per la realizzazione e attuazione di tale programma e ha istituito un «Comitato Tecnico», deputato a coordinare le attività e concorrere alla definizione della strategia dell’ambiente marino. Il Comitato è composto da rappresentanti di diversi ministeri, tra cui il Ministero della Difesa il quale, in tale ambito, ha conferito una delega permanente alla Marina Militare che partecipa attivamente a tutte le fasi attuative del Programma.
La Marine Strategy: aspetti tecnico-scientifici e ruolo della Marina Militare Allo scopo di rispondere alla necessità di conoscere e salvaguardare il mare, l’Unione Europea, con l’emanazione della direttiva quadro 2008/56/CE, ha istituito, in ambito comunitario, il programma denominato Marine Strategy, volto al raggiungimento, da parte degli Stati membri, di un buono stato ecologico delle acque marine. La Direttiva suddivide le acque marine europee in 4 regioni: Mar Baltico, Oceano Atlantico nordorientale, Mar Mediterraneo e Mar Nero. All’interno del Mediterraneo, suddiviso a sua volta in sotto-regioni, sono
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Nave MAGNAGHI, analisi chimico-fisiche delle acque.
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«Strategie marine» per la salvaguardia dell’ambiente stabilire lo stato di salute dei nostri mari, determinare il raggiungimento (o meno) dei Target ambientali necessari per conseguire il Buono Stato Ambientale.
Scienza, innovazione e addestramento: la Marina Militare per la tutela dell’ambiente
Nave MAGNAGHI, impegnata in operazioni di rilevamento a Panarea in sinergia con l’Istituto di Scienze Marine del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR-ISMAR), l’Istituto Superiore per la Ricerca e la Prevenzione Ambientale (ISPRA) di Milazzo e con il prezioso e costante supporto dell’Istituto Idrografico della Marina (IIM).
Un contributo assolutamente rilevante potrà essere fornito collaborando nei monitoraggi di numerosi parametri e dati relativi all’ambiente marino, soprattutto nell’Alto Mare, laddove risulta evidente la difficoltà a operare per gli altri Enti/Istituti Scientifici coinvolti, a causa di una sistemica limitatezza di mezzi disponibili. La Forza Armata, in ragione delle proprie capacità (mezzi e know how), potrà contribuire fornendo supporto logistico (attraverso le proprie navi/vettori — operando sia in acque costiere che offshore), ma potrà fornire soprattutto un prezioso contributo dal punto di vista scientifico, grazie al supporto dei centri di eccellenza ad alta valenza tecnico-specialistica di FA, quali l’Istituto Idrografico di Genova (IIM) e il Centro di Supporto e Sperimentazione Navale della Spezia (CSSN). È solo attraverso il contributo tecnico-scientifico, e quindi per mezzo della messa in opera di specifici piani di monitoraggio e dello svolgimento di mirate campagne di rilevamento e misurazione dei dati, che sarà possibile
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La Flotta verde della Marina La partecipazione attiva al programma Marine Strategy conferisce alla Marina Militare un ruolo di rilievo nel campo della tutela dell’ambiente marino e si colloca nell’ambito di una serie di iniziative, progetti e programmi intrapresi dalla Forza Armata per l’attuazione di un’innovativa ed efficace politica ambientale. La MM infatti è, ad oggi, all’avanguardia nel campo della sperimentazione e dell’ utilizzo di bio-carburanti alternativi a quelli di derivazione petrolifera. In tale ambito è stato sottoscritto, nel 2012, un accordo con ENI per lo sviluppo e la sperimentazione, a bordo di unità navali dalla MM, del cosiddetto “gasolio verde”. Tale combustibile contiene una quota fino al 50% di componenti sintetici ottenuti dall’idrogenazione di una materia prima oleosa (feedstock) anche di seconda e terza generazione, quali ad es: oli esausti e scarti industriali della lavorazione del legno, ecc.. Nel 2014 è stato firmato un accordo di cooperazione tra MM e US Navy nel settore dei combustibili alternativi a quelli derivati dal petrolio. La Forza Armata è la prima Marina in Europa ad aver già sperimentato con successo tale tipologia di carburante. Al fine di rendere la filiera produttiva interamente nazionale, i volumi di oli e grassi di scarto saranno recuperati sul territorio nazionale e successivamente processati in gasolio verde/cherosene verde, presso la Biorefinery di Porto Marghera e miscelati fino al 50% con prodotto fossile. Tale progetto, denominato Flotta Verde, oltre a testimoniare l’impegno della Marina alle problematiche ambientali garantisce risultati nel campo del contrasto all’inquinamento ed anche un incremento della sicurezza energetica nazionale, in quanto il gasolio verde potrebbe in parte arginare i rischi di approvvigionamento dei classici combustibili fossili di origine petrolifera, ad oggi forniti da Paesi a forte instabilità politica.
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«Strategie marine» per la salvaguardia dell’ambiente l’esercitazione Ramogepol (3) sia a esercitazioni prettamente nazionali. Infatti, ogni anno, la Marina organizza e conduce almeno una esercitazione avanzata a guida MM, con il coinvolgimento, a livello operativo, di tutte le agenzie/amministrazioni, interessate nel contrasto dell’inquinamento marino. In tale ottica, nel 2010, all’esercitazione Naxos hanno partecipato, per la prima volta, anche assetti della Ditta CASTALIA, con la quale si sta ricercando una sempre più spinta capacità di operare in maniera congiunta. Le ultime esercitazioni antinquinamento effettuate sono state, rispettivamente, la Vulcano 2012, l’Etna 2013, la Scilla 2014. L’esercitazione del 2015, denominata Aretusa, si è articolata in due fasi: in occasione della prima fase (16 giugno) si è svolto il Seminario antinquinamento presso il salone di rappresentanza della camera di commercio di Siracusa. In tale occasione è stato effettuato un punto di situazione sul progresso della ricerca scientifica e dei sistemi applicati alla difesa ambientale (oltre ai rappresentanti della FA sono intervenuti esponenti Esercitazione Aretusa 2015: i pattugliatori della Madell’ Università di Messina, Catania, CNR-IAMC, Prorina e il mondo dell’Università e della ricerca insieme tezione Civile e Arpa Siracusa). a protezione dell’ambiente Il giorno seguente ha avuto luogo, nelle acque antiLa Marina Militare dedica particolare attenzione stanti la città, l’esercitazione Livex in mare. Nell’occaall’addestramento specialistico nel settore del contrasto sione è stato simulato un evento reale, e sono state dell’inquinamento marino. La Forza Armata partecipa testate l’attivazione della catena di Comando e l’imsia a esercitazioni svolte a livello multinazionale, come piego delle dotazioni antinquinamento delle Unità navali della Marina. L’esercitazione ha visto coinvolti i pattugliatori appartenenti alla classe «Costellazioni» (Nave Sirio, Nave Orione e Nave Libra ai quali si è aggiunta Nave Vega che ha operato in supporto associato come piattaforma dotata di eli «SH212» rischierato). A tali unità navali, dipendenti dal COMFORPAT (Comando delle Forze da Pattugliamento per la Sorveglianza e la Difesa costiera di Augusta) si è aggiunta una Unità ausiliaria (Nave Ticino), che ha simulato un mercantile sinistrato. Il tema dell`esercitaEsercitazione ARETUSA 2015: Pattugliatori ORIONE classe «Sirio», LIBRA classe «Cassiopea» e SIRIO. zione ha simulato uno sversamento
Il progetto prevede, entro il 2016, una dimostrazione navale, mediante l’impiego di unità alimentate a gasolio verde in cooperazione con la Green Fleet della Us Navy e si pone quale obiettivo, entro il 2030, quello di ridurre fino al 50% la dipendenza dal petrolio della Squadra Navale attraverso l’utilizzo di combustibili alternativi al petrolio come i biocarburanti ed il GNL. Della Flotta Verde faranno parte le nuove unità, attualmente in fase di progettazione secondo i più innovativi criteri di eco-design, oltreché le unità in linea, che saranno sottoposte a mirati interventi di qualificazione energetica. La realizzazione di Navi militari eco-efficienti permetterà, nel prossimo futuro, di ridurre il consumo di derivati petroliferi, contribuendo al raggiungimento degli impegni assunti dall'Italia e dall'Unione Europea in campo internazionale sul contenimento delle emissioni di inquinanti atmosferici e di gas serra, in accordo con le linee guida della Strategia Energetica Nazionale.
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Laboratori delle unità classe «Cassiopea».
accidentale in una zona di particolare interesse quale lo baia di Santa Panagia (Siracusa), zona caratterizzata da un elevato indice di traffico verso il polo petrolchimico che insiste sul territorio, elevata densità di popolazione su costa e vicinanza a un area marina protetta (Plemmirio). In seguito allo sversamento, si è attivato il piano locale per l’emergenza coerentemente con le procedure nazionali, e la nomina del comandante di Nave Sirio quale OSC in mare. È stata coinvolta anche la locale prefettura di che ha sfruttato l’occasione per verificare le capacità dell’ufficio del governo di attivare la sala gestione emergenze e simulare le azioni da intraprendere nel caso di spiaggiamento dello sversamento. I pattugliatori della classe «Costellazioni», sono concepiti per intervenire in caso di emergenze ambientali marine anche su vasta scala, disponendo di sistemi di disinquinamento idonei per affrontare le criticità di un’emergenza ambientale sia locale che nazionale. Tali unità navali rappresentano una vera e propria risorsa a disposizione del Paese, essendo capaci di operare con efficacia e prontezza nelle situazioni di inquinamento marino. Sono idonee a effettuare operazioni di altura in autonomia logistica, fino a circa due settimane continuativamente in mare, anche in avverse condizioni meteomarine. In particolare, le loro capacità consistono nel contenimento della macchia oleosa, nella rimozione meccanica della macchia ed eventualmente nella dispersione mediante agenti chimici. Per le operazioni di contenimento, i pattugliatori dispongono di un sistema di barriere di pneumatiche a panne galleggianti, che
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può essere esteso sulla superficie marina per una lunghezza di 250 mt, per contenere dell’idrocarburo sversato. Per la rimozione, i pattugliatori dispongono di un SISTEMA SKIMMER DISCOIL, ovvero di un mezzo di recupero automatico. Tale sistema è dotato di 24 dischi in acciaio, i quali ruotando e incidendo verticalmente la superficie del mare, permettono all’idrocarburo sversato di aderire sulla loro stessa superficie. Il prodotto così attirato, mediante dei pattini scrematori in gomma, viene raschiato e fatto cadere in una vasca di raccolta posizionata all’interno della stessa apparecchiatura. Successivamente, l’idrocarburo raccolto viene aspirato per mezzo di una pompa volumetrica, detta «di scarico», della capacità variabile da 30 a 50 mc/h, e trasferito all’interno di 7 casse chiamate «casse di accumulo oli recuperati», di cui è dotata la nave, per una capacità complessiva di 500 mc. La dotazione di disperdente chimico (con cui le navi vengono rifornite all’occorrenza ovvero al momento della dichiarazione dell’emergenza e in funzione dell’area esposta al rischio di inquinamento marino) equivale a 25 t pro-nave e viene stoccato in 2 appositi depositi strutturali della nave. Fra le dotazioni antinquinamento vi è anche un impianto rilevatore di miscele gassose esplosive, per il controllo dell’atmosfera nella zona interessata dallo sversamento. L’Aretusa è stata un’esercitazione a spiccata connotazione green: tutte le navi della Marina hanno infatti impiegato l’innovativo gasolio navale verde. L’evento è stato indubbiamente caratterizzato da una
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«Strategie marine» per la salvaguardia dell’ambiente forte connotazione scientifica e tecnologica. Oltre all’implementazione delle canoniche procedure antinquinamento è stato particolarmente curato e approfondito l’utilizzo dei laboratori analisi in dotazione alle Unità navali anti-inquinamento. Durante l’esercitazione il personale di bordo coadiuvato da un Ufficiale biologo della Marina Militare, ha potuto operare e collaborare con tecnici e specialisti di Eni e dell’Arpa di Siracusa, nonché con un team di esperti appartenenti a un laboratorio analisi locale (ditta Ecocontrol sud). La proficua collaborazione istauratasi a bordo fra tecnici, specialisti di settore e biologi, fra personale civile e militare coinvolto, ha creato una positiva sinergia che ha consentito all’Equipe Aretusa di effettuare l’analisi dei campioni di acqua contaminata avvalendosi del laboratorio di bordo di Nave Sirio, la previsione dello spostamento della macchia oleosa (ottenuta attraverso l’elaborazione di un modello previsionale fornito appositamente da ENI). Inoltre è stato possibile testare la gestione di un possibile spiaggiamento di una parte della macchia oleosa sulla costa tramite un collegamento in video conferenza con la sala operativa della prefettura. Nel corso dell’esercitazione è stato dimostrato che in un contesto di criticità ambientale in mare, causata da un possibile sversamento accidentale di idrocarburi, la Marina Militare dispone di mezzi navali proiettabili
sul posto per effettuare rapidamente il prelievo dell’inquinante e di un laboratorio a bordo attrezzato con equipaggiamenti e strumentazioni in grado di effettuare delle prove analitiche sul contaminante.
Conclusioni Così come l’energia è la base della vita stessa, e le idee la fonte dell’innovazione, allo stesso modo l’innovazione è la scintilla vitale di tutti i cambiamenti, dei miglioramenti e del progresso umano (Aforismi-Theodore Levitt)
In questi ultimi anni, si sono rafforzate l’attenzione e la consapevolezza dei rischi e dei danni causati da tanti interventi sbagliati sull’ambiente e il timore per le conseguenze del dissennato sfruttamento di risorse esauribili del nostro Pianeta. Sta maturando una coscienza eco-centrica sempre più convinta che l’attento studio di ciò che ci circonda e una fattiva collaborazione tra Enti e Istituzioni nazionali e internazionali renderanno possibile la soluzione dei complessi problemi ambientali. Si può affermare, senz’ombra di dubbio, che la Marina Militare, per le scelte adottate, per i programmi avviati e per le sinergie messe in atto, ha intrapreso nel campo ambientale una strada vincente e innovativa e sta portando avanti, con volontà e destrezza gli impegni assunti: — la continua e fattiva partecipazione al Programma europeo Marine Strategy in collaborazione con i maggiori istituti scientifici di studio e di ricerca; — i cicli di addestramento nel campo dell’anti-inquinamento per mezzo di esercitazioni, sia in ambio nazionale che internazionale, finalizzate a mantenere elevato il livello di preparazione della F.A. nel fronteggiare eventuali emergenze ambientali in mare; — la sperimentazione, lo sviluppo e l’adozione di bio-carburanti di nuova generazione sostitutivi ed alternativi Personale impegnato nel laboratori di bordo di Nave SIRIO durante l’esercitazione ARETUSA 2015. ai tradizionali e l’utilizzo di mezzi e
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Operazioni in mare di Nave LIBRA durante l’esercitazione ARETUSA 2015.
strumenti ispirati alle più avanzate tecnologie anti-inquinamento; — la progettazione di nuove Unità navali eco-efficienti: il sistema più sicuro ed efficace per abbattere il consumo dei derivati petroliferi e i il modo più efficace per non inquinare Un tempo il mare era, esclusivamente, l’elemento in cui la Marina operava, si muoveva, combatteva le sue battaglie; oggi rappresenta un complesso e variegato ambito con il quale la Forza Armata deve costantemente misurarsi per affrontare quotidianamente e con sempre rinnovato impegno, le molteplici sfide imposte dalla contemporaneità e dall’evoluzione. Tra queste, una fondamentale, che la vede alacremente impegnata, consiste proprio nel combattere, con tutte le cognizioni ed i mezzi di cui dispone, per la difesa degli ecosistemi marini, agendo nell’ottica comune della salvaguardia ambientale. Oggi la Marina può essere fiera sia di svolgere il proprio ruolo di “buon soldato”, capace di eseguire al meglio i propri compiti istituzionali, come il servizio
della sorveglianza per la prevenzione degli inquinamenti delle acque marine ed il contrasto agli illeciti ambientali in mare, sia quello di «Capitano» per le conoscenze e le competenze tecniche messe in campo. È infatti motivo di profonda soddisfazione e gratificazione essere in grado di impegnarsi nella difesa totale del mare e della sua complessa tutela. Inoltre è un onore ed un dovere lavorare in sinergia con coloro che operano nell’ambito della tutela ambientale, della ricerca, delle innovazioni e del progresso scientifico, perché la scienza e la tecnologia sono state da sempre patrimonio della nostra cultura e della nostra civiltà occidentale e ne abbiamo sempre rivendicato il primato e le conquiste a vantaggio dell’umanità. Oggi siamo anche consapevoli che la scienza e la tecnologia non hanno solo il compito di conoscere e descrivere le leggi che regolano il mondo per trasformarlo a vantaggio dell’uomo ma hanno una responsabilità più grande: quella di operare scelte finalizzate all’evoluzione della società senza perdere mai di vista il limite invalicabile rappresentato dallo «sviluppo sostenibile». 8
NOTE (1) La M.M svolge la funzione di sorveglianza per la prevenzione degli inquinamenti delle acque marine da idrocarburi e dalle altre sostanze nocive nell'ambiente marino ed il contrasto agli illeciti ambientali in mare (compreso lo sversamento di idrocarburi). (2) Good enviromental status — buono stato ecologico: stato ambientale delle acque marine tale per cui le stesse preservano la diversità ecologica e la vitalità di mari ed oceani puliti, sani e produttivi nelle proprie condizioni intrinseche e tale per cui l'utilizzo dell'ambiente marino si svolge in modo sostenibile, salvaguardandone le potenzialità per gli usi e le attività delle generazioni presenti e future. (3) Organizzata annualmente dai firmatari dell’Accordo Ramoge: Italia, Francia e Principato di Monaco.
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SAGGISTICA E DOCUMENTAZIONE
Mino Milani e le grandi avventure di pace e di guerra Storia di una lunga stagione di storie di mare tra il Corriere dei Piccoli e il Corriere dei Ragazzi, 1967 - 1976 Una copertina del Corriere dei Ragazzi.
Enrico Cernuschi (*) (*) Laureato in giurisprudenza, lavora come funzionario di una delle maggiori banche italiane. Studioso di storia navale ha dato alle stampe, nel corso di venticinque anni, altrettanti volumi e oltre 500 articoli pubblicati in Italia, Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia. Tra i piĂš recenti Gran pavese (Premio Marincovich 2012), ULTRA - La fine di un mito, Black Phoenix (con Vincent P. OĂŠHara e dedicato alla Marina della Repubblica Sociale), Navi e Quattrini (2013), Battaglie sconosciute (2014) e Mediterraneo e oltre (con Andrea Tirondola) (2015). Oltre che con la Rivista Marittima collabora con Lega Navale, Warship e Storia militare. 62
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Mino Milani e le grandi avventure di pace e di guerra
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hi è nato, come me, durante gli anni Sessanta mi capirà benissimo. Siamo l’ultima generazione che aveva, nel libro di lettura delle elementari, una poesia sulla bandiera. I versi erano ingenui anche per quell’età e il disegno appariva, a dir poco, disadorno, ma il concetto non cambiava. Facevamo il tifo non soltanto per gli azzurri al Messico, ma per tante altre piccole cose come, per esempio, i satelliti della serie «San Marco» lanciati dall’omonimo poligono realizzato da imprese italiane al largo dell’Oceano Indiano. Certo, una volta paragonati, per peso e prestazioni, alle contemporanee realizzazioni statunitensi e sovietiche, quelle sfere lucenti erano poco più che palloni da calcio, ma le loro immagini erano presenti nell’album di figurine, all’epoca diffusissimo, intitolato «La conquista dello spazio», e tanto ci bastava. Nessuno pretendeva l’über alles, ci mancherebbe altro, ma parimenti nessuno a scuola, in cortile, in parrocchia o in vacanza, partiva dal presupposto (in seguito rivelatosi molto chic) che la nostra cultura fosse, comunque, la peggiore del mondo e che il nostro preciso dovere di cittadini e di comunità fosse quello di farci guidare per mano da altri popoli (di qualunque lingua e fede essi fossero, purché rigorosamente biondi, alti, longilinei e con gli occhi azzurri), in quanto costoro appartenevano, a nostra differenza, al mai meglio specificato novero delle «società civili». Il signor preside veniva regolarmente in classe ogni 25 aprile e ci ripeteva sempre lo stesso discorso (ogni anno rigorosamente uguale) dedicato alla «bieca idra del male», ben presto passata, dalla Seconda alla Quarta, dal rango di mostro impareggiabile a nostro rassegnato compagno di stagione e, pertanto, idealmente ritta anche lei a fianco del banco (sempre sulla destra, per amor di Dio, come ci ordinavano gli insegnanti), per poi accompagnarci lungo le scale, in fila per tre, allo scopo di assistere alla proiezione, parimente immancabile, de «I sette fratelli Cervi», sempre la medesima pellicola, dal 1968 al 1971. Alla fine, per noia, un gruppetto (in Quinta), approfittando del buio che regnava in palestra e del fatto che, essendo ormai grandicelli, sedevano sulle panche in fondo, proruppe in un applauso clamoroso subito dopo la scarica fatale. Il preside e i maestri non ci rimasero neppure male. Sta-
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vano eseguendo un rito regolato da circolari ministeriali non molto diverse da quelle che li avevano a loro volta irreggimentati, da bambini come noi, in quei medesimi locali nel corso delle adunate fasciste secondo dettami e prescrizioni del tutto analoghe, come spirito e come risultati, a quelle imposte, in seguito, a noi pure. Il risultato di questi sistemi non poteva che essere uno e uno soltanto: due generazioni di scettici una di fila all’altra! E poi ci si stupisce se il Paese è andato alla malora.
Giochi sotto l’albero In quell’Italia in bianco e nero e con due soli canali della televisione, tutti guardavamo gli stessi spettacoli e, il giorno dopo, commentavano i medesimi sceneggiati o film trasmessi la sera o, qualche volta, il pomeriggio nel corso della TV dei ragazzi. Anche i giochi erano uguali per tutti, fatta apparente eccezione per quei pochissimi privilegiati che disponevano di costose autopiste o di plastici ferroviari utilizzati, in realtà, dai grandi; le differenze (modeste) si registravano, casomai, all’edicola. Qui le due grandi fazioni consistevano ne i lettori di Topolino e in quelli del Corriere dei Piccoli. Era possibile (ma piuttosto difficile per ragioni, in primo luogo, di costo) che ci fosse qualcuno che riceveva dai genitori entrambi quei settimanali, ma si trattava, ancora una volta, dei privilegiati di cui sopra destinati a non far testo (si credeva) in una società democratica e di massa. Topolino significava tante storie umoristiche con gli universali personaggi Disney e pochissime e scarne rubriche di cultura in pillole, a partire da «Salvator Gotta risponde a», poi riversata pressoché per intero nel primo, mitico Manuale delle Giovani marmotte. Insomma, una lettura distensiva che lasciava il tempo che trovava. Il Corrierino sottintendeva, viceversa, ben altro. Lì non c’erano topi (eccezion fatta per Robiolina e Stracchino), o paperi, ma uomini. I cattivi non erano Macchia Nera e la Banda Bassotti, ma altri uomini e le rubriche, vivaddio, abbondavano, a partire dalla divulgazione scientifica e storica. Si trattava di una differenza sostanziale e i frutti si vedevano sin dalla Seconda elementare. Soprattutto ci riconoscevamo a naso, sulla spiaggia o in campagna. Gente mai vista di origini, estrazione e dialetti non con-
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Mino Milani e le grandi avventure di pace e di guerra frontabili; ma se si giocava a indiani e cow boy, guardie e ladri o alla guerra non ci si poteva sbagliare: eravamo tutti lettori del Corrierino e l’inseguimento che mettevamo in piedi, la difesa del fortino (bastava, per farlo, l’angolo semidiroccato del vecchio pollaio, lassù a Monterenzio; purtroppo il baluardo, apparentemente formidabile, poteva essere aggirato sfruttando il terreno), o la battaglia di turno erano sempre quelle lette uno o, al massimo, due settimane prima sulle grandi pagine (le stampavano sulle medesime rotative della Domenica del Corriere) del Corriere dei Piccoli. Ed è qui che comincia la logica (non poi tanto sottile né recondita) di queste note, pubblicate oggi su questa precisa testata per un motivo, come vedremo, non casuale. Poteva trattarsi, infatti, di antichi romani, cavalieri, cow boys, astronauti o, più semplicemente, di ragazzi di oggi appena un po’ più grandicelli di noi; tutti spensierati allievi delle elementari in vacanza oppure riuniti all’ombra dell’unico albero del cortile del caseggiato di fronte, ma l’autore di quelle avventure era sempre lo stesso: il pavese Mino Milani. Nel corso dei mesi precedenti il Notiziario della Marina ha pubblicato tre vicende di mare a fumetti dedicate alla Marina italiana ed edite dal Corriere dei Ragazzi tra il 1972 e il 1974. Le vicende in parola, tutte rigorosamente autentiche, furono scritte e sceneggiate, all’epoca, da «Il nostro inviato nel tempo» Mino Milani e disegnate da Attilio Micheluzzi, uno dei grandi artisti di quella stagione. Chi scrive ha contribuito, nel suo piccolo, all’iniziativa alla base di quella fortunata ristampa ed è quindi giusto che se ne possa parlare, in questa sede, in maniera un po’ più approfondita traendo, alla fine, qualche conclusione, magari non del tutto peregrina.
Generazione Corriere dei Piccoli Il Corriere dei Piccoli cambiò radicalmente pelle nel 1961, quando la direzione passò, su scelta della famiglia Crespi, storica proprietaria del Corriere, dal «classico» Giovanni Mosca a Guglielmo Zucconi. Giornalista di grosso fiuto e personalità, il nuovo direttore lasciò spazio, su indicazione del vecchio Crespi, al giovane Mino Milani, all’epoca collaboratore part time del Corriere dei Piccoli e autore di un primo, grosso successo con i racconti western di Tommy River
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Una foto recente di Mino Milani.
illustrati, con la media di un’immagine per ogni puntata di due pagine di testo, da Mario Uggeri. Deciso ad aprirsi ai fumetti, all’epoca in corso di rullaggio sulle piste editoriali italiane, Zucconi aveva davanti a sé due strade: o tradurre bene le numerose e spesso splendide storie francesi delle bande dessinée, pagandole care, oppure realizzarle in proprio. Grazie alle cifre esageratamente costose chieste dalle testate transalpine Spirou e Tintin, il nuovo direttore riuscì ad avviare quella che sarebbe diventata la grande scuola italiana del fumetto degli anni d’oro, da Dino Battaglia a Ugo Pratt passando per Grazia Nidasio, Iris de Paoli, Sergio Toppi, Aldo Di Gennaro, Attilio Micheluzzi, Milo Manara, Silver, Leo Cimpellin e tanti altri nomi destinati a tradursi, tra l’altro, in un netto guadagno per la bilancia dei pagamenti nostrana e per l’affermazione, in questo nuovo settore, della cultura del nostro Paese. Altri contributi, quanto a disegni, arrivarono dall’estero, in particolar modo dall’Argentina (Albert Breccia e Del Castillo), dove il Corrierino era di casa sia in italiano sia, in seguito, in spagnolo. Quella decisione lungimirante si basava, a sua volta, sulla disponibilità, (grazie anche agli illustratori della Domenica del Corriere), di un buon numero iniziale di grandi disegnatori e sull’opera infaticabile di Mino. Giudicato dagli altri componenti della redazione del Corriere dei Piccoli alla stregua di un fenomeno vivente, quello scrittore pavese (diventato giornalista a tempo pieno del Corrierino e della Domenica del Corriere nel 1962) rappresentava (come avrebbe ricordato, in seguito, Giancarlo Francesconi, direttore del Corriere dei Ragazzi tra il 1972 e il
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Mino Milani e le grandi avventure di pace e di guerra
La classica apertura della serie: Il nostro inviato nel tempo.
1975) una risorsa inesauribile: «…Soprattutto c’era Mino Milani, uno degli scrittori più versatili e prolifici che abbia mai conosciuto. Era capace di affrontare con disinvoltura qualunque genere letterario: quello storico, che era la sua specialità, ma anche quello fantascientifico, western, e chi più ne ha più ne metta. Per non usare sempre il suo nome, si firmava anche come “Piero Selva” e “E. Ventura”. Mentre Alfredo Castelli, altro sceneggiatore di fumetti, ha aggiunto, a sua volta: “…Oltretutto era velocissimo. Francesconi gli diceva: tra un mese c’è il tale anniversario, voglio una storia a fumetti che commenti l’avvenimento. Mino rispondeva: “se dobbiamo combattere, combatteremo…”; si batteva un pugno sul petto con piglio da eroe risorgimentale, si ritirava nel suo ufficio e, istantaneamente, cominciava a scrivere. Batteva a macchina così velocemente da ingarbugliare i martelletti dei tasti: ogni tanto sulle sue sceneggiature si trovavano parole assolutamente incomprensibili generate dall’impossibilità della macchina a stargli dietro». Il taglio innovativo e sperimentatore del Corriere dei Piccoli proseguì, seguendo fedelmente le orme di Zucconi, a opera del suo successore Claudio Triberti, attivo tra il 1964 e il 1972 lasciando ancora maggiore spazio al Milani. Nacquero così, a primavera del primo anno della nuova direzione, le avventure di Luca, Paglia, Carlo & C., godibilissime storie gialle apparse fino al 1970 con, per protagonisti, tre studenti ginnasiali del
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Liceo Foscolo di Pavia affiancati dallo stesso Milani (1). Si trattò di un esperimento felice calato, innanzitutto, nella realtà contemporanea e che permise di raccontare la quotidianità con grande realismo, dagli inseguimenti in «FIAT 600» (anziché nei soliti macchinoni americani che nessuno di noi aveva mai visto al di fuori dei film), fino all’intervento finale dei carabinieri, magari con l’appuntato che si rivolgeva, con inflessione dialettale, al brigadiere con il medesimo tono che noi ragazzi potevano udire benissimo se veniva disperso un assembramento oppure quando un ghisa minacciava di elevare una contravvenzione al papà sorpreso in flagrante divieto di sosta. Persino le divise, un po’ dimesse, delle forze dell’ordine erano quelle che potevamo vedere per strada; nessuna pretesa rutilante, pertanto, ma nostre, in omaggio a quel «ci sono anch’io» che era un po’ il ritornello di una generazione, come la nostra, messa a contatto continuo, grazie alla TV, con i mondi, apparentemente dorati, statunitense e francese (2) e inevitabilmente un po’ frustrata quando ci accorgemmo, noi della Terza A, al momento dell’acquisto delle prime scatole dei, da tutti ambitissimi, soldatini Airfix (300 lire a confezione!), che gli Italiani, semplicemente, non esistevano per il resto del mondo.
La verità, tutta la verità e nient’altro che la verità Il punto di svolta editoriale del Corriere dei Piccoli maturò, infine, nel 1967 in occasione della Guerra dei sei giorni. La molla che faceva scattare il Milani era, infatti, la polvere da sparo. Avendo vissuto in maniera intellettualmente attiva, ancorché giovanissimo (classe 1928), il Secondo conflitto mondiale, dalla prima notte di guerra italiana (vissuta sotto un allarme aereo) fino alla liberazione di Pavia, cui partecipò con giovanile incoscienza e successiva serenità, lasciandone, in seguito, una leggibilissima e molto umana testimonianza (3), Mino, da buon giornalista, non poteva lasciarsi sfuggire, a botta calda, quell’incredibile campagna vinta, contro ogni apparente logica militare, facendo leva sul valore dei soldati e sull’esempio dei comandanti. Già nel numero 27 del 2 luglio
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Mino Milani e le grandi avventure di pace e di guerra 1967 (quindi a tempo di record), uscì così una breve rievocazione in due pagine di quella corsa nel deserto contro tutto e contro tutti disegnata da Mario Uggeri. Storia di grosso impatto, quell’esperimento riscosse l’immediata approvazione dei lettori, i quali si facevano sempre sentire con decine di lettere e cartoline a settimana, spesso tutt’altro che banali. Nacque così la necessità di proseguire, su quell’onda, e la scelta cadde (n. 43 del 1967) su un soggetto risorgimentale, Villa Glori (disegni di Aldo Di Gennaro), pressoché inevitabile essendo il Milani il maggior biografo vivente di Garibaldi. Infine, dall’anno successivo, «Le grandi avventure di pace e di guerra» decollarono definitivamente con «Il colpo di Zurigo» dedicato alla nota impresa messa a segno la notte di Martedì grasso del 1917 dai Servizi della Regia Marina ai danni dell’Evidenzbureau austro-ungarico. Da allora si sarebbero susseguite, fino al 1976, anno di morte del Corriere dei Ragazzi (settimanale in ottima salute finanziaria e con oltre 130.000 copie settimanali vendute, ma ucciso in quattro e quattr’otto dai nuovi manager rampanti appena sbarcati dagli Stati Uniti) quasi 500 storie, 30 delle quali di carattere navale ed elencate in appendice a queste pagine. I cardini dei racconti erano sempre gli stessi: massima aderenza alla realtà, nessun partito preso, rigore praticamente ossessivo quanto ad ambientazione, costumi e mezzi ritratti e un taglio secco delle scene ispirato, in buona sostanza, alla grande scuola del cinema francese degli anni Trenta e Quaranta. Il tutto racchiuso in mai più di 14 pagine al massimo. La formula funzionò benissimo, tanto che in seguito fu cambiato il titolo della serie (diventato «Il nostro inviato nel tempo»), ma nient’altro. Fu una grossa opera di divulgazione e di stile in seguito ripresa, ma mai superata, da altri editori, i quali diedero vita a celebri collane e serie come «Un uomo un’avventura» della CEPIM oppure «Air Mail» sia pure, in questi casi, con concessioni al romanzesco che, viceversa, il Milani non introdusse mai in quelle avventure (4). Nell’ambito di quest’immensa produzione, senza equivalenti all’estero in capo a un solo sceneggiatore, il ruolo delle vicende navali, e della Marina italiana in particolare, rispecchia, a sua volta, un carattere ben preciso che l’autore ha evidenziato, a chiare lettere, nella pagina finale di un’altra sua opera, la leggibilissima (e tutt’altro che scontata) storia d’Italia Dall’Impero alla Repubblica,
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edita da Mursia nel 2012 e che copre il periodo che va dalla caduta di Roma fino al 1946: «Sulla guerra delle Forze Armate è stato steso (per interessi di politica interna e internazionale) un silenzio colpevole; e anzi si è fatto di peggio, avallando quando possibile l’immagine dell’Italus bellax. Sia al proposito consentito a chi scrive un riferimento personale. Compilai, per un celebre settimanale per ragazzi, una storia a fumetti che rievocava il toccante episodio dell’ultimo pilota italiano caduto in Etiopia, dove erano rimasti solo due aerei da caccia entrambi fuori uso. Assemblandone i pezzi se ne montò ancora uno in grado di volare; due piloti giocarono a pari e dispari chi dovesse compiere l’ultima missione, chi cioè dovesse morire. Il vincitore partì e non fece ritorno. Il giorno dopo, un caccia britannico lasciò cadere sul nostro campo un messaggio in cui rendeva omaggio all’ultimo pilota italiano morto combattendo. Questa la storia vera che fu rievocata. Ebbene, il settimanale d’una corrente progressista del partito democristiano scrisse che s’era trattato di una sciocca e inopportuna rievocazione di cose vecchie e inutili, opera di chi non aveva compreso nulla della storia, che non sapeva guardare alla nuova realtà italiana e che probabilmente rimpiangeva le guerre coloniali d’un tempo; e che di ben altri esempi avevano bisogno i ragazzi italiani. In realtà i soldati italiani, per dirla con formula militare, avevano fatto il proprio dovere. Certamente si sono avute prove contrastanti e atti di valore si sono alternati a momenti di cedimento se non di viltà; ma questo può essere detto d’ogni esercito del mondo. È vero invece che l’equipaggiamento, l’armamento, il rifornimento sono stati assolutamente inadeguati, come l’addestramento. La Marina sostenne fino in fondo la sua parte, che non era quella di dare battaglia alla flotta inglese, ma di salvaguardare i convogli. La conclusione della sua guerra, con l’affondamento della corazzata Roma e l’ultima crociera verso Malta, fu tragica e amara. Quanto alle imprese dei suoi mezzi d’assalto (X Flottiglia MAS) esse sorpresero e stupirono il mondo; le azioni dei nostri incursori a Malta, Suda, Alessandria e Gibilterra divennero leggenda e, non solo in Italia, ma nel mondo; e fu sull’esempio italiano che le Marine delle grandi potenze decisero di dotarsi di simili corpi. Da parte sua l’Aeronautica (l’Arma azzurra), in evi-
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Mino Milani e le grandi avventure di pace e di guerra dente, grave e crescente inferiorità tecnica e numerica, tenne valorosamente il suo posto fino all’ultimo». Le storie di mare proposte dal 1968 al 1976 sul Corriere (dei Piccoli dapprima, dei Ragazzi poi) furono così dominate dalla scena corale, dall’apprezzamento strategico e dal contenuto etico, più che dall’impresa individuale, si trattasse di Tedeschi, Italiani, Giapponesi, Statunitensi o Inglesi. In quegli stessi anni, inoltre, nonostante il buonismo imperante (melenso e ipocrita) dell’epoca, diventato di rigore in Italia dal 1969 in poi, la linea del Corriere dei Piccoli non cambiò grazie, in primo luogo, all’intelligente suggerimento, più volte
rinnovato dal Milani, di «non fare come gli altri», proprio perché un giornale, per vivere e per vendere, deve sempre distinguersi dalla massa dei concorrenti riservandosi una fetta di Originalità. Sia pure lasciando, beninteso, al proprio interno, spazio a tutte le voci, come d’altra parte confermò, ben presto, il tono più frazionato (ma mai appiattito) dell’evoluzione Corriere dei Ragazzi, un settimanale apparentemente più progressista e barricadero (sia pur sempre con juicio), ma il cui nuovo sottotitolo «Settimanale d’avventura» continuò a garantire al lettore cosa poteva legittimamente aspettarsi a fronte delle 200 lire del prezzo di copertina. Poi diventò, nel giro di pochi mesi, nel 1976. CorrierBoy; Mino se ne andò a dirigere La Provincia pavese, il quotidiano della città, e fu la fine.
L’ultima cannonata
L'affondamento del GNEISENAU da «Duello sugli oceani».
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Commentare in questa sede o, peggio, raccontare il contenuto delle storie a fumetti di pace e di guerra (ambientate sul mare o sui fiumi) oggetto di queste pagine sarebbe peggio che inutile, se non addirittura inopportuno. Chi vuole può rintracciarle ancora facilmente, grazie anche a diverse ristampe e raccolte di periodica uscita nel corso degli anni, anche se mai veramente complete. Mi sia però concessa un’ultima citazione di carattere personale. Considero Dino Battaglia il maggiore disegnatore di quella stagione. C’è, naturalmente, chi pensa il contrario, ma questa è la mia opinione. Proprio Battaglia disegnò, nel 1972, una storia, come sempre sceneggiata da Mino, dedicata alla vicenda della Squadra tedesca del Pacifico dell’ammiraglio Von Spee, vittorioso a Coronel e scomparso, con le sue navi, alle Fal-
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Mino Milani e le grandi avventure di pace e di guerra quella stanza (e il resto della casa) un fascicoletto conkland poche settimane dopo. Fui molto colpito, quando tenente un articolo ritagliato da La Nación, quotidiano la lessi, dalla pagina riprodotta qui a fianco, con il codi Buenos Aires, del 21 dicembre 1914 con un’intervimandante che inneggia, morente, al kaiser Guglielmo sta all’ammiraglio britannico sir Frederick Charles e i suoi marinai, perfettamente consapevoli di essere Sturdee, vincitore alle Falkland, dove si parlava sia di anch’essi alla fine, che rispondono in coro. A undici quell’episodio sia di come fosse stato sorpreso dalla noanni una pagina del genere ti fa un certo effetto. Un detizia dell’avvistamento della squadra germanica mentre cennio dopo ci ripensi e concludi che c’è stata una certa si stava facendo la barba (vedi l’immagine qui a retorica, magari scusabile. Passano altri quarant’anni e fianco). C’è poco da fare. Lettori o scrittori si nasce. I passa e scopri, per puro caso, che era tutto vero. Il copassaggi dall’una all’altra di queste due categorie sono mandante dell’incrociatore corazzato tedesco Gneisepossibili, ma di Inviati nel tempo ce n’è uno solo. 8 nau, capitano di vascello Julius Maerker, inneggiò effettivamente tre volte all’imperatore e alla sua nave, con la risposta, ogni volta tonante, della gente, come risulta dalle concordi e inoppugnabili testimonianze rese, poche ore dopo, dai non numerosi superstiti del Gneisenau una volta raccolti a bordo di alcune unità britanniche. Ciò che non era noto, per contro, è che Maerker aveva scritto, ancora poche settimane prima, alla moglie, delle lettere dal tono amaro e privo di illusioni, rimpiangendo il proprio sogno mancato di ritirarsi a fare l’apicoltore (5). Un uomo come tutti noi, pertanto, non certo un esaltato o un fanatico, e un uomo e un comandante a tutti gli effetti, benvoluto dalla gente e considerato un capo fino all’ultimo. Nel corso di una delle mie periodiche visite a Mino nel suo bellissimo studio a Pavia gli ho detto, qualche giorno fa, che avevo scoperto come quella pagina si fosse rivelata esattissima in ogni particolare. Mi ha detto che in quel periodo aveva letto e studiato tanto. Non era certo una novità, pensai. Poi si è alzato e con mano sicura ha estratto da una delle librerie che foderano Corazzate, tattica e pennello da barba da «Duello sugli oceani».
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Mino Milani e le grandi avventure di pace e di guerra Appendice IL «CANONE» DELLE GRANDI STORIE DI MARE A FUMETTI DI MINO MILANI Nell’ordine sono indicati il titolo, il disegnatore, il numero e l’anno di pubblicazione sul Corriere dei Piccoli o sul Corriere dei Ragazzi e il numero di pagine (cd tavole) ognuna delle quali composta, naturalmente, da un numero variabile di vignette. Le storie non sono riportate in ordine di apparizione, ma in successione cronologica rispetto agli avvenimenti narrati. STORIE DEDICATE ALLA REGIA MARINA — Attacco ai Dardanelli (Attilio Micheluzzi) 21/1973 9 tavole; — Colpo grosso a Zurigo (Mario Uggeri) 9/1968 4 tavole; — Tornati alla vittoria (Attilio Micheluzzi) 45/1972 8 tavole; — Soldati di terz’ordine (Attilio Micheluzzi) 30/1973 5 tavole; — La squadriglia dell’Orsa Maggiore (Albert Breccia) 12/1968 8 tavole. OTTOCENTO — Il naufragio della Medusa (Sergio Toppi) 22/1974 8 tavole; — L’uomo della terza bomba (Sergio Toppi) 17/1972 14 tavole; — Il sommergibile di Charleston (Arturo Del Castillo) 24/1970 8 tavole; — Spedizione sul Red River (Sergio Toppi) 36/1971 13 tavole; — Al diavolo le mine (Arturo Del Castillo) 13/1968 (8 tavole). I PRIMI VENT’ANNI DEL NOVECENTO — Tsushima (Sergio Toppi) 39/1970 10 tavole; — L’ammutinamento della Potemkin (Sergio Toppi) 9/1974 7 tavole; — La tragedia del Titanic (Attilio Micheluzzi) 25/1972 9 tavole; — Duello sugli oceani (Dino Battaglia) 32/1972 14 tavole; — Il sommergibile che affondò tre volte (Attilio Micheluzzi) 36/1973 6 tavole. DALLA SECONDA GUERRA MONDIALE AI GIORNI NOSTRI — L’ultimo corsaro (Albert Breccia) 14/72 8 tavole; — Processo a Yamamoto (Milo Manara) 22/1975 12 tavole; — Tora! Tora! Tora! (Dino Battaglia) 50/1970 12 tavole; — La battaglia delle Midway (Dino Battaglia) 28/1968 8 tavole; — Dick e il siluro (Sergio Toppi) 51/1974 8 tavole; — I sei mesi di Guadalcanal (Attilio Micheluzzi) 30/1973 10 tavole; — Rotta per Londra (Attilio Micheluzzi) 40/1972 9 tavole; — Il pilota che morì due volte (Attilio Micheluzzi) 11/1972 8 tavole; — La corazzata senza gloria (Attilio Micheluzzi) 18/1973 11 tavole; — I samurai del cielo (Aldo Di Gennaro) 15/1969 6 tavole; — Kamikaze (Ferdinando Tacconi) 27/1972 8 tavole; — Iwo Jima (Dino Battaglia) 26/1969 8 tavole; — Fiamma gialla (Sergio Zaniboni) 16/1971 8 tavole; — 72 ore di ossigeno (Sergio Toppi) 39/1973 5 tavole; — Rischio mortale (Attilio Micheluzzi) 51/1973 8 tavole.
NOTE (1) In una di queste, per la cronaca, fa capolino (correva l’anno 1968) il SIOS della Marina mentre in un’altra (1969) l’azione risolutiva, alle foci del Po, spetta a una vedetta della classe «Meattini» della Guardia di Finanza. (2) Gli Inglesi erano, viceversa, assai meno rintracciabili, fatta eccezione per pochi, scelti prodotti, da 007 ai Beatles passando per le Guardie della Regina; quanto ai Tedeschi essi, semplicemente, non esistevano, come immagine, messaggio o modello, né sul piccolo scherno né su quello in cinemascope della domenica pomeriggio, eccezion fatta per il ruolo, piuttosto noioso, di eterne pipe di gesso esposte al fuoco dell’eroe anglosassone di turno, il quale ne faceva regolarmente strage. Dei Russi conoscevano soltanto Popoff, cosacco dello Zar, grazie alla canzone dello Zecchino d’oro. Per il Giappone bastava e avanzava qualche servizio nel notiziario della TV dei ragazzi e tutto il resto del pianeta si riduceva alle copertine e, soprattutto, agli interni dei quaderni Pigna dedicati alle varie nazioni del mondo, con bandiera, fotografia-simbolo e dettagliata scheda dei vari stati. A scuola ce li scambiavamo, ma bisognava leggerli (senza farsi vedere dal signor maestro) durante la lezione, perché poi ognuno si riprendeva i suoi prima di tornare a casa. (3) Quei due anni di amore e di guerra, Casale Monferrato, ed. Piemme, 1992, volume definito da Franco Bandini: «…l’unico libro, accanto a Vestivamo alla marinara di Susanna Agnelli, che restituisca lo spirito, altrimenti non trasmissibile, di noi giovani di quella generazione. Senza una traccia di reducismo e di quel “Io c’ero e voi no” che squalifica il 95% delle memorie». Giudizio, questo, è bene aggiungere, formulato non soltanto da un grande giornalista, ma da un reduce di Russia che proprio per questo semplice e onesto motivo evitò sempre di scrivere in merito alle proprie picaresche traversie durante la ritirata nel corso del terribile inverno 19421943. (4) Per quanto autore di libri di successo come, primo tra tutti, Fantasma d’amore (da cui fu tratto anche il film di Dino Risi con Marcello Mastroianni e Romy Schneider), o Selina (portato in TV da Johnny Dorelli), Milani, autore per decenni della celebre rubrica «La realtà romanzesca» della Domenica del Correre, sapeva infatti benissimo, allora come oggi, che nulla può battere la fantasia della vita quotidiana, con le sue avventure inaspettate (e spesso drammatiche) dai risvolti imprevedibili. (5) Holger Afflerbach, L’arte della resa, ed. Il Mulino, Bologna, 2015, pagine 131-132.
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SAGGISTICA E DOCUMENTAZIONE
La navigazione a vapore sul fiume Po Piroscafo CONTESSA CLEMENTINA - Olio su tela di Francesco Trecourt (1815-1885), Musei Civici di Pavia. La tela raffigura lo storico battello in servizio sulla linea Pavia-Venezia dal 1844 al 1859.
Mario Veronesi (*)
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ella prima metà dell’800, quando la navigazione a vapore si avventurava sulle più importanti acque interne dell’Europa, la Lombardia e il Veneto appartenevano alla corona asburgica come Regno Lombardo-Veneto. Il conte Franz Josef Sarau (1760-1832), governatore della Lombardia dal 1816 al 1818 propugnava la navigazione a vapore sui fiumi Po, Ticino e sul Naviglio trovando in Luigi Serristori (1793-1857) studioso di matematica e scienze a Pisa che aveva pubblicato due monografie: «Saggio sulle macchine a vapore (1816)» e «Sulla navigazione a vapore nella Gran Bretagna (1817)», un sostenitore, che non perdeva occasioni per illustrare le caratteristiche e le convenienze delle macchine che stavano entrando in esercizio. La vicenda del primo tentativo di navigazione a vapore sul Po, fu effettuato dal conte Luigi Porro Lam-
bertenghi (1780-1860), dal conte Federico Gonfalonieri (1785-1846), e dal duca Alessandro Visconti d’Aragona (?-1851), che nel febbraio del 1817 avevano richiesto al governo della Lombardia l’esclusiva per la navigazione a vapore sul Po e sugli altri fiumi e laghi del Lombardo-Veneto, sul tratto di mare da Venezia a Trieste e lungo le coste dell’Adriatico e nord di Ancona. Avuto il parere favorevole del governatore della Lombardia, bisognava costruire le navi. Federico Confalonieri, reduce da un viaggio a Londra, suggerì di ricorrere alle officine Boulton e ai Watt che fornirono una straordinaria macchina a vapore. Lo scafo venne invece realizzato a Genova ai cantieri Biga con materiali però difformi da quelli consigliati dagli inglesi. Il battello battezzato Eridano (antico nome del fiume), fu varato nell’ottobre del 1819 e, dopo una lunga naviga-
(*) Pavese classe 1949, è docente allÊUNITRE di Pavia. Collabora con i mensili Marinai dÊItalia, Lega Navale e Rivista Militare, con il quotidiano La Provincia Pavese, e il settimanale Il Ticino di Pavia. Vincitore del premio giornalistico ÿCronache di Storia 2011Ÿ, con lÊarticolo Dalla crisi delle città marinare italiane agli imperi mercantili. Ultimi libri pubblicati: ÿSamurai sul Pacifico, la Marina imperiale giapponese dalle origini alla Seconda Guerra MondialeŸ, ÿDagli Zar ai Soviet, la Marina russa dal 1600 al 1939Ÿ. ˚ collaboratore della Rivista Marittima dal 2005.
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La navigazione a vapore sul fiume Po zione lungo tutte le coste italiane, giunse a Venezia nel maggio 1820. Il mese successivo arrivò da Vienna anche l’atteso documento che autorizzava l’iniziativa e l’avventura poté ufficialmente iniziare. Il viaggio da Venezia a Pavia tra l’entusiasmo della folla che si assiepava lungo le rive del fiume per vedere il mirabile monstrum, durò ben 16 giorni a causa della forte corrente contraria del Po che richiese a un certo punto persino l’aggiunta di alcuni buoi a sostegno dell’insufficiente forza del vapore. Il viaggio di ritorno fu molto più agevole grazie alla corrente favorevole e si svolse in cinque giorni, con sole 40 ore di navigazione effettiva. Dopo questo primo viaggio trionfale, però, cominciarono le difficoltà. L’impresa sarebbe stata remunerativa solo se fosse riuscita ad accaparrarsi un regolare traffico di merci tra Milano e l’Adriatico, ma non fu così. Il fiume non era sempre navigabile per le secche e le nebbie che impedivano di schivare i numerosi mulini natanti. I ducati di Parma e di Modena ritardavano il viaggio con estenuanti ispezioni doganali. La domanda di trasporto delle merci quindi scarseggiava e un viaggio non a pieno carico non compensava le forti spese provocate dai sette uomini dell’equipaggio e dal costo elevato del carbone usato, quello inglese. Iniziata nel giugno del 1820, il 23 marzo 1821 l’impresa era già fallita e l’Eridano, ormai in disarmo sulla Riva degli Schiavoni a Venezia, restava solo un simbolo della temerarietà di questi primi imprenditori milanesi. Nel 1826 il suo propulsore, fu trasferito sul Verbano, primo piroscafo in servizio sul Lago Maggiore. Il generico racconto della prima navigazione, non fornisce una completa immagine della complessità della vicenda, per quanto riguarda i contrasti, le difficoltà, gli errori che ne intralciarono la buona riuscita e l’atteggiamento assunto dal governo austriaco nei confronti dell’iniziativa. A questo proposito anzi alcuni studiosi, prendendo lo spunto da alcune frasi del Confalonieri vagamente polemiche verso le autorità, furono indotti a teorizzare un’attitudine ostile del governo verso la nuova impresa e a servirsi quindi anche di questo episodio per dimostrare l’ottusità dell’impero asburgico, ma i fatti successivi non dimostrarono questo atteggiamento. Dobbiamo anche considerare che la navigazione sul Po avveniva su litorali di confine, si
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navigava tra Piemonte, Lombardo-Veneto, ducato di Parma e Piacenza e Stato Pontificio. Nel 1829 nasce la «Società Privilegiata per la Navigazione a Vapore nel Regno Lombardo-Veneto», costituita allo scopo d’intraprendere l’attività di trasporto passeggeri e merci lungo il fiume Po e sul Lago Maggiore. L’iniziativa, promossa dal duca Carlo Visconti di Modrone già azionista della «Società Privilegiata dei Battelli a Vapore nel Regno Lombardo-Veneto» fondata nel 1825, che nasceva sotto gli auspici del governo austriaco che, attraverso la concessione di esenzioni e di privilegi intendeva promuovere lo sviluppo delle moderne comunicazioni all’interno dei confini territoriali. Sempre nel 1829, la società procedette all’acquisto di due battelli a vapore, il Virgilio e l’Arciduchessa Elisabetta, con i quali furono attivate corse nella tratta intermedia del Po, tra Pontelagoscuro e Mantova. In breve tempo il nuovo servizio di navigazione, dapprima limitato ai soli passeggeri e in seguito esteso anche alle merci, entrò in concorrenza con la corriera di Mantova, che compiva un viaggio settimanale e aveva un contratto con le Regie Poste fino al 1834. Due anni più tardi, la società decise di vendere i due battelli a cui se ne erano aggiunti altri, tra i quali l’Eridano, il Romolo e il Plinio al barone Testa di Piacenza. Ma anche questo tentativo arrivò fino al 1840 e poi fallì e l’Arciduchessa Elisabetta, fu trasferito sul lago di Como. In quel periodo nacque la società per azioni «Ferdinandea» per la costruzione della linea ferroviaria Venezia-Milano (costruita tra il 1835 e il 1852) compreso il ponte della Laguna Venezia-Mestre inaugurato il 13 gennaio 1846. Venezia non poteva perdere l’occasione di contrastare Trieste e sostituire Genova (allora porto sardo) nella spedizione di beni a Milano, un progetto, in effetti, accolto inizialmente con scetticismo, se non con ostilità, da una gran parte dei ceti produttivi lombardi, legati al porto ligure da vincoli di opportunità e di convenienza economica. Calcolando che con la locomotiva i tempi del percorso (Km 271) si sarebbero ridotti di 4\5, i coloniali, lo stoccafisso norvegese, i prodotti del Levante e altre merci che godevano di dazi di favore sarebbero arrivati sul mercato lombardo a prezzi competitivi e prima di quelli provenienti dal porto piemontese. Inoltre Venezia con la
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La navigazione a vapore sul fiume Po
Pavia piroscafo a vapore ormeggiato sul Ticino di fronte al Collegio Borromeo, fondato da S. Carlo Borromeo (1538-1584) nel 1561.
nuova strada ferrata, contava anche di contrastare efficacemente la concorrenza triestina che risaliva il Po verso i mercati pontifici e lombardi. Nel 1843 il conte Alvise Francesco Mocenigo (1799-1884) acquistò dal Signor De Bei, la concessione per la navigazione sul fiume padano, e ordinò alla ditta «Dithburn & More» di Londra, la costruzione di un piroscafo di ferro battezzato con molta semplicità: Conte Mocenigo. La nave con un pescaggio di soli 61 cm inaugurò alla fine del 1843 il traffico sulla tratta nel Lombardo-Veneto austriaco, Venezia-Mantova (Borgoforte). Seguì nel 1846, sul tratto Mantova-Milano, un secondo piroscafo costruito dalla Taylor di Marsiglia, e battezzato Contessa Clementina. In questo periodo possiamo quindi definire realizzata la navigazione via fiume, da Venezia a Milano. Il tempo impiegato era di sei giorni nella stagione estiva e di otto in quella invernale. Da Venezia a Cavanello di Po funzionava un veliero, quindi si proseguiva a vapore fino a Pavia, mentre l’ultimo tratto da Pavia a Milano avveniva sul naviglio su barche che venivano alate con animali. Nel 1847 figuravano proprietari del diritto di navigazione sul Po i Signori Tommaso Perelli e Paradisi che ordinarono al cantiere Paul Van Vlissingen di Amsterdam un terzo piroscafo con macchina di 100 cv, che venne battezzato col nome del Pontefice dell’epoca
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Pio Nono. La nave si trovava a Venezia per l’allestimento quando sull’Europa s’abbatte la tempesta del 1848. Durante questi moti, il piroscafo Pio Nono cadde nelle mani degli insorti veneziani che lo armarono e dopo averlo ribattezzato Eridano, lo utilizzarono nella difesa di Venezia contro gli austriaci. Dopo la caduta di Venezia l’Eridano fu sequestrato dall’Imperial Regia Marina Austriaca e utilizzato nella laguna. Al Conte Mocenigo che nel 1848, si era schierato dalla parte degli insorti, gli furono sequestrate le navi: Conte Mocenigo, che venne ribattezzato Innominata mentre il Contessa Clementina divenne Clementina. Dopo le esperienze militari della campagna 18481849, l’Austria voleva istituire sul Po un’affidabile linea di rifornimenti, ma nello stesso tempo voleva risparmiare i costi per la costituzione di una flottiglia. Il governo austriaco intendeva fare del fiume una grande via di traffico, divenuta attuale con la sottoscrizione avvenuta i 13 luglio 1849 tra Austria, Modena, Parma e Stato della Chiesa di un trattato che sanciva la libera navigazione su quelle acque. Perciò l’amministrazione imperiale si rivolse al Lloyd austriaco (azienda nata nel 1836 come una branca dell’Osterreichischer LloydLloyd Austriaco, ed è da considerarsi fra le più antiche Compagnie di Navigazione del mondo), chiedendogli di riorganizzare la navigazione usufruendo nello stesso
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La navigazione a vapore sul fiume Po tempo, di una sovvenzione statale, mentre il «Flottillenkorps» avrebbe fornito l’equipaggio delle navi. Già nel 1844 il Lloyd aveva posto allo studio la possibilità di una comunicazione diretta per acque interne tra Trieste e la Svizzera. Pertanto la presidenza e il consiglio di amministrazione della compagnia, con atto del 15 dicembre 1851, si manifestavano favorevolmente. Seguiva, il 28 marzo 1852, il relativo accordo con lo stato, esteso l’anno successivo al Ticino e al Lago Maggiore. Nasceva ufficialmente una nuova linea fluviale, che avrebbe trasportato passeggeri, merci e truppe lungo il fiume padano. Il Lloyd doveva fornire i macchinisti e il personale amministrativo, si assicurava l’esclusivo esercizio della navigazione lagunare da Venezia al Brondolo, sul Ticino fino al Lago Maggiore e sul Naviglio Grande fino a Milano. La via di Chioggia non poteva essere attivata direttamente e i bracci del Po non presentavano un tirante d’acqua sufficiente. Pertanto lo stato s’impegnava ad aprire un braccio settentrionale, detto Po di Levante, compiendo i lavori entro il 1853. Si procedeva all’acquisto dalla ditta Perelli Paradisi e Co dei piroscafi Innominato (di 100 cv) e Clementina (di 60 cv) impiegato sulla linea Venezia-Chioggia, che entravano in servizio con i nuovi nomi di Cremona e Padova insieme a 14 gabarre (barconi) da rimorchio e altro materiale. In seguito iniziò a operare sul fiume Bojana, sul lago di Scutari e sul Danubio fino al mar Nero. Veniva così realizzata una
Veduta del porto di Pavia, sullo sfondo il Collegio Borromeo.
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formidabile rete di distribuzione di merci e movimenti di passeggeri che univa le linee operanti nel bacino del Danubio con il mar Nero e da qui verso le altre destinazioni. Furono ordinati in Francia presso il cantiere Scheider & Co di Creuzot i tre piroscafi rimorchiatori Piacenza, Pavia e Ferrara da 420 t ciascuno con macchina da 150 cv; inoltre la ditta Escher Wyss & Co di Zurigo fornì due piroscafi per passeggeri, il Modena e il Parma da 470 t e 150 cv; bisognava provvedere anche al servizio in laguna, per il quale venivano acquistati ad Amsterdam, presso il cantiere Paul van Vlissingen & Dudock van Hellen, i piroscafi misti Verona e Vicenza da 220 t e 80 cv. Inoltre la James Watt & Co di Londra fornì i piroscafi a elica Verbano, Lario e Benaco di 300 t e 100 cv; il numero delle gabarre da rimorchio venne aumentato a 44. Il Lloyd inaugurò il servizio passeggeri sul Po il 31 maggio 1854. Partendo da Milano, i piroscafi toccavano Pavia, Portalbera, Piacenza, Cremona, Casalmaggiore, Guastalla, Mantova, Ostiglia, Borgoforte, Saccheta, Pontelagoscuro S. M. Maddalena, Polesella e Cavanella di Po, con arrivo nella mattinata del giorno dopo, percorso effettuato tra tempi di viaggio e soste in circa 34 ore. Nei luoghi dove non esisteva ancora la possibilità di attracco in banchina, il Lloyd assicurò lo sbarco con barche comprese nel prezzo. Da notare che il tratto Pavia-Milano era servito da carrozze a cavalli e che sul tratto lagunare erano adibiti anche i piroscafi San Carlo, San Marco e San Giusto. Ma era chiaro che il traffico passeggeri non poteva competere con la ferrovia, costante preoccupazione della compagnia armatrice, tanto che il numero delle corse veniva dimezzato restando teorica la capacità d’imbarco complessiva di 1.590 passeggeri. Si sviluppava soddisfacentemente, invece, il trasporto merci tanto che fin dal 1855 il Lloyd disponeva di 90 gabarre da rimorchio e di
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La navigazione a vapore sul fiume Po
Porto di Pavia sullo sfondo il vecchio ponte coperto.
piccole navi sia sul Po che sul Lago Maggiore. Nello stesso anno il piroscafo Cremona fu posto in disarmo e le sue macchine furono riutilizzate nella costruzione del piroscafo Miramare. Nel 1858 a causa del numero dei passeggeri sempre più in calo, il trasporto passeggeri fu sospeso e i piroscafi Modena e Parma furono venduti all’Erste Donau Dampfschifffahrt Gesellschaft (DDSG) che forniva un servizio settimanale di trasporto dai porti danubiani fino al Mar Nero, e che li utilizzò sul Danubio fino al 1928, con i nomi di Mercur e Juno. Nel 1859 la situazione politica si fece di nuovo difficile, il Piemonte si era alleato con la Francia e in febbraio aveva ammassato delle truppe al confine austriaco. Dopo l’ultimatum austriaco del 22 aprile respinto dal Piemonte, anche la Francia inviò un forte contingente di truppe nel nord Italia. Iniziava la seconda guerra d’indipendenza. Durante questa guerra il Lloyd dovette consegnare molte navi alla «Kaiserliche und Konigliche Kriegsmarine KKK» (Marina Imperiale da Guerra); queste vennero utilizzate come tra-
sporto di truppe; e concentrate nel basso corso del Po ma rimanendo praticamente inattive. La nuova situazione politica impediva ogni ulteriore navigazione del Lloyd sul Po ed era del tutto impensabile vendere le navi al regno di Piemonte. Nell’estate del 1861, il piroscafo Piacenza partiva assieme a 10 bettoline per il basso Danubio dove il Lloyd, parallelamente alla DDSG, esercitava da tempo un servizio tra Galaz e Braila. Nel 1862 si effettuò la vendita del Piacenza al governo serbo, che lo impiegò col nome di Deligrad. L’anno successivo venivano trasferiti sul Danubio anche il Pavia e il Ferrara, venduti nel 1865 alla neocostituita Compagnia dei Piroscafi a Vapore Raaber che li ribattezzò Orszàgh e Deak Ferencz. Nel mese di marzo dello stesso anno arrivava sul Danubio anche il Vicenza, venduto all’impresa ungherese Geisz & Rosmayer di Tolna, dove il piroscafo mutava il nome in Tona. Nell’estate del 1866 il Lloyd vendeva anche il Padova ex Clementina, che per un certo periodo troviamo a Trieste presso il cantiere Tonello e il Verona ponendo faticosamente fine al suo impegno sul Po. 8
BIBLIOGRAFIA Aldo Cherini, Manlio Nigido, La navigazione sul fiume Po e il contributo del Lloyd austriaco, Associazione Marinara Aldebaran, Trieste, 2011. G. De Castro, I nuovi argonauti 1820, F. Gonfalonieri e la navigazione sul Po, Natura ed Arte, 1892. G. Cappello, Un tentativo di navigazione fluviale nel 1820, Gazzetta di Venezia, 1908. A. A. Michieli, Federico Confalonieri e un tentativo di navigazione a vapore sul Po negli anni 1820-1822, Annuario Istituto Tecnico di Treviso,1927. Giacinto Romano, Pavia nella storia della navigazione fluviale, ed. Matteo Speroni, Pavia, 1911. Ettore Fabietti, Piccola storia della navigazione a vapore, Garzanti, Milano, 1943. Giovanni Gerolami, Navi e servizi del Lloyd Triestino, Trieste, 1956.
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STORIA E CULTURA MILITARE
I Dirigibili della Regia Marina Michele Cosentino (*)
Manovre di un dirigibile (fonte: USMM).
(*) Contrammiraglio in ausiliaria, ha completato lÊAccademia Navale nel 1978 e si è laureato in Ingegneria Navale e Meccanica presso lÊUniversità di Napoli. ˚ stato imbarcato su unità di superficie e subacquee fino al 1991 e ha successivamente prestato servizio presso lo Stato Maggiore della Marina, la Direzione Generale degli Armamenti Navali e il Segretariato Generale della Difesa; è stato anche destinato presso il Quartier Generale della NATO a Bruxelles e presso il Central Office dellÊOCCAR-EA a Bonn. Dal 1987 collabora con la Rivista Marittima e con diverse case editrici italiane e straniere ed è autore di numerosi libri, saggi e articoli.
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I Dirigibili della Regia Marina
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el corso della sua esistenza, la Marina italiana ha iniziato a impiegare un mezzo militare relativamente poco noto — il dirigibile — nell’epoca pionieristica che vedeva la contemporanea e timida nascita dell’aeroplano. La convivenza fra il più leggero e il più pesante dell’aria protrasse per un periodo tutto sommato ridotto (circa 20 anni), in cui però la Forza Armata fu pienamente impegnata in due conflitti e da cui trasse i dovuti insegnamenti.
Dalle prime esperienze alla guerra di Libia
anche a un mezzo più leggero dell’aria, dando così vita al dirigibile. Dopo aver provato anche aerostati aerodinamicamente configurati — meglio noti come «Draken» — a bordo di unità navali, la Regia Marina decise di aggregarsi al Regio Esercito per esplorare le potenzialità offerte dal dirigibile: del resto, il governo di quest’ultimo, non per niente definito «aeronave», seguiva sostanzialmente le regole del mezzo navale, che invece di navigare sulla superficie del mare, si muoveva in un fluido a densità uniforme, accostando a dritta e a sinistra e cambiando di quota secondo le necessità. Dopo aver creato (5 aprile 1907), all’interno del 3° Reparto dello Stato Maggiore, un «Ufficio di Aeronautica» destinato a seguire le questioni di aeronautica e di studi relativi che potevano interessare la Regia Marina, fu deciso nel 1910 di inviare quattro ufficiali offertisi volontari — i sottotenenti di vascello Bruno Brivonesi, Giulio Valli, Castruccio Castracane degli Antelminelli e Manfredi Gravina di Ramacca — alla Scuola Piloti per dirigibili istituita dal Regio Esercito a Vigna di Valle (sul lago di Bracciano). Fra gli istruttori della Scuola vi era il tenente di vascello Guido Scelsi, comandante dell’N1 bis — secondo dirigibile militare italiano — durante un volo senza scalo fra Vigna di Valle e Napoli e ritorno eseguito il 31 ottobre 1909 (1). Una prima classificazione dei dirigibili militari italiani era legata alla loro cubatura e diede vita ai tipi/classi «P» (piccolo) «M» (medio) e «G» (grande),
Le prime esperienze documentate della Regia Marina nel settore del volo risalgono agli studi condotti nel 1878 dal tenente di vascello Alberto De Orestis e finalizzati a capire le potenzialità dei cosiddetti «palloni liberi», cioè gli aerostati, la cui sperimentazione era già iniziata da qualche anno in altre Nazioni europee. Infatti, la regola — immutata nei secoli — dell’osservazione a distanza a cura di un marinaio di vedetta posto in una posizione elevata a bordo di una nave poteva applicarsi, con risultati ben superiori, se quell’osservatore si fosse trovato dentro una navicella appesa a un aerostato librato sul mare: probabilmente per questo motivo, il 28 giugno 1886 l’allora Ministro della Marina, l’ispettore del Genio Navale Benedetto Brin, volle partecipare a un’ascensione a bordo del pallone Torricelli, in forza al 3° Reggimento del Genio Militare, impegnato in un’escursione da Roma a Rocca di Papa e ritorno. Contemporaneamente, diversi ufficiali del Regio Esercito svolgevano esperienze a bordo di palloni aerostatici, preparandosi a un’intensa attività dapprima sfociata nel loro impiego durante l’occupazione dell’Eritrea (1887-88) e poi in sperimentazioni e operazioni congiunte in tempo di pace e di guerra. Mentre proseguivano le prove di aerostati sul mare per mezzo di cime vincolate a una nave adattata allo scopo, l’avvento dell’aeroplano (1903) servì a stimolare l’applica- Un pallone DRAKEN in manovra con l’ELBA, in un’immagine risalente al 1907: si tratta delle prime zione della propulsione meccanica esperienze operative di “interfaccia” fra una nave della Marina italiana e un mezzo aereo (USMM).
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I Dirigibili della Regia Marina mentre dal punto di vista costruttivo essi erano suddivisi in rigidi, semirigidi e flessibili, o flosci (2). Sul piano pratico, un discreto successo ebbe la partecipazione dei dirigibili P2 e P3 alle manovre congiunte eseguite nell’estate del 1911 nel Monferrato, con le due aeronavi destinate alla ricognizione dell’area della «battaglia», a disposizione dei due partiti contrapposti: al termine delle manovre, il P2, al comando di Scelsi, eseguì un’ascensione dimostrativa a favore di Vittorio Emanuele III, del dirigibile tipo «P» in azione presso Tripoli nel 1912. La guerra di Libia vide la partecipazione di tre cui seguito faceva parte il suo aiu- Un dirigibili della Regia Marina, a sostegno delle operazioni sul terreno (USMM). tante di campo, l’allora contrammiraglio Paolo Thaon di Revel, campo riuscirono progressivamente a espandere la conconvinto sostenitore delle potenzialità militari del quista delle fasce costiere: un’azione importante ebbe mezzo aereo sul mare e destinato ad avere un ruolo di luogo il 12 aprile 1912, quando il P2 e il P3 operarono massimo rilievo nello sviluppo dell’Aviazione navale a sostegno delle truppe della 5a Divisione Speciale, imitaliana. Il 29 settembre 1911 l’Italia dichiarava guerra alpegnata in uno sbarco vicino al confine tunisino per tal’Impero ottomano, aprendo un conflitto che avrebbe gliare le vie di comunicazione alle bande locali. In visto il debutto operativo assoluto di dirigibili e aeroquell’occasione, i dirigibili si rifornirono in mare dal plani. Qualche giorno dopo, fu costituito a Brindisi un piroscafo Hercules, sotto scorta dell’incrociatore Carlo «Cantiere Dirigibili» al comando di Scelsi, per parteAlberto e dell’incrociatore ausiliario Città di Catania. cipare alla spedizione oltremare e a cui furono asseAd aprile 1912 fu aperto il cantiere di Bengasi, con il gnate le aeronavi P2 e P3: tre mesi dopo, esse, il dirigibile P1 al comando del tenente di vascello Agopersonale e i materiali per la realizzazione dell’aerostino Penco inviato in Cirenaica per missioni di ricoscalo — o «cantiere» — furono trasferite a Tripoli a gnizione in profondità. bordo di piroscafi. Le operazioni di approntamento fuAl termine delle operazioni in Libia (20 ottobre rono però frustrate da una tempesta che si abbatté sul1912), il P2 e il P3 avevano eseguito, rispettivamente l’area prescelta per la costruzione dell’aeroscalo, tanto 71 e 52 ascensioni, mentre quelle del P1 furono solada obbligare la Regia Marina a inviare nuovi materiali mente nove, anche perché esso rientrò quasi subito in in zona di guerra. Le prime missioni, nell’area di ZanItalia per un impiego a scopo addestrativo: stessa sorte zur, furono eseguite all’inizio di marzo 1912, con il P2 toccò ai primi due dopo il loro rientro in Patria (gennaio al comando del tenente di vascello Salvatore Denti 1913), anche a causa della loro relativa vetustà e delAmari di Pirajno e il P3 guidato da Scelsi: l’attività l’arrivo di nuovi modelli. L’esperienza maturata oltresvolta riguardava essenzialmente l’esplorazione e la mare fu sintetizzata da Valli in una relazione dove mappatura del territorio e la ricerca di postazioni nefurono evidenziati i buoni risultati raggiunti nell’esplomiche, in modo da favorire l’azione dei reparti terrestri. razione dall’alto, anche se la natura del territorio piatto A queste prime missioni ne seguirono altre sempre in e poco «tormentato» favoriva lo scopo: le condizioni Tripolitania, ancora al supporto delle truppe che sul di sicurezza dei dirigibili erano legate alla quota ope-
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I Dirigibili della Regia Marina rativa e all’efficacia del contrasto da terra, elemento questo che — unitamente alla sensibilità alle condizioni atmosferiche, alla pesantezza del supporto logistico e alla sua intrinseca vulnerabilità — rendeva il dirigibile meno competitivo rispetto all’aeroplano. Risultati apparentemente migliori sarebbero potuti derivare dall’esplorazione sul mare in concorso con le unità di superficie e dal bombardamento contro obiettivi costieri nemici, mentre la scoperta di mine fu sconsigliata proprio per la vulnerabilità dell’aeronave e della maggior quota a cui avrebbe dovuto perciò operare (3).
La preparazione al conflitto e le operazioni dei primi anni di guerra Poco dopo aver assunto l’incarico di vertice della Regia Marina, l’ammiraglio Thaon di Revel creò (27 giugno 1913) una «Sezione Aeronautica» all’interno del 1° Reparto «Approntamento, sviluppo e impiego della flotta» dell’Ufficio del Capo di Stato Maggiore, responsabile di tutti gli aspetti connessi con l’aviazione navale, dirigibili compresi. Parallelamente fu stipulato un accordo con il Ministero della Guerra che prevedeva, fra l’altro, il completamento a cura del Regio Esercito degli aeroscali di Ferrara e Jesi (quest’ultimo in sostituzione di quello previsto a Grottaglie), l’assegnazione alla Regia Marina dei dirigibili M2 e V1 (tipo «veloce», in costruzione a Vigna di Valle) e la temporanea dipendenza degli aeroscali del Regio Esercito dai comandi della Regia Marina qualora i dirigibili del primo fossero stati impiegati dalla seconda per l’esplorazione marittima. Quando scoppiò la prima guerra mondiale (2 agosto 1914), la Regia Marina aveva in servizio il dirigibile M2 — poi ribattezzato Città di Ferrara — a Ferrara: l’aeronave V1, poco dopo ribattezzata Città di Jesi e di base nella città marchigiana, era in fase di completamento, mentre un terzo cantiere era in costruzione a Pontedera; la «Sezione Aeronautica» era inoltre diventata V° Reparto, con compiti relativi agli aspetti tecnici, amministrativi e d’impiego dei mezzi aerei. Questa situazione rimase invariata al momento dell’ingresso dell’Italia nella prima guerra mondiale, con l’unica eccezione del trasferimento del Città di Ferrara a Jesi e del Città di Jesi a Ferrara: le due aeronavi fu-
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rono i primi mezzi aerei italiani entrati in azione contro il nemico, già nella notte tra il 23 e il 24 maggio 1915. Infatti, alle 23:20, il Città di Ferrara decollò da Jesi per bombardare le installazioni militari di Pola, con un equipaggio formato da Castracane, dai tenenti di vascello Felice De Pisa e Carlo Burzagli, dai motoristi e meccanici Antonio Mantero e Mauro Giovine, dagli artificieri Giuseppe Sequenza e Gerardo Casoli e dai timonieri Raffaele Mascarella e Vincenzo Socci. Nel frattempo, era in corso un’operazione della Marina austro-ungarica contro le vie di comunicazione della costa adriatica occidentale, con la partecipazione di unità navali e idrovolanti: avvistato dalle navi nemiche ed essendo sfumato il fattore sorpresa, Castracane decise di attaccare i bersagli navali più importanti con le quattro bombe in dotazione, ma l’intervento di due idrovolanti nemici che rientravano alla loro base obbligò Castracane a ripiegare a Jesi, dove atterrò senza danni di rilievo. Il Città di Jesi decollò da Ferrara alle 22:45 dello stesso giorno al comando di Scelsi (nel frattempo promosso capitano di fregata) e con Brivonesi fra i membri dell’equipaggio, ma il vento avverso e alcuni inconvenienti tecnici costrinsero l’aeronave a rinunciare all’attacco contro navi nemiche e a rientrare alla base nelle prime ore del 24 maggio. Il Città di Ferrara uscì in mare due giorni dopo, per sorvegliare gli approcci alle coste marchigiane, ma mentre sorvolava Ancona fu scambiato per un dirigibile nemico, per fortuna senza conseguenze pericolose: una missione di bombardamento di unità navali nemiche di base a Sebenico ebbe luogo il 27 maggio. Una nuova missione di bombardamento, stavolta contro il silurificio Whitehead di Fiume, iniziò con il decollo dell’aeronave alle 23:00 del 7 giugno 1915: la navigazione verso l’obiettivo non fece registrare problemi, consentendo al Città di Ferrara di sganciare un primo gruppo di bombe. Durante il rientro, il dirigibile fu colpito dalla contraerea nemica, subendo danni a un motore: nonostante la riparazione dell’avaria, il peggioramento delle condizioni meteorologiche provocò serie avarie alla struttura dell’aeronave e la sua discesa verso il mare. L’impatto contro la superficie, verso le 06:15 dell’8 giugno, fu molto violento e peggiorò la situazione, mentre l’attacco di un idrovolante
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I Dirigibili della Regia Marina nemico fece scoppiare un incendio che distrusse l’aeronave e obbligò l’equipaggio ad abbandonarla: purtroppo De Pisa e Mantero persero la vita, con gli altri membri dell’equipaggio raccolti dalla torpediniera austro-ungarica e avviati nel campo di prigionia di Mathausen. Al Città di Jesi fu affidato il bombardamento di Pola e il dirigibile, dopo aver riparato le avarie ed eseguito alcune modifiche ai motori, decollò alle 20:00 del 4 agosto 1915, al comando di Brivonesi (4): gli altri membri dell’equipaggio dirigibile CITTÀ DI JESI, abbattuto dalla contraerea austriaca al largo di Pola nella notte fra il 5 e il 6 erano i tenenti di vascello Giacinto Ilagosto 1915: l’equipaggio fu fatto prigioniero e l’aeronave smantellata (Foto Marina austro-ungarica). Valerio e Raffaele de Courten, il motorista Giovanni Sanfedele, il sinon furono svolte azioni di rilievo, il P4 fu nuovamente lurista Arnolfo Lami e il timoniere Ettore Satta Flores, armato dal Regio Esercito e trasferito a Ciampino per mentre la dotazione comprendeva 30 bombe. L’attacco un completa revisione, venendo utilizzato nuovamente doveva cominciare poco prima di mezzanotte, ma soltanto nel 1918 per operazioni di protezione del trafgiunto a una paio di miglia dalla costa e trovandosi a fico marittimo lungo le coste tirreniche (5). una quota di 2.700 metri, il dirigibile fu dapprima inAlla fine del 1915, la Regia Marina era rimasta dunquadrato dal primo di numerosi proiettori e poco dopo que senza dirigibili, anche se all’epoca l’M6 e il V2 si colpito dai primi proiettili: dopo aver sganciato le trovavano in costruzione ed erano in corso le trattative bombe, Brivonesi accostò per il rientro, ma l’aeronave con la Gran Bretagna per l’acquisto di quattro piccoli aveva assunto un appoppamento che ne provocò la prodirigibili per la vigilanza marittima in funzione antigressiva caduta. Le azioni di alleggerimento permisero nave, antisommergibili e antimine e per la scorta di che l’impatto con l’acqua non fosse troppo violento, convogli. Al termine della pausa invernale, le azioni consentendo all’equipaggio di mettersi in salvo aggrapdei dirigibili ripresero nell’aprile del 1916 con le mispandosi ai timoni orizzontali: i naufraghi furono poi sioni del V2, armato da un equipaggio Esercito-Marina raccolti da una torpediniera austriaca uscita da Pola e di cui faceva avrebbe fatto parte dapprima solo il tefatti prigionieri. nente di vascello Renato Strazzeri quale comandante Fra i dirigibili del Regio Esercito impiegati dalla in 2a e poi i parigrado Mario Mezzadra e Luigi CastaRegia Marina, il primo fu il P4, di base a Campalto (nei pressi di Mestre), che nei primi giorni di guerra eseguì gna. L’aeronave, di base a Ferrara, fu per lo più impiericognizioni offensive al largo di Venezia: un primo gata in bombardamenti contro le linee nemiche bombardamento di Pola ebbe luogo nella notte del 30 nell’area di Gorizia e Trieste condotte fino alla fine di maggio, mentre l’azione seguente si svolse con sucmaggio 1916: in seguito, il V2 fu utilizzato in missioni cesso una settimana dopo. Ulteriori attacchi furono di sorveglianza marittima e protezione dei traffici condotti fino al 7 agosto, colpendo fra l’altro l’idronell’Alto Adriatico e nel Tirreno, e per attività addescalo di Parenzo, le installazioni industriali di Trieste strative con unità navali e sommergibili, fino al die ancora quelle navali di Pola: dopo un breve periodo sarmo, avvenuto nel settembre 1917. trascorso con un equipaggio della Regia Marina in cui La situazione critica nel settore dei dirigibili italiani
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I Dirigibili della Regia Marina si aggravò anche a causa degli incidenti occorsi a quattro aeronavi del Regio Esercito, situazione parzialmente mitigata con la consegna, alla Regia Marina, dell’M6, in servizio da Jesi dal luglio 1916. La prima azione contro Pola era stata programmata per il 2 agosto (con l’aeronave comandata da Valli e il resto dell’equipaggio formato dal tenente di vascello Carlo De Bei, dai sottotenenti di vascello Arrigo Osti e Angelo Varoli-Piazza e dal motorista Armando Novello), ma il cattivo tempo costrinse il dirigibile al rientro: nell’occasione, la naviUn dirigibile esploratore tipo «DE» in acqua, probabilmente al largo di Venezia: il persogazione dell’aeronave fu agevolata dalla pre- nale cerca di tenere in tensione i cavi di ritenuta affinché il vento non trascini via l’aerosenza di un gruppo di siluranti italiani lungo la nave (USMM). rotta di avvicinamento all’obiettivo, necessarie unità navali ormeggiate nella rada di Sebenico: l’aeroper fungere da punti di riferimento e intervenire in caso nave decollò da Jesi nel pomeriggio del 1 ottobre e di soccorso in mare. L’azione seguente fu condotta dopo lo sgancio delle bombe, essa fu colpita dalla connelle ore notturne del 3 settembre contro le installazioni traerea, ma seppur con un solo motore funzionante e di Lussinpiccolo, contro cui furono lanciate le sedici con l’assistenza delle navi, poté rientrare a Jesi. A dibombe in dotazione. L’M6 rientrò in azione contro le cembre del 1916, l’M6 fu trasferito nell’aeroscalo di Grottaglie — completato e gestito dalla Regia Marina — e assegnato a missioni di esplorazione nel basso Adriatico e nello Ionio (6).
Le operazioni dal 1917 al termine delle ostilità
Particolari della navicella di un dirigibile tipo «P», con due modelli di bombe e i sacchetti della zavorra (USMM).
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Al modesto contributo apportato allo sforzo bellico offensivo dai dirigibili italiani, a partire dal 1917 iniziò a far riscontro la poco appariscente ma impegnativa attività di esplorazione sul mare, condotta dalle aeronavi della Regia Marina o a essa assegnate. Per questi motivi, una commissione guidata dal capitano di fregata Denti Amari di Pirajno si era recata a Londra alla fine del 1915 per valutare cosa offriva il mercato britannico: al rientro in Italia, sei mesi dopo, fu deciso di acquistare un gruppo di otto aeronavi concepite per l’esplorazione marittima nel basso Adriatico e nel Golfo di Taranto e caratterizzate dall’avere, come navicella, la fusoliera di un velivolo da ricognizione. Con le prime quattro aeronavi — denominate da DE1 a DE4 e giunte in Italia negli ultimi mesi del 1916 — fu costituita la 1a Squadriglia Dirigibili Esploratori, di base nell’aeroscalo costruito a Taranto, nei pressi di Capo S. Vito (7): i dirigibili DE5, DE6, DE7 e DE8, entrati in linea dopo
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I Dirigibili della Regia Marina i primi quattro, furono raggruppati nella 2a Squadriglia Dirigibili di Brindisi, ma operanti anche dall’aeroscalo di Grottaglie e destinati a sorvegliare il medio e basso Adriatico. Con il terzo gruppo di nove aeronavi « denominate da DE9 a DE13, DE18, DE19, DE24 e DE25 e costruite in Italia su progetto dell’ingegner Rodolfo Verduzio — fu invece costituita la 3a Squadriglia Dirigibili Esploratori, in attività dai primi mesi del 1917 e di base inizialmente a Bazzera, nei pressi di Mestre, per operare nell’alto Adriatico (8). Dal loro in- Il gonfiamento di un dirigibile tipo «O» in un hangar dell’aeroscalo di Jesi, nel 1918; negli ultimi gresso in servizio fino al termine della mesi del conflitto, l’aeroscalo marchigiano funse da base per i dirigibili O1 e O2, entrambi con equipaggio della Regia Marina (USMM). prima guerra mondiale, queste aeronavi sarebbero state intensamente impegnate in numerosissime missioni di esplorazione sul mare, ricerca di mine, studio della visibilità dei sommergibili in immersione e ricognizione fotografica di unità navali, con alterne fortune: il primato spetta al DE1, protagonista di 229 missioni e perso per incidente (senza vittime) il 17 maggio 1918, mentre il meno «attivo» fu il DE3, che svolse solo tre missioni e fu disarmato qualche giorno prima del DE1. La prima azione di bombardamento dell’M8, decollato da Ferrara la sera manovra di uscita di un dirigibile tipo «SS» dall’hangar: si tratta probabilmente di una delle due del 25 febbraio 1917 al comando di La aeronavi di questo modello basate nell’aeroscalo di Bagnoli e usate per l’esplorazione nel Golfo di Penco (adesso capitano di corvetta), si Napoli (USMM). svolse con successo contro la piazzaper operazioni contro le retrovie nemiche, ma impieforte di Pola, su cui furono sganciati 500 kg di bombe. gato dalla Regia Marina con base a Ciampino a partire L’attività dell’M8 proseguì con un’incursione sulla base dall’ottobre del 1917, per la sorveglianza delle rotte nel d’idrovolanti austriaci di Parenzo eseguita nella notte Tirreno. L’M13 svolse la sua unica missione di guerra tra il 18 e il 19 giugno, con un attacco contro le instalnella notte del settembre 1917. Al comando di Strazzeri lazioni di Brioni Minore (25 luglio) e nuovamente su e con il capitano del Genio Navale Felice De Stefano Parenzo (19-20 agosto): le vicende dell’aeronave si quale comandante in 2a, l’M13 decollò da Jesi e bomconclusero bruscamente nella notte del 29 settembre 1917, quando l’aeroscalo fu attaccato da una squadribardò le infrastrutture navali dell’isola di Lussino, rienglia di idrovolanti nemici e l’M8 s’incendiò nel suo trando senza problemi alla base, ma un attacco condotto hangar. Più fortunata fu la carriera dell’M9, in servizio da una squadriglia di idrovolanti nemici eseguito il 26 dal settembre 1916 nelle file del Regio Esercito e usato settembre ne provocò la distruzione nel suo hangar.
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I Dirigibili della Regia Marina di settembre 1918. L’M15 rimase in servizio per scopi addestrativi anche dopo l’armistizio e fu radiato nel settembre del 1919. Tutte le azioni dell’M16 furono eseguite contro obiettivi terrestri, a ridosso del litorale di Grado, e furono eseguite da febbraio a ottobre del 1918; al comando dell’aeronave si alternarono Penco, Strazzeri e Castagna, mentre il 10 novembre — assieme ad altri dirigibili — l’M16 sorvolò Trieste durante la visita di Vittorio Emanuele III alla città redenta (9). L’M18 entrò in azione da Ferrara nella notte sul 5 maggio 1918, al comando del tenente di vascello Ugo Rossini e contro l’aeroporto di Motta di Livenza: la missione successiva (2 giugno) consistette nel lancio di manifestini di propaganda sull’Istria e, sebbene contrastata dalla reazione nemica e dal cattivo tempo, si concluse con successo. In seguito, i bombardamenti contro le retrovie austro-ungariche e le installazioni militari nell’area di Pola si alternarono con quelle di propaganda caratterizzate da successo e protrattesi sino al termine delle ostilità: l’M18 fu disarmato ad aprile del 1920, dopo aver compiuto due ascensioni d’istruzione per gli allievi dell’Accademia Navale. I quattro dirigibili tipo «PV» (piccolo veloce, da PV0 a PV3) erano un’evoluzione del La manovra di ormeggio del dirigibile M18 nell’aeroscalo di Ferrara: assieme ad altre tre aeronavi, l’M18 evoluì sopra Trieste il 10 novembre 1918, in occasione della visita di Vitmodello «P», realizzati per compiti di esploratorio Emanuele III alla città redenta (USMM). zione nel Tirreno, entrati in servizio nella primavera del 1918 e basati a Ciampino, Corneto Tarquinia e Pontedera; le quattro aeronavi eseguirono un totale di circa 100 missioni, tutte con equipaggi del Regio Esercito. L’A1 fu invece l’unico esemplare di una classe di dirigibili per operazioni in alta quota, da realizzare facendo tesoro delle esperienze maturate con gli «M»: l’A1 era caratterizzato da due navicelle in tandem, collegate fra loro da una passerella, ed entrò in servizio il 28 giugno 1918 al comando del tenente di vascello Marcello Arlotta. La prima e unica missione dell’A1 fu il bombardamento dell’arsenale di Teodo, eseIl dirigibile A1, unico del suo tipo e caratterizzato da due navicelle, fra loro collegate da una passerella, qui ripreso a Ciampino: ignota la sorta dell’aeronave, probabilmente caguito nella notte fra il 7 e l’8 agosto 1918, parduta in mare nella notte fra il 16 e il 17 agosto 1918 (USMM). tendo da Grottaglie. Una seconda missione
L’M15 operò a lungo con il Regio Esercito, ma fu ceduto alla Regia Marina nel maggio 1918 e venne basato a Grottaglie. Una prima missione contro il porto di Durazzo, guidata da De Bei, ebbe luogo nella notte sul 2 agosto, mentre quelle successive si svolsero il 6 e il 16 agosto, tutte caratterizzate da successo: altre tre missioni contro obiettivi in territorio albanese e il porto di S. Giovanni di Medua ebbero luogo nel mese
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I Dirigibili della Regia Marina fu distrutto in un atterraggio nei pressi di Tivoli 6 maggio 1918.
La smobilitazione Alla fine delle ostilità, la Regia Marina aveva in armamento 15 dirigibili di vari tipi, distribuiti fra tre Gruppi da esplorazione (dipendenti dai comandi dipartimentali di Taranto, Spezia, Napoli e della Sicilia) e le due Direzioni dei Servizi Aeronautici con sede a Venezia e a Brindisi. Nel corso del conflitto, i dirigibili in forza alla Regia Marina o da essa comunque gestiti avevano eseguito 74 Un’altra immagine dell’M18, che evidenzia la presenza dell’ancora e della corona reale nella zona prodiera. I dirimissioni di bombardamento gibili ebbero un’influenza relativa sulle operazione aeronavali della Prima Guerra Mondiale e furono in seguito sostituiti dagli aeroplani nelle missioni di bombardamento, ricognizione ed esplorazione (USMM). e 1.359 di esplorazione marittima: anche se risulta difficile valutare l’efficacia delle missioni in relazione contro lo stesso obiettivo programmata nella notte fra al numero delle missioni, l’impiego dei dirigibili il 16 e il 17 agosto fu violentemente contrastata dalla rappresentò un utile complemento a quello dei velireazione nemica, provocando la perdita dell’aeronave voli, soprattutto in quelle fasi del conflitto dove le per cause rimaste tuttora sconosciute e la scomparsa di forniture di idrovolanti e aeroplani erano in soffetutti i membri dell’equipaggio. Stessa sorte toccò anche renza. L’evolversi delle operazioni sul territorio, sul all’U5, unico esemplare di una classe di dirigibili flosci mare e dal mare aveva tuttavia evidenziato i limiti destinati all’esplorazione sul mare: in linea dal settemdelle aeronavi, in special modo quando — per lo bre del 1917, esso svolse oltre 40 missioni operando da stesso tipo di missioni a esse affidate — i vari moPontedera, ma il 2 maggio 1918 precipitò per cause delli di aeroplani si dimostrarono nel complesso sconosciute presso Campiglia Marittima, provocando maggiormente efficienti, obbligando così al disarmo anche in questo caso la scomparsa di tutti i membri deldei dirigibili già pochi mesi dopo la fine del conl’equipaggio. flitto. Quando fu costituita la Forza Aerea della Il panorama dei dirigibili in servizio nella Regia Regia Marina (settembre 1920), quest’ultima non Marina o da essa impiegati durante la prima guerra aveva più in servizio dirigibili, ma poteva avvalersi mondiale è completato dalle quattro aeronavi tipo di circa 630 fra idrovolanti e velivoli basati a terra, «SS» da esplorazione marittima (SS5, SS6, SS10B e un chiaro segno dell’evoluzione di un progresso tecSS16), tutti acquistati in Gran Bretagna nella prima nologico e dottrinario che — beneficiando anche metà del 1918 e distribuiti fra gli aeroscali di Piomdelle lezioni apprese dai dirigibili — avrebbe pesanbino, Bagnoli e Palermo: i quattro dirigibili eseguitemente influenzato le future operazioni aeree sul rono complessivamente circa 110 missioni, per lo più mare e dal mare. nel Mar Tirreno e con equipaggi misti e di essi l’SS6 8 84
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I Dirigibili della Regia Marina CARATTERISTICHE DELLE AERONAVI DA BOMBARDAMENTO IN SERVIZIO NELLA REGIA MARINA O DA ESSA GESTITE Tipo «P» Tipo «M» Tipo «Ma» (Piccolo) (Medio) (Medio alta quota) Esemplari P1, P2, P3, Città di Ferrara, , M13,M15, M16, P4, P7 M6, M8, M9 M17 Lunghezza (m) 60 83 82 Diametro (m) 18 17 18 Cubatura (mc) 4.400 12.100 12.500 Motori 1 da 100 HP (P1, 4 da 125 HP 2 da 220 HP P2, P3) 2 da 180 HP (P4, P7) Velocità (km/h) 52 85 65 Autonomia 8 ore di moto 12 ore di moto 10 ore di moto Carico utile (kg) 1.800÷2.000 3.000 5.000 Equipaggio 3 ufficiali e 3 ufficiali e 3 ufficiali e 2 sottufficiali 6 sottufficiali 6 sottufficiali Tangenza (m) 1.000÷1.300 2.000 4.700
Tipo «Mp» (Medio pesante) M18, M19
Tipo «V» (Veloce) Città di Jesi, V2
Tipo «A» (Alta quota) A1
83 18 12.500 2 da 180 HP e 1 da 130 HP
87,5 19 15.000÷15.700 4 da 220 HP
106 19,6 18.500 4 da 180 HP
76 10 ore di moto 4.950 3 ufficiali e 6 sottufficiali 4.700
85 5 ore di moto 800 3 ufficiali e 2 sottufficiali 2.000
75 14 ore di moto 1.200 4 ufficiali e 2 sottufficiali 4.500
Tipo «F» (Forlanini) F4 90 18 19.000 2 da 150 HP
75 8 ore di moto 1.400 3 ufficiali e 4 sottufficiali 4.500
CARATTERISTICHE DELLE AERONAVI DA ESPLORAZIONE IN SERVIZIO NELLA REGIA MARINA O DA ESSA GESTITE Tipo «SSA» (Submarine Scout Armstrong) Esemplari SS5, SS6, SS10B, SS16 Lunghezza (m) 43,7 Diametro (m) 8,5 Cubatura (mc) 2.000 Motori 1 da 110 HP Velocità (km/h) Autonomia Carico utile (kg) Equipaggio Tangenza (m)
70 5 ore di moto 600 Due ufficiali e due sottufficiali 3.000
Tipo «DE» (Dirigibile Tipo «DE» Tipo «PV» Tipo «O» Esplorante, costruiti (Dirigibile Esplorante, (Piccolo Veloce) (Osservatore) in Italia) acquistati in Gran Bretagna) DE9÷DE13, DE18, DE1÷DE4 PV0, PV1, O1, O2, DE19, DE24, DE25 DE5÷DE8 PV2, PV3 O3, O4 48,4 42,7 60 54 10,1 9,8 18 11 2.600 1.700÷2.000 5.200 3.600 1 da 80 HP 1 da 80 HP (DE1÷DE4) 2 da 180 HP 2 da 110 HP 1 da 110 HP (DE5÷DE8) 65 50÷70 85 90 5 ore di moto 5 ore di moto 10 ore di moto 14 ore di moto 1.250 700-900 1.600 1.110 Due ufficiali e Due ufficiali e Tre ufficiali e Due ufficiali due sottufficiali due sottufficiali due sottufficiali due sottufficiali 3.000 3.000 3.500 3.000
Tipo «U» (Usuelli) 5 55 11 4.000 2 da 80 HP 70 10 ore di moto 910 Due ufficiali e due sottufficiali 3.000
NOTE (1) Nel 1911 Scelsi divenne capo del «Servizio Militare dei Dirigibili», un reparto formato da personale della Regia Marina e del Regio Esercito e inquadrato nel Ministero della Guerra. (2) Nel dirigibile rigido, un’intelaiatura interna metallica, generalmente in alluminio, determinava la forma dell’involucro esterno: il sollevamento del dirigibile avveniva pompando un gas più leggero dell’aria — l’idrogeno — all’interno di numerose camere stagne dentro l’involucro. Un dirigibile semirigido era invece caratterizzato da un’unica travatura reticolare di chiglia, alla quale era fissato l’involucro vero e proprio, mentre il modello flessibile/floscio non era altro che un involucro di forma idonea contenente l’idrogeno. Il governo del dirigibile avveniva attraverso timoni orizzontali e verticali a cura di un equipaggio all’opera nella cosiddetta «navicella», sistemata al disotto della chiglia. (3) Durante la campagna di Libia, il concorso alla direzione del tiro della corazzata Re Umberto e dell’incrociatore corazzato Carlo Alberto — in azione contro postazioni nemiche a terra — fu affidato in varie occasioni a palloni «Draken», di cui uno trasportato a bordo del piroscafo disalberato Caval Marino, a rimorchio del piroscafo Hercules. (4) A un primo tentativo fatto la sera precedente, si dovette rinunciare a causa del cattivo tempo. (5) All’esplorazione sul mare nel Tirreno fu destinato anche il dirigibile P7, in servizio da ottobre 1917 fino al 20 febbraio 1918, data del suo disarmo a causa di problemi tecnici. (6) Quest’attività si protrasse fino al termine del conflitto, dopodiché l’M6 fu utilizzato per prove e sperimentazioni, fino al suo disarmo, avvenuto all’inizio del 1921. (7) L’aeroscalo entrò in funzione nel dicembre del 1916, con gli hangar eretti dove sorge l’attuale Scuola Marescialli della M.M. (8) La base sarebbe stata spostata a Marocco, presso Mogliano Veneto, dal 3 maggio 1917, poi a Jesi dopo la ritirata di Caporetto. (9) Sfortunato fu l’M17, colpito dalla contraerei nemica dopo la prima e unica missione di bombardamento contro i campi d’aviazione austro-ungarici nel Friuli (3-4 febbraio 1918); l’aeronave fu costretta a un ammaraggio forzato nella laguna di Venezia che ne provocò la distruzione, ma l’equipaggiò rimase incolume.
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STORIA E CULTURA MILITARE
Mers-el-Kébir Quando gli Inglesi distrussero la flotta francese
1940 - La flotta francese nel porto di Mers-el-Kébir (fonte: http://merselkebir.unblog.fr/).
Domenico Vecchioni (*)
I
l porto di Mers-el-Kébir, situato in una delle rade più belle e sicure d’Algeria, vicino alla città di Orano, sarà teatro il 3 luglio 1940 di uno degli episodi più drammatici e singolari della seconda guerra mondiale. Un episodio peraltro che si fa fatica a ricordare perché ancora oggi sfugge la logica dalla quale scaturì. Un episodio che, parafrasando Talleyrand, «più che un crimine fu un errore». O meglio, un crimine (morirono senza possibilità di scampo 1.297 marinai francesi) e un errore (Pétain si sentì incoraggiato a guardare sempre di più verso la Germania). Maggio 1940. Dopo circa otto mesi della cosiddetta drôle de guerre, cioè di inattività delle forze armate te-
desche sul fronte occidentale, Hitler decide finalmente di rivolgere la sua offensiva verso i paesi che gli hanno dichiarato guerra: Francia e Gran Bretagna. Ora, in effetti, è tranquillo sul fronte orientale, dopo aver concluso il famigerato accordo con l’Unione Sovietica (Patto Molotv-Ribbentrop, 23 giugno 1939) e aver invaso la Polonia, il cui territorio ha spartito con Mosca. La Germania nazista e l’Unione Sovietica comunista sono diventate Stati confinanti! I primi Paesi a cadere, a nord, sotto il rullo compressore delle panzer-divisionen, tedesche saranno Danimarca e Norvegia, in aprile. Qualche settimana dopo, a ovest, anche Belgio, Olanda, Lussemburgo e Francia
(*) Già diplomatico di carriera, ha ricoperto numerosi incarichi alla Farnesina tra i quali quello di Consigliere alla NATO, Vice Rappresentante Permanente al Consiglio dÊEuropa, Console Generale a Nizza e a Madrid e Ambasciatore dÊItalia a Cuba. Saggista, storico e divulgatore, ha al suo attivo diverse biografie storico-politiche (da Evita Peron a Raul Castro) nonché studi sulla storia dello spionaggio (Storia degli 007 dallÊantichità ai nostri giorni). Collabora abitualmente con BBC History Italia ed è Direttore della collana Ingrandimenti presso la casa editrice Greco e Greco di Milano. 86
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Mers-el-Kébir saranno rapidamente travolti. La Francia, in particolare, ha impostato una strategia difensiva vecchia e superata, centrata sulla tenuta della linea Maginot della prima guerra mondiale. I Generali francesi evidentemente non sono più al passo con i tempi! I Tedeschi, violando con assoluto cinismo la neutralità di Belgio, Olanda e Lussemburgo, aggirano tranquillamente, con i loro potenti carri armati e avanzate estremamente mobili, la famosa linea difensiva francese e in pochi giorni arrivano a Parigi. La Francia è sconfitta ll porto di Mers-el-Kébir (fonte: http://acelmonstrum.host22.com/mek.html) a causa del totale fallimento delle sue L’art. B della Convenzione d’armistizio, firmato il forze di terra. Ma non della sua Flotta, una delle più 22 giugno, recita infatti: «Il governo tedesco dichiara potenti al mondo, che invece non è stata affatto sconsolennemente al governo francese che non ha l’intenfitta ed è rimasta praticamente intatta. zione di utilizzare per suoi fini la fotta militare franIntanto il governo francese il 14 giugno, dopo l’incese… Il governo tedesco dichiara solennemente e gresso delle truppe naziste a Parigi, si trasferisce a Borformalmente che non ha l’intenzione di formulare rideaux. Due giorni dopo il Presidente del Consiglio vendicazioni nei confronti della flotta francese in ocReynaud si dimette e il Presidente della Repubblica Lecasione della conclusione della pace». brun nomina a Capo del governo il Maresciallo Pétain, Per il momento dunque una parte consistente della l’eroe della prima guerra mondiale, l’unica persona flotta si trova a Mers-el-Kébir in attesa degli eventi, deconsiderata in grado di gestire la drammatica situacisa comunque a non consegnarsi al nemico o, nel caso zione. L’ armistizio con i Tedeschi è oramai nell’aria fosse necessario, ad autoaffondarsi. I timori di Londra ed è comunque inevitabile per cercare di salvare il saldi vedere le navi francesi passare in mani tedesche o vabile. In vista tuttavia dei negoziati, sia il generale italiane (la Francia ha firmato l’armistizio con l’Italia Weygand (Comandante Supremo) che l’ammiraglio il 24 giugno), con conseguente perdita del controllo del Darlan (Capo di Stato Maggiore della Marina, poi MiMediterraneo, sembrano sopiti. nistro della Marina con Pétain) mettono subito le mani Nel porto algerino sono schierate l’una accanto alavanti: «In nessun caso la flotta si consegnerà al nel’altra le migliori e più moderne unità della flotta franmico!». Questa condizione dovrà essere rispettata nel cese. Un dispositivo impressionante, alla vista del corso delle discussioni quale si possono forse meglio capire le preoccupazioni per l’armistizio altribritanniche: 2 corazzate (Bretagne e Provence), 2 inmenti… non ci sarà arcrociatori da battaglia (Dunkerque e Strasbourg), 6 mistizio! Su questo cacciatorpediniere (Mogador, Volta, Le Terrible, Kerpunto d’altra parte tutto saint, Tigre, Lynx), 1 nave appoggio idrovolanti (Comil governo francese semmandant Teste)! Comanda l’imponente squadra, bra deciso e concorde e chiamata Force de Raid, l’ammiraglio Gensoul, il ottiene soddisfazione. quale, dopo la resa francese, ha ricevuto l’ordine di traL’Ammiraglio François Darlan, sferire le sue navi da Brest in Algeria, proprio per pre«Ammiraglio della Flotta», titolo espressamente creato per venire possibili colpi di mano dei Tedeschi. lui nel 1939. Rivista Marittima Novembre 2015
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Mers-el-Kébir
L’incrociatore da battaglia STRASBOURG, l’unica nave che riuscì a salvarsi dall’inferno di Mers-el-Kébir.
Ma oramai rien ne va plus tra i due paesi inizialmente alleati nella crociata anti-nazista. A Londra Winston Churchill non ha più molta fiducia nelle nuove autorità francesi, non crede alle assicurazioni di Darlan né alle disposizioni dell’armistizio. Il fatto è — si opina a Londra — che i Francesi, nonostante la loro buona volontà, potrebbero non essere materialmente in grado di mantenere le loro promesse a fronte di possibili blitz di cui i Tedeschi hanno il segreto. Ora il controllo dei mari è considerato vitale per gli interessi nazionali della Gran Bretagna. Occorre di conseguenza mettere la flotta francese, in speciale modo la Force de Raid di Mers-el-Kébir, in stato di non nuocere. Nasce così nella mente di Churchill l’Operazione Catapult: impossessarsi o distruggere le navi da guerra francesi! Una decisone che lo stesso «Vecchio Leone» nelle sue memorie definirà: «odiosa, la più inumana, la più dolorosa che ho mai dovuto condividere. I Francesi erano ancora nostri carissimi alleati e noi provavamo ancora una sincera simpatia per il loro Paese che aveva tanto sofferto …d’altro canto la nostra esistenza nazio-
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nale e la salvezza della nostra causa erano in gioco. Mai atto fu più necessario per la vita dell’Inghilterra…Fu una tragedia greca!». Sta di fatto che il 3 luglio 1940, alle 7 del mattino, un cacciatorpediniere britannico, il Foxhound, appare minaccioso davanti alla rada di Mers-el-Kébir. Una prima comunicazione annuncia che a bordo della nave c’è un ufficiale incaricato di consegnare un messaggio della più alta importanza. Intanto da terra si incominciano a intravedere le altre navi che accompagnano il cacciatorpediniere: la più grande corazzata al mondo, la Hood, le navi da battaglia Valiant e Resolution, tutte armate con temibili cannoni da 380 cm, l’Ark Royal la più rapida delle portaerei inglesi e una serie di navi leggere e cacciatorpediniere che scortano le potenti unità. Gli Inglesi insomma non sono venuti in Algeria per una visita di cortesia! Tra gli equipaggi francesi lo stupore si mescola al timore di un possibile scontro. L’ammiraglio Gensoul invia un ufficiale di Stato Maggiore, Dufay, a incontrare l’ufficiale britannico incaricato della consegna della missiva, comandante Holland. Dopo varie schermaglie procedurali, il messaggio viene infine portato all’attenzione di Gensoul. Londra offre sostanzialmente ai Francesi tre possibilità: — unirsi alla flotta britannica; — salpare con personale ridotto e sotto controllo britannico; — disarmare la flotta in un porto delle Antille.
La STRASBOURG evita le mine piazzate dagli inglesi all’entrata del porto (fonte: Wikipedia).
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Mers-el-Kébir I Francesi inoltre hanno 6 ore di tempo per decidere: scegliere cioè una delle alternative proposte o autoaffondarsi. In caso contrario, la squadra navale aprirà il fuoco. Un vero ultimatum, con una scadenza ridottissima! Arrendersi agli Inglesi? Mai! Gensuol ritiene di non avere il diritto di farlo, per l’onore della Francia e per la dignità della Marina. Risponde quindi all’ultimatum, al quale forse ancora non crede del tutto (si tratta pur sempre degli alleati di ieri!) che non cederà di fronte alla minaccia della armi. Alla forza risponderà con la forza. Questa del resto è anche la direttiva del governo, trasferitosi a Vichy dopo l’armistizio, al quale però, stranamente, Gensoul aveva omesso di far conoscere l’ultima proposta inglese, quella forse che avrebbe potuto essere oggetto di un qualche negoziato: il trasferimento della Force de Raid alla Martinica. Un errore inescusabile, che non fa che alimentare la tensione tra i due Paesi e tra le due squadre navali. I Britannici in ogni caso hanno capito che Gensoul non si arrenderà: ci si prepara dunque all’inevitabile. Per i Francesi però lo scontro è perso in partenza. Ci si può chiedere se Gensoul ne fosse del tutto consapevole. La squadra francese, in effetti, si troverà presto intrappolata nel porto, dopo che aerei inglesi avranno lanciato una serie di mine magnetiche per bloccarne l’uscita. Inoltre le possibilità di manovra sono ridottis-
Le navi francesi sotto il diluvio di fuoco della squadra navale inglese (http://acelmonstrum.host22.com/mek.html).
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sime tra unità allineate a distanza ravvicinata e preparare adeguatamente le navi al combattimento richiede un margine temporale più ampio di quello concesso. Dopo alcuni disperati tentativi Francesi tesi a guadagnare tempo per consentire almeno a cannoni co- L’ammiraglio Marcel Gensoul, Capo della navale francese (http://acelmonstieri e agli aerei sta- squadra strum.host22.com/ mek.html). zionati nell’aeroporto di Orano di intervenire, gli Inglesi ricevono da Londra, di fronte ai fins de non-recevoir dei Francesi, il perentorio e definitivo ordine di «farla finita» prima che cada la notte. Alle 17 insomma, allo scadere dell’ennesimo rinvio dell’ultimatum, arriva il temuto diluvio di fuoco sulle unità francesi. Sarà un terribile disastro navale e una strage di marinai. 1.297 morti e centinaia di feriti, una corazzata affondata, due navi da battaglia e un cacciatorpediniere messi fuori combattimento, altre unità rese inservibili dai colpi ricevuti. In poche ore il tranquillo porto di Mers-el-Kébir si trasformerà in uno scenario apocalittico. Tra le carcasse di acciaio sventrate si sentono i lamenti disperati dei marinai agonizzanti, mutilati o ustionati o che stanno soffocando in mezzo alle esalazioni della nafta che si è riversata in mare e che brucia sprigionando fumi letali. L’unica unità che è riuscita a fuggire dall’inferno algerino, è l’incrociatore da battaglia Strasbourg che riesce a manovrare molto abilmente nel porto, evita accuratamente le mine inglesi e si dirige rapidamente verso l’alto mare. Ma il comandante della squadra inglese, ammiraglio Sommerville,
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Mers-el-Kébir
Ammiraglio James Sommerville, Capo della squadra navale inglese (fonte: Wikipedia).
non si rassegna. Vuole a tutti i costi «terminare il lavoro». Manda quindi alcune unità al suo inseguimento, invia gli aerei dell’Ark Royal per bombardarla. La nave francese però si difende strenuamente con tutta la sua efficiente contraerea e con tutti suoi uomini validamente ai posti di combattimento. Gli Inglesi in definitiva nulla potranno contro la determinazione francese. Insomma l’incrociatore riuscirà a seminare le unità inglesi inviate al suo inseguimento. Quando l’indomani arriva al porto di Tolone, il comandante e l’equipaggio saranno acclamati entusiasticamente dalla popolazione per il loro bell’esempio mostrato di resistenza, di professionalità e di coraggio. Magra consolazione peraltro di fronte allo spettacolo della squadra navale distrutta a Mers-el-Kébir. Quando l’ammiraglio Darlan conoscerà l’ampiezza del disastro, avrà una reazione furiosa, si sentirà tradito dai suoi ex fratelli d’armi ed esigerà una risposta immediata, forte, all’altezza del danno subito. Ma Pétain si dice contrario: un attacco a navi inglesi vorrebbe dire entrare in guerra con Londra! Non ne ricorrono certo le condizioni in quel particolare momento. Prevale dunque il suo approccio più moderato: ci si limiterà a rompere le relazioni diplomatiche con la Gran Bretagna. Se dunque le reazioni militari all’aggressione inglese saranno in qualche modo circoscritte, quelle po-
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litiche invece saranno devastanti. In Francia si risveglia un sentimento anglofobo secolare, storico e si rinforza l’autorità del maresciallo Pétain. Laval, Vice Presidente del Consiglio, si prepara gradualmente ad assumere tutti i poteri e a stringere rapporti sempre più stretti con la Germania di Hitler. In Africa del Nord, poi, rimarrà senza effetti significativi l’«Appello alla resistenza» del 18 giugno, lanciato dal generale De Gaulle proprio da Londra, capitale considerata ora nemica! Darlan infine, che sarà tra i massimi responsabili del governo di Vichy, proseguirà la sua marcia di avvicinamento a Berlino incontrando più volte Hitler e confermandogli ogni volta la sua fedeltà. Sul piano militare è probabile che gli Inglesi non avessero altra scelta. L’eventualità che la flotta francese finisse, in un modo o nell’altro, sotto controllo tedesco rappresentava ai loro cocchi una sicura minaccia per gli interessi nazionali britannici. Su quello politico, però, le conseguenze dell’attacco furono molto più ampie di quanto Londra potesse prevedere, accelerando la corsa di Pétain e Laval nelle braccia di Hitler. Ma, in definitiva, si poteva evitare la tragedia di Mers- el-Kébir? Gli Inglesi si sono lasciati trascinare da timori eccessivi, non attribuendo alcun valore alla parola data dal governo francese e trascurando persino le clausole dell’Armistizio? I Francesi, dal canto loro, hanno reagito d’istinto per difendere principi e tradizioni. Ma sapevano che non avevano alcuna possibilità di vittoria? Avrebbero forse potuto negoziare la proposta inglese meno umiliante (trasferimento della flotta alla Martinica, territorio francese) ed evitare un’inutile strage? Quesiti, temo, che non avranno mai una risposta. Mers-el-Kébir è stata in ogni caso un ferita mai o mal rimarginata nella storia della Marina francese. L’ammiraglio Gensoul, prendendo la parola ai funerali dei marinai uccisi dai cannoni inglesi, dirà: «Avevate promesso di obbedire a vostri capi in tutto ciò che avrebbero comandato per l’Onore della Bandiera e la grandezza della armi di Francia. Se, oggi, c’è una macchia su una bandiera, non è certamente sulla nostra!». 8 Rivista Marittima Novembre 2015
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STORIA E CULTURA MILITARE
La caduta di Saigon e l’operazione Frequent Wind Francesco Lombardi (*) - Stefano Felician Beccari (**)
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a Guerra del Vietnam (1965-1975) è ancora viva nei ricordi, nella memoria e nell’immaginario collettivo per l’imponente filmografia (anche d’autore), le testimonianze dei veterani, le contestazioni di piazza e le divisioni ideologiche di quegli anni. Non va poi dimenticata l’importanza che la televisione ebbe nel «portare» la guerra nelle case degli Americani e degli europei, mantenendone vivo il ricordo. Dal punto di vista militare la Guerra del Vietnam è principalmente legata al ruolo dell’elicottero.
Immancabili, instancabili e insostituibili, gli elicotteri sono onnipresenti in quasi ogni immagine di quegli anni, dal combattimento al soccorso, alla ricognizione, e via dicendo. Gli elicotteri operarono, letteralmente, fino agli ultimi minuti della Guerra; fu proprio grazie a essi che gli Americani riuscirono a lasciare Saigon quarant’anni fa, con la rocambolesca operazione Frequent Wind (FW), che lo US Naval Institute definisce «la più grande operazione di evacuazione tramite elicotteri della storia».
(*) Vice Direttore del Centro Militare di Studi Strategici e dellÊISSMI. Ha comandato unità corazzate e blindate. Come Ufficiale di Staff di Vertice ha essenzialmente operato nella pianificazione generale, nella programmazione finanziaria e nel controllo interno. Collabora su riviste di settore con articoli su tematiche globali. (**) Dopo la sessione IASD 2008-2009 e il dottorato di ricerca in ÿgeoeconomia e geostrategiaŸ (2010), è oggi ricercatore presso il Centro Militare di Studi Strategici dove si occupa di Asia Pacifica. Ha allÊattivo diverse pubblicazioni in italiano e inglese, lÊultima delle quali è ÿLÊatomica di KimŸ, Rubbettino, 2013 (con C. Astarita e N. Mastrolia).
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La caduta di Saigon e l’operazione Frequent Wind
Sul viale del tramonto: verso la caduta di Saigon Il 1975 fu l’anno cruciale per il destino della penisola vietnamita. Nel giro di 4 mesi il Vietnam del Sud passò da importante nazione asiatica alle nebbie della Storia; il 30 aprile il paese era ormai sparito dalla carta geografica. La capitale del Sud, allora Saigon oggi Ho Chi Min, capitolò proprio quel 30 aprile, chiudendo un conflitto che per più di dieci anni aveva lacerato il Vietnam, artificialmente diviso in Nord e Sud. All’inizio del 1975 gli Stati Uniti erano consci del peggiorare della situazione, anche se nessuno prevedeva un collasso politico, militare e sociale così veloce, ipotizzando una possibile caduta solo nel 1976. Ma
Cartina operazioni Vietnam 1975 (fonte: www.history.army.mil).
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l’impetuosa avanzata delle truppe del Nord, nei primi mesi del 1975, poneva gli Stati Uniti di fronte alla necessità di evacuare velocemente gli Americani rimasti nel Sud. Cosa fare invece del resto del personale sudvietnamita che aveva collaborato con gli Stati Uniti? Una lunga lista di ufficiali, soldati, marinai, politici, poliziotti, informatori, funzionari pubblici, ma anche coppie miste, fidanzate, famiglie... per tutti costoro la sorte appariva segnata. Nel peggiore dei casi sarebbero stati uccisi, nel migliore sarebbero stati oggetto di «rieducazione» da parte dei vincitori. Nelle aree già «liberate» dal Vietnam del Nord vi erano già state delle avvisaglie di questi «comportamenti», e ciò contribuiva a rendere ancora più caotica una situazione già difficile. Ma, come spesso capita, nessuno riusciva a rendersi pienamente conto di cosa significasse evacuare Saigon, e soprattutto farlo in poco tempo. Mancava una puntuale, credibile e fattibile pianificazione. Una sorta di «prova generale» dell’operazione FW si tenne a Da Nang, importante centro urbano e sede di una delle principali basi dell’aeronautica americana (USAF) nel Sud, tanto da essere ancora oggi un aeroporto civile. Sotto la pressione delle truppe del Nord, Da Nang venne evacuata il 29 marzo 1975. La scena finale dell’evacuazione, immortalata in alcuni video, è surreale. L’ultimo aereo che lasciò la base, il World Airways 727 della omonima compagnia, decollò con l’intera pista invasa da centinaia di sudvietnamiti che cercavano disperatamente di fuggire. Mentre l’aereo cercava di decollare, le persone si accalcavano sulla scaletta e decine di motorini e jeep — stipati di persone — lo rincorrevano, nel vano tentativo di salire a bordo. Le immagini riprese dall’aereo sono drammatiche: gli
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La caduta di Saigon e l’operazione Frequent Wind steward respingevano le persone in tutti i modi; al decollo almeno sette uomini erano ancora aggrappati alle scale o alle ruote. Morirono tutti; l’ultimo «passeggero» precipitò — ricorda l’allora operatore della CBS news — quando ormai il velivolo era a 6.000 piedi. Colpi di armi da fuoco e pure una granata vennero lanciate contro il World Airways 727 da parte della folla rimasta a Da Nang, colpendo l’aereo in diversi punti. Quasi contemporaneamente alla caduta di Da Nang, ad Hanoi i vertici del Partito Comunista del Vietnam del Nord erano alle prese con una serie di febbrili riunioni. Il ritmo delle vittorie dei primi mesi del 1975 era stato strabiliante, e non v’era stato l’aiuto americano promesso al Sud. Conveniva quindi consolidare il territorio conquistato o proseguire l’offensiva puntando su Saigon? La seconda opzione (poi attuata) presentava taluni margini di incertezza. L’esercito del Sud, per quanto costretto alla fuga da interi scacchieri, disponeva comunque di una notevole quantità di armamenti avanzati, e schierava ingenti truppe attorno a Saigon, compresi reggimenti di élite. Una offensiva affrettata, quindi, avrebbe potuto sovraesporre le unità del Nord; inoltre, l’allungarsi delle linee di rifornimento poneva seri problemi logistici. Il Comitato Centrale del Partito Comunista del Vietnam del Nord, comunque, decise di procedere con l’offensiva. George Veith, nel suo Black April: the fall of South Vietnam, affermò che «il 1 aprile notte ad Hanoi si era compiuto il destino del Sud». Nella loro corsa verso Saigon, le truppe del Nord conquistarono ai primi di aprile altre importanti città come Nha Trang e installazioni militari come Cam Ranh, oggi principale base della marina militare vietnamita. L’ultimo scontro con le forze armate del Sud, a Xuan Loc (9 aprile – 21 aprile), a pochi chilometri da Saigon, aprì la strada alla definitiva conquista della capitale. Intanto, il 9 aprile 1975, in Cambogia, i Khmer rossi, alleati del Vietnam del Nord, conquistavano la capitale Phnom Penh. Il 21 aprile 1975 il Presidente del Sud, Thieu, diede le dimissioni e fuggì a Taiwan, lasciando il potere al Generale Duon Van Minh, nominato formalmente Presidente il 27
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aprile. Costui sperava di poter negoziare un armistizio con il Nord, ma Hanoi non tenne in considerazione alcuna proposta di trattative.
Le opzioni per l’evacuazione: uno scenario complesso Nonostante i veloci successi militari del Nord, durante buona parte del 1975 l’amministrazione Statunitense rimase convinta che il Vietnam del Sud sarebbe stato capace di resistere all’invasione, magari al prezzo di alcune menomazioni territoriali: gli Americani quindi non erano pienamente pronti ad affrontare una situazione di crisi in così breve tempo. L’ambasciatore statunitense a Saigon, Graham Martin, poi, voleva mantenere un clima di normalità per evitare di indebolire ulteriormente il governo del Sud; per questo, l’evacuazione nei giorni precedenti l’operazione FW avvenne con un ritmo lento, alcuni aerei partirono in parte vuoti. Solo dal 21 aprile, dopo la sconfitta a Xuan Loc, l’ambasciata Statunitense avviò un massiccio piano di evacuazioni, che però potevano avvenire solo via aerea, in quanto le unità del Vietnam del Nord si erano già spinte a Vung Tau, città portuale a 120 Km da Saigon, ideale per una evacuazione via mare. Mentre le unità del Nord si avvicinavano indisturbate a Saigon, il 22 aprile «C130s» e «C-141» iniziarono a portar via centinaia di persone. I primi proiettili di artiglieria colpirono Saigon il 27 aprile. Il bombardamento scatenò incendi e lasciò migliaia di persone senza casa. Con il porto bloccato, l’unica possibile via di fuga era una evacuazione aerea, incentrata sull’unico aeroporto disponibile, Tan Son Nhut, poco fuori Saigon; ma il 28 aprile altri colpi di artiglieria colpirono anche questa installazione, che intanto si era riempita di rifugiati e persone che cercavano di scappare a tutti i costi. Il 29 mattina l’aeroporto, ormai sotto il tiro diretto del Nord, non poteva più operare e quindi verso sera venne abbandonato. A ogni modo, fra il 1 e il 29 aprile la USAF aveva effettuato 201 voli di «C-141» e 174 di «C-130», evacuando circa 45.000 persone di cui 5.600 statunitensi (1). L’unica possibile soluzione per evacuare coloro che erano ancora a Saigon (diverse
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La caduta di Saigon e l’operazione Frequent Wind migliaia) era solo un massiccio «ponte aereo» affidato agli elicotteri. Con problemi complessi e difficili. Andavano individuate landing zones (LZ) che evitassero i problemi di Da Nang; fu fatta affluire una imponente flotta al largo di Saigon (la Task Force 76) per ospitare i rifugiati; vennero selezionati elicotteri idonei al trasporto ma adattabili alle limitate LZ, quali i «Bell Uh-1B» o Huey, «CH-53» Sea Stallion o «CH-46» Sea Knight; venne impostato il comando e controllo interforze dell’operazione. Occorreva gestire migliaia di persone che ormai in preda al panico si accalcavano fuori dall’ambasciata Americana di Saigon e in aeroporto. Intanto 14 divisioni nordvietnamite avevano oramai circondato la città. Per la disperata situazione il Presidente statunitense, Gerald Ford, diede il via all’evacuazione di Saigon, l’operazione Frequent Wind.
Il 29 e il 30 aprile del 1975: l’operazione Frequent Wind Nonostante la speranza (sempre più flebile) di una ripresa sudvietnamita, il precipitare degli eventi spinse le autorità militari statunitensi a elaborare velocemente una serie di piani di evacuazione in parte già impostati alla fine di marzo 1975. In aprile, mentre cominciava una discreta evacuazione aerea dall’aeroporto di Tan Son Nhut, personale militare statunitense identificava due possibili aree per l’evacuazione, il Defence Attachè Office (DAO) adiacente all’aeroporto e il perimetro dell’ambasciata Americana, al centro di Saigon. Questi due luoghi sarebbero diventati i perni di tutta FW. Il coordinamento di tutti gli aspetti venne affidato all’autorità diplomatica Statunitense in loco. Intanto, la TF76, partita dalla base di Okinawa, si dislocava al largo della costa sudvietnamita. La TF76, comandata dalla USS Blue Ridge, era un gruppo navale imponente, quasi 30 unità, fra cui pure portaerei quali la USS Hancock (CV-19), la USS Midway (CV-41) e la nave ammiraglia della VII flotta, la USS Oklahoma City (CLG-5). Le portaerei USS Enterprise (CVN-65) e USS Coral Sea (CV-43) della Task Force 77 si occupavano della copertura aerea, mentre la Task
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Force 73 garantiva il supporto logistico (2). Il piano iniziale dell’operazione FW prevedeva quattro diverse opzioni: «evacuazione con aerei civili (I)», «evacuazione con mezzi aerei militari (II)», «evacuazione dal porto di Saigon (III)», «evacuazione con elicotteri in coordinamento con unità marittime al largo della costa (IV)». Fino alle ultime ore del 28 aprile, l’opzione II era ancora considerata fattibile. Ma alle 03,58 del mattino del 29 aprile molti razzi colpirono l’aeroporto, alcuni centrarono il DAO, costringendo l’USAF a sospendere l’evacuazione con velivoli ad ala fissa. Alle 10.51 del 29 aprile, dopo una comunicazione con Kissinger e d’intesa con le autorità militari, l’ambasciatore Martin decise di avviare l’opzione IV. Durante queste febbrili conversazioni, la radio delle Forze Armate Americane in Vietnam trasmetteva un aggiornamento meteorologico («la temperatura è di 105 gradi, in aumento») seguito dalla canzone natalizia White Christmas di Bing Crosby (3): era il segnale in codice dell’inizio dell’evacuazione. Tutti
Ordine di battaglia TF76 (fonte: www.navalhistory.org).
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La caduta di Saigon e l’operazione Frequent Wind testimoni ricordano l’atmosfera surreale di questa musica felice e spensierata mentre iniziava il concentramento nelle LZ e la successiva fuga da Saigon. Le attività al DAO andarono avanti con velivoli ad ala rotante per tutto il 29 aprile, in un clima sempre più difficile e precario; in alcuni casi i soldati del Nord aprirono addirittura il fuoco contro gli elicotteri statunitensi, senza effetti però. La sera del 29 aprile gli ultimi Marines furono trasferiti nell’Ambasciata Statunitense, ultimo «ridotto» americano in città; attorno alla (Republic of Vietnam Armed Forces) HUEY viene spinto in mare dal ponte di volo della USS mezzanotte il centro satellitare RVNAF MIDWAY (fonte: www.navalhistory.org). del DAO e alcuni elicotteri rimasti venivano fatti esplodere. diventava sempre più complessa. Già dal 29 aprile Al mattino del 30 aprile 1975, l’ultimo giorno del circa 10.000 persone erano ormai ammassate fuori Vietnam del Sud, l’ambasciata Statunitense rimaneva dai cancelli dell’ambasciata Statunitense, mentre un l’unico avamposto americano in una città ormai in paio di migliaia erano assiepate all’interno. preda al caos. Intanto, al largo della costa, le unità L’ambasciata, per quanto fosse abbastanza estesa, della TF76 gestivano senza sosta il cospicuo carico disponeva di sole due LZ; la prima, più piccola, sul di profughi, mentre il controllo del traffico aereo era tetto, operativa solo per «UH-1» e «CH-46»; la sempre più complesso. Le unità della US Navy, oltre seconda, nel piazzale, permetteva l’atterraggio anche a coordinare i movimenti dei propri reparti volo, di unità quali i «CH-53». Mentre il DAO veniva dovevano gestire quelli dei Marines, dell’USAF, abbandonato, tutti gli elicotteri venivano dirottati della compagnia Air America e anche una notevole sull’ambasciata, che rimase l’unica LZ disponibile. quantità di velivoli sudvietnamiti, principalmente Attorno alle 17 del 29 aprile il primo «CH-46» elicotteri, che si dirigevano a intervalli irregolari atterrava sul tetto dell’ambasciata, iniziando a verso la TF76. In molti casi erano gesti disperati: non raccogliere le persone là concentrate. Nonostante la mancarono casi di piloti del Sud che, arrivati a pelo fatica dei piloti, le difficoltà del volo notturno, il d’acqua, si gettarono in mare per poi farsi recuperare. tempo avverso, la congestione dello spazio aereo, la Vi furono pure gesti estremi, come quello del perenne minaccia della contraerea nordvietnamita e Maggiore Buan, sudvietnamita che, a bordo di un la mancanza di luce (i testimoni raccontano che la LZ piccolo Cessna, sorvolò la USS Midway chiedendo di del piazzale veniva illuminata anche con le luci delle spostare gli elicotteri presenti per atterrare, in quanto auto) l’operazione FW proseguì ininterrottamente. gli restava un’ora di carburante e aveva a bordo la Ma con il passare delle ore e nonostante l’incessante moglie e cinque figli. In una scena rimasta iconica, movimento di velivoli, era evidente che non c’era più l’equipaggio della Midway spinse fuoribordo alcuni tempo per evacuare tutti i sudvietnamiti rimasti. elicotteri permettendo l’atterraggio di Buan, accolto Attorno alle 3 del mattino del 30 aprile il Presidente con gioia dai presenti. La situazione a terra, intanto,
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La caduta di Saigon e l’operazione Frequent Wind stato interpretato come «definitivo»; solo dopo Ford autorizzò gli ultimi 19 voli, limitati a personale qualche ora il comando della TF76 si «ricordò» americano. Mentre gli ultimi elicotteri si affannavano dell’ultimo manipolo di soldati rimasto in a portare via gli americani rimasti, l’ambasciatore ambasciata, e li fece urgentemente prelevare da un continuava a coordinare l’evacuazione; il suo turno «CH-46» di nome Swift 2-2. Per gli Stati Uniti la fu alle 4.58 del mattino del 30 aprile, quando un Guerra del Vietnam era definitivamente finita. «CH-46» dei Marines, detto Lady Ace 09, lo prelevò, L’indipendenza del Sud durò soltanto poche ore. mentre stringeva a sé la bandiera americana L’esercito di Hanoi, che volutamente non aveva dell’ambasciata. Salito a bordo dell’elicottero, il interferito con l’operazione FW, raggiunse pilota comunicò alla TF76 la frase in codice Tiger is velocemente il centro di Saigon, scambiando pochi out (la tigre è fuori) per segnalare il «recupero» del colpi di arma da fuoco e non trovando sostanziale diplomatico. Questo, però, provocò ulteriori resistenza. Alle 11,30 del mattino del 30 aprile 1975 incomprensioni nella catena di comando; un carro armato del Nord sfondò il cancello del Palazzo nell’ambasciata, infatti, erano comunque rimasti presidenziale, arrestando il Presidente Minh e alcuni Marines che si erano ormai asserragliati chiudendo l’esperienza del Vietnam del Sud. nell’edificio, intanto «assaltato» dalla moltitudine La lunga, sanguinosa, violenta, Guerra del Vietnam presente fuori. Piano dopo piano, i pochi Marines terminò così, in una Saigon ormai spettrale e incerta erano arrivati al tetto, sbarrando i vari cancelli e in sul proprio futuro. Centinaia, migliaia di sudvietnamiti alcuni casi lanciando candelotti lacrimogeni per non nelle poche ore prima della caduta del Palazzo rimasero farsi raggiungere dalla folla che aveva invaso a scrutare il cielo, sperando di vedere «ancora» un l’edificio e tutto il perimetro. Diversi reporter che elicottero che venisse a salvarli; ma le loro speranze visitarono l’ambasciata dopo il 30 aprile ricordano furono vane. Ben più concreta, invece, fu la repressione distintamente l’intenso odore dei lacrimogeni che del Nord, che inviò migliaia di persone verso i «campi ancora persisteva nei vari ambienti, oltre al di rieducazione». soqquadro lasciato dalla folla. Mentre l’alba si La TF76, carica di migliaia di rifugiati, nel affacciava su una Saigon spettrale, gli ultimi dieci pomeriggio del 30 aprile si allontanava dalle acque Marines dell’ambasciata e il loro comandante, il Maggiore James Kean, guardavano ansiosamente il cielo sperando di vedere «l’ultimo» elicottero, quello che li avrebbe tratti in salvo. Kean e i suoi dieci uomini erano letteralmente gli ultimi Americani rimasti a Saigon. Pochi cancelli sprangati li separavano dal resto della folla. Non mancarono sporadici colpi di arma da fuoco verso il tetto. Con il passare delle ore, i Marines cominciarono a temere di essere stati abbandonati. Il messaggio Evacuazione da una scala dell’edificio Pittman a bordo di un elicottero americano vicino l'ambasciata ameridi Lady Ace, infatti, era cana a Saigon (fonte: www.reddit.org).
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La caduta di Saigon e l’operazione Frequent Wind del Vietnam, presto raggiunta da diverse decine di unità navali del Sud, anche militari. Nei ricordi dei testimoni, l’unico pensiero che dominava quei momenti angosciosi era il destino dei molti sudvietnamiti rimasti a Saigon e la rabbia per non essere riusciti a evacuarli in tempo. Nella memoria collettiva e nella Storia, invece, sono passate due immagini emblematiche: la ressa attorno a un elicottero di Air America TANK del Vietnam del Nord invadono il palazzo presidenziale di Saigon, decretando così la fine della guerra su un tetto di Saigon (fonte: AP). (erroneamente scambiato per l’ambasciata, in realtà era un edificio ricordato, però, che l’esercito del Vietnam del Nord vicino) e le drammatiche immagini degli equipaggi intenzionalmente decise di non interferire; in caso di che gettano fuoribordo gli elicotteri che avevano resistenza, infatti, il bilancio delle perdite sarebbe stato ormai «invaso» i ponti delle navi. Diverse decine di molto più alto. «UH-1» e addirittura un «CH-47» Chinook finirono Sul piano operativo, FW può fornisce alcune in mare nelle concitate ore di FW. lezioni, a partire dalla catena di comando. Secondo Infine, nonostante la complessità dell’operazione alcuni rapporti Statunitensi, il fatto di lasciare avesse causato pochissimi incidenti e solo 4 morti (due l’autorità in capo all’ambasciata di Saigon rese la colpiti al DAO e due americani caduti in mare e morti gestione dell’operazione gravosa e complessa, in nel loro elicottero) per l’opinione pubblica americana particolare quando occorreva prendere decisioni questa precipitosa «fuga» da Saigon rendeva la veloci. La gestione delle comunicazioni, poi, si rivelò sconfitta ancora più bruciante. difficile: l’aumento del 40% delle comunicazioni radio complicò il processo decisionale, e in alcuni Frequent Wind: un bilancio dell’operazione casi ore preziose vennero sprecate solo perché dei messaggi vennero «persi» o non comunicati in L’operazione FW fu complessa e molto articolata; tempo. Infine, sembra che alcuni impianti classificati come tale, può essere analizzata sotto diversi punti di a terra non siano stati demoliti, lasciandoli nelle mani vista, dando qualche spunto interessante e indicazioni del Nord. operative. FW, infatti, resta la più grande operazione Anche sul piano strategico FW presenta qualche aeronavale di evacuazione mai svolta e, pertanto, ombra. L’errata percezione della situazione, rimane necessariamente un «precedente» per ritenendo possibile ancora una attiva resistenza del operazioni similari. Sud, rallentò la pianificazione dell’evacuazione: Sul piano militare, FW fu sicuramente un successo: quando si presentò questa necessità, i piani dovevano una operazione con pochissime perdite non può che ancora essere «tarati» sulla situazione in corso. Una essere vista come un risultato positivo. Va anche
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La caduta di Saigon e l’operazione Frequent Wind percezione più accurata delle dinamiche politicomilitari del Sud come del Nord avrebbe forse concentrato gli sforzi su una pianificazione più puntuale, garantendo maggiori margini di manovra per le forze impegnate. Sul piano politico, infine, il bilancio di FW fu negativo. Il caos di Saigon e le immagini della fuga sui tetti o degli elicotteri in mare fecero il giro del mondo: la teoria della «vietnamizzazione della guerra» o della «pace con onore», sostenute dalla Casa Bianca, erano miseramente fallite, sostanzialmente per il collasso dello stato sudvietnamita e delle sue strutture portanti. Inoltre, l’abbandono di migliaia di persone «sensibili» nelle mani dei Nordvietnamiti causò molte polemiche in patria e in Vietnam. Ancora oggi nelle parole dei «rimasti» a Saigon, poi duramente perseguitati, si avverte ancora rabbia e tristezza per essere stati
«abbandonati» dopo le molteplici (ma vane) promesse Americane che «nessuno sarà lasciato indietro». In definitiva, quindi, FW fu una operazione militare tutto sommato valida pur con i problemi di pianificazione citati, ma non ebbe altrettanto successo politico. Qualunque fosse stato il risultato era chiaro che FW sarebbe stata vista in modo negativo: l’impatto della Guerra del Vietnam sull’opinione pubblica americana era forte e, come noto, aveva diviso la società. A quarant’anni di distanza e dopo la fine della contrapposizione ideologica (per altro, Stati Uniti e Vietnam sono oggi molto «vicini») si può sicuramente dire che l’operazione di evacuazione da Saigon fu un’impresa militare affidata all’iniziativa, alla volontà e allo spirito dei protagonisti, e inevitabilmente dovrà essere tenuta in considerazione in futuri casi simili. 8
NOTE (1) D. Haulman, Vietnam Evacuation, Operation Frequent Wind, p. 90. (2) Ordine di battaglia tratto da http://www.navalhistory.org/2010/04/29/operation-frequent-wind-april-29-30-1975. (3) I racconti sono presenti in moltissime versioni; una delle più recenti può essere tratta dalla CNN, su http://edition.cnn.com/2015/04/29/us/vietnam-saigonevacuation-anniversary/.
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L ettere al direttore Gentile Direttore, mi sembra che sia utile fare qualche osservazione con riferimento a quanto si legge nella rubrica «Osservatorio internazionale» circa l’Arabia Saudita nel numero luglio-agosto della Rivista. In realtà i rapporti fra gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita all’epoca erano caratterizzati da una notevole, ma calante asimmetria di fondo.. In parte ciò è vero anche oggi. Il vero problema di fondo tra i due stati è sempre stato costituito da Israele. Il primo tentativo di embargo petrolifero risale al 1967 e si rivelò un fiasco totale. L’embargo del 1973 fu in fondo blando e ampiamente preannunciato ai responsabili americani (vedi colloqui di Feysal con il generale Lincoln e con il segretario al Tesoro Connolly, anno 1972). I documenti ormai consultabili su internet sono molto chiari in merito. Peraltro senza il clima isterico che si creò, con fosche e infondate previsioni di una penuria ormai definitiva degli idrocarburi, gli avvenimenti avrebbero potuto prendere una piega diversa. La guerra del 1967, se aveva indebolito l’arcinemico Nasser, non aveva certo rafforzato gli stati cosiddetti moderati; la cacciata di re Idris in Libia ne fa fede. Difficile era poi la posizione di Hussein, l’ormai non più odiato hascemita. L’atroce fine degli hascemiti dell’Iraq era un monito non dimenticato. Kissinger ha indubbiamente ragione quando afferma che gli Stati Uniti cominciavano a pagare il loro comportamento durante la crisi di Suerz. Inoltre Israele occupava alcuni isolotti sauditi prossimi allo stretto di Tiran e non sembrava che le pressioni americane per uno sgombero fossero state irresistibili. Il 14 ottobre del 1969 l’allora principe ereditario e primo ministro saudita in un colloquio con Nixon disse che a corte ci si sentiva con la corda al collo. Nixon riconfermò l’impegno risalente all’incontro sul Quincy, ossia la garanzia americana in caso di attacco esterno, ma, anche in ossequio alla cosiddetta dottrina Nixon, alle minacce interne dovevano provvedere i responsabili sauditi.
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Feysal non aveva fiducia nelle sue forze armate; infatti i reparti dell’esercito era tenuti a debita distanza dai centri nevralgici del Paese e gli analisti americani ritenevano che gli ufficiali fossero consapevoli del motivo di questo schieramento. Quando successivamente si varò un piano per il loro potenziamento da parte americana ci furono forti perplessità, ma di fronte alla concorrenza francese e inglese le richieste vennero esaudite. Ciò che rendeva forte il legame fra i due Paesi era l’anticomunismo; Feysal ne era ossessionato e questo sentimento doveva essere molti diffuso fra i circoli dirigenti wahabiti. Degli attriti venivano anche dalle diverse posizioni dei due Paesi con riguardo ai due Yemen. Il fatto che nel 1963 uno squadrone USAF avesse stazionato nel sud dell’Arabia Saudita con ovvi intenti dissuasivi non cambiava la realtà di rapporti complessi e che potevano essere osservati come da un prisma. Anche la situazione dell’ARAMCO cominciava a traballare. Anche con gli Inglesi i rapporti erano complessi; i Sauditi avanzavano rivendicazioni territoriali nei confronti dell’ex protettorato nello Yemen, e soprattutto nei confronti di Abu Dhabi per quanto riguarda l’oasi di Buraimi. Gli Inglesi stavano chiudendo la loro ultradecennale presenza nella Costa della Tregua, ma non intendevano venire completamente meno ai loro obblighi nei confronti degli emiri locali. Il cosiddetto FLGAO è un acronimo che a molti oggi non dice nulla, ma è stata una creazione saudita per mettere in difficoltà i britannici in Oman. Non è privo di interesse notare che il Fronte guidato dall’imam Ghalib poi si radicalizzò e divenne un movimento di estrema sinistra: insomma mai giocare agli apprendisti stregoni. Un’ultima cosa: in un altro numero si legge che fu la repubblica Komeinista a portare avanti un programma nucleare. Mi sembra un’affermazione incauta: fu lo scià a iniziarlo. Anche in questo caso i rapporti fra Stati Uniti e Iran sono sempre stati complessi pur nella loro variabile asimmetria. Con stima Fausto Pili
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Lettere al direttore Gentile Signor Pili, La ringrazio per gli interessanti commenti alla rubrica osservatorio internazionale del numero di luglio-agosto a proposito dei rapporti tra Stati Uniti e Arabia Saudita. Le sue osservazioni e i suoi differenti punti di vista, a testimonianza di quanto complessi e mutevoli siano stati nel passato, e siano tutt’oggi, i rapporti internazionali e gli equilibri di quella travagliata regione, vanno a integrare l’analisi che il dottor Magnani fece in merito e le cui parti essenziali si ritiene opportuno riportare di seguito a beneficio di tutti i lettori: L’Arabia Saudita è un vero amico? (di E. Magnani) In una dichiarazione contenuta in un editoriale pubblicato da un giornale statunitense, l’ex capo dell’intelligence saudita, il principe Turki al-Faisal, si era lamentato dell’atteggiamento degli Stati Uniti, dichiarando che il suo paese è stato il migliore alleato di Washington nel mondo arabo negli ultimi cinquanta anni. La dichiarazione è originata dalle incertezze nello scenario siriano e il tentativo di normalizzare le relazioni con l’Iran da parte degli Stati Uniti e riflette le frustrazioni saudite. Tuttavia una onesta lettura storica delle relazioni americano-saudite lascia intravedere delle profonde fessure e appare chiaro che il regno arabo gioca le sue carte in maniera spregiudicata e senza riguardi per nessuno. Il primo dei fatti è avvenuto nel 1973, quando l’Arabia Saudita impose un embargo petrolifero contro gli Stati Uniti per l’appog-
gio fornito a Israele, che stava portando le forze di Egitto e Siria sull’orlo del collasso militare totale. La Casa Bianca di Nixon comprese il messaggio e iniziò negoziati con i produttori di petrolio sauditi per porre fine all’embargo e cominciò a esercitare pressioni su Israele a ritirarsi dalle alture del Golan e dalla penisola del Sinai. La manipolazione dei prezzi degli idrocarburi è stata un’arma utilizzata costantemente da parte dell’Arabia Saudita anche molto dopo lo choc petrolifero degli anni Settanta. Con il petrolio a più di 127 dollari al barile nel maggio 2008, l’allora presidente Bush fece appello all’Arabia Saudita di aumentare la produzione e far scendere il prezzo. I Sauditi dissero di no. E questa fu la seconda volta, infatti i sauditi avevano respinto una similare richiesta del presidente Bush nel gennaio dello stesso anno, quando fece la stessa richiesta. La enorme disponibilità finanziaria, stimata in oltre 100 miliardi di dollari l’anno è stata indirizzata in acquisti di armi di ogni tipo: ingresso negli assi propietari di compagnie di ogni tipo e in ogni angolo del mondo, finanziamento massiccio alle istituzioni religiose, scolastiche e caritatevoli musulmane in ogni continente affinchè adottino la lettura ultraconservatrice dell’Islam, il wahabismo, senza contare oblique relazioni diplomatiche, come quelle con il regime talebano (tra il 1996 il settembre 2001) dove assieme all’Arabia Saudita vi era solo il Pakistan. Stefano Romano
* * * E ora un momento di riflessione con una poesia della nostra abbonata, la poetessa e pittrice Wanda Faroni, dedicata a tutti coloro che la scorsa estate hanno potuto effettuare delle splendide escursioni subacquee.
Fondali marini I raggi del sole illuminano i fondali marini dove fiori e pesci giganti sono disegnati e colorati dalla mano di Dio. Wanda Faroni
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Osservatorio internazionale
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La Norvegia dovrà aumentare le sue spese militari Il capo di Stato maggiore della difesa norvegese ha detto che il suo paese ha necessità di rafforzare le sue capacità militari a fronte della crescente pressione russa nell’Europa del Nord e l’Artico. Nel corso di una conferenza stampa sul futuro modello di difesa, l’ammiraglio Haakon Bruun-Hanssen ha espresso preoccupazioni per la Russia e per la sua volontà di essere pronta a utilizzare la forza militare per raggiungere obiettivi politici, facendo riferimento alle operazioni condotte dalle forze di Mosca per l’annessione della Crimea lo scorso anno. Bruun-Hanssen poi ha detto che le forze armate norvegesi necessiteranno di un totale di 180 miliardi di corone (poco più di 21 miliardi di dollari) nel corso dei prossimi due decenni al di là del bilancio ordinario previsto; questo per evitare gravi riduzioni delle sue capacità di difesa (il bilancio della difesa di quest’anno è di 43,7 miliardi di corone). L’ammiraglio norvegese ha detto anche che oltre alle tensioni originate dal confronto tra Occidente e Russia, vi sono le nuove minacce del terrorismo e della guerra informatica e cibernetica, e che se non vi saranno interventi immediati sul bilancio vi saranno importanti tagli, come dieci «F-35 Lightning II» (sui 52 originariamente ordinati).
Rafforzamenti nelle forze speciali e intelligence francesi A Lanester, nella regione del Morbihan (Bretagna) a metà settembre è stata ufficialmente attivata la settima unità del comando delle forze speciali della Marine Nationale (COFUSCO), il commando Ponchardier. L’unità, istituita formalmente due settimane prima, svolgerà un ruolo che era diventato sempre più necessario, quello del supporto logisitco operativo degli altri commando. Il Ponchardier, in qualche misura analogo alla «Colonna Moccagatta» del COMSUBIN, con
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quasi duecento elementi previsti nella sua pianta organica, sarà un’unità numericamente superiore agli altri 6 commando esistenti (un centinaio ciascuno), in quanto dovrà garantire la funzionalità dei sempre più sosfisticati sistemi in dotazione al COFUSCO, come i nuovi e potentissimi zodiac «Ecume» ed «Etraco». Il Ponchardier, come nella tradizione dei commando-marine della Royale (la Marina francese, com’è chiamata tradizionalmente) fa riferimento a un suo appartenente, in questo caso Pierre Ponchardier, un valente comandante che costituì un’unità di forze speciali della marina che combattè duramente nella guerra d’Indocina (19461954). L’ottavo commando, il Francois, è in via di costituzione, ma non è ancora stata pienamente definita la sua funzione. Un’ipotesi sarebbe quella di concentrare in esso alcune delle missioni attualmente ripartite nei commando Jaubert e Trépel, in particolare l’antiterrorismo marittimo e la liberazione di ostaggi e lasciare a questi due commando le funzioni di assalto marittimo e protezione della esfiltrazione di cittadini francesi e di paesi alleati. La seconda opzione sarebbe di articolare il Francois come il Jaubert e il Trepel attuali, quindi con una sua propria capacità antiterroristica, ma dislocarlo nella Francia mediterranea per facilitarne il dispiegamento nell’area mediterranea (visto che il Jaubert e il Trepel sono nella Francia settentrionale atlantica). Gli altri commando hanno ciascuno il loro profilo operativo come il de Montfort, specializzato nella neutralizzazione a distanza con snipers, mortai, missili anticarro e antiaerei; il de Penfentenyo, specializzato nella ricognizione a lunga distanza, controllo aereo avanzato (FAC) e designazione di bersagli; il Kieffer, specializzato nelle tecnologie di punta, informatica, guerra elettronica, droni, NBRC. Tutte queste unità sono basate a Lorient, in Bretagna, località che ospita anche la scuola Commando Marine e la scuola per le unità di protezione della basi, i Fusiliers Marin, spe-
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Osservatorio internazionale
Il nuoco Commando Ponchardier (fonte: Marine Nationale).
cialità che rappresenta il maggiore bacino di reclutamento per i Commando Marine. Questo mentre gli specializzatissimi (e segretissimi) incursori subacquei del commando Hubert sono a Saint Mandrier (Var, sul Mediterraneo). La crescita delle forze speciali della Marine Nationale è importante e ha già portato a un incremento della forza da 500 a 750 unità. Anche l’altro pilastro della lotta antiterrorismo, l’intelligence, sta vedendo un importante rafforzamento da parte della Francia. In particolare la DRM (Direction Renseignment Militaire) ha aperto ai reclutamenti (militari e civili della difesa e di altre amministrazioni statali, personale della gendarmeria e civili esterni). I bisogni per la DRM sono per 25 unità nel 2015, ma ben 100 per il 2016 e altrettanti per il 2017. Anche l’altra agenzia dell’intelligence militare, specializzata nel controspionaggio, la DPSD (Direction de la Protection et de la Sécurité de la Défense), vuole rafforzare ranghi e funzioni. La DPSD ha rimpiazzato l’agenzia di sicurezza militare nel 1981 nel controspionaggio, spionaggio, antiterrorismo, anti-sovversione per la sicurezza nazionale. Ma è anche responsabile della salvaguardia della sicurezza personale, delle informazioni, dei materiali e delle strutture sensibili della difesa nazionale e quindi, nonostante le funzioni (ma non dimensioni) più ridotte con oltre 3.000 unità in servizio, potrà assumere altre 65 persone nel 2016. Tuttavia questo arricchimento in risorse umane non potrà tramutarsi in una capacità effettiva immediata (ci vogliono due-tre anni per formare esperti in russo, cinese, arabo), così come necessitano
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piloti di velivoli leggeri specializzati nelle funzioni ISR (Intelligence, surveillance, reconnaissance), esperti analisti e interpreti di immagini. La DRM, non si occupa solo di ampliare i suoi ranghi, ma rafforza la sua struttura con la costituzione di un centro interforze di informazione satellitare. Tuttavia, rispetto alle dimensioni dell’omologo organismo britannico, la Defense Intelligence, la DRM, con 1.700 unità non ne raggiunge la metà, in termini di personale, per non parlare in quelli di disponibilità finanziarie. Il potenziamento della DRM, che ha due centri maggiori (Parigi e Creil), un centro di formazione (Strasburgo) e nove centri di ascolto, è analogo a quello dei due maggiori servizi di intelligence nazionale, la DGSE (Direction générale de la sécurité extérieure), con oltre 4.000 persone nei ranghi e l’ancòra nuova DGSI (Direction Generale de la securitè interieure) con oltre 3.000. Tuttavia, per queste due agenzie il rafforzamento, in termini di bilancio, strutture e personale è maggiore, ma non è stato reso noto.
Tutti a Gibuti Gibuti, antica colonia francese, per la sua collocazione strategica, a cavallo tra l’Oceano Indiano e il Mar Rosso, dopo il raggiungimento dell’indipendenza, ha visto il mantenimento di un’ importante presenza militare francese. Le mutazioni strategiche e gli aggiustamenti finanziari hanno visto una riduzione di essa in termini numerici, ma una incrementata capacità militare. Ai francesi si sono poi aggiunti gli statunitensi con la TFHoA (Task Force Horn of Africa) per fare fronte alle minacce del terrorismo islamico e della pirateria somala. Tedeschi, Italiani, Spagnoli e Giapponesi hanno progressivamente installato basi, personale e materiali per le diverse operazioni nella regione e ora risulta sarebbero in corso contatti tra Pechino e Gibuti per l’apertura di una base militare cinese.
Divorzio Nonostante le difficoltà operative e finanziarie, la galassia terrorista sunnita riesce ancora in qualche successo. Infatti il movimento armato palestinese, Ansar Allah, sinora alleato delle potenti milizie Hezbollah, sarebbe sulla via di recidere il legame con il movimento
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Osservatorio internazionale diretto da Hassan Nasrallah. Il gruppo palestinese svolgeva funzioni di vigilanza nei pressi del campo rifugiati Ain el-Heloue (il maggiore del Libano), sospettato da Hezbollah di ospitare nuclei operativi e informativi prossimi sia al Nousra sia allo Stato Islamico.
Un giocattolo rotto? La campagna aerea russa in Siria sembra aver gettato un ostacolo immenso nel progetto egemonico del presidente Recep Tayyip Erdogan. Gli attacchi aerei della Russia, che hanno lo scopo di puntellare il regime del presidente Bashar al-Assad, sono un sonoro ceffone alla Turchia che ha insistito per anni affinchè il presidente siriano sia estromesso. Aumentando ulteriormente le tensioni, aerei da guerra russi hanno violato due volte lo spazio aereo turco (la Turchia è un membro della NATO, ma ha avuto un tiepido sostegno da Bruxelles, una sorta di «minimo sindacale» che non si nega a nessuno). Erdogan ha risposto furiosamente, dicendo che Putin stava facendo un «grave errore» e ha messo in guardia la Russia dicendo che l’amicizia tra i due paesi era a rischio. Obiettivo strategico della Turchia per il conflitto in Siria è stato il rovesciamento di Assad e l’installazione di nuove autorità pro-Ankara, che avrebbero aiutato la Turchia a ritrovare qualcosa del suo antico dominio ottomano sulla regione. In risposta la Turchia ha inoltre accusato Mosca di concentrarsi sui ribelli moderati piuttosto che sull’IS (curioso che Ankara faccia lo stesso in merito ai curdi, bombardando questi piuttosto che l’IS). È un fatto che,
come in altri ambiti, l’azione russa spariglia le carte e la Turchia, in questo pienamente solidale con l’UE e la NATO in quanto a idee chiare, non sa cosa fare. Erdogan ha detto che l’Iran e la Russia collaborano in una duplice strategia, con Mosca che agisce dall’aria e Teheran, da terra. La nuova situazione rischia di obbligare la Turchia ad allentare la pressione sui curdi (siano essi Siriani, Iracheni o quelli legati al PKK turco) delineando scenari da incubo per Ankara, che può solo sperare nelle storiche divisioni del mondo curdo. Le relazioni tra Russia e Turchia — rafforzatesi negli ultimi anni con le due parti impegnate a lavorare su un nuovo gasdotto sottomarino e un obiettivo di 100 miliardi di dollari di interscambio entro il 2023 — sono pronte a subire un serio rovescio. Ma l’inimicizia profonda e la rivalità regionale tra la Turchia e la Russia non sono una novità, ottomani e russi hanno avuto una dozzina di conflitti tra il XVI secolo e la prima guerra mondiale per il controllo del Caucaso e dei Dardanelli. Ben noto per il suo temperamento e la capacità di trasformare le questioni politiche in questioni personalistiche, Erdogan si è sentito offeso quando Putin nel mese di aprile scorso ha descritto le uccisioni degli armeni dell’Impero Ottomano del 1915 come «genocidio», toccando un nervo scoperto della società turca.
«Technical»… di acquisto
Fonti dell’antiterrorismo Statunitensi hanno avvicinato la Toyota, la seconda industria automobilistica al mondo, per comprendere come l’IS sia riuscito a entrare in possesso di un numero enorme di pick-up e altri veicoli prodotti dalla società giapponese. Infatti, i filmati dalla Siria, dall’Iraq, dalla Somalia, dalla libia e dalla Nigeria mostrano colonne infinite di questi veicoli e tutti delle ultime serie e palesemente nuovi. Ovviamente la Toyota ha detto di non essere al corrente di acquisti che possano essere ricondotti alla galassia terrorristica. L’antiterrorismo e il Dipartimento del Tesoro Americano hanno avviato un’inchiesta anche se la Toyota ha detto che ha una piattaJet da combattimento russi avrebbero violato lo spazio aereo turco vicino al confine siriano forma commerciale rigorosa che non per(fonte: ansa.it). mette di vendere veicoli a potenziali
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Osservatorio internazionale acquirenti che li usino a fini militari o attività similari. Tuttavia questa risposta non spiega come centinaia di technical (sono i pick up, la maggior parte dei veicoli della flotta dell’IS, specialmente del tipo Hilux, Tacoma e LandCruiser equipaggiati con mitragliere pesanti, mortai, razzi e sono usate per muovere rapidamente anche fuoristrada le squadre d’assalto) siano nell’esercito delle bandiere nere. Per onestà bisogna dire che sono state viste technical di altri marchi quali Mitsubishi, Hyundai e Isuzu, ma la maggioranza risulta sempre essere della Toyota. Ma gli acquisti da parte dell’IS erano già stati osservati; infatti nel 2014, un servizio radiofonico citava che 43 camion Toyota erano finiti nelle mani dei ribelli siriani, poca roba in confronto a un altro rapporto che citava di oltre 800 camion, sempre della Toyota, scomparsi tra il 2014 e il 2015. L’esercito iracheno ritiene che la flotta dell’IS sia stata comprata da finti piccoli intermediari e poi contrabbandata nelle zone controllate dall’IS. Questa appare l’opzione più realistica in quanto appare irrealistico pensare a un legame tra la Toyota e gli assassini dell’IS, ma porta la domanda su come funzionino realmente i traffici commerciali internazionali, su come non siano veramente controllati e da chi siano realmente finanziati ed esercitati.
Un sospiro di sollievo per qualcuno e uno sguardo lontano per qualcun altro A meno di un anno dopo la controversa vicenda in merito alle due portaelicotteri francesi Mistral vendute alla Russia (pagate ma mai consegnate), Parigi ha trovato un acquirente alternativo in Egitto, e un contratto formale di vendita è stato firmato il 10 ottobre. Dopo la consegna di una fregata FREMM e la costruzione di quattro corvette (più due in opzione) della classe «Gowind 2500», di cui la prima è in corso di costruzione presso cantieri francesi la componente francese della marina egiziana si annuncia come importante, riflettendo parecchie cose. Sinora, come molti paesi arabi, anche l’Egitto, soprattuto per mancanza di personale addestrato e propriamente formato, difettava di marine degne di questo nome, nonostante buone tradizioni. Ora le diverse necessità strategiche, come la protezione dei bacini di idrocar-
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Nave MISTRAL (L 9013) ormeggiata all'ingresso del porto di Tolone (fonte wikimedia.org).
buri marittimi hanno mutato la direzione. Entro il 2020, la Marina egiziana potrà schierare una componente di navi francesi di nove unità. In una prospettiva più ampia, il Presidente al-Sisi, memore delle recenti esperienze seguite al rovesciamento dei presidenti Mubarak prima e Morsi poi, sembra deciso a non cedere il monopolio delle forniture militari a un solo contraente estero e cerca, prima che il flusso di aiuti finanziari sauditi si prosciughi, di mettere in opera questo progetto.
La Giordania rafforza la sicurezza alle frontiere Nella prima settimana di ottobre, il Regno di Giordania ha firmato con la Raytheon un contratto di oltre 18 milioni di dollari per migliorare la protezione delle sue frontiere con la Siria, facendo seguito a un simile contratto per il rafforzamento della sorveglianza con l’Irak, con il fine di bloccare le incursioni dei militanti dell’IS. Il nuovo contratto prevede l’installazione di barriere, appoggiate da sensori di vario tipo, telecamere infrarosse, sistemi di comunicazioni e installazioni per squadre di intervento e centri di comando e controllo. La Raytheon aveva già costruito un centro operazioni di sicurezza confinaria in Giordania nello scorso mese di luglio. Il progetto, di 79 milioni di dollari è stato finanziato dalla US Defense Threat Reduction Agency. Recentemente la Giordania ha ricevuto degli elicotteri Cobra da Israele per migliorare la capacità di sorveglianza e intervento delle forze armate e polizia operanti nelle aree confinarie.
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Dichiarazione finale della riunione di Vienna; una lettura differente La riunione di Vienna sulla crisi siriana alla fine ha chiarito molti punti sullo scontro che continua a dividere i sostenitori della rivolta anti-Assad da un lato, gli Stati Uniti, la Turchia e l’Arabia Saudita, e i tradizionali alleati della Siria, Russia e Iran. Ma nel complesso, l’opzione sostenuta da Mosca appare abbia largamente prevalso poiché la maggior parte dei nove punti contenuti nel documento è a vantaggio di Damasco. L’ultimo round di discussione è stato esteso ai rappresentanti di tredici altri stati ed entità, tra cui ONU, UE, Italia, Germania, Gran Bretagna, Francia e Qatar. Questi ultimi due non sono stati accettati nel cerchio interno che comprendeva cinque paesi, mentre i due erano ancora visti come i principali attori del conflitto siriano. Secondo la dichiarazione finale pubblicata venerdì 30 ottobre, i partecipanti evidenziano la necessità di una soluzione politica «accelerando gli sforzi diplomatici per porre fine alla guerra». Il testo sottolinea «la conservazione del carattere laico dello Stato siriano» e «il mantenimento delle sue istituzioni». Fondamentalmente, i firmatari affermano la necessità di unire gli sforzi per «sconfiggere Daech e altri gruppi terroristici classificati dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite». Sappiamo che l’ONU ha classificato come organizzazioni terroristiche in Siria attivando almeno tre acronimi: Stato Islamico, Al-Nosrah e Al-Sham. Ora, queste tre organizzazioni formano il nucleo dei gruppi armati che combattono contro l’esercito siriano per più di quattro anni. Inoltre, la dichiarazione non solo ha escluso la partenza a priori di Assad, disperatamente difesa da Londra, Parigi, Doha e Riyadh, ma soprattutto ha sottolineato la libertà di scelta da parte del popolo siriano a «determinare il suo futuro». Questo è ciò che il governo siriano ha sempre difeso contro coloro che chiedevano l’immediata partenza del presidente. I partecipanti hanno delineato un piano per uscire dalla crisi attraverso un processo politico, la tenuta di elezioni generali sotto l’egida dell’ONU, la formazione di un governo di transizione «aconfessionale» e una nuova Costituzione, attraverso un calendario specifico o specificato, non escludendo i membri dell’attuale governo. Poche ore prima della chiusura della riunione allargata, diversi mezzi di comunicazione e canali televisivi arabi (ovviamente Al Jazeera e Al Arabyia in primis quale
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Vienna, colloqui per il destino della Siria tra 17 nazioni, l'Unione Europea e le Nazioni Unite (fonte: Afp).
aedi Qatarioti e Sauditi) avevano fatto circolare la voce che l’Iran aveva accettato l’idea di un Assad in partenza entro sei mesi. Quando in verità era solo il desiderio di alcuni partecipanti che hanno fatto di tutto per cercare di imporre questa clausola, invano. Infine, la Conferenza di Vienna ha visto la pesante sconfitta delle linee britanniche e francesi che echeggiavano le linee di paesi quali Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar e Turchia. Infine, oltre alla conferma del ruolo globale che la Russia sta lentamente, ma costantemente riconquistando, l’elemento di maggior rilievo è la fine dell’embargo politico dell’Iran, ufficialmente invitato (questa volta l’invito non è stato ritirato all’ultimo momento, per palesi pressioni politiche, come avvenuto nel precedente summit sulla Siria). La presenza dell’Iran ha infuriato l’Arabia Saudita, che vede logorare progressivamente il suo ruolo di principale e unico alleato degli Stati Uniti nel Medio Oriente arabo. A riprova di questo, si osservi il volto preoccupato del pur brillante ministro degli esteri saudita, intervistato a Vienna dalla BBC in occasione degli incontri sulla Siria.
Un prossimo collasso? Come se non ci fossero già abbastanza problemi di cui preoccuparsi in Medio Oriente, l’Arabia Saudita potrebbe essere prossima a una seria turbolenza. Dal crollo del prezzo del petrolio, scatenato in maniera dissenata (e suicida) proprio da Ryihad, ai passi falsi nella politica estera di crescenti tensioni con l’Iran, si nota una confluenza di eventi recenti negativi e gravi sfide per il (velleitario) piano saudita di egemonia regionale e oltre. Sembra avvicinarsi una «tempesta perfetta» che au-
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Osservatorio internazionale reno, quanto manchino i boots on the ground e gli indiscriminati bombardamenti aerei e di artiglieria ottengono solo le proteste dell’ONU. Inoltre la guerra yemenita aumenta fratture interne; per quel che vale, i social media registrano un crescente malessere di cittadini sauditi indignati per vedere il paese più ricco del mondo accanirsi in questa maniera contro quello più povero. Ancora una volta il più attaccato è il principe Mohammed bin Salman, ministro della difesa del regno, considerato la forza trainante di tutta l’operazione. Definito con il soprannome non ufficiale Reckless (avventato, spericolato, incosciente), il principe Mohammed bin Salman è stato accusato di essersi lanciato in un’avventura militare in Yemen, senza una chiara strategia, un piano «B» o un progetto di uscita.
Confronto tra popolo Sunnita (in blu) e popolo Sciita (in rosso) (Courtesy of University of Texas Libraries).
menta significativamente il rischio di instabilità all’interno del regno, con conseguenze incalcolabili per i mercati finanziari ed energetici globali e la sicurezza in Medio Oriente e regioni circonvicine. Crepe all’interno della famiglia reale Le crescenti rivalità personali, familiari e finanziarie all’interno della famiglia reale saudita, sinora considerate solo supposizioni, sono state recentemente corroborate per la circolazione di diverse lettere anonime (riprese da alcuni media internazionali e presumbilmente redatte da elementi della enorme famiglia reale) contro l’attuale re Salman. Le lettere sostengono che Salman, salito al trono nel mese di gennaio, e il suo potente vice, il principe ereditario Mohammed bin Salman, stanno portando il paese alla rovina politica, economica, e militare. La guerra dello Yemen Questa continua, con gravi perdite umane e un crescente carico finanziario. La richiesta di intervento di truppe di terra e forze navali egiziane, sudanesi, marocchine e mauritane sottolinea quanto sia difficile la situazione sul ter-
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Problemi economici In gran parte grazie alla politica saudita, i prezzi del petrolio sono crollati di oltre il 50% nell’ultimo anno. Di fronte a un eccesso di mercato a causa del boom del petrolio negli Stati Uniti, la strategia saudita è stata quella di mantenere alta la produzione, tentando di danneggiare gli Stati Uniti e in prospettiva l’Iran; ora questa strategia si sta ritorcendo proprio contro l’Arabia Saudita stessa, che vede ridursi le sue (sinora) infinite riserve. Tuttavia, non c’è pericolo che il regno sarà a corto di denaro in tempi brevi, ma il proseguimento di questa tendenza, con disavanzi di bilancio più ampi, i prezzi del petrolio più bassi, calo dei cambi, mercati internazionali sempre più nervosi, abbassamento di rating e fuga di capitali, declino dei consumi interni, crescita drammatica del consumo interno di energia, sono tutti segnali negativi, in un paese dove le vendite di petrolio rappresentano ancora l’80- 90% delle entrate statali. Una prima risposta, epidermica, sarebbe la lotta al deficit. Ma un taglio al bilancio non è certo un’opzione attraente per un governo che usa la leva finanziaria per allontanare il malcontento interno, specialmente dall’inizio del 2011 quando sono esplose le rivolte arabe, quando vi sono ampie sovvenzioni per cibo, alloggi, acqua, e una vasta gamma di beni di consumo. Inoltre, la disoccupazione, e in particolare quella giovanile, è un problema di non facile soluzione. L’espulsione brutale, massiccia di immigrati stranieri non ha risolto il problema, in quanto i Sauditi rifiutano molti dei lavori svolti dagli emigrati e il tasso di povertà tocca tra un quarto e un quinto della popolazione.
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Osservatorio internazionale Tragedia degli Hajj Due grandi catastrofi hanno colpito il pellegrinaggio di quest’anno alla Mecca: il crollo di una gru che ha ucciso più di 100 persone, seguita da una calca (sembra originata da un convoglio di un membro della famiglia reale saudita che procedeva in senso contrario alla direzione della massa dei pellegrini) ha originato quasi mille morti, con velenose polemiche sulla efficienza dei servizi di emergenza sauditi e una farraginosa politica di comunicazione e diplomatica. Le viNella foto il crollo di una gru sulla Grande Moschea della Mecca: almeno 107 persone sono cende mettono in discussione l’idoneità morte e 238 sono rimaste ferite (fonte: jobsnews.it). della famiglia reale saudita a servire come vati prezzi del petrolio è un elemento centripeto di potenza custode della Mecca e di Medina e si stanno trasformando ai confini sauditi. E l’America, secondo i Sauditi, ha derapidamente in dubbi sulla legittimità politica e religiosa moralizzato alleati, incoraggiato avversari, e lasciato della stessa monarchia. scatenare il caos. Escalation del conflitto con l’Iran Missili da crociera e segnali politici pesanti L’Iran ha colto, sulla tragedia del pellegrinaggio, un’occasione d’oro per intensificare le tensioni con i Sauditi, L’avvio delle operazioni militari russe in Siria, oltre a vegià alte sulla questione nucleare, Siria, Irak, Yemen e Lidere un crescente rateo di incursioni aeree, ha visto un mobano. A fronte della lentezza saudita a identificare e aumento politicamente e tecnologicamente altamente torizzare il rimpatrio dei pellegrini Iraniani morti alla simbolico. Infatti delle navi della marina russa, navigando Mecca (circa 500), gli Iraniani hanno attaccato a testa nel Mar Caspio, hanno lanciato delle salve di missili da bassa e lo stesso Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah crociera che si sono schiantati su bersagli dello Stato Isla(odiato più dai Sauditi che dagli stessi Israeliani) ha rinmico. L’ingresso russo sulla scena siriana rappresenta una carato la dose. Al di là della tragedia Hajj, l’Iran rappredelle mutazioni più importanti degli ultimi tempi sulla senta una sfida crescente per gli interessi sauditi. scena internazionale. Miseri sono i commenti di certe L’allineamento russo-iraniano in Siria rappresenta l’ulfonti, anche specializzate e di gran nome, che sottolineano tima goccia per uno scenario sempre più difficile. la (presunta) mancanza di smart bombs da parte degli aerei russi, che in un mese hanno condotto più attacchi che tutta Relazioni con gli Stati Uniti la coalizione anti IS in un anno. In realtà l’Occidente è Questo capitolo rappresenta un caposaldo strategico in esstato spiazzato da Mosca e non sa bene cosa fare. sere dal 1945, ma i mutamenti internazionali mostrano l’eCavi sottomarini e future minacce mergere di una nuova situazione. In realtà l’avvicinamento tra Washignton e Teheran, visto dall’Arabia Saudita come Sottomarini e navi spia russe stanno operando aggressiuna sciagura e una minaccia alla sua propria stabilità, in vamente in prossimità dei cavi sottomarini vitali che porrealtà esisteva ed era solidissimo già durante il lungo regno tano quasi tutte le comunicazioni a livello mondiale. dello Shah Reza Pahlavi. Ma il Medio Oriente è al colQuesto attivismo sta preoccupando sempre più i vertici lasso, il sistema statale locale è in caduta libera. La primamilitari e di intelligence americani, che temono crescenti vera araba si è da tempo trasformata in un inverno minacce. La questione va oltre le vecchie preoccupazioni islamista. Un asse iraniano-russo, affamato di egemonia della Guerra Fredda. L’allarme oggi è più profondo: in regionale (per il primo) e globale (per il secondo) ed elemomenti di tensione o di conflitto, la Russia potrebbe re-
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Un sottomarino nucleare sovietico classe «Akula» (fonte wikimedia.org).
cidere i cavi in fibra ottica per fermare le comunicazioni istantanee tra i governi e le forze armate occidentali. In ogni caso al di là delle preoccupazioni, emerge la coerenza della strategia russa, che mira a non lasciare spazi a un potenziale avversario ed è ben cosciente delle dimensioni tecnologiche delle future sfide politico-militari. In paticolare il Rear Admiral Frederick J. Roegge, comandante dei sottomarini della VIIa flotta ha reso pubbliche le preoccupazioni dei vertici militari Statunitensi. Ma l’azione russa non è stata registrata solo negli Oceani Pacifico e Indiano, ma anche il Mar del Nord, l’Atlantico e le stesse coste orientali, occidentali e meridionali statunitensi hanno visto visite e passaggi di navi e sottomarini russi. Caso emblematico sono state le attività della nave da ricerche scientifiche (sic) russa Yantar nei Caraibi, ostentatamente presente nei pressi di ogni stazione di comunicazione militare Americana nella regione. La Yantar, entrata in servizio nella primavera del 2015, dispone di sofisticate dotazioni di ogni tipo e di due sottomarini tascabili da ricerca a comando remoto. Secondo l’Ammiraglio James Stavridis, ex SACEUR della NATO (Supreme Allied Commander Europe) e ora preside della Fletcher School of Law and Diplomacy della Tuft University, questo è l’ennesimo esempio di un regime fortemente assertivo e aggressivo che cerca di recuperare il tempo perduto, usando gli strumenti del Guerra Fredda, anche se con un alto grado di miglioramento tecnico e sono in linea con l’espansione delle operazioni militari russe in posti come Crimea, Ucraina orientale e Siria. Già nel 2012, il MIT (Massachusetts Institute of Technology)
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dell’Università di Harvard aveva allertato sui potenziali rischi connessi alla sicurezza della rete globale dei cavi sottomarini. Questi, anche se vengono danneggiati in misura assai frequente ma non intenzionale, sono un nervo scoperto del sistema di sicurezza, non solo occidentale ma del pianeta intero (si pensi alle conseguenze dell’interruzione prolungata di comunciazioni sui mercati finanziari, borsistici e bancari internazionali) e l’Homeland Security Department ha classificato i cavi sottomarini come «strutture critiche». Che non sia una cosa lontana, basti ricordare che la rete internet algerina è stata bloccata per una settimana per un danno a un cavo sottomarino alla fine di ottobre. Le riparazioni sono state più complesse del previsto, rese difficili anche dal maltempo. La normalizzazione ha avuto pesanti conseguenze e il governo ha incaricato magistratura e intelligence militare di condurre un’approfondita inchiesta.
Svezia e Finlandia uniscono i loro sforzi Due paesi europei vicini alla Russia, tra cui uno che confina con Mosca, stanno unendo parti delle loro forze militari. Il governo svedese ha annunciato il 29 ottobre che creerà un gruppo navale congiunto con la Finlandia. Helsinki ha un lungo confine con la Russia, mentre la Svezia ha visto recentemente una impressionante crescita delle violazioni del suo spazio aereo e delle acque territoriali da parte di velivoli e sottomarini russi. Il nuovo gruppo di battaglia, noto come la Task Force Navale Svedese Finlandese (SFNTG), è previsto come una risposta economica per le due nazioni nell’ipotesi di condotta di operazioni congiunta nell’Artico e nelle regioni circostanti in caso di crisi. Dal momento che la Russia ha annesso la Crimea nel marzo 2014, Mosca ha perseguito una strategia militare aggressiva nell’Artico e nei paesi Baltici dislocando un numero senza precedenti di unità militari di ogni tipo in tutta la regione. Mosca sta costruendo 10 stazioni di ricerca e soccorso (SAR), 16 porti e approdi marittimi con acque profonde, 13 aeroporti militari, e 10 stazioni radar di difesa aerea in tutta la sua costa artica. Una di queste basi militari è a meno di 50 km dal confine finlandese. Enrico Magnani
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Marine militari ALGERIA Arriva la prima corvetta «C-28A» La corvetta Adhafer (distintivo ottico 920), prima delle tre unità tipo «C-28A» costruite per la Marina algerina dal gruppo cantieristico cinese Hudong-Zhonghua Shipbuilding, è giunta nella capitale nordafricana alla fine di ottobre 2015, dopo una traversata di cui ha fatto unicamente parte una sosta in Malesia. Come si ricorderà, queste corvette hanno un dislocamento di circa 3.000 tonnellate, una lunghezza di 120 metri e sono armate, fra l’altro, con missili antinave e antiaerei e una torre da 76 mm.
ARABIA SAUDITA Possibile acquisizione di unità polivalenti A metà ottobre, il Dipartimento di Stato ha approvato la possibile acquisizione da parte dell’Arabia Saudita di quattro unità polivalenti denominate Multi-Mission Surface Combatant, MMSC, variante allungata delle unità tipo Littoral Combat Ship/Freedom con scafo tradizionale in servizio nell’US Navy. Se l’ordine fosse formalizzato, le quattro unità farebbero parte della «flotta orientale» della Marina saudita, di base nel Golfo Persico. Secondo fonti statunitensi, le unità dovrebbero essere equipaggiate con un cannone da 76 mm OTO Melara, un complesso a 16 celle per il lancio verticale di missili superficiearia, un impianto per la difesa di punti «SeaRAM», quattro missili antinave «Harpoon» e dieci mitragliatrici da 12,7 mm. Quest’armamento renderebbe le MMSC particolarmente idonee a potenziare le capacità della Marina saudita per la protezione delle proprie infrastrutture industriali nell’area del Golfo, oltreché fornire un adeguato sostegno alle esigenze operative degli Stati Uniti nella regione.
gate Arunta e Stuart e dalla nave ausiliaria Sirius ha eseguito esercitazioni congiunte con il pattugliatore d’altura francese Vendemiaire (nave stazionaria nella Nuova Caledonia francese) nell’ambito di un rischieramento nelle acque dell’Asia sudorientale e dell’Estremo Oriente. Le attività in mare sono state condotte a valle di visite in porti cinesi e vietnamiti e hanno compreso manovre tattiche, operazioni di volo a cura dell’elicottero imbarcato sull’Arunta, rifornimento in mare e azioni a fuoco contro bersagli statici e mobili. L’Arunta è una delle fregate classe «ANZAC» già sottoposto a importanti modifiche per l’installazione di un nuovo radar attivo a sei facce piane, montato in cima all’albero.
Ritiro dal servizio della fregata Sydney Il 7 novembre, la fregata lanciamissili Sydney è stata ritirata dal servizio in virtù del rinnovamento della componente di superficie della Marina australiana. Costruita su progetto delle fregate classe «Perry», l’unità era entrata in linea nel gennaio 1983, aveva partecipato alle operazioni in Golfo Persico nel 1991 e a quelle di Timor Est nel 1999. Dell’originario nucleo di sei fregate lanciamissili della Marina australiana, rimangono in linea tre unità: Darwin, Melbourne e Newcastle.
AUSTRALIA Esercitazioni congiunte All’inizio di novembre 2015, un gruppo navale della Marina australiana, formato dalle fre-
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La fregata australiana ARUNTA e la nave ausiliaria SIRIUS, riprese nel corso di un rifornimento in mare, durante l’esercitazione congiunta svoltasi con un pattugliatore d’altura francese all’inizio di novembre (fonte: RAN).
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Marine militari
BRASILE Rinvio del programma per il sottomarino nucleare Alvaro Alberto Il programma per la costruzione del primo sottomarino a propulsione nucleare della Marina brasiliana — Alvaro Alberto — è stato sospeso fino al 2025 per mancanza di risorse. Iniziato nel 1979, il programma aveva già subito dei ritardi ed era stato recentemente rimodulato nell’ambito della più ampia iniziativa PROSUB (PROgrama de SUBmarinos) per potenziare la componente subacquea della Marina brasiliana, comprendente anche la costruzione di quattro battelli convenzionali tipo «Scorpene» grazie a una massiccia cooperazione con il gruppo francese DCNS.
CANADA Nuovo rifornitore di squadra Due cantieri navali della costa orientale canadese hanno iniziato la conversione della nave portacontainer Asterix in un rifornitore di squadra «provvisorio per la Royal Canadian Navy»: l’iniziativa è necessaria per colmare un importante gap capacitivo in materia di sostegno logistico alle unità combattenti, in attesa dell’ingresso in linea delle due navi polivalenti classe «Queenstown», previsto per il 2020-21. L’Asterix ha una lunghezza di 183 metri e una stazza netta di 23.800 tonnellate e sostituisce temporaneamente il Preserver e il Protecteur, in disarmo dal 2014: costruita in Germania nel 2010 e di proprietà di una compagnia di navigazione greca, l’Asterix ha iniziato i lavori di trasformazione il 7 ottobre e dovrebbe completare le attività a metà del 2016.
nel poligono navale al largo di Dugi otok, nell’ambito dell’esercitazione interforze Joint Force 15 e segue un primo lancio eseguito a maggio 2015 da una postazione terrestre. Secondo fonti della Marina croata, il missile ha distrutto completamente il bersaglio, confermando l’affidabilità dell’ordigno e le capacità delle unità che lo hanno in dotazione.
EGITTO Acquisizione delle due unità d’assalto anfibio exrusse Il 10 ottobre, il gruppo francese DCNS ha firmato il contratto con il Ministero della Difesa egiziano per l’acquisizione delle due unità d’assalto anfibio exrusse Vladivostok e Sevastopol, il cui trasferimento alla Russia era stato bloccato dal governo di Parigi al termine di una dura controversia iniziata con l’annessione della Crimea da parte di Mosca. Dalle due unità — notoriamente derivate dalle «Mistral» in servizio nella Marina francese — saranno sbarcati i sistemi di origine russa già presenti a bordo: inoltre, esse verranno adattate per l’impiego a cura della Marina egiziana, in cui se ne prevede l’ingresso in servizio nella seconda metà del 2016. Oltre alle due unità, la DCNS fornirà alla Marina egiziana quattro mezzi da sbarco di nuovo modello ma di tipo tradizionale e due mezzi tipo EDAR con scafo catamarano realizzati in subappalto dai cantieri CNIM.
CROAZIA Prove di missili antinave All’inizio di ottobre, un’unità veloce lanciamissili della Marina croata della classe «Kralj», il Dmitar Zvonimir, ha eseguito il secondo lancio di un missile antinave tipo «RBS 15 Mk.3» di produzione svedese: l’evento ha avuto luogo
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Le unità d’assalto anfibio ex-VLADIVOSTOK ed ex-SEVASTOPOL, vendute alla Marina egiziana al termine del contenzioso fra Mosca e Parigi (fonte: DCNS).
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FRANCIA Lancio di missile balistico Il 30 settembre, presso il centro di Biscarosse, sulla costa atlantica francese, ha avuto luogo il lancio di prova di un missile strategico «M51», naturalmente privo di testata nucleare: il test è stato seguito dai centri di controllo a terra e dalla nave ausiliaria Monge, con l’ordigno precipitato in mare nell’Atlantico settentrionale a diverse centinata di chilometri dalla costa più vicina. Il missile «M51» è attualmente in dotazione a due dei quattro sottomarini nucleari lanciamissili balistici che formano la Force de Frappe francese e se ne prevede l’imbarco su tutti e quattro battelli entro il 2020.
GIAPPONE Varo di un nuovo sottomarino L’ottavo battello della classe «Soryu», battezzato Sekiryu (dragone rosso), è stato varato il 2 novembre nei cantieri Kawasaki di Kobe, società che condivide con la Mitsubishi la realizzazione del programma costruttivo per conto della Marina giapponese. La classe «Soryu» comprenderà 10 esemplari, il primo dei quali impostato nel 2005: la loro principale caratteristica è un sistema di propulsione ibrido di cui fanno parte due gruppi diesel-generatori e quattro impianti AIP tipo «Stirling», di concezione svedese ma riprodotti su licenza in Giappone. Il progetto «Soryu» è stato offerto al governo australiano per il programma dei nuovi sottomarini per la locale Marina.
Nuova classe di cacciamine Il 27 ottobre il gruppo Maritime United Corporation (JMUC) ha annunciato il varo del primo esemplare — battezzato Awaji — di una nuova classe di cacciamine per la Marina nipponica, in costruzione presso i cantieri di Yokohama: si prevede che l’unità entri in linea nel marzo 2017, per essere seguita da altre due a distanza di sei mesi. I nuovi cacciamine hanno un dislocamento di 690 tonnellate, una lunghezza di 67 metri e una larghezza di 11 metri: la propulsione è affidata a due motori diesel, che consentono una velocità massima di 14 nodi. Lo scafo è realizzato in GRP, mentre l’armamento balistico comprenderà un cannone dl 20 mm. Le unità classe «Awaji» sostituiranno i vecchi dragamine in legno classe «Yaehama», in servizio dal
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1993, mentre non è ancora noto quali saranno i sistemi specialistici per la caccia alle mine.
GRAN BRETAGNA Nuova base navale della Royal Navy in Bahrain Dopo un’assenza permanente a est di Suez che durava dal 1971, forze militari britanniche saranno nuovamente basate in Medio Oriente grazie alla nuova infrastruttura la cui prima pietra è stata posata ai primi di novembre nel Bahrein, nel porto di Mina Salman. La gestione della nuova base, battezzata HMS Juffar, sarà affidata alla Royal Navy ed essa sarà inizialmente in grado di fornire sostegno tecnico-logistico a quattro cacciamine e, in seguito, a unità maggiori di superficie: nella base saranno impiegati circa 80 effettivi e la sua inaugurazione, prevista nell’autunno del 2026, consentirà alla Royal Navy di non ricorrere più alle installazioni dell’US Navy presenti nel medesimo porto. I costi per la realizzazione della nuova infrastruttura sono a carico del Bahrein, mentre gli oneri per il suo funzionamento saranno a cura di Londra.
INDIA Ingresso in linea di un cacciatorpediniere lanciamissili … Il 30 settembre è entrato in servizio a Mumbai, il Kochi, secondo dei tre cacciatorpediniere lanciamissili da 7.500 tonnellate di dislocamento progettati e costruiti presso i cantieri Mazagon per conto della Marina indiana: la prima unità della classe, Kolkata, era entrata in linea nell’agosto del 2014, con tre anni di ritardo, mentre il terzo esemplare — battezzato Chennai — del programma noto come «Project 15A» dovrebbe essere pronto per la fine del 2016. Una buona parte dei sistemi imbarcati è stata sviluppata e prodotta in India, mentre fra quelli di acquisizione estera spiccano le quattro turbine a gas ucraine «Zorya-Mashproekt DT-59». Il Kochi è comunque privo del sistema missilistico superficie-aria «Barak 8» di matrice israeliana, di cui se ne prevedono le prove a bordo dell’unità alla fine del 2015, prima di avviarne la produzione di serie.
… e varo del sottomarino Kalvari Il primo dei sei battelli diesel-elettrici tipo «Scorpene» di progetto francese e costruiti nei cantieri Mazagon ha co-
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Marine militari minciato le prove in mare lo scorso 30 ottobre. Il Kalwari era stato varato all’inizio di aprile 2015, mentre le prove sono destinate a protrarsi fino a metà dell’anno prossimo: il battello, lungo 66 metri, fa parte di un contratto di 3,6 miliardi di dollari siglato fra il governo indiano e il gruppo DCNS per la realizzazione dei sottomarini e per l’esecuzione di attività accessorie nell’ambito del programma «Projct 75». Le ultime due unità della classe saranno equipaggiate con un sistema propulsivo ibrido di cui farà parte una componente AIP, probabilmente basata sul concetto MESMA di origine francese: la conclusione del programma è prevista, forse ottimisticamente, per il 2020, e i nuovi battelli dovrebbero formare il nucleo della forza subacquea indiana per il prossimo ventennio. Il Kalwari è dotato di sei tubi di lancio da 533 mm, da cui è possibile anche l’impiego di missili antinave «SM-39 Exocet Block 2»: a fronte di un requisito di 24-30 battelli, la Marina indiana è attualmente equipaggiata con 14 unità, di cui nove classe «Kilo» russi, quattro tipo «209» tedeschi e un battello a propulsione nucleare tipo «Akula», noleggiato dalla Russia nel 2012.
ITALIA Ultima campagna navale per il Maestrale L’ultima campagna della fregata Maestrale —prima della sua dismissione il prossimo anno— è iniziata a Chioggia il 26 ottobre e si concluderà a La Spezia il 7 dicembre, dopo che l’unità sarà impegnata in una serie di visite in diversi porti dell’Adriatico, della Sicilia e del Tirreno.
Come noto, il Maestrale è il primo esemplare di una classe di otto fregate che negli ultimi trent’anni hanno partecipato a tutte le principali operazioni della Marina Militare, dimostrandosi la spina dorsale della Squadra Navale e rappresentando dunque una delle migliori scelte operative e progettuali della Legge Navale approvata nel marzo del 1975.
Il Carabiniere flagship dell’operazione Atalanta Il 23 ottobre 2015, le cinque unità navali impegnate nell’operazione Atalanta si sono incontrate nel Golfo di Aden: nave ammiraglia dell’operazione è la fregata Carabiniere, alla guida di un gruppo navale (Task Force 465) che comprende anche la fregate spagnola Victoria, i pattugliatori d’altura Meteoro (Spagna) e Groningen (Olanda), la corvetta Erfurt tedesca. La Task Force 465 si avvale del sostegno logistico di unità navali statunitensi per il rifornimento di combustibili e oltre a compiere le ormai classiche missioni di protezione dei mercantili impegnati nel World Food Programme è impegnato in attività addestrative con le Marine locali e in incontri con autorità somale.
L’Andrea Doria lancia un missile «Aster 30»
Il 26 ottobre, operando al largo del poligono delle isole Ebridi (Scozia), il cacciatorpediniere lanciamissili Andrea Doria ha effettuato con successo il lancio di un missile «Aster 30» nel corso di un’esercitazione di protezione di una formazione navale nei confronti di un missile balistico: il lancio rientra nelle attività svolte nell’ambito dell’esercitazione internazionale Joint Warrior 15-2 e della At Sea Demonstration 2015, ASD 15, a cui hanno partecipato 28 unità navali, 4 sottomarini, truppe terrestri, elicotteri e velivoli ad ala fissa di 12 Paesi della NATO inseriti all’interno di una task force internazionale. Il tema dell’esercitazione, orientato alla sorveglianza e sicurezza marittima, ha riguardato uno scenario multinazionale di crisi crescente della durata di 10 giorni, necessario ad addestrare gli Venezia, nave MAESTRALE saluta la «Serenissima» in occasione della sua ultima campagna. equipaggi degli assetti aeronavali a
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Marine militari operare nelle tre forme di lotta (aerea, superficie e subacquea). La ASD 15 è stata pianificata e condotta dal Maritime Theater Missile Defense Forum, MTMD Forum, acronimo statunitense che indica un gruppo di dieci Marine occidentali, che dal 1999 cooperano e ricercano iniziative d’interesse comune al fine di incrementare il livello d’interoperabilità nell’ambito del concetto di difesa integrata antiaerea e antimissili a cura di assetti navali.
OMAN Varo dell’Al-Mubasher Il 21 ottobre, il cantiere australiano Austal ha varato l’Al-Mubasher, prima di due unità veloci da supporto logistico — denominate HSSV, High-Speed Support Vessel — destinate alla Marina dell’Oman per potenziarne le capacità di trasporto strategico. Il progetto delle due unità — caratterizzate da scafo a catamarano — è simile a quello delle Expeditionary Fast Transport in corso di costruzione per le forze militari statunitensi e in precedenza note come Joint High Speed Vessel, JHSV, in grado di svolgere un’ampia gamma di missioni militari e paramilitari. Gli HSSV omaniti hanno una lunghezza di 72,5 metri e una velocità massima di 35 nodi: l’equipaggio è formato da 69 persone, con disponibilità di alloggio per 250 civili e una capacità di carico di 350 t. L’Al-Mubasher è attualmente impegnato nelle prove in mare e se ne prevede l’ingresso in servizio nel 2016.
REPUBBLICA POPOLARE CINESE Dettagli su una possibile portaerei costruita in Cina Una sezione di quella che sembra essere parte dell’angar e del ponte di volo è stata installata su uno scafo in costruzione a Dalian, rafforzando la tesi che si tratti di una portaerei, la prima costruita ex-novo da un cantiere nella Repubblica Popolare Cinese: le ipotesi sono state avanzate dopo la pubblicazione, già a settembre 2015, di alcune foto satellitari, dando l’impressione che lo scafo appartenga a una nave militare lunga 270 metri e una larghezza di 35. Anziché una portaerei, è possibile che la costruzione sia un’unità d’assalto anfibio di grandi dimensioni, capace di far operare un elevato numero di elicotteri e mezzi anfibi: tuttavia, questa supposizione sembrerebbe smentita da altri sviluppi nel settore.
Nuova unità d’assalto anfibio Alla fine di ottobre, sono state divulgate le foto dellaYimeng Shan, quarta unità anfibia «Type 071» realizzata per la Marina cino-popolare e la cui consegna è prevista per la fine del 2015. Oltre alle altre unità gemelle già operative (Kunlun Shan, Jinggang Shan e Changbai Shan), il programma prevede la costruzione di altri due esemplari. Questo naviglio costituisce il nucleo principale della componente anfibia della Marina cino-popolare, perché si tratta di unità da 25.000 tonnellate di dislocamento e 210 metri di lunghezza, in grado di accogliere un battaglione di fanti di marina forte di 500-800 uomini: il bacino allagabile ospita quattro mezzi anfibi a cuscino d’aria tipo «Yuyi», mentre le soprastanti sistemazioni aeronautiche possono accogliere sei elicotteri medi.
RUSSIA Missili da crociera navali contro il Daesh (ad-Dawla al-Islāmiyya fī al-ʿIrāq wa l-Shām)
L’unità veloce da supporto logistico AL-MUBASHER, varata il 21 ottobre per conto della Marina omanita (fonte: Austal).
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Il 7 ottobre, unità navali russe della Flottiglia del Mar Caspio hanno lanciato 26 missili da crociera «Kalibr» («SS-N27 Sizzler» secondo la denominazione NATO) contro obiettivi del Daesh (ad-
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Marine militari Dawla al-Islāmiyya fī al-ʿIrāq wa l-Shām). Secondo quanto riferito dal Ministero della Difesa russo, gli ordigni hanno sorvolato per circa 1.500 chilometri i territori di Iran e Iraq prima di penetrare a bassissima quota nello spazio aereo siriano e colpire oltre 110 bersagli, fra cui impianti per la fabbricazione di ordigni, centri di comando, campi di addestramento e depositi di munizioni. Il lancio dei missili è avvenuto dalla fregata Dagestan (classe »Gepard») e dalle corvette Grad Sviyazhsk, Uglich e Veliky Ustyug (classe «Buyan-M»). Secondo fonti statunitensi, almeno quattro dei missili lanciati dalle navi russe sono precipitati in territorio iraniano. Da ricordare infine che le sei nuove corvette classe «Bykov/Project 22160» — destinate alla flotta del Mar Nero — saranno armate con otto missili «Kalibr»: la prima unità, Vasily Bykov, è previsto che entri in linea nel 2016, mentre la seconda, Dmitry Rogachev, dovrebbe seguire dopo un anno.
Rinvio della consegna del primo sottomarino tipo «Yasen-M» Secondo l’agenzia governativa russa TASS, la consegna alla Marina russa del Kazan — primo sottomarino nucleare d’attacco tipo «Yasen-M/Project 885M», a sua volta derivato dal Severodvinsk (unico della serie «Project 885» e in servizio dal 2014) — è stata spostata al 2018, con un ritardo di un anno rispetto alle previsioni. L’informazione conferma i dubbi sulla qualità del programma costruttivo, caratterizzato da notevoli ritardi e tali appunto da provocare la riprogettazione dei battelli di serie: le
cause del ritardo sono state attribuite alla «novità del progetto», ma va detto che l’inizio del programma «Yasen/558» risale addirittura agli anni Novanta, mentre l’accettazione del Severodvinsk è stata in qualche modo imposta alla Marina russa. Altre due unità, Novosibirsk e Krasnoyarsk, sono sullo scalo rispettivamente dal 2013 e dal 2015 e risultano tuttora in costruzione.
Prove in mare per la fregata Admiral Gorshkov La fregata Admiral Gorshkov, eponima di una classe realizzata secondo il «Project 22350», è impegnata nel Mar Bianco nelle prove riguardanti il sistema d’arma e i sensori elettronici. L’unità — impostata nel 2006 e varata nel 2010 — ha completato la navigazione da Baltysk (Mar Baltico) a Severodvinsk (Mar Bianco) lo scorso 30 settembre e l’esito di prove condotte anche con il contributo di velivoli ed elicotteri dell’aviazione navale ne deciderà la data d’ingresso in servizio con la Marina russa. L’Admiral Gorshkov ha un dislocamento di 4.550 tonnellate e una lunghezza di 135 metri, con uno scafo caratterizzato da linee stealth: l’armamento balistico comprende il nuovo cannone da 130 mm tipo «A-192» e da sistemi missilistici superficie-aria, superficie-superficie e antisommergibili, mentre l’elicottero imbarcato è il «Kamov Ka-27 Helix».
Riparazione del sottomarino Alrosa
Secondo fonti governative russe, un cantiere di Sebastopoli ha recentemente completato la riparazione del sottomarino convenzionale Alrosa (B 871), un battello della classe «Kilo/Project 877V» in servizio con la Flotta del Mar Nero. L’unità è l’unica della classe equipaggiata con un propulsore pump-jet invece che con un’elica tradizionale e ciò dovrebbe garantire una maggior velocità in immersione prima dell’insorgere della cavitazione. In servizio dal 1990, l’Alrosa ha un dislocamento in immersione di 3.950 tonnellate e una velocità massima in immersione di 17 nodi ed Il propulsore pump-jet del sottomarino russo ALROSA, ripreso poco prima del completamento dei è stato per lungo tempo l’unico batlavori sul battello (fonte: marineforum). tello operativo della predetta Flotta.
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SINGAPORE Un nuovo mezzo di superficie a controllo remoto Il 1 novembre è stata resa pubblica l’esistenza di un nuovo mezzo di superficie a controllo remoto (USV, Unmanned Surface Vehicle) in servizio nella Marina di Singapore: il mezzo — battezzato Venus 16 — è impegnato nelle prove in mare, ha una lunghezza di 16,5 metri, una larghezza di 5 metri e un dislocamento di 26 tonnellate. Propulso da un idrogetto, il Venus 16 è accreditato di una velocità Il mezzo di superficie a controllo remoto VENUS 16 della Marina di Singapore, ripreso durante attimassima di 35 nodi e si presume che vità operative preliminari in acque costiere (fonte: Marina di Singapore). sia stato configurato per svolgere ope2014, ha visto l’«F-35C» compiere il suo primo decollo razioni di contromisure mine perché dotato di una struttura e appontaggio da una portaerei (la Nimitz, per l’occaper la messa a mare e il recupero di un sonar a scansione sione), nonché completare con successi tutti i test previlaterale. Secondo fonti della Marina di Singapore, il mezzo sti. Dopo l’analisi dei dati di volo raccolti durante questa — ultima evoluzione di una famiglia di USV concepiti e seconda fase, sarà possibile definire con maggior dettarealizzati dalla Singapore Technologies Electronics — può glio le attività da svolgere nella successiva terza fase, essere adattato anche per il pattugliamento delle trafficate programmata per l’estate del 2016. aree marittime che circondando la città-Stato.
STATI UNITI Rischieramento di due velivoli «F-35C Lightning II» a bordo della portaerei Eisenhower
Iniziata la costruzione della seconda «base mobile» Il 14 ottobre i cantieri General Dynamics NASSCO di San Diego hanno dato il via alla costruzione della se-
Due velivoli a decollo e appontaggio convenzionale «F-35C Lightning II» sono stati imbarcati sulla portaerei Dwight D. Eisenhower per la seconda fase delle valutazioni operative condotte nella prima settimana di ottobre 2105, in una zona situata a circa 100 miglia dalle coste orientali degli Stati Uniti. La terza e ultima fase delle prove servirà per verificare la totale rispondenza del velivolo alle specifiche operative legate all’impiego delle portaerei e l’idoneità alla capacità operativa iniziale, prevista per il 2018; la Un velivolo «F-35C Lightning» pronto al decollo su una delle catapulte della della portaerei EISENHOWER: in primo piano, la postazione a scomparsa dell’operatore addetto alla manovra della catapulta (fonte: US Navy). fase precedente, svoltasi nel
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Marine militari conda unità di una categoria recentemente classificata dall’US Navy con il termine Expeditionary Base Mobile, ESB: l’unità avrà una lunghezza di oltre 238 metri, un ponte di volo di circa 990 metri quadrati, depositi, locali operativi e logistici e spazi per accogliere un totale di 250 persone. Questa seconda ESB è molto simile alla coppia di Expeditionary Transfer Docks, ESD — battezzate Montford Point e John Glenn —, in precedenza note come Mobile Landing Platform ed è stata preceduta nell’ingresso in linea dalla prima ESB, battezzata Lewis Puller. La decisione dell’US Navy di modificare la definizione di alcune tipologie di nuove costruzioni pone l’enfasi sul loro carattere expeditionary e riflette un atteggiamento maggiormente focalizzato sulla proiezione di potenza dal mare, utilizzando basi mobili formate da idonee unità navali in grado di far operare elicotteri pesanti e convertiplani e mezzi navali molto veloci.
Intercettato con successo un simulacro di missile balistico Nell’ambito della già ricordata «ASD 15» (vedasi la sezione ITALIA), il cacciatorpediniere lanciamissili statunitense Ross (classe «A. Burke Flight I») ha intercettato con successo un simulacro di missile balistico a corto raggio utilizzando un ordigno «Standard SM-3 Block IA». È la prima volta che un ordigno in questa variante viene lanciato da una nave americana in un poligono (nelle isole Ebridi) al di fuori degli Stati Uniti e rappresenta anche la prima intercettazione di un simulacro di missile balistico a corto raggio, ruolo per l’occasione svolto da un vettore Terrier Orion lanciato dal predetto poligono. Nello scenario, il bersaglio balistico era in volo assieme a due missili antinave lanciati — in simulazione — contro un gruppo navale internazionale di cui faceva parte anche il Doria e altre unità navali di varie Nazioni NATO.
Battesimo del cacciatorpediniere lanciamissili Rafael Peralta Il 31 ottobre ha avuto presso i cantieri General Dynamics Bath Iron Works di Bath, nel Maine, la cerimonia del battesimo dell’ultimo cacciatorpediniere lanciamissili dell’US Navy, Rafael Peralta, per onorare la memoria
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del sergente dei Marines ucciso in azione a Fallujah il 15 novembre 2004: madrina del battesimo è stata la signora Rosa Peralta, madre del Marine caduto. La costruzione della nave è iniziata nel 2011 e la sua consegna è prevista per il 2016.
TURCHIA Varo di una nuova nave da sbarco carri armati Il 3 ottobre il cantiere ADIK Shipyard, situate a Tuzla, alla periferia di Istanbul, ha varato il primo esemplare di una nuova classe di nave da sbarco per carri armati, battezzata Bayraktar e la cui costruzione era iniziata 17 mesi fa. Il programma prevede la realizzazione di due unità, destinate alla sostituzione di naviglio più anziano della stessa categoria. Progettata per trasportare 24 carri armati, l’unità è idonea allo sbarco su spiaggia e al trasporto dei mezzi imbarcati attraverso pontoni, normalmente stivati lungo le murate della nave. L’armamento consiste di due impianti da 40 mm «Fast Forty» dell’OTO Melara, altrettanti impianti «Vulcan-Phalanx» e due mitragliatrici da 12,7 mm, mentre il radar è lo «SMART-S», realizzato su licenza da un’azienda turca: lo scafo è lungo fuori tutto 138,7 metri e ha un dislocamento di 7.125 tonnellate. La propulsione è assicurata da quattro motori diesel da 2.880 kw ciascuno, su due assi, per una velocità massima di 18 nodi: vi è anche un propulsore elettrico ausiliario prodiero. L’equipaggio comprende 129 effettivi, mentre la capacità di trasporto truppe riguarda 350 uomini delle forze anfibie.
YEMEN Presunto attacco con missili antinave Lo scorso 26 ottobre il gruppo terroristico yemenita Ansar Allah ha diffuso un filmato di relativo al lancio di un missile antinave da una postazione costiera contro una non meglio identificata unità navale della coalizione di Paesi arabi impegnata contro il predetto gruppo. La rivendicazione è la terza di questo tipo, ma è la prima volta che viene diffuso un video, girato in ore notturne: è ipotizzabile che l’ordigno sia derivato dal «C-802» di origine cinese e prodotto in Iran. Nessuna delle Nazioni arabe della coalizione ha diffuso notizie su danni alle proprie unità navali. Michele Cosentino
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Diario di guerra Un fatto straordinario collegato a ricordi lontani Si era nell’Ottobre del 1943. L’Armistizio con le Potenze Alleate era già stato proclamato la sera dell’8 Settembre e da quel momento l’Italia viveva una stagione di lacerazioni profonde e di drammi inimmaginabili che si sarebbe poi protratta a lungo. A noi della Regia Marina, dopo che per tre anni avevamo tenuto testa alle due più potenti Marine da Guerra del mondo, quella inglese e l’americana, era stata almeno risparmiata l’angoscia di dover decidere se continuare a combattere a fianco dell’alleato o tradirlo e gettare le armi per rivolgerle, semmai, contro di lui. Infatti la Regia Marina non aveva avuto grande scelta e, in ottemperanza alle dure clausole armistiziali, aveva salpato le ancore nella notte stessa e così le navi grigie si erano mestamente avviate per incontrare la flotta del nemico non più per combatterlo come eravamo pronti a fare, ma per accodarsi ai vincitori e seguirli dove avessero voluto. A quel tempo io ero imbarcato da diversi mesi sulla Regia Nave Italia (ex Littorio) che con le gemelle Roma e Vittorio Veneto era fra le più moderne e potenti corazzate che solcavano i mari. Avevo compiuto venti anni da appena un mese e sulle maniche avevo il piccolo gallone dorato da Guardiamarina, primo scalino nella carriera degli Ufficiali di Vascello. Dopo una lunga sosta a Malta e una altrettanto lunga ad Alessandria d’Egitto, sempre ancorati al largo sotto la minaccia dei cannoni delle navi inglesi, qualcosa era finalmente accaduto e così, dopo aver sbarcato una consistente parte degli equipaggi, il 16 Ottobre del 1943 le due Navi da Battaglia Italia (sulla quale come ho detto ero imbarcato) e Vittorio Veneto, scortate da due Cacciatorpediniere inglesi (Lamerthon e Wilton) e due greci (Kanaris e Themistocles), salparono dal largo di Alessandria d’Egitto per dirigersi verso il Canale di Suez e dar quindi fondo nei Laghi Amari, dove sarebbero poi restate per oltre due anni. Nel corso di quel malinconico trasferimento accadde un piccolo episodio significativo che, tuttavia, penso sia giusto ricordare perché può servire per riproporre l’atmosfera di quei momenti. Per farlo apro il diario che in quei lontani giorni puntualmente tenevo.
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Ecco cosa scrivevo: «Con a bordo due funzionari della Amministrazione del Canale di Suez e alcuni membri della Royal Navy, navigavamo lentamente lungo il Canale stesso. Le sue sponde, vicinissime alle nostre fiancate, talvolta erano basse, altre volte superavano l’altezza della Plancia Ammiraglio sulla quale io mi trovavo e dalla quale guardavo malinconicamente quello che mi sfilava davanti. Il paesaggio era per lo più spoglio, monotono, sabbioso a perdita d’occhio, con solo qualche palmizio e qualche misera costruzione. Una strada carreggiabile correva vicino alla riva e su di essa si svolgeva un discreto traffico di mezzi prevalentemente militari che sollevavano una gran polvere. Gruppetti di indigeni o di soldati inglesi si fermavano per guardare le Navi del nemico sconfitto. Un gruppo più consistente si accalcò per guardare lo spettacolo insolito: non avevano addosso il caffettano degli arabi e neppure le divise kaki inglesi, ma si presentavano piuttosto dimessi, molti a torso nudo, armati di pale e zappe. Capimmo ben presto che erano dei prigionieri di guerra italiani o tedeschi impiegati per lavori stradali. Noi sfilavamo lentamente davanti a loro che ci guardavano in silenzio. In quel punto la riva era piuttosto elevata e, come sempre, vicinissima a noi. Potevamo guardarci in faccia. A un tratto uno di essi, con un gesto improvviso, si tolse una scarpa sformata e polverosa e la gettò verso di noi: la vidi cadere sulla coperta, a dritta, fra le torri dei cannoni antiaerei da 90 mm. Nel farlo gridò forte con rabbia: “Come avete fatto a perdere la guerra con navi come queste?”. Fu in quel preciso istante che capimmo che erano soldati italiani prigionieri. Povera gente che da mesi o da anni soffriva la prigionia e sognava la casa lontana, la Patria; povera gente che aveva sperato di vederci arrivare vincitori e liberatori e che invece aveva sentito dire che l’Italia, la loro Patria, si era arresa e ora vedeva passare quelle possenti Navi, irte di cannoni, in cammino verso l’internamento. Nessuno, fra le non molte persone dell’equipaggio che in quel momento erano in coperta e che videro quel gesto e sentirono quel grido, ebbe l’animo di rispondere, di reagire. Tutti capimmo lo stato d’animo che li aveva provocati, tutti sentimmo il nostro disagio, tutti provammo la stessa
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Diario di guerra amarezza. Un motivo in più che aggiungeva peso allo sconforto che era in noi dal giorno dell’armistizio».... Rimasi per due anni a bordo della mia nave, confinata al centro di quella vastissima desolata distesa d’acqua, senza mai scendere a terra. Ma questa è una storia che in altra occasione potrei raccontare. Alcuni anni dopo accadde un fatto straordinario. Si era all’inizio degli anni Settanta. I duri tempi della guerra La Regia nave ITALIA (ex LITTORIO) (fonte USMM). e del dopo guerra erano ormai un riesperienze di guerra, gli altri qualcosa da raccontare l’avevano cordo, anche se sofferto ricordo. La gente pensava più al pree così anche io cercai di non essere da meno. Mi venne in sente e al futuro, piuttosto che a un passato da dimenticare. mente di parlare del mio imbarco sulla Littorio, dei fatti conA quel tempo avevo già lasciato da non molto la Marina e laseguenti all’armistizio, del nostro incontro con le navi dell’ex voravo in una grande Industria multinazionale che si occunemico, del nostro viaggio verso il Grande Lago Amaro. pava di Telecomunicazioni e di Elettronica. Per la mia Quando fui sul punto di raccontare della scarpa che ci era stata specializzazione radaristica facevo parte di un piccolo gruppo tirata contro, vidi chiaramente che uno dei sottufficiali, un che, insieme ai tecnici di una nostra consociata francese, proguomo robusto sulla cinquantina, si alterava visibilmente. Nel ettava un radar terrestre capace di scoprire la postazione di momento in cui, anche io emozionato per quanto vedevo e un mortaio nemico, a partire dal rilevamento della traiettoria cominciavo a intuire, ripetei la frase che avevo sentito tanti dei proiettili da esso sparati. Questo comportava frequenti anni prima, quel sottufficiale si alzò di scatto in piedi esclamiei viaggi a Velizy-Villecoublay vicino a Parigi e altrettanti mando: «Io, ero io». Ci guardammo trasecolati e poi la comdei tecnici francesi a Roma. Finalmente il prototipo venne remozione, lo stupore, l’istinto, ci gettarono l’uno nelle braccia alizzato e per effettuare le prove sul campo l’Esercito italiano dell’altro. Ora eravamo due uomini maturi, allora due venmise a nostra disposizione uomini, mortai e mezzi nel tenni le cui vite si erano sfiorate per un attimo in uno scenario poligono di tiro di Monte Romano dalle parti di Viterbo. drammatico, sotto un cielo ancora pieno di incognite. Ma il Le prove erano lunghe, lente e piuttosto noiose. Il mordestino aveva già caricato l’orologio e fissato l’attimo suctaio, appostato in una vallata lontana, sparava e noi cercessivo. Perché anche questo tale poi restò. cavamo col nostro radar sperimentale di intercettare le Post Scriptum traiettorie dei proiettili per localizzare la sua postazione, Ogni qualvolta che ritorno con la memoria a quel moaffinando la messa a punto dei circuiti elettronici. Quando mento sotto la tenda militare di Monte Romano, mi prende sopraggiungeva la notte non restava che trovare rifugio un sottile senso di angoscia al pensiero di aver raccontato un sotto le tende che l’Esercito aveva predisposto, unitamente episodio che potrebbe lasciare quantomeno dubbioso chi asa una piccola cucina da campo. Così la mattina dopo ercolta, a causa della quasi incredibile probabilità che un tale avamo pronti a riprendere le prove. Dopo cena si parlava incontro possa essersi verificato. Eppure accadde e la comin attesa di dormire alla meglio sulle brande da campo. Con mozione che vidi nell’uomo e il brivido che avvertii in lui me c’era un Colonnello dell’Esercito specializzato in Arquando si strinse a me in quello spontaneo cameratesco abtiglieria e fu lui, la seconda sera, ad avviare una converbraccio, testimoniavano largamente per la sua sincerità. E poi, sazione incentrata sui ricordi di guerra. Insieme a noi perché mai avrebbe dovuto mentire? Eravamo fra soldati, non c’erano un paio di giovani ufficiali, alcuni sottufficiali, un in un salotto mondano. E io credetti in lui. Allora come ora. tecnico della ditta. Gli altri erano in altre tende. Meno i due giovani ufficiali, troppo giovani per aver avuto Baleppe (Giuseppe Baldacci)
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C he cosa scrivono gli altri «Mari che uniscono» NODO DI GORDIO, A. IV, N. 8, MAGGIO 2015
Il Mediterraneo e l’area mediterranea «allargata», con i suoi diversi piani di lettura, sono i protagonisti principali dell’ultimo numero della rivista quadrimestrale in parola, organo del think tank di geopolitica con sede a Pergine Valsugana. Una panoplia ricchissima di temi e problemi di ben 182 pagine con 29 contributi. Il Mediterraneo non è più un semplice Golfo dell’Atlantico, come eravamo abituati a pensare all’epoca della Guerra Fredda, scrive Franco Cardini nell’articolo «Mediterraneo ed Eurasia». Gli eventi degli ultimi mesi ci hanno insegnato
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che una partita straordinariamente importante si sta giocando nel quadrante geopolitico compreso tra Mediterraneo orientale, Mar Rosso, Golfo Persico, area delle sorgenti del Tigri e dell’Eufrate, Iran, repubbliche turcomongole e transcaucasiche ex — sovietiche, Russia e Caucaso. Un’area invero molto vasta, caratterizzata da una straordinaria complessità di problemi e da una gigantesca ricchezza energetica (gas e petrolio) che, secondo il Nostro, ha un centro, un fulcro (diciamo pure un «perno»), costituito dal Caucaso e da tutta l’area che sta tra Mar Nero e Mar Caspio. Le regioni del Caspio e del Caucaso d’altra parte sono state da sempre estremamente integrate e interdipendenti tra loro, fa rilevare a sua volta Antonciro Cozzi ne «Il mosaico caspico». Regione divisa tra conflitti latenti e forti opportunità di crescita per tutti i paesi rivieraschi, sempreché si arrivi a un accordo sulla natura giuridica del Caspio stesso (mare o lago interno?), che permetta una suddivisione delle sue acque nella certezza del diritto. All’attualità, infatti, gli interessi particolari, soprattutto economici, dei cinque paesi che vi si affacciano (Russia, Azerbaijan, Iran,Turkmenistan e Kazakhstan) hanno sempre prevalso, senza dare vita al riguardo, se non parzialmente, a nessun accordo condiviso, equo o cooperativo. L’incertezza sulla definizione della natura giuridica del Mar Caspio (e di conseguenza sul regime da applicare alle sue acque e fondali) con la conseguente impossibilità di addivenire alla firma di uno strumento multilaterale comune tra tutti i paesi rivieraschi ha avuto come effetto lo sviluppo esponenziale ed estremamente rapido delle marine militari dei Paesi dell’area, di cui si fornisce un quadro dettagliato, al fine di tutelare i propri interessi economici e, soprattutto, energetici. Nel presente numero, il cui sottotitolo è appunto «Italia e Turchia pilastri del Mediterraneo», una particolare attenzione, nell’apposito Speciale Turchia, viene riservata, con ben sette articoli, alle problematiche turche che vedono Ankara «coinvolta in otto scenari geopolitici: tre mari (Mediterraneo, Mar Nero e Caspio) e cinque regioni (Balcani, Medio Oriente, Golfo Persico, Caucaso e Asia centrale), ovviamente più per legami storici e culturali con la cosiddetta
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Che cosa scrivono gli altri area della “turcofonia” che per prossimità geografica». In particolare Andrea Marcigliano ne «La Turchia e i suoi “vicini di casa”. Prospettive e proiezioni della geopolitica di Ankara», pone in risalto come il ruolo della Turchia non può ormai più essere solo quello di «sentinella» della NATO sul confine orientale del Mediterraneo, come eravamo abituati a pensare all’epoca del confronto bipolare e neppure quello, ancora una volta di guardiano, che tiene sotto controllo le ambizioni dell’Iran degli ayatollah. E addirittura, in senso più lato, la sempre inquieta regione che va dal Golfo Persico alla costa mediorientale del Mediterraneo. Neppure la formula «zero problemi con i vicini», sembra funzionare più, perché di problemi, negli ultimi anni, ne sono emersi molteplici (dal «nervo scoperto» delle relazioni con l’Armenia ai rapporti con Israele alla «questione cipriota», che non si riesce a risolvere). Se si parla poi di strategia «neo-ottomana», non ci si vuole riferire certo a una sorta di revanscismo, di ambizioni neo-imperiali, ma più semplicemente sta a significare il riconoscimento del ruolo storico — e geografico — che rende la Turchia, oggi come ieri (oggi più di ieri, direi) un attore determinante nella costruzione degli equilibri della sponda meridionale del Mediterraneo, del Medio Oriente e degli stessi, sempre inquieti, Balcani. Inevitabilmente la crisi siriana, a cominciare dal dramma di centinaia di migliaia di profughi ai suoi confini, ha finito con il coinvolgere la Turchia sul fronte opposto a quello di Teheran, con Ankara che sostiene i ribelli antigovernativi — in maggioranza sunniti — e l’Iran sciita schierato invece con il regime di Assad. E proprio la Siria ha significato anche una nuova e pericolosa frattura con i curdi, soprattutto con l’ingresso prepotente delle milizie dello Stato islamico sulla scena. Proprio i rapporti con i curdi vengono analizzati in tutte le loro sfaccettature geopolitiche e militari sul terreno, tanto più che Ankara, più che lo Stato islamico (pur avendo aderito recentemente alla coalizione anti-ISIS a guida americana), sembra temere la nascita di uno Stato curdo-siriano completamente indipendente, che potrebbe portare le province del Kurdistan turco a una secessione. In questo groviglio di tensioni e difficoltà, la Turchia si sta trasformando in un vero e proprio hub energetico, uno snodo chiave per veicolare le risorse energetiche del Caspio e del Caucaso verso l’Europa. In conclusione, scrive nel suo denso contributo: «Dunque, tutt’altro che chiusa in un angolo, la Turchia sta ritagliandosi un nuovo ruolo strategico sulla scena geopoli-
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tica mondiale e, in particolare su quella del Mediterraneo. Un ruolo certo non facile, e per molti versi ancora in fase di definizione, con confini non precisamente determinati». E l’Italia, qual’é il suo ruolo nel Mediterraneo? L’Italia è il Paese della riva Nord più interessato alla pace e alla stabilita della regione, ci ricorda Paolo Casardi ne «Gli interessi strategici Italiani nel Mediterraneo e le loro esigenze di sostegno e protezione». Per lo stesso motivo l’Italia è anche il Paese che si trova in questo momento più al centro delle conseguenze crescenti della forte instabilità della riva Sud nonché lo Stato europeo che più si sta adoperando sul piano diplomatico per trovare delle soluzioni plausibili. Tanto più che il terrorismo internazionale anziché estinguersi (vi ricordate la War on Terror di bushiana memoria?) si è coagulato nelle milizie jihadiste aderenti al sedicente Califfato, finendo per proliferare nella strategica penisola del Sinai e nel caos libico, funestato dalla guerra per bande (l’emirato di Sirte è alle nostre porte di casa!), mentre le «primavere arabe», a parte uno o due casi, hanno vissuto involuzioni a dir poco preoccupanti. Il tutto mentre si moltiplicano in maniera esponenziale gli arrivi dei «disperati» che fuggono da guerre/guerriglie varie verso l’agognata salvezza europea. Se soluzioni immediate non si intravedono né sul piano politico né su quello militare, l’Italia, suggerisce l’Autore, in un ampio e articolato discorso, in sede internazionale potrebbe farsi parte attiva nel promuovere una delle più vaste operazioni diplomatiche del dopoguerra. Una sorta di Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Mediterraneo, che riesca a coinvolgere, con spirito costruttivo e operativo, sia gli attori regionali che globali. «Non è la prima volta che ci si pensa, certo — riconosce Casardi, ma se — negli anni passati si trattava di una buona idea, oggi comincia a diventare l’ultima speranza»!
«Mediterraneo, ponte tra Roma e Pechino» IL SOLE 24 ORE, 18 OTTOBRE 2015
Le relazioni bilaterali tra la Repubblica italiana e la Repubblica popolare cinese festeggiano i primi 45 anni, essendo formalmente partite il 6 novembre 1970, come ci ricordano sul quotidiano in pa-
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Che cosa scrivono gli altri
rola l’articolo di Nicola Casarini e Rita Fatiguso nonché l’intervento dello stesso ambasciatore cinese a Roma, Li Ruiyo. L’anniversario coincide con un momento particolarmente propizio dei rapporti tra i due Paesi, se pensiamo che l’ammontare del commercio ha raggiunto lo scorso anno i 48 miliardi di dollari (una somma 400 volte superiore al valore degli scambi commerciali al momento dell’allacciamento delle relazioni diplomatiche), senza dimenticare come Beijing sia il principale partner commerciale dell’Italia in Asia, mentre per l’Italia è per la Cina il quinto in Europa. In una prospettiva che si presenta peraltro favorevole a ulteriori e sostanziali sviluppi. Il Mediterraneo, con al centro l’Italia, è infatti il punto d’arrivo della strategia cinese della Nuova Via della Seta marittima enunciata dal presidente Xi Jinping nel novembre del 2013. Attraverso il lungimirante progetto One Belt, One Road, che comprende — ricordiamo — anche una via della seta terrestre a fianco di quella marittima (http://www.xinhuanet.com/english/special/silkroad/ e http://www.ecfr.eu/page/-/China_analysis_belt_road.pdf ), Pechino si prefigge di aumentare la connettività e gli scambi con un’area del mondo che attraversa 65 Paesi e totalizza il 65% del Pil mondiale, il 70% della popolazione e il 75% delle riserve energetiche. Un progetto per cui la Cina ha stanziato la somma astronomica di 1.4 trilioni di dollari nei prossimi decenni, attraverso lo strumento finanziario della Banca asiatica per gli investimenti infrastrutturali (AIIB) alla quale l’Italia, insieme a Germania, Francia e Regno Unito, ha aderito come socio fondatore. E mentre i nostri due Autori si diffondono a contabilizzare gli investimenti cinesi in Italia, nell’intervento dell’ambasciatore il discorso sale di tono, da quello prettamente economico-finanziario al piano politico. «I due Paesi in qualità di partner strategici globali rispettano ciascuno le scelte di sviluppo della controparte, tengono in considerazione le rispettive preoccupazioni e mantengono
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stretti contatti e coordinamento nelle problematiche regionali e internazionali, ponendosi come modello nell’ambito delle relazioni diplomatiche tra la Cina e i Paesi europei. In questi 45 anni la Cina e l’Italia sono diventati partner che condividono vantaggi e guadagni (…) per costruire l’avvenire è necessario che traiamo le conclusioni dall’esperienza di questi quarantacinque anni trascorsi e che apriamo margini ancora più vasti per lo sviluppo futuro della cooperazione bilaterale». E chissà se, nella kermesse delle manifestazioni ufficiali in corso, qualcuno si sia poi ricordato che il «primo» trattato tra il Regno d’Italia e il Celeste Impero venne firmato, quel lontano 26 ottobre 1866, da un ufficiale della Regia Marina, munito delle credenziali di ministro plenipotenziario, il trentaseienne capitano di fregata Vittorio Arminjon (1830-1897), comandante della pirocorvetta Magenta (che il 25 agosto aveva già firmato un analogo trattato col Giappone). Una doppia operazione negoziale, definita «abile e perspicace», che ottenne il più vivo apprezzamento e plauso dell’allora ministro degli Esteri, Emilio Visconti Venosta, in quanto «eseguita con tanto vantaggio e decoro del nome italiano».
«Il Canale dei Due Mari»
La stampa quotidiana (in particolare Il Giornale, Libero, Il Giornale di Calabria, La Gazzetta del Sud) hanno illustrato recentemente (tra la fine di agosto e i primi di ottobre) il progetto del «Canale dei Due Mari» che dovrebbe tagliare letteralmente in due la Calabria nel suo punto più stretto, quei 37 km cioè del cosiddetto istmo di Catanzaro, tra Lamezia Terme e Squillace, con un costo compreso tra i 7 e 9 miliardi di euro. Il canale navigabile, di dimensioni tali da ospitare il transito nei due sensi di navi cargo e da crociera, si propone di avere grosse ricadute sulla
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Che cosa scrivono gli altri navigazione, evitando la circumnavigazione della Calabria attraverso lo Stretto di Messina o il Canale di Sicilia per passare dal Tirreno allo Jonio e all’Adriatico e viceversa, facendo così risparmiare, secondo il progetto, alle navi in transito tra le 13 e le 16 ore di navigazione che, tradotte in «soldoni», significherebbe una minore spesa tra i 150 e 190.000 €. Ma non basta. In quello che possiamo definire «un progetto alla cinese» (e al riguardo pensiamo al progetto del canale di Kra attraverso il punto più stretto della penisola malese, di cui abbiamo recentemente parlato su queste pagine) si prevede anche la costruzione di due nuove città. Alla duplice imboccatura del canale infatti, sia sul versante tirrenico che su quello ionico, dovrebbero sorgere due nuovi agglomerati urbani, dai nomi carichi di storia Neotalassopolis e Neoeliopolis cioè La Nuova Città del Mare e la Nuova Città del Sole, in ricordo quest’ultima del filosofo Tommaso Campanella (1568-1638) e della sua più celebre opera utopistica, La Città del Sole appunto. Il tutto in linea col citato progetto cinese che prevede, alle due estremità del costruendo canale di Kra, la costruzione di due città portuali che farebbero da volano, secondo gli intendimenti di Beijing, allo sviluppo economico e sociale dell’intera regione. La stampa ha accolto la notizia della costituzione notarile del Comitato promotore del canale navigabile con una certa
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curiosità, venata invero da un certo scetticismo, in quanto non si intravede, almeno per ora, pur dopo la presentazione del progetto alle autorità regionali e governative, quale possa essere il soggetto, auspicabilmente pubblico-privato, che possa accollarsi un’opera del genere con strumenti finanziari adeguati. E, all’uopo, si rispolverano gli analoghi progetti del passato che risalgono, rispettivamente, al 1887 e al 1936, a seguito dei quali però non si arrivò a nulla di fatto. Eppure vi immaginate quali sarebbero stati i vantaggi strategici per l’Italia di poter disporre di un simile canale navigabile durante la battaglia dei convogli che imperversò nel Mediterraneo durante la seconda guerra mondiale? Un’altra «utopia» nella terra del filosofo di Stilo che dal suo monumento, serio e pensoso, sembra voler considerare con circospezione tutta la vicenda, proprio lui che si era sempre proposto, durante la sua vita terrena, di «debellare tre mali estremi: tirranide, sofismi e ipocrisia?». Speriamo che non si arrivi ancora una volta — ricordiamo — a quanto già successe nello Stato della Chiesa nell’Ottocento, laddove agli ingegneri francesi che proponevano, in maniera futuribile, una mega-struttura portuale che abbracciasse l’intera area marittima Civitavecchia — Santa Marinella, papa Pio IX rispose:«Siamo troppo piccoli per un’opera così grande!». Ezio Ferrante
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Recensioni e segnalazioni Vincenzo Grienti Leonardo Merlini
NAVI AL FRONTE La Marina italiana e la Grande Guerra
Edizione Mattioli 1885 2015, pp. 150, Euro 15,00
Un agile e brillante volume di 150 pagine, dovuto a Vincenzo Grienti e a Leonardo Merlini costituisce una delle novità più interessanti del panorama librario italiano del momento. Intitolato Navi al fronte. La Marina italiana e la Grande guerra, è frutto di un connubio felice tra un giornalista esperto di comunicazioni sociali e un ufficiale di Marina conoscitore di tecnica e archivi: giovani entrambi, hanno centrato un obiettivo difficile come la divulgazione della storia senza tradimenti e senza fronzoli devianti. Nella presentazione gli Autori si sono ripromessi di raccontare con linguaggio semplice fatti ed eventi poco noti che attengono al conflitto navale allo scopo di farne comprendere lo svolgimento e il senso al grande pubblico: non si può certo negare che vi siano riusciti in pieno, come non si può negare che il compito fosse tutt’altro che semplice. Capire fino a dove l’interesse e la cultura del lettore comune, che non è un professionista della storia e non è disposto a sacrificare tempo e attenzione in misura sproporzionata alla conoscenza — o anche solo all’informazione — di episodi e vicende lontani nel tempo e tuttavia considerati meritevoli di un certo livello di interesse, non è alla portata di tutti. Occorre essere abbastanza padroni, o almeno intuire, le tecniche della comunicazione ed essere capaci, nella scelta dei temi specifici, di attirare l’attenzione del lettore e mantenerla viva sino all’esaurimento dell’argomento, così che la lettura propizi l’ac-
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quisizione non dei particolari, ma del significato e della evoluzione dell’evento sino alla sua conclusione. Si tratta di 11 capitoli, accuratamente selezionati per il loro significato, che vale la pena elencare di seguito: La guerra navale in Adriatico; Paolo Thaon di Revel; La difesa di Venezia e del patrimonio culturale italiano; La difesa costiera e i treni armati; Lo sbarramento del Canale d’Otranto; La guerra subacquea della Regia Marina; MAS, Grilli, Locuste e Mignatte; Ali sul mare nella Grande Guerra; Marinai in grigioverde; Il salvataggio dell’Esercito serbo; La regia Marina e le navi-asilo. Un quadro molto ampio, in parte anche inedito, della vicenda bellica marittima e delle sue implicazioni. Buone sono anche le indicazioni bibliografiche e delle fonti, che rivela una sicura conoscenza della metodologia di ricerca. Vorrei citare l’ultimo capitolo, che si riferisce alla destinazione di alcune navi ad «accogliere trovatelli, orfani, figli di pescatori morti in guerra o in mare a seguito di naufragio e giovani carcerati che avevano bisogno di un’educazione». Furono queste le navi-asilo che accolsero ragazzi e bambini a Genova, Bari, Venezia e Napoli, togliendoli dalla strada e dai suoi pericoli, per educarli alla cultura del mare. Non vi furono così in Italia, neanche come conseguenza di situazioni particolarmente disperate, quei ninos da rua che senza interventi si sarebbero potuti produrre. Sottratti alla fame e al rischio dello sfruttamento criminale, i minori trovarono volenterosi educatori che insegnarono loro, ospitati sulle vecchie imbarcazioni, un mestiere e una istruzione primaria. Fu questa un’opera di solidarietà umana, generalmente poco o nulla conosciuta, che la Marina condusse e realizzò senza strepito, come suo costume, ma con efficacia e costanza. Gli altri capitoli sono più strettamente attinenti al conflitto, di cui colgono momenti e figure essenziali, che gli Autori riescono a descrivere bene, in una prosa snella e accattivante che si fa leggere da chiunque e che appare idonea a trasmettere nozioni e concetti con semplicità. È assente il controproducente trionfalismo di altri testi, che volendo imprimere nel lettore i sentimenti di chi scrive,
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Recensioni e segnalazioni lo allontanano e ne minano l’interesse. Purtroppo è ancora comune — talvolta penosamente istituzionalizzata — nelle menti più arretrate del nostro Paese la confusione tra storia e propaganda, non a livello subliminale ma a livello di chiacchiere, come quando le plebi incolte, secoli fa, potevano prestarvi fede. Revenons à nos moutons: aiuta a capire l’importanza del lavoro di cui si tratta un confronto tra le opere «scientifiche» di storia, che si fregiano del viatico dell’Accademia ma hanno una circolazione limitata, e quelle di «divulgazione», che sono molto più lette e formano l’opinione pubblica. Mi sembra attinente affliggere il lettore con un ricordo personale di gioventù: avevo terminato per l’Archivio economico dell’Unificazione italiana, diretto da Carlo Cipolla, un lavoro di storia economica marittima sull’industria dell’armamento in uno stato preunitario, corredato da tali e tante note che certe pagine del libro recavano solo una riga di testo, assorbite quasi completamente dalle note; Cipolla disse: «Scientificamente perfetto, non lo leggerà nessuno». È un rischio che Grienti e Merlini non corrono, pur avendoci dato un elaborato esemplare che si fa leggere con piacere ed è godibile da chiunque, perfino in treno, lasciando nella memoria del lettore qualche cosa di serio e di utile da serbare nella memoria. A quando un nuovo contributo? Mariano Gabriele
Paul Kennedy
ENGINEERS OF VICTORY The Problem Solvers who Turned the Tide in the Second World War
Penguin Books 2014, pp. 436, UK£ 9,99
Questo è un libro di storia della seconda guerra mondiale, ma una storia riguardata da un’angolazione del tutto particolare: si tratta di un’indagine alla scoperta di soluzioni di singoli problemi (e dei loro solutori) che
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hanno impresso delle svolte importanti e talvolta decisive alle vicende belliche. Pur effettuando comunque un’amplissima e dettagliata narrazione di eventi, e beninteso senza certo sottacere o sminuire il ruolo che vi ebbero, per esempio, l’impiego massiccio dei bombardieri della RAF e della USAAF, o dei «T-34» dell’Armata Rossa, o le imprese anfibie dei Marines statunitensi, l’Autore va alla ricerca di altre concause, talvolta trascurate, le quali improntarono di sé una storia tanto complessa e articolata che, pur essendo stata oggetto di analisi pressoché infinite, ancora può presentare angoli oscuri da illuminare. Queste concause, o diciamo contributi perfino determinanti, vanno associati a singoli individui o minuscoli gruppi (in genere, centri di ricerca), sia civili sia militari, che posero i responsabili politici e militari di vertice nelle condizioni di conseguire successi significativi e, in ultima analisi, di vincere la guerra. Queste concause e contributi l’Autore li colloca, in particolare, negli anni a suo avviso decisivi per l’esito dello scontro, cioè intorno alla metà della durata temporale del conflitto. Kennedy, che è un autorevole storico militare di origini e scuola britanniche ma attualmente professante a Yale, ha soffermato la sua attenta indagine su cinque grandi scenari, che formano appunto i cinque capitoli di cui si compone l’opera, invero complessa e ponderosa (436 pagine scritte in caratteri molto piccoli e fitti). Il punto di partenza dell’analisi di Kennedy è fissato alla Conferenza di Casablanca del gennaio 1943, nel corso della quale furono confrontate e armonizzate le filosofie strategiche delle Potenze alleate; e si conclude all’estate del ’44, quando ormai la strada verso la vittoria finale sull’Asse appariva sicuramente tracciata. Dunque, i cinque àmbiti d’indagine, riguardanti le cinque grandi sfide sostenute e vinte dagli Alleati le quali formano la materia dei densi e corposi capitoli del libro, sono: 1. come far sì che i convogli attraversino l’Atlantico in sicurezza; 2. come conquistare il dominio dell’aria; 3. come bloccare un Blitzkrieg; 4. come impadronirsi di una costa tenuta dal nemico; 5. come sconfiggere la «tirannia della distanza». Come si vede, sfide non da poco!
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Recensioni e segnalazioni Il capitolo sulla guerra dei convogli in Atlantico immagino ovviamente che sia di particolare interesse per i lettori della Rivista Marittima (come del resto il quarto, sulle operazioni anfibie), e ciò anche per la minuziosa rievocazione delle sue varie fasi, che ebbero un andamento ondivago. Kennedy, senza certo sminuire l’importanza della colossale superproduzione cantieristica degli Stati Uniti, una volta che questi furono entrati nel conflitto, esprime l’avviso che sbaglino gli scrittori che attribuiscano esclusivamente a tale fattore l’origine del successo alleato. Certo, esso ebbe un peso enorme; ma l’Autore insiste proprio sul fatto che non fu il solo, in quanto piuttosto fu l’appropriato impiego (proper application) delle risorse disponibili, suggerito da quelli che chiama Engineers of Victory, a essere la carta vincente. Sottolinea in particolare la realizzazione e adozione e filosofia d’impiego di aerei a lunga autonomia in grado di assicurare a turno la scorta dall’alto dei convogli, per tutto il loro itinerario, tenendo sotto costante controllo le acque interessate. E poi, l’importanza del radar centimetrico, e quindi del connesso ruolo rivestito dal team di ricercatori dell’Università di Birmingham, cui seguirono gli sforzi di quelli dei laboratori della Bell e del MIT. Una rilevanza particolare andrebbe riconosciuta anche alla dotazione, da parte delle unità di scorta, del «porcospino», un mortaio multiplo originato da idee che il Tenente Colonnello Stewart Blacker, membro del fervido Department of Miscellaneous Weapons Development (DMWD) dell’Ammiragliato britannico, avrebbe concepite addirittura… fin da ragazzo! E, più in generale, a un atteggiamento delle forze di scorta molto più aggressivo (cioè di caccia a largo raggio agli «U-Boot») di quanto fosse quello dei primi tempi, piuttosto improntato a stretta difensiva. Di questa nuova impostazione furono apostoli, in particolare, i Comandanti Gretton e Walker, Royal Navy, che conseguirono anche operativamente il maggior numero di prede. Il dominio dell’aria, che consentì i pesantissimi bombardamenti dell’apparato industriale e delle stesse popolose città della Germania, poté essere conseguito non da un singolo wonder weapon, ma — pur fra varie delusioni — fu il risultato del lavoro composito (sui
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piani tattico, tecnico e operativo) di piccoli gruppi di singoli inglesi e americani tesi a risolvere, in particolare, un problema che aveva angustiato per vari anni la concezione del bombardamento strategico: come ottenere una tempestiva consapevolezza dell’indebolimento delle capacità di reazione del nemico onde picchiare su quelle vulnerabilità. Quanto al contrasto al Blitzkrieg, su cui la Wehr macht giocò molte delle sue carte, conseguendo pieno successo nella campagna di Francia ma «stoppata» a Stalingrado e a El Alamein, Kennedy assegna un merito fondamentale ai campi minati, di costo ridotto e di facile impiego. Determinanti furono le decine di migliaia di ordigni disseminati sui due fronti, soprattutto nella Sirte e nel saliente di Kursk, grazie al convincimento circa la loro efficacia maturato da Montgomery e da Zhukov. Quando si parla di grandi operazioni anfibie, il pensiero va immediatamente allo sbarco in Normandia; ma anche al disastro di Gallipoli. La riconquista del Madagascar e lo sbarco in Marocco — Operazione Torch — non fanno testo, dato che in pratica non vi fu alcuna opposizione convinta ed efficace delle forze francesi pétainiste. Formidabile fu invece la fulminea conquista germanica della Norvegia, che lasciò quasi sbalorditi gli Inglesi. L’attacco alla Sicilia, effettuato con uno strumento militare gigantesco, ha poca storia, perché il Governo italiano era già politicamente vacillante. Poi ci furono le semi-fallimentari operazioni di Salerno e di Anzio, dove il pugno di tedeschi frettolosamente rischierato da Kesselring inchiodò a lungo quasi sulla battigia gli attaccanti alleati, come sempre numericamente e tecnicamente strapreponderanti. Anche se si trattò, in sostanza, di operazioni minori, pur la loro analisi servì di ammaestramento per Eisenhower e i suoi nella preparazione dell’invasione anglocanado-americana della Francia del giugno 1944. Ci si era resi conto che chiave di volta doveva essere il comando e controllo. Ognuno dei capi militari fece il proprio gioco in armonica intesa interalleata; ma Kennedy tiene ancora una volta a sottolineare il ruolo ricoperto da un singolo individuo, a rather modest British naval officer: Bertram Ramsay, già segnalatosi per l’efficacia
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Recensioni e segnalazioni della sua gestione dell’imbarco a Dunkerque, poi pianificatore dell’operazione Torch e dello sbarco in Sicilia. A 61 anni suonati, egli fu il Comandante in Capo delle forze navali alleate nel mare della Normandia. La pianificazione della parte di sua competenza anche questa volta fu magistrale. Almeno un particolare va sottolineato: l’importanza riservata alle operazioni dei dragamine. Sfortunatamente Ramsay doveva perire poco dopo il successo del D-Day che aveva tanto contribuito a generare, in un incidente aereo. La «tirannia della distanza» si risentì soprattutto nelle sterminate distese del Pacifico. Qui va sottolineato l’addebito che l’Autore muove agli strateghi nipponici di non aver saputo sfruttare assennatamente la propria Marina Mercantile: a riprova che questa è sempre e comunque fattore irrinunciabile del Potere Marittimo. Tantissimo altro vi sarebbe da riferire e valorizzare di questo libro, veramente illuminante. Mi piace, però, almeno di porre in evidenza che Paul Kennedy esprime sempre grande rispetto per gli strateghi e soprattutto i soldati della Wehrmacht; e che — legittimamente e comprensibilmente — tende a porre in speciale evidenza il determinante contributo degli strateghi, dei soldati e dei tecnici e ricercatori civili britannici alla vittoria finale degli Alleati. Renato Ferraro
John Jordan Jean Moulin
FRENCH DESTROYERS Torpilleurs dÊEscadre &Contre-Torpilleurs 1922-1956
Seaforth Publishing 2015, pp. 296, S.I.P.
Se dovessi assegnare il titolo di libro navale dell’anno, collocherei senz’altro questo volume, dedicato agli esploratori e ai cacciatorpediniere francesi entrati in servizio tra le due guerre, sul podio più alto. Veste tipografica superba e di ampio formato, fotografie in
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bianco e nero nitidissime, ben stampate e spesso inedite. Disegni (di John Jordan) eccellenti e accuratissimi, con abbondanza di dettagli e di riquadri dedicati, in primo luogo, alle armi imbarcate e alle modifiche succedutesi nel tempo. Il testo, infine, è ricco, molto dettagliato dal punto di vista tecnico e progettuale ed estremamente completo dal punto di vista storico, oltre che ricco di particolari mai rivelati prima. Insomma, un dieci e lode senza appello. Cinque anni fa lo stesso John Jordan aveva recensito in termini entusiastici sulle pagine di Warship, di cui è il direttore, il noto volume del comandante Erminio Bagnasco e di Augusto De Toro dedicato alle navi da battaglia italiane della classe «Littorio», rimpiangendo il fatto che in Gran Bretagna non era disponibile alcunché di simile. Oggi ci sono arrivati e questa magnifica competizione non può che promettere bene. In effetti le caratteristiche editoriali delle scuole di storia navale italiana, francese e britannica erano, fino a poco tempo fa, ben definite. Da noi, sull’onda dei celebri volumi dell’Ufficio Storico della Marina Militare pubblicati dal 1960 in poi e dedicati alle «Navi d’Italia», si sono curate molto le immagini (disegni e fotografie) e la veste editoriale, solida e shipshape, cercando una sorta di equilibrio tra la parte tecnica e quella relativa all’attività del naviglio. In Francia sono partiti appena negli anni Ottanta allargando notevolmente, rispetto all’Italia, le descrizioni tecniche (spesso tratte direttamente dai libri matricolari) a discapito di quelle operative, peraltro giudicate spesso poco o punto appetibili da parte del pubblico o, addirittura, impresentabili, date le vicende tutto sommato forzatamente minori affrontate dalla Marine Nationale durante i due conflitti mondiali rispetto alle ben più ricche storie vantate, in quelle stesse occasioni, dalle flotte inglese, italiana e tedesca, per tacere di statunitensi e giapponesi e della sempre delicatissima, lunga stagione di collaborazione di Vichy. In Gran Bretagna si è campato, infine, di rendita per mezzo secolo servendo a mezzo (con dignità, ma in maniera comunque insufficiente) tutte e tre le componenti: iconografica, tecnica e storica fino a quando l’esempio italiano si è imposto anche oltremanica (e oltre oceano) sulla semplice base delle copie vendute, o meno.
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Recensioni e segnalazioni Mario Romeo
A ben pensarci, una volta sommati ai disegni e alle profonde ricerche d’archivio di Jordan (un inglese con il «pallino» della Marina francese, cui ha dedicato nei decenni oltre un centinaio di articoli, classe per classe, sulle maggiori testate mondiali del settore), la ricca collezione iconografica e la conoscenza dettagliatissima di navi e uomini d’oltralpe di Jean Moulin, il risultato finale non poteva che essere spettacolare. L’ottima casa editrice inglese Seaforth, leader nel proprio campo, ha però voluto scialare ed è così nato un volume strenna di ampio formato (ma ancora maneggevole) ottimizzato per la miglior resa delle fotografie. Scritto in un inglese agile e scorrevole, il lettore è messo nella condizione di scoprire, studiando con calma questo volume, una quantità di notizie curiose e non peregrine. Per esempio il fatto che sui grandi esploratori della classe «Mogador» entrati in servizio nel 1939 (e propagandati per essere molto avanzati anche sotto il profilo sociale e del benessere della gente, dato l’influsso del Fronte Popolare) i comuni avevano meno di 2 mq di spazio per le loro amache e per gli effetti personali mentre l’alloggio ammiraglio sulla nave eponima e sul gemello Volta (dedicato ad Alessandro Volta in omaggio ai tempi Napoleonici e alla intesa italo-francese del 19311936) misurava 42 mq. Anche le cucine e le mense erano differenti (sottraendo così spazio prezioso che sarebbe stato meglio destinare a ben altre necessità) e distinte e replicate tra ufficiali superiori e inferiori, sottufficiali di 1ª e 2ª classe e, infine, i graduati e i comuni. Date queste sperequazioni da corte degli Zar, c’è poco da stupirsi davanti agli ammutinamenti che si verificarono, il 6 luglio 1940, a bordo dei supercaccia Epervier e Milan. Non mancano poi episodi inediti come uno scontro con MAS italiani verificatosi la notte sul 21 agosto 1943 davanti a Scalea, in Calabria. Unico neo del libro (minimo e, come diceva l’ammiraglio Da Zara, attributo di bellezza), il velocissimo disinteresse degli autori per le vicende dei caccia già francesi armati, nel 1943, dalla Regia Marina. Si tratta di una scelta peraltro comprensibile, dato il pubblico cui l’opera è in primo luogo diretta.
Il volume tratta le complesse vicende della Marina degli Stati Uniti durante la lunga «amministrazione» Truman (parte I) e la successiva amministrazione Eisenhower (parte II) e quindi del periodo dello sviluppo iniziale della Guerra Fredda con il suo acme nella guerra in Corea. Partendo dalla situazione postbellica del 1945, senza trascurare gli importanti esperimenti nucleari di Bikini, viene descritto il declino numerico ed in parte strategico delle forze navali americane sino al 1950. Nel successivo capitolo 5° l’A. descrive la composizione della Flotta Statunitense di quegli anni, classe per classe, dalle portaerei alle grandi unità anfibie e ausiliarie fornendo al lettore un panorama molto apprezzabile dello sviluppo della Forza Armata attraverso i molti programmi di rimodernamento e di nuove costruzioni impostati da Washington. Il successivo capitolo è dedicato alla minuziosa descrizione dell’Aviazione Navale americana del periodo indicando le caratteristiche più significative dei velivoli in servizio. La seconda parte del libro è organizzata nello stesso modo con un ampio capitolo sugli avvenimenti politici degli anni Cinquanta in cui la Navy viene ad avere un ruolo sempre più significativo e un amplissimo capitolo dove sono descritti con molti particolari i mezzi navali e aerei. Certamente importanti sono le descrizioni delle nuove portaerei, dello sviluppo delle unità missilistiche e infine dei sottomarini nucleari. Ogni capitolo è seguito da una buona bibliografia, che permette alla studioso di allargare il suo panorama informativo e le due appendici, una sulle artiglierie e siluri e l’altra sui missili, completano un lavoro certamente apprezzabile e sufficientemente sintetico per chiunque voglia comprendere cosa sia stata la Marina Americana nella storia recente.
Enrico Cernuschi
Pier Paolo Ramoino
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LA U.S. NAVY NEGLI ANNI DELLA GUERRA FREDDA Volume 1o (1945-1960)
Edizioni Youcanprint 2014 pp. 266 Euro 12,00
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Il regime giuridico delle navi da guerra affondate 10
Natalino Ronzitti