Religion Today - REC 2019

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REC RELIGIONI E CINEMA N°1 / ANNO X / 2 OTTOBRE 2019 COPIA OMAGGIO RELIGION TODAY FILM FESTIVAL www.religionfilm.com

SOMMARIO

DENTRO IL FESTIVAL Le novità 2019 p. 2

VISIONARI Creatività, dalla carta allo schermo

IL TEMA DELL’ANNO Mission, dalla chiesa all’impresa SGUARDI INCROCIATI Contributi dal Tavolo Locale delle Appartenenze Religiose L’ANNIVERSARIO Sulle tracce di San Francesco e il sultano p. 5

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SPIGOLATURE Il cinema on the road

pp. 8-11

MOVIES THAT MATTER Denuncia, diversità e diritti

pp. 12-14

pp. 4-5

GENTE DA FESTIVAL In giuria, in redazione

pp. 15-16

pp. 6-7


DENTRO IL FESTIVAL

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REC • RELIGIONI E CINEMA / N°1 / ANNO X / OTTOBRE 2019 RELIGION TODAY FILM FESTIVAL www.religionfilm.com

IL TEMA DELL’ANNO EDITORIALE LE NOVITA 2019

DALLA CHIESA ALL’IMPRESA – E RITORNO COM’È CAMBIATO IL CONCETTO DI “MISSIONE”

la redazione Una giuria di alto profilo, che rappresenta tre continenti, e 58 film in concorso, provenienti da 34 paesi e selezionati tra più di 1700 iscrizioni: questi sono i numeri che esprimono il ruolo che oggi riveste il Religion Today Film Festival a livello internazionale, confermando un prestigio in rapida espansione (le iscrizioni al concorso nel 2018 erano state 450). Il Festival giunge quest’anno alla sua XXII edizione, a titolo “Mission”: missione e volontariato. «Una tematica scelta – come spiega il direttore artistico Andrea Morghen – a partire dalla decisione presa da Papa Francesco di indire questo ottobre come mese straordinario missionario. Il Trentino ha inoltre dato i natali a molti missionari, circa uno ogni duemila abitanti, che operano tutt’oggi con grande impegno, così come la popolazione della nostra regione nel suo insieme: circa un trentino su due è attivo in associazionismo e volontariato». Religion Today dunque non intende essere ‘solo’ un concorso cinematografico, ma una vera e propria esperienza di condivisione, scoperta e confronto. Globalizzazione, movimenti migratori, nuovi e vecchi conflitti, rivendicazioni identitarie e tutela delle minoranze sono alcune delle principali questioni che verranno affrontate durante la settimana del Festival con l’aiuto degli stessi missionari trentini, ovvero coloro che hanno incontrato, conosciuto e vissuto sulla propria pelle tanti di questi cambiamenti ed esperienze umane. Presenti durante le proiezioni e in eventi organizzati ad hoc, potranno incontrare i cittadini, raccontare le loro esperienze, commentare i film e ragionare assieme sulle sfide del nostro tempo. L’inaugurazione del Festival è fissata per il 2 ottobre, una data non casuale, che corrisponde all’anniversario dei 150 anni dalla nascita di Mahatma Gandhi: un vero e proprio simbolo della scelta di fare della propria vita una missione. Sarà l’inizio di una settimana dedicata alla scoperta dell’altro, all’incontro, alla conoscenza, ma soprattutto alla rimozione dei pregiudizi e delle paure: una festa delle diversità come ricchezza e valore. Tutto ciò è reso possibile grazie alle numerose collaborazioni e al fondamentale sostegno della Provincia autonoma di Trento, della Regione Autonoma Trentino Alto Adige, del Comune di Trento e della Fondazione Caritro. Proprio la sede trentina della Fondazione, nelle giornate del Festival, ospiterà tra l’altro la mostra “Giovani sulle rotte del cinema”, con le foto realizzate dai ragazzi di Religion Today in Bangladesh e Nepal (fotografie a lato). Il calendario delle proiezioni, che si svolgeranno principalmente presso il Teatro San Marco di Trento, si arricchisce di due serate al Cinema Modena e di appuntamenti sul territorio, a Pergine Valsugana, Arco e Rovereto. Numerosi anche gli eventi speciali, le contaminazioni artistiche, i momenti di approfondimento e le attività per le classi, che come sempre potranno incontrare ospiti di diverse provenienze culturali e religiose, discutere film pluripremiati e anteprime, ‘respirare’ l’atmosfera di un festival internazionale; un’opportunità che da Trento si estende a Pergine e Borgo Valsugana, Arco e, per la prima volta, Mezzolombardo. Al mondo della scuola si collega anche la piccola storia di questa rivista, che oggi festeggia il suo decimo compleanno. Un vivo ringraziamento all’Istituto Sacro Cuore e a tutti i giovani (e meno giovani) collaboratori e collaboratrici che in questi anni ci hanno regalato recensioni e interviste, ‘visioni’ grafiche e commenti; e grazie alle spettatrici e agli spettatori che ancora una volta vorranno attraversare il Festival anche sfogliando le pagine del nostro giornale.

di Katia Malatesta Per il cinefilo, “Mission” (in originale: “The Mission”) è senza esitazioni il titolo del film diretto da Roland Joffé nel 1986, vincitore della Palma d’oro al 39º Festival di Cannes (locandina in basso). Nell’immaginario contemporaneo, però, a quel suggestivo racconto di missionari gesuiti e indios Guaraní nella provincia argentina di Misiones si accavallano le pervasive declinazioni di un concetto che nel tempo ha subito un notevole slittamento di significati. Lo conferma Marco Ventura (foto a destra), prof. ordinario di Diritto Canonico e Diritto Ecclesiastico all’Università di Siena e Direttore del Centro per le Scienze religiose della Fondazione Bruno Kessler (FBK-ISR), che anche quest’anno accompagna Religion Today nell’esplorazione a vasto raggio dei rapporti tra religioni e società. Professor Ventura, il termine “missione” è entrato con forza nella lingua della diplomazia, della tecnologia, della scienza. Con quali connotazioni? Possiamo senz’altro parlare di un’estensione, di un’espansione dell’uso, che può essere vista come una delle forme di secolarizzazione di una memoria religiosa. In una società più che mai alla ricerca di una direzione, “missione” è una parola che mantiene un suo fascino, depurato però da quegli aspetti per cui una società secolarizzata prova imbarazzo. Allo stesso tempo, che si parli di un ambizioso progetto scientifico o di un difficile percorso diplomatico, del trattato di pace o della scoperta brevettabile, si insiste sulla concretezza, sulla realizzabilità che accompagnano il bisogno di senso: l’idea di missione dischiude un grande orizzonte che tuttavia rimane in qualche modo verificabile e controllabile, mondano, immanente, pienamente leggibile appunto nel solco della secolarizzazione. Anche le imprese non possono più prescindere dal mission statement che giustifichi la loro stessa esistenza e le distingua rispetto a tutte le altre. Proprio nell’ambito del brand, della commercializzazione dei prodotti, la secolarizzazione del religioso appare più evidente: c’è un ‘invisibile’ all’opera, quell’invisibile che io vendo e che rende il mio prodotto interessante, anche se oggi la fede nel prodotto e nel mercato nelle sue forme tradizionali

sarebbe in crisi, come suggerisce Marco Missiroli nel suo romanzo Fedeltà. Il brand conferisce all’oggetto qualcosa di più: la missione aziendale evoca la mobilitazione delle energie, delle risorse, la collaborazione, la costruzione di microcosmi che funzionano al contrario di società sempre più disgregate, sempre più inefficienti. Un buon esempio, nel tempo dello sviluppo sostenibile, è la scelta della Coca-Cola di crearsi una reputazione facendo sostenibilità: in un certo senso possiamo definirlo un esercizio di spiritualità, mediato certo da tecniche di persuasione che peraltro sono elementi presenti anche nella religione tradizionale. Si tratta al contempo di un superamento del religioso e di una reinvenzione, di una perpetuazione del religioso: sbaglierebbe chi cantasse vittoria in nome di una visione ateistica, di auspicata secolarizzazione. Anche nell’ambito delle religioni tradizionali il concetto di missione sembra aver subito un’evoluzione importante. È così? Da un lato va detto che l’accezione secolarizzata della missione non resta confinata nel mondo della aziende, ma trova espressione anche nelle religioni: non dico che anche il gruppo parrocchiale oggi debba fare il piano strategico, ma è certo che le regole della razionalità organizzativa contemporanea si applicano ad ogni settore della vita delle religioni. D’altra parte si può parlare di una significativa ridefinizione del concetto di missione da parte di chi si percepisce come religioso, appartenente ad una tradizione, e deve fare i conti con una crisi del modello del proselitismo. Ci sono religioni che non sperimentano questa difficoltà, ma il cattolicesimo contemporaneo è sicuramente in transito da un proselitismo attivo all’insegnamento di un papa che dice esplicitamente: non dobbiamo convertire. Qual è quindi la direzione suggerita dai discorsi di Papa Francesco? Si può parlare di un’idea di missione che si fa meno specializzata e più generalista. In età moderna, la missione coincideva con l’evangelizzazione dell’infedele, del pagano, in collegamento con la presunta “missione civilizzatrice” del colonialismo. Per questa funzione la Chiesa si era organizzata, creando appunto corpi specializzati, come la compagnia di Gesù, per definizione una creatura di questo processo. Oggi invece la missione non si presenta più come un’opera specializzata di un ceto specializzato. Per Papa Francesco nessuno può permettersi di non essere missionario: la missione diventa strutturante, un modo di essere dell’individuo, delle comunità, della chiesa. In questo senso si delinea anche una analogia tra ‘mondo’ e chiesa, intorno a una definizione di missione meno confinata, meno delimitata, tanto nella società della ricerca, dello sviluppo, della produzione, quanto nella religione tradizionale: anche qui la la missione diventa olistica, onnicomprensiva. In questi anni lei si è impegnato perché anche il Centro per le scienze religiose di FBK si interrogasse sulla propria mission, “comprendere e migliorare il rapporto tra religione e innovazione”. È stata una novità critica, problematica, sfidante: come dire che un centro di ricerca non si definisce nel passaggio da un tema all’altro – quest’anno parlo di violenza e religione, l’anno prossimo di religione e psicologia – ma in una missione che va aldilà dei temi e dà senso ai temi. Qualcosa che non può essere solo osservazione: è ingaggio, impatto e misurazione dell’impatto, grazie agli strumenti straordinari che nella società contemporanea avanzata ci sono messi a disposizione dalla rivoluzione digitale.

missióne2 s. f. [dal lat. missio-onis, der.

di mittere «mandare», part. pass. missus]. – 1. a. Il mandare o l’essere mandato a esercitare un ufficio, a compiere un incarico particolare, per lo più di una certa importanza: andare in m.; mandare in m.; agente in m. speciale. [...]. b. Il compito, l’incarico, il mandato che viene affidato: compiere, eseguire la propria m.; una m. delicata, segreta; essere incaricato di una m. pericolosa; riferire sull’esito della propria m.; [...] M. diplomatica, il complesso delle funzioni che un agente diplomatico, in quanto organo di uno stato, deve svolgere nel corso della sua permanenza nello stato estero presso cui è accreditato; anche, gli organi, i funzionarî, ecc. che esercitano tali funzioni: era presente l’intera m. diplomatica. M. spaziale, l’invio di un veicolo spaziale, con o senza equipaggio, con un ben determinato insieme di compiti scientifici o tecnici: m. lunare, per ricerche riguardanti la Luna; m. a Marte, m. a (o su Marte, su Giove), m. interplanetaria, ecc.; spesso con denominazioni particolari: m. Apollo, m. Viking, ecc. c. Il complesso delle persone mandate in qualche luogo con un incarico particolare: far parte di una m.; l’arrivo di una m. straniera; la m. italiana alla conferenza, al congresso. d. Con senso generico, alto compito, funzione importante, a cui si annette un particolare valore morale: la m. del sacerdote, del clero; la m. degli educatori; la m. dell’assistente sociale. 2. a. Nella storia delle religioni a carattere universalistico, come il buddismo, l’islamismo e soprattutto il cristianesimo, l’incarico di diffondere un messaggio religioso conferito a determinate persone (missionarî) dal fondatore di una religione o da chi ne ha avuto da lui delega o di lui ha la rappresentanza. Nell’uso com., invio di sacerdoti (e di missionarî in genere) in una terra per propagarvi una dottrina religiosa. In partic. l’invio di sacerdoti cattolici a costituire la Chiesa fra gli acattolici (m. estera). b. Il complesso dei missionarî che sono in un luogo per propagarvi una dottrina religiosa, nonché la loro residenza, generalmente fornita di chiesa, scuole, edifici per assistenza e sim.: le m. in Cina; una m. numerosa; trovare asilo in una missione. 3. Per analogia col sign. precedente, m. interne (o missioni al popolo), forme di apostolato che si tengono periodicamente in ogni parrocchia, sia per la conservazione della fede cattolica sia per la conversione degli acattolici, se ancora vi fossero; fare le m., predicare le m., con riferimento ai sacerdoti incaricati di una missione interna. http://www.treccani.it/vocabolario/ missione2/


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SGUARDI INCROCIATI LA MISSIONE NELLE DIVERSE RELIGIONI CONTRIBUTI DAL TAVOLO LOCALE DELLE APPARTENENZE RELIGIOSE La classe 5ª Liceo delle Scienze Umane, Istituto Sacro Cuore di Trento Sorto quasi spontaneamente a partire dal 1996, il Tavolo Locale delle Appartenenze Religiose si è costituito stabilmente il 28 ottobre 2001 come piattaforma di incontro tra le spiritualità, le comunità, le chiese presenti nella realtà territoriale trentina: donne e uomini che credono nella necessità del dialogo e mettono i valori comuni al centro di questa esperienza. ‘Naturale’, quindi, rivolgerci a loro per approfondire da diversi punti di vista il tema dell’anno del Festival e in particolare il concetto di “missione”. Abbiamo potuto raggiungere Franca De Ruvo, don Cristiano Bettega, Salvatore Peri e Marcella Orrù Terranova che hanno risposto alle nostre domande. Le loro parole introducono un percorso di ascolto e conoscenza che nel corso del Festival proseguirà con l’incontro dedicato a “La missione nel mondo islamico”, organizzato in collaborazione con Unione delle Comunità Islamiche d’Italia e Islamic Relief Service Italia per il pomeriggio di martedì 8 ottobre presso la sala Bernardo Clesio (ore 16.00, via Francesco Barbacovi 4), oltre che nel ciclo dei “Caffè col Missionario” in programma al mattino presso la Fondazione Caritro (giovedì 3, venerdì 4, sabato 5, lunedì 7 ottobre, ore 10.00, in via Calepina 1).

LO SGUARDO DI FRANCA DE RUVO Centro Culturale “Vidya” – Pergine Valsugana Come può essere inteso il concetto di “missione” nell’Induismo? Questo concetto nell’Induismo non si trova nello specifico, semmai può essere esteso al Sanatana Dharma, che significa Legge Eterna, Universale: la reale definizione di questa fede, da preferire al termine “induismo”, che non è citato in alcuna Scrittura, anche perché il Sanatana Dharma non è riferibile solo al territorio indiano, contenendo in nuce principi relativi a tutto il mondo. Quindi ala nozione di “missione” potremmo collegare l’idea di portare questa Conoscenza Suprema a tutte le Creature, senza confini di territorio, di razza, di credo. Ci può raccontare quali sono gli aspetti e il messaggio caratteristico del Sanatana Dharma da cui si sente particolarmente attratta? Mi sento attratta dalla profonda filosofia contenuta in tutte le Scritture, che va ben oltre l’aspetto fideistico, è proprio una concezione filosofica e psicologica di altissimo livello. che non avevo mai trovato in altre fedi. Inoltre il concetto di Karma e Reincarnazione è fondamentale per comprendere dinamiche altrimenti incomprensibili, che, con la legge di causa-effetto, diventano estremamente chiare. Un’altra cosa che mi affascina è la gioia che vi si respira. Qui la Realizzazione Spirituale non ha mai a che fare col dolore, la tristezza, la colpa, la paura e il timor di Dio. E’ una visione gioiosa, che tira fuori il meglio dell’essere umano, la si vive danzando e cantando, oltre che con la preghiera e la meditazione.

LO SGUARDO DI DON CRISTIANO BETTEGA Delegato Area Testimonianza e Impegno Sociale, Arcidiocesi di Trento Che cos’è per lei la missione? Si sente, in qualche modo, un missionario? Difficile dire in poche parole cosa sia la missione. Si fa prima a dire cosa non è: non è (o non può essere ridotta semplicemente al) partire da casa propria per andare dall’altra parte del mondo. La missione è parte integrante del battesimo: quindi ogni battezzata/o è missionaria/o, indipendentemente da come vive la sua fede e da come svolge la sua parte nella chiesa e nel mondo. Se la forza del credente è il Vangelo, questa è per tutti; il che significa che tutti sono chiamati a prenderlo sul serio, a tradurlo in gesti concreti di vita, a farne la bussola per le proprie scelte. Nei decenni scorsi, almeno nella nostra parte di mondo, si pensava di vivere in un contesto ampiamente cristiano; va da sé allora che l’idea di missione fosse legata principalmente al ‘partire’: si trattava di portare ad altri la ricchezza del Vangelo e della fede in Gesù. Oggi, in contesti nei quali i credenti praticanti non sono assolutamente più la maggioranza dei cittadini, ciascuno che invece provi a vivere sul serio il Vangelo è quotidianamente provocato a renderne conto, a confrontarsi – a volte anche in modo pesante – con chi ha altri valori, e questa è missione. Per esempio: la ‘cultura’ più diffusa parla di diffidenza rispetto agli altri (soprattutto rispetto a stranieri, immigrati, ai ‘diversi’), predica il “non farti fregare dagli altri”, non si preoccupa di inquinare e consumare senza criterio, non è rispettosa di quelle leggi dello stato che risultano meno simpatiche (le tasse, una su tutte: quante volte abbiamo la tentazione di evadere, per quanto possibile?), eccetera. Può un credente convinto e che cerca coerenza allinearsi sul “tanto fanno tutti così”? Penso proprio di no: dirlo, cercare di metterlo in pratica, provare anche a convincere gli altri, per quanto possibile, questo è missione. E così penso di aver risposto anche alla seconda parte della domanda, se mi sento missionario. Sì, ogni volta che provo a vivere il Vangelo con un po’ di coerenza. Nel contesto cattolico, come ci si prepara per la missione? Chi parte fisicamente per un paese lontano, ha a disposizione più possibilità di formazione, generalmente della durata di qualche mese. Si toccano tematiche antropologiche (la diversità delle culture, il fatto che ogni popolo conosce una ricerca di senso, che poi si traduce in ricerca di Dio), tematiche teologiche (il rendersi conto che oggi non è giusto pensare che il missionario porti il Vangelo ai miscredenti, quanto piuttosto che il missionario sia chiamato a cercare tracce di Vangelo nel popolo al quale è inviato), tematiche sociali (la politica, l’economia, le forme di sussistenza…) e chiaramente la lingua del popolo a cui si è inviati: sia la lingua ‘ufficiale’ (che però è sempre la lingua dei colonizzatori europei!), sia la lingua realmente parlata dalla gente. Poi resta fuori dubbio che la preparazione va fatta sul campo e dura per tutta la vita, come in ogni situazione: un medico, per esempio, viene proclamato tale con la laurea, ma ‘diventa’ medico di giorno in giorno, fino a fine carriera; analogamente succede per un prete e chissà per quante altre categorie. Il centro missionario diocesano da anni organizza anche corsi di preparazione per giovani che intendono dedicare un mese ad una “Esperienza estiva in missione”, con appuntamenti fissi spalmati nell’arco di diversi mesi, nei quali i ragazzi hanno modo di approfondire le tematiche legate al cosiddetto mondo della missione, di confrontarsi con chi ha già fatto questa esperienza e magari continua il suo servizio in questi ambiti, e di capire se realmente si sentono pronti per una esperienza del genere.

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L’ANNIVERSARIO

LO SGUARDO DI SALVATORE PERI Centro Evangelico Ecumenico - CEE di Trento

LO SGUARDO DI MARCELLA ORRÙ TERRANOVA Comunità bahá’í del Trentino Alto Adige

Nel mondo evangelico, cosa si intende per “missione” in termini spirituali e materiali? Tutte le chiese cristiane devono testimoniare, concretizzare la propria testimonianza evangelica. Nella Bibbia è scritto che in occasione della cena pasquale Gesù disse agli apostoli: “io sono in mezzo a voi come colui che serve”. Ecco, come cristiani, dobbiamo sposare la condizione umana e diventare servi: il dovere missionario di ogni cristiano è di divenire prossimo di questa umanità, e questo significa essere presenti anche socialmente nel mondo – in accordo con il detto latino “In necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus caritas”: unità nelle cose necessarie, libertà in quelle dubbie, carità in tutte. A proposito di unità, vale la pena di ricordare che proprio la Conferenza missionaria mondiale tenutasi ad Edimburgo nel giugno del 1910 segnò uno spartiacque nella storia dell’ecumenismo; in quell’occasione, infatti, venne costituita per la prima volta una commissione permanente per la promozione dell’unità dei cristiani. Avendo sperimentato loro stessi le varie condizioni di vita degli esseri umani nel mondo, i missionari posero nuove basi per la collaborazione delle chiese alla costruzione di una società nuova, in cui la solidarietà e la condivisione fossero presenti, essenziali. Aggiungo che l’argomento mi tocca anche personalmente, perché ho fatto dieci anni di volontariato presso il Centro Diaconale Valdese di Palermo come responsabile del convitto dei ragazzi di strada, figli dei carcerati; e lì ho conosciuto mia moglie, tedesca, inviata dalla chiesa luterana per un anno sociale in Sicilia. Ci può indicare figure che considera esemplari di grandi missionari? Ripartirei proprio da quegli anni siciliani, quando ho avuto il privilegio di conoscere il pastore della Chiesa valdese di Palermo, Pietro Valdo Panascia, scomparso nel 2007, a 97 anni. Un uomo che ammiro molto e che per me è stato un riferimento fondamentale: sono cresciuto con lui, mi sono confermato con lui, ho lavorato con lui. Dopo il terremoto, nel 1968, si adoperò per contribuire alla costruzione di un villaggio nella valle del Belice, così duramente colpita dal cataclisma. Fu lui a lavorare per trasformare l’Istituto Valdese, che aveva una storia già centenaria, in centro di accoglienza, l’attuale Centro Diaconale “La Noce”, dove trovano ospitalità e supporto ragazzi di strada e famiglie. Nel 1963, dopo le stragi mafiose di Ciaculli e Villabate, Panascia aveva fatto scalpore con la “Iniziativa per il rispetto della vita umana”, facendo tappezzare tutta Palermo di manifesti con la scritta a caratteri cubitali: “Non uccidere”. Grazie a lui, a Palermo la chiesa valdese fu la prima chiesa cristiana a profetizzare contro la Mafia. Ma vorrei ricordare anche quello che considero un grande missionario evangelico, il medico chirurgo e filantropo franco-tedesco Albert Schweitzer, che nel 1952 fu insignito del Nobel per la Pace soprattutto per l’immensa dedizione che dimostrò nell’assistere le popolazioni africane, a Lambaréné, nell’attuale Gabon, all’ombra della foresta vergine, dove costruì un ospedale e trascorse gran parte della sua esistenza. Tutta la sua vita e le sue azioni ruotano intorno al principio del rispetto della vita, e i suoi pensieri (pubblicati sotto il titolo di Kultur und Ethik - Cultura ed etica), sono bellissimi: ogni forma di vita, in quanto è vita, è sacra. Un insegnamento attualissimo anche perché non si limita al rapporto dell’uomo con i suoi simili, ma si rivolge a ogni forma di vita; un’etica totalmente integrata e armonizzata in un rapporto spirituale con l’Universo.

Come può essere inteso il concetto di “missione” nella fede bahá’í? Essenzialmente la fede bahá’í è una religione diffusa, in cui non è mai stato presente il concetto di missione inteso nell’accezione tradizionale di “conquista di nuove anime”. Di fatto, riconoscendo che tutte le religioni hanno origine divina e fanno parte di un progetto spirituale-educativo unico e progressivo, la questione del proselitismo non si pone e, per citare la mia esperienza, non si diventa bahá’í, piuttosto ci si scopre bahá’í. È compito dei bahá’í cercare di collaborare con chi – singolo o associazione – promuova gli stessi principi. Baháu’lláh, il fondatore della nostra fede, ci esorta a sviluppare le qualità spirituali e le nostre capacità, a metterle al servizio della società, occupandoci con sollecitudine delle necessità ed esigenze del contesto sociale in cui viviamo, e a dedicare a questo le nostre risorse materiali ed intellettuali. L’ambito operativo è molto ampio e permette a chiunque di contribuire con le proprie competenze, con il proprio lavoro e la propria testimonianza allo sviluppo di una società migliore. Informandoci sui principi cardine della vostra religione, ci ha colpito l’accento posto sul perseguimento della pace e dell’uguaglianza sociale. In che modo vi adoperate per promuovere questi obiettivi? Assieme al riconoscimento dell’apporto storico di ogni civiltà e della progressività e unità essenziale delle grandi religioni mondiali, tra i principi della fede bahá’í troviamo in effetti l’impegno per l’eliminazione degli estremi di povertà e ricchezza; e ancora, il rifiuto di ogni forma di pregiudizio, la piena parità di diritti e doveri tra uomo e donna, l’istruzione primaria universale e obbligatoria, l’armonia tra religione e scienza, la consultazione come metodo per la soluzione dei problemi, la giustizia (legale, sociale ed economica) come base per governare la società. Le risorse naturali, incluso il sottosuolo, sono considerate patrimonio comune dell’umanità, in un equilibrio sostenibile tra natura e tecnologia. Auspichiamo l’adozione di una sola lingua ausiliaria universale, una moneta unica e un sistema legale federativo mondiale per il benessere e alla sicurezza collettiva di tutti i popoli e tutte le nazioni. In generale, siamo convinti che sia possibile conseguire l’unità e la pace, le sole in grado di garantire la sopravvivenza del pianeta e le condizioni per un futuro in cui l’umanità potrà dispiegare le sue migliori caratteristiche; e riteniamo che alla base dei ‘principi’ elencati, che rappresentano anche un programma operativo, ci siano dei valori etici e spirituali che rendono il raggiungimento della pace un processo sistemico, contemporaneamente materiale, spirituale e organizzativo, che coinvolge tutta l’umanità. Per questo motivo, in tutto il mondo, i bahá’í, sia individualmente che con progetti di comunità, lavorano insieme a gruppi diversi per contribuire a questo processo in una varietà di spazi sociali. Ci sono diverse associazioni nate in seno alla comunità che si occupano di aspetti sociali, quali APS Gianni Ballerio, per citarne una, mentre sulla scena internazionale la comunità internazionale bahá’í è presente in una serie di reti globali che si occupano di questioni connesse alla condizione delle donne, di diritti umani e minoranze, di ambiente e sviluppo sostenibile, ma anche delle persecuzioni dei bahá’í e di altri gruppi religiosi in alcuni Paesi del mondo (www.tahirih.org; www.tahirih.it/index). Infine, ricordo che esiste una struttura che dal 1948 opera in questi ambiti presso le Nazioni Unite, la Bahai International Community (www.bic.org/).

OTTOCENTO ANNI DOPO SULLE TRACCE DELL’INCONTRO TRA FRANCESCO E IL SULTANO di Katia Malatesta Sono trascorsi 800 anni dal viaggio in Egitto di Francesco d’Assisi e dal suo straordinario incontro con il sultano al-Malik al-Kamil Muhammad bin Ayyub, fra l’estate e l’autunno del 1219, nel pieno della quinta Crociata. L’episodio, accreditato da una pluralità di fonti, fu rappresentato da Giotto negli affreschi della Basilica di Assisi e celebrato anche nella Commedia dantesca, dove si legge che Francesco, “per la sete del martiro,/ ne la presenza del Soldan superba / predicò Cristo e li altri che ‘l seguiro”. Non è facile sottrarsi al rischio dell’anacronismo di fronte al forte senso d’attualità suggerito da questo confronto ‘al vertice’ tra Occidente e Oriente, Cristianesimo e Islam. Gli storici ammoniscono che sarebbe improprio attribuire a Francesco, che già tra il 1212 e il 1213 aveva tentato, senza successo, di raggiungere la Siria e il Maghreb, una concezione della “missione” quale si svilupperà solo nei secoli successivi; come anche interpretare l’impresa del santo cristiano nel segno di un’impossibile contrapposizione alla logica armata della crociata energicamente promossa da papa Onorio. Non andrà peraltro dimenticato che nell’età media il rapporto tra cristiani e musulmani, scandito da fasi conflittuali episodiche benché frequenti, sull’altro versante si sviluppò all’insegna di un flusso costante di traffici commerciali e relazioni diplomatiche e culturali, con attestazioni di scambi umani ispirati a mutuo rispetto e comprensione, tra i quali si ricordano i rapporti dell’imperatore Federico con il medesimo sultano al-Malik alKamil. Le stesse crociate, indette con lo scopo preciso di assicurare Gerusalemme alla cristianità

latina, non si prefissero mai l’annientamento dell’Islam né la conversione dei musulmani. Eppure quella pagina di storia e quell’incontro, oggi più che mai, ci interpellano, con la forza esemplare di una lezione di ospitalità e di accoglienza. Le parole dello storico medievalista Franco Cardini tratteggiano vivacemente la singolarità dell’affabile colloquio tra Francesco e il sultano: “il sufi cristiano, col suo abito tanto simile a quello degli uomini di Dio dell’Islam, che chiede udienza al gran signore, e che l’ottiene perché i poveri e i pazzi sono cari e accetti ad Allah, Clemente e Misericordioso” (www.sacrumetpolis.com/articoli/francesco-eil-sultano). Nel programma di Religion Today la memoria di quello storico convegno si intreccia con il ricordo di un maestro troppo presto scomparso, lo Sheikh Abdul Aziz Bukhari, già leader dei sufi Naqshabandi di Gerusalemme e voce autorevole dei Jerusalem Peacemakers, più volte ospite d’eccezione del Festival nella sua qualità di instancabile assertore ed elaboratore di nonviolenza. Venerdì 4 ottobre (ore 20), alla Campana dei Caduti, sarà infatti proiettato fuori concorso il documentario di Lia Giovanazzi Beltrami e Olha Vozna “The Encounter” (Italia, 2019). Il film segue il viaggio di padre Murray, un giovane frate francescano americano che, sull’esempio di Francesco d’Assisi, si reca a Gerusalemme, attratto da alcuni scritti lasciati da Bukhari, e incontra Hala, la vedova dello Sheikh, nella casa di famiglia sulla via Dolorosa (fotografia a sinistra). Alla serata parteciperanno le “Donne di Fede per la Pace” (Women of Faith for Peace), il gruppo di donne leader nelle varie comunità religiose in diverse zone in conflitto e in situazioni difficili, che proprio in Trentino, nel 2009, ha dato vita a un progetto di dialogo premiato con il Leone d’Oro per la pace nell’ambito della Mostra del cinema di Venezia 2017.


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CREATIVI PER RELIGION TODAY TANTE TESTE, TANTI POSTER

ALLA RICERCA DELL’ESSENZIALE PARLANO I REGISTI DI VOCI DAL SILENZIO di Emanuele Cabboi

La sfida di interpretare visivamente il tema del Festival quest’anno è stata raccolta con entusiasmo, creatività e ‘mestiere’ dagli studenti della classe 5^ dell’Istituto Tecnico Tecnologico Grafica e Comunicazione del Sacro Cuore di Trento. Il risultato è una galleria di ‘visioni’ sempre diverse, che consentono però una conclusione: il concetto di “missione” non cessa di essere di ispirazione, coinvolgendo anche le giovani generazioni.

DAVIDE BERNARDI

LORENZO CANALI

MASSIMILIANO DALFOVO

ANDREA PITTIGHER

MATTEO FAES

JESSICA FERLIGA

NATHAN FIORITO

ARIANNA FRARE

LEO SANNA

GABRIELE LOTT

GIANLUCA MAROCCHI

ERIKA MAROTTO

BEATRICE MICHELON

MATTIA ZANELLA

ILENIA NICOLUSSI

SILVIA OSS

ELENA PANEBIANCO

LUCA PARISI

FRANCESCO ZANETTI

VISIONARI

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“Voci dal Silenzio” è un’opera profonda, la cui visione non può che suscitare altra riflessione. Un viaggio dal Nord al Sud dell’Italia, alla scoperta del Sé e della vita, attraverso il pensiero maturo di alcuni eremiti appartenenti a diverse tradizioni religiose. In attesa della presenza a Trento dei registi Joshua Wahlen e Alessandro Seidita, per l’occasione della proiezione di giovedì 3 ottobre, alle ore 18.00 presso il Teatro San Marco, li abbiamo sentiti per chiedere loro alcune anticipazioni e curiosità. Cosa vi ha indotto a ricercare queste vite eremitiche? Non è facile riassumere in poche parole l’insieme di suggestioni e riflessioni che portano ad abbracciare dei progetti artistici e a dedicare loro anni di lavoro. E lo è ancor meno quando vi si arriva per motivazioni più personali che professionali. Di certo avevamo l’idea che all’interno di quei luoghi avremmo potuto raccogliere delle parole importanti. Parole non nuove, ma capaci di arrivare all’altro con una forza insolita. Dopotutto, quando c’è un’azione di vita che anticipa le parole, che le legittima ancor prima che siano pronunciate, accade che quelle stesse parole, come per magia, arrivino a toccare l’altro in profondità, riempite di un contenuto e di un potere espressivo che altrimenti andrebbero persi. Gli eremiti che abbiamo incontrato, ad esempio, cercano di mettere in pratica in ogni loro gesto il rispetto per la natura e per l’altro, e gran parte delle loro azioni sembrano muoversi a partire da principi quali amore, ascolto, rispetto, unità. Insomma, immaginavamo, o quantomeno ci auguravamo, che in un periodo di grandi lacerazioni, caratterizzato da paure e diffidenze, dal percepire le differenze come ostacolo, le loro testimonianze potessero essere particolarmente incisive, suscitando in noi il desiderio di un cambiamento, inducendoci a riconsiderare il nostro modo di abitare il mondo e in qualche modo rendendoci partecipi di quell’unità che tutto racchiude in Sé. Secondo voi, in che modo possiamo scoprire il vero senso della solitudine e della ricerca di se stessi in una società come questa? Abbiamo più volte toccato l’argomento con i protagonisti del documentario e tutti, in qualche misura, ci hanno messo in guardia dai falsi miti della modernità. Ma lo hanno fatto con una precisazione: in ogni epoca l’uomo si è abbandonato ai miraggi del proprio tempo, e in ogni tempo vi sono state molteplici occasioni per perdere di vista l’essenziale. Forse, quello che oggi risalta maggiormente è l’eccessivo squilibrio che si è venuto a creare tra l’essenziale e il superfluo, tra silenzio e rumore, naturale e artificiale, attenzione e distrazione. Ecco, per tornare dunque alla tua domanda, crediamo che oggi sia particolarmente importante contrastare questo squilibrio e una delle vie più adatte è farlo partendo da un lavoro su sé stessi. E, come insegnano i protagonisti del documentario, per farlo non è necessario avventurarsi tra le vette di una montagna o vivere tra la fitta vegetazione di un bosco, basterebbe invece riconquistare degli spazi di solitudine e di silenzio, che poi altro non sono se non un’occasione di ascolto: ascolto di noi stessi, degli altri, di ciò che ci circonda. Cosa possono imparare i giovani da questo documentario? Durante le centinaia di proiezioni e incontri organizzati in quest’ultimo anno, ci siamo resi conto che in ogni persona, al termine della visione, scaturivano riflessioni e reazioni proprie. Crediamo che ciò avvenga perché quando ci si abbandona ad un percorso di ricerca autentico, come ci sembra quello delle figure che abbiamo incontrato, le parole che poi si rivolgono

agli altri non impongono una visione, non sono mai autoritarie o autocelebrative. Possono suggerire, suggestionare, indirizzare, restando comunque morbide e aperte, poiché qualsiasi processo di apprendimento necessita di uno sforzo individuale e può muoversi e svilupparsi solo su dei binari battuti personalmente. In un certo senso anche noi abbiamo indirizzato il montaggio seguendo questo principio, evitando di far prevalere caratterizzazioni, di evidenziare l’una o l’altra tradizione religiosa di riferimento, di enfatizzare posizioni chiuse o imporre una determinata visione per cui, in ultimo, è difficile generalizzare e dire con esattezza cosa i giovani potrebbero imparare dalla visione del documentario. Certamente troveranno molti spunti di riflessione e d’ispirazione e il nostro augurio è che a partire da questi, possa nascere in loro un desiderio di cura: cura di sé stessi, degli altri, della natura. Un’ultima domanda, stavolta di carattere pratico. Come è potuto partire questo progetto? Le genesi produttiva di questo lavoro è piuttosto anomala e quando prese il via non avevamo alcuna garanzia circa la sua riuscita. Non avevamo una casa di produzione e le risorse personali sarebbero bastate a malapena a coprire una parte del viaggio che ci avrebbe portato ad attraversare l’intera penisola a bordo di un camper malridotto e sgangherato. Eravamo, tuttavia, molto legati a questo progetto e, con una buona dose d’incoscienza, partimmo ugualmente impedendo alle tante preoccupazioni di fermarci e lanciando una campagna di crowdfunding. Fu quella stessa campagna ad aprire scenari inaspettati. Nel giro di pochissimo tempo e in maniera del tutto imprevedibile il nostro viaggio, giorno dopo giorno, attirò l’attenzione di tantissime persone e con esse anche quella di alcune realtà editoriali come Italia che Cambia e TerraNuova. Così, pian piano e grazie ai piccoli contributi di migliaia di persone, quelle risorse minime per portare a termine tutto il ciclo produttivo si sono materializzate e oggi, senza una casa di produzione, né tantomeno un distributore, il documentario è diventato un caso unico nel panorama nazionale, con oltre 100 proiezioni alla nostra presenza, premi, riconoscimenti, tante partecipazioni ai festival e altrettanti sold-out.


ON THE ROAD LE TANTE ANIME DEL CINEMA DI VIAGGIO di Emanuele Cabboi Diciamocela tutta, a ognuno di noi è venuto in mente di prendere e andarsene via, una volta per tutte, alla ricerca di incontri e luoghi sconosciuti tali da arricchirci e stimolarci ad una nuova vita. In questo senso, infiniti potrebbero essere i modi per viaggiare, ma spesso una certa realtà quotidiana ci impone di restare fermi, quasi ingabbiati in una dimensione fin troppo materiale e ben poco ‘animica’. A questo punto, chi si riconosce in questa situazione, più o meno soffocante, si ritrova costretto ad evadere tramite altri veicoli come la lettura, l’immaginazione e il cinema. Senza nulla togliere al cinema d’autore italiano o europeo, si deve ricondurre a quel dannato ed esuberante scrittore che fu Jack Kerouac, e a tutti gli altri protagonisti della Beat Generation, il primato del gigante cinematografico americano nel distillare pellicole come “Easy Rider” di Dennis Hopper (1969) (in basso a destra un dettaglio della locandina) e “I selvaggi” di Roger Corman (1966), ancora ampiamente visti e di ispirazione per gli autori contemporanei. Sembra proprio che gli stessi registi volessero assaporare un senso di libertà e di scoperta mai provato prima, attraverso le riprese di luoghi deserti e paesaggi senza fine. Di certo, non potremmo ritenere i protagonisti di quei film, interpretati da attori di rilievo come Jack Nicholson o Peter Fonda, campioni di una libertà senza ombre. Essi, infatti, rappresentavano uno squarcio di ribellione sfrenata, che era sì trasgredente, ma anche inseparabile dalla rigidità culturale e mentale opprimente ben presente in quegli anni. Su questa scorta, molti film on the road, nati successivamente e fino ai giorni nostri, evocano ancora i contrasti di una società piena di difficoltà e relativamente indietro con i tempi. Come non farsi affascinare dalla ribellione femminile di Geena Davis e Susan Sarandon in “Thelma & Louise” (1991), fino quasi ad innamorarsene verso il finale? Come non arrendersi all’attrazione irresistibile di strade già descritte dalla letteratura, vedi Jack London, verso paesaggi incontaminati dove la natura mostra la sua presenza vera? Si potrebbero citare, a questo proposito, “Balla coi lupi” (1990) di Kevin Costner o “Into the Wild” (2007) di Sean Penn. Due film significativi dove il viaggio è l’unico minimo comune denominatore che scardina le storie, prima usuali, dei due protagonisti. Il primo inizialmente combatte una guerra contro gli indiani d’America e poi si ritrova unito alla tribù dei Sioux. Il secondo, invece, interpreta la vera storia di Christopher McCandless, un giovane laureato che, per raggiungere l’Alaska, decise di abbandonare tutti i beni, difficilmente rinunciabili nel mondo occidentale. Il viaggio, su questo piano, diventa ancora più pregnante, riunendo bellezza, contatto, conoscenza e coscienza.

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Sembra che i viaggiatori del grande schermo siano alla ricerca non solo di una propria autonomia e pienezza interiore, ma anche di verità e valori alternativi che vanno al di là di quelli già vissuti. Anche il programma di Religion Today, quest’anno, concede ampio spazio, e non per la prima volta, al viaggio sullo schermo. È il sogno Beat che continua o forse è il viaggio qualcosa di intrinseco nello spirito umano? Qualche eco della irrequietezza che animava i protagonisti di “Easy Rider” sembra palpitare, sotto traccia, nel contesto lontanissimo del cortometraggio cinese “On the Border”. Altrove il viaggio si fa esplicitamente missione, come in “In the Field”, che dall’orrore del conflitto ucraino leva il suo urlo contro ogni guerra. Arrivati a questo punto, opportuno diventa parlare anche di cinema migrante, tema non vergine, ma fondamentale in questa ventiduesima edizione del Religion Today Film Festival. Sempre di più, infatti, sono le paure e i disagi sociali che si vengono a formare tra le culture di accoglienza e quelle di provenienza. Siamo in un periodo storico in cui la politica tenta di affrontare, attraverso delle discutibili ‘azioni’, il fenomeno del flusso migratorio. Da questo punto di vista, il cinema non si fa cogliere impreparato e prova a rispondere al richiamo, narrando numerose dinamiche che ruotano attorno ai concetti di identità, appartenenza, integrazione e rinegoziazione dei valori culturali. Tra i film in concorso, accanto alla sorprendente metaforza spaziale di “Third Kind”, varrà la pena di ricordare la coppia italiana formata dal cortometraggio “Bismillah” di Alessandro Grande, girato ‘in punta di camera’, lontano da ogni facile retorica consolatoria, e dal più scanzonato lungometraggio “Bangla”, di Phaim Bhuiyan, primo regista italobengalese, in programmazione la sera di lunedì 7 ottobre al Cinema Modena di Trento. Molti potrebbero dissentire nel vedere questo tipo di cinema affiancato a quello on the road, eppure anche qui si riscontrano speranze e miraggi di persone che, a loro modo, hanno viaggiato o scontano le conseguenze del viaggio dei loro genitori, e sognano un futuro diverso.

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CATASTROFI UMANITARIE, NON È FANTASCIENZA L’ORIGINALE APPELLO DI THIRD KIND di Isabella Mamone Capria e Isabella Zamboni La Terra è ormai disabitata da molto tempo e l’umanità vive nello spazio; tuttavia dal pianeta viene ancora trasmesso un misterioso segnale. Tre archeologi in tuta spaziale tornano sulla Terra per trovarne l’origine e indagano in un luogo di abbandono e desolazione, dove ritrovano vecchie memorie perdute: una cartolina dedicata ad una donna amata; una stanza adibita a luogo di preghiera musulmano; disegni di bambini, in particolare uno che porta la scritta “We believe that God is here.”, “Crediamo che Dio sia qui.” Soltanto alla fine gli archeologi scoprono, assieme allo spettatore, la sorprendente fonte del segnale. Il cortometraggio “Third Kind” del regista greco Yorgos Zois, il cui titolo è ispirato al celebre film “Incontri ravvicinati del terzo tipo” di Steven Spielberg, tratta l’attualissimo tema dell’immigrazione e dei profughi in chiave fantascientifica. La vicenda, raccontata con scene di forte tensione intervallate da lunghi silenzi, in perfetta aderenza allo stile rarefatto di tante grandi epopee spaziali, è ambientata nell’aeroporto abbandonato di Atene: proprio qui nel 2016 si rifugiarono migliaia di profughi - per chi li rifiuta, i moderni ‘extraterrestri’ - costretti a vivere in condizioni terribili. In questo luogo i nostri protagonisti si trovano a vagare, tra le tracce di quella umanità sofferente. Un passato lontano e spaventoso che è poi il nostro drammatico presente. Il messaggio centrale del cortometraggio, d’altra parte, è contenuto proprio nella frase “Crediamo che Dio sia qui”, che mostra la speranza che sopravvive nonostante le avversità e la presenza di Dio, immutata nel tempo. In programma in chiusura di serata, giovedì 3 ottobre al Teatro San Marco.

L’ETERNO DESIDERIO DI PARTIRE CINEMA D’AUTORE CON ON THE BORDER di Greta La Marca e Sara Fedrizzi Cina 2019. “On the Border” (sotto, un dettaglio della locandina), diretto da Wei Shujun, in programma sabato 5 ottobre alle ore 21 al Teatro San Marco, racconta di un ragazzo cinese di origini coreane, che sogna di emigrare dalla zona periferica in cui vive, al confine con la Corea del Nord.

L’urgenza di lasciare il paese nasce nell’adolescente nel momento in cui vede partire un compaesano, probabilmente qualcuno che conosce, in cerca di fortuna in Corea del Sud. È proprio questo istante che suscita in lui la speranza di un futuro migliore, la voglia di superare i limiti, scappando da una realtà opprimente e da una condizione familiare difficile. Il cortometraggio è accompagnato da una calibratissima colonna sonora che rafforza le immagini, ma soprattutto da silenzi che fanno emergere gli stati d’animo del protagonista, come la tristezza e la solitudine. Anche l’ambiente cupo aiuta lo spettatore a conoscere un’altra faccia della Cina, sicuramente diversa dagli stereotipi mostrati quotidianamente nei mass media. I dialoghi sono ridotti al minimo, alimentando così la sensazione di freddezza anche nei rapporti tra gli abitanti della città in cui è ambientata la vicenda. L’opera di Wei Sujuhn, premiata con la menzione speciale della giuria al festival di Cannes, si colloca nel solco del cinema d’autore; lo dimostrano una trama costruita per sottrazione, e l’attento controllo dei mezzi stilistici. Nel suo breve lavoro, il regista vuole denunciare l’impossibilità per alcuni adolescenti abbandonati a se stessi di realizzare i propri sogni a causa della loro situazione si svantaggio ma anche dei muri che sempre più frequentemente vengono innalzati dalla politica e dalle classi dirigenti a dividere popoli e culture.


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IL CAMMINO COME RISCATTO RELIGIONE, CARCERE E NUOVA SERIALITÀ la redazione

UNA PREGHIERA PER JAMIL STORIE MIGRANTI, LA POESIA DI BISMILLAH

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di Agnese Andreotti e Sofia Delpero

PADRI E FIGLI, L’UMANITÀ IN GUERRA IN THE FIELD E L’ORRORE DEL CONFLITTO UCRAINO

di Emanuele Cabboi Torniamo indietro al 2014. Tra il finire dell’inverno e l’inizio della primavera scoppia una grave crisi in Ucraina che vede coinvolte regioni di confine molto vicine alla Russia. Una vicenda segnata da interventi militari illeciti e movimenti politici ambigui sullo sfondo di interessi economici e pressioni internazionali. Il corto, però, prova a raccontare le conseguenze umane che la guerra del Donbass, ancora in corso, seppure spesso passata sotto traccia, ha fatto emergere. Le immagini sono tetre e cupe, sembra che il triste cielo affianchi la povertà di valori e di pace che i conflitti provocano inevitabilmente. La storia narra di un padre che viene a sapere che suo figlio è ancora vivo, ma si trova oltre il posto di blocco “zero”, impossibile da varcare per ragioni di sicurezza. Fortunosamente, l’uomo riesce a passare il confine e trova il ragazzo disteso e paralizzato, insieme ai diversi corpi senza vita di altri soldati. Ma i due vengono immediatamente rintracciati da un pick-up guidato da filo-russi armati. A questo punto cosa ne sarà dei protagonisti? La decisione viene lasciata a Dio, vero cardine di speranza per tutto il resto del film. Come si potrà vedere, sarà proprio la fede religiosa ad offrire una possibilità di salvezza, ma per quanto tempo ancora ci affideremo al ‘richiamo’ solo nei momenti del disastro? C’è sicuramente un filo conduttore che ha portato il regista di Jalta, Olaksandr Shkrabak, a parlarci del conflitto ucraino, vista la sua nascita in Crimea. La sua bravura e dote stilistica, maturata nei suoi cinque cortometraggi prodotti, non può che invitarci alla proiezione di “In the Field”, in programmazione sabato 5 ottobre, alle ore 16.30, al Teatro San Marco.

“Bismillah Bismillah, in the name of Allah” è la preghiera musicata da Gianluca Sibaldi e cantata dalla piccola Samira, che cerca conforto e forza nella religione, invocando l’aiuto di Allah per aiutare Jamil, il fratello sofferente. I protagonisti di “Bismillah”, Jamil e Samira, sono due ragazzi immigrati dalla Tunisia e costretti a vivere in condizioni difficilissime, in un paese a loro sconosciuto e senza il conforto dei genitori. Samira, preoccupata per lo stato fisico del fratello, che accusa forti dolori allo stomaco, chiede aiuto a Halima, anche lei originaria della Tunisia. Quest’ultima cerca in tutti i modi di trovare una cura per il ragazzo, ma purtroppo i suoi sforzi sono inutili, quindi dà a Samira il numero di un dottore esperto, Francesco. Neanche il medico può fare qualcosa per Jamil e quando propone ai due fratelli di chiamare un’ambulanza, il ragazzo si oppone, terrorizzato dalle conseguenze di un ricovero vista la sua condizione di immigrato irregolare. Ma quali soluzioni restano a Jamil, dopo aver compreso la criticità del proprio stato? I due protagonisti sono spaventati da una vita completamente nuova e per questo non riescono a fidarsi delle persone che li circondano, ma si proteggono e si sostengono reciprocamente. Premiato con il David di Donatello, il cortometraggio realizzato da Alessandro Grande, che racconta l’immigrazione dal punto di vista dei giovani protagonisti, con delicatezza, ci invita a riflettere sulle condizioni di vita di chi è costretto a lasciare il proprio paese e ci insegna a non giudicare mai sulla base di pregiudizi. La proiezione è in programma lunedì 7 ottobre, alle 20.30, al Cinema Modena.

Lo studio dei rapporti tra carcere e religione non rappresenta certo una novità. La fede rappresenta un aspetto essenziale nella vita in regime di detenzione. Termini come colpa, confessione, grazia o pena ricorrono nei palazzi di giustizia come nelle chiese. L’istituzione carceraria conserva infatti significativi lasciti dell’ispirazione cristiana che ne ha segnato le origini, con particolare riguardo alla sua funzione rieducativa. Originale e coinvolgente è però l’esperienza attorno alla quale si rinnova la tradizionale collaborazione tra Religion Today e il Centro per le scienze religiose della Fondazione Bruno Kessler. Lunedì 7 ottobre, alle ore 17.00, l’Aula Grande di via Santa Croce ospiterà il seminario “La missione della rieducazione. Un nuovo sguardo sulle contaminazioni tra religione e carcere”, in dialogo con le forme della serialità televisiva contemporanea. L’appuntamento, infatti, proporrà un episodio di “BOEZ - Andiamo via”, la docu-serie Rai in 10 puntate, coprodotta da Rai Fiction e Stemal Entertainment, che racconta il percorso fisico ma anche emotivo e di ‘espiazione’ di sei ragazzi, condannati per aver infranto la legge e inseriti in uno speciale programma di esecuzione esterna della pena. Scritto da Roberta Cortella e Paola Pannicelli, per la regia di Roberta Cortella e Marco Leopardi, “BOEZ - Andiamo via” segue Alessandro, Francesco, Kekko, Maria, Matteo e Omar nel lungo tragitto che li porta a piedi da Roma a Santa Maria di Leuca, punta estrema dello Stivale. Un viaggio/pellegrinaggio di oltre 900 chilometri, lungo l’antica via Francigena, che sperimenta il cammino come pena alternativa: una misura già adottata in altri Paesi europei, dove registra da anni risultati positivi, abbattendo le percentuali di recidiva. All’incontro, coordinato da Valeria Fabretti, di FBK-ISR, e Katia Malatesta per Religion Today Film Festival, parteciperanno l’autrice Paola Pannicelli, due dei ragazzi protagonisti, Francesco Dinoi e Francesco Tafuno, e l’educatrice di comunità Ilaria D’Appollonio,

che li ha accompagnati nel viaggio con la sua esperienza di dinamiche di gruppo; interverrà inoltre l’antropologo Pietro Vereni (Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”). “BOEZ - Andiamo via” è il primo prodotto televisivo che affronta questo tipo di tematiche: un esperimento dal forte impatto sociale, realizzato con la collaborazione del Ministero della Giustizia. Il titolo della serie fa riferimento alla firma di un writer nel nome del quale si narra una storia di altri ragazzi accomunati dal desiderio di rinascita ad una vita nuova. Scarponi ai piedi e zaino (pesantissimo) in spalla, il gruppo parte dal Colosseo e affronta sessanta giorni di fatiche, di caldo asfissiante, di chilometri da percorrere (in media 20/23 al giorno), di regole da seguire. Ma per tutti si tratta soprattutto di un viaggio dentro di sé, di un’occasione di apprendimento di nuove modalità di relazione. Tappa dopo tappa, puntata dopo puntata, emergono le speranze, i sogni, ma anche i fantasmi dolorosi della vita passata, le storie. Alessandro, un’esistenza trascorsa in strutture per minori e carceri, coltiva una grande passione, la scienza, e sogna di poter studiare per diventare astrofisico; sottoposto ad esecuzione penale esterna, lavora presso il cimitero del suo paese. Maria, unica femmina in una famiglia Rom in cui emozioni e affetto erano solo per i fratelli maschi, a 14 anni è stata costretta a “sposarsi”, poi a rubare; fino al giorno in cui ha abbandonato tutto e cominciato a vivere di espedienti, e all’approdo nella Comunità “Il fiore del deserto”. Mamma di Napoli, papà tunisino, Omar è cresciuto in una città industriale della provincia lombarda; insofferente alla scuola, alle regole, entra ed esce dal carcere minorile, poi inizia la sua battaglia contro l’obesità e intraprende un percorso di reinserimento. Francesco, cresciuto all’ombra del padre, boss della malavita locale, si fa presto un curriculum di reati che lo porta dritto in carcere e per molto tempo; poi entra nella Comunità “Emmanuel” e si dedica ad aiutare i ragazzi più giovani di lui. Dopo un’infanzia segnata da violenze e privazioni, Kekko sta finendo di scontare la sua pena come tuttofare in una casa famiglia; ironico e allegro, passa il resto della giornata ad allenarsi e divorando ore di reality davanti alla TV. Per Matteo, timido e di poche parole, segnato dalla recente morte della mamma, il cammino rappresenta la possibilità di uscire definitivamente da una cella, dopo cinque anni di carcere, e tornare a vedere il cielo. Strada facendo non mancano le difficoltà: momenti di sconforto e ribellione, provocazioni e voglia di trasgressione, scontri personali, frustrazione. Dall’altra parte gli incontri, con persone che hanno a loro volta superato ostacoli e privazioni, subito minacce e persecuzioni dalla camorra o dall’Isis; ma anche con pellegrini e migranti, streetwriters e musicisti. Altrettanti stimoli a riflettere su perdono, rispetto, amore, amicizia, paura, e superare i codici di comportamento imposti dalla strada, nelle carceri. Anche dal punto di vista produttivo e delle riprese “BOEZ – Andiamo via” si è sviluppato come un progetto dalle forti componenti umane, con troupe poco invasive e la presenza costante dei registi che hanno sentito l’esigenza di condividere interamente il viaggio con i protagonisti. Un approccio che ha consentito di raccogliere interviste e dialoghi spontanei, ‘veri’, frutto della confidenza reciproca che si è andata sviluppando tra reali compagni di viaggio. Nella serie sono state integrate anche le riprese realizzate dai ragazzi con il telefonino: videoselfie che fanno emergere un’autorappresentazione senza filtri e completano il racconto delle telecamere ‘ufficiali’. Modalità all’opposto delle spettacolarizzazioni del reality, che rilanciano la riflessione sulla ‘missione’ del servizio pubblico, tra senso etico e responsabilità sociale.


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MOVIES THAT MATTER FILM ‘CHE CONTANO’ DENUNCIA, DIVERSITÀ, DIRITTI

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DONNE E UOMINI, LA BATTAGLIA PER LA PARITÀ DRIVING LESSONS, ALLEGRO MA NON TROPPO

di Katia Malatesta di Camilla Floriani e Clarissa Lorenzini Dubai Film Festival, 2015. In una pausa tra le proiezioni, entro, un po’ per caso, nella sala conferenze dove una giovane regista sta raccontando la sua storia. Hind Bensari aveva 24 anni, viveva a Londra, lavorava come manager aziendale ed era contenta della sua vita, quando dal Marocco la raggiunse la notizia della morte tragica di Amina Filali. Dopo essere stata violentata da Moustapha Fellak, Amina, quindicenne, era stata costretta a sposarlo, unica via d’uscita dalla sua condizione di donna ‘disonorata’. Si tolse la vita cinque mesi più tardi, ingerendo veleno per topi. Fu allora che Hind Bensari decise di voltare pagina e di imbarcarsi da autodidatta nella realizzazione di un film per denunciare l’atrocità di una legge – l’articolo 475 – che permetteva a uno stupratore che sposasse la sua vittima minorenne di rimanere impunito. Scoprì così che quella norma non aveva niente a che fare con l’Islam, come inizialmente aveva immaginato; al contrario, vigeva dal tempo in cui il Marocco era un protettorato francese, trovando sponda nella brutalità di un’ideologia patriarcale. Passo dopo passo, il suo lavoro di inchiesta portò alla luce le colpe individuali e collettive dietro la violenza senza fine subita da Amina e da tante ragazze come lei. Nel 2013, il suo film “475: Break the Silence” (Rompi il silenzio) fu trasmesso dalla televisione marocchina e con 2,6 milioni di spettatori bruciò tutti i record nazionali. La pressione da parte dei media e del pubblico portò il parlamento a votare all’unanimità l’abolizione dell’articolo 475. Amina Filali è diventata un simbolo e l’abrogazione della legge ha segnato una vittoria del movimento per i diritti umani in Marocco. Amnesty International li chiama “movies that matter”, film che contano. Mai come quel giorno a Dubai mi è apparso chiaro, esaltante, il potere del cinema come strumento contro l’indifferenza, in grado di aprirci gli occhi, di volta in volta, sullo spettacolo o sull’orrore del mondo: sia quello effettivo in cui viviamo, sia quelli possibili in cui vorremmo o non vorremmo vivere. Sono tanti, anche in questa edizione di Religion Today, i film realizzati con l’impegno di fare una differenza. Tra i film che offrono un’occasione di conoscenza, di decentramento, di confronto con altri punti di vista andrà ricordato l’israeliano “Laces” (sabato 5 ottobre, in serata, al Teatro San Marco), diretto da Jacob Goldwasser, padre di un figlio con bisogni speciali e autore di un’opera commovente che solleva serie domande sull’atteggiamento della società nei confronti dei disabili, gettando uno sguardo nuovo sui nostri costrutti culturali di normalità e diversità.

Il tema dei diritti fondamentali dell’essere umano emerge variamente nel lungometraggio “Paangshu” di Visakesa Chandrasekaram (in programma al San Marco nella serata di lunedì 7 ottobre), struggente ritratto di una madre che in un fatiscente tribunale rurale chiede giustizia per suo figlio, rapito dai paramilitari durante l’insurrezione srilankese del 1988/89 (in alto un dettaglio della locandina); e nel film di Anas Tolba “Between Two Seas”, scelto per il consueto intreccio con la programmazione del Cineforum San Marco (martedì 8, ore 20.45), intenso e non banale manifesto contro le mutilazioni genitali e per i diritti delle donne che non risparmia le donne stesse quando rese complici del controllo maschile sulla sessualità femminile (in basso la locandina e un fotogramma del film). Diverso il progetto di Edoardo de Angelis, che con “Il vizio della speranza” (martedì 8, in serata, al Cinema Modena) ambienta nell’inferno di Castel Volturno, il comune in provincia di Caserta stretto tra camorra e mafia nigeriana, una storia di esseri umani che imboccano impervi ma illuminanti percorsi di espiazione e solidarietà, imbevuta di simboli mariani, miracolosa com’è sempre la vita nella sua essenza. Ancora una volta, Religion Today si affida allo schermo come palestra di disarmo morale, culturale, dell’immaginario. La grande storia del cinema contro la guerra trova eco in cortometraggi che, come “Battle Fields”, ne descrivono le conseguenze psicologiche, scavando nelle ferite dell’anima dei sopravvissuti. C’è spazio anche per il cinema come veicolo privilegiato della memoria di conflitti e tragedie dimenticate, come il genocidio assiro, nel delicato canto d’amore alla patria perduta messo in quadro dal giovane regista di “Athyo”. In altri casi la cultura dei diritti e la denuncia degli abusi passano piuttosto attraverso il registro della commedia (“Driving Lessons”) e sketch paradossali, come nel serbo “God’s Will” di Tanja Brzakovic (in programma nel pomeriggio di martedì 8 al San Marco), che evoca la questione della sorte dei criminali di guerra nella ex Jugoslavia. Colpiscono, in un presente lacerato da conflitti e divisioni, la veemenza e il numero dei cortometraggi di autori israeliani anche giovanissimi che hanno scelto di scrutare nell’abisso, rappresentando la condizione umana e le relazioni sociali nei loro aspetti più dolorosi e oscuri: dal j’accuse di “Ashmina” (proiettato in chiusura di serata a Trento, sabato 5 ottobre), con cui Dekel Berenson, sulle orme di un’adolescente, porta sullo schermo il contrasto tra la vita disagiata della comunità nepalese e la presenza aliena e incurante del turismo dall’estero, all’inesorabile congegno narrativo di “Skin”, cui si affianca, con “Terror” di Yonatan Shehoah (nella proposta serale di martedì 8 a Rovereto), la plastica rappresentazione del senso di insicurezza che attanaglia un’intera società traducendosi in aggressione contro ciò che si percepisce come minaccia.

“Nella Repubblica Islamica dell’Iran le donne che prendono la patente non possono stare sole in macchina con il loro istruttore. Per legge, una terza persona deve essere presente. Le leggi dello Stato prevedono anche che una donna sposata debba avere il permesso dal marito per richiedere il passaporto e andare all’estero. Un marito non ha bisogno di alcuna giustificazione per impedire alla moglie di viaggiare”. La citazione che introduce “Driving Lessons”, in programma ad Arco nella serata di lunedì 7 ottobre, anticipa il messaggio del cortometraggio, che la regista, Marziyeh Riahi, dedica alle donne che lottano da anni per ottenere la parità dei diritti. Protagonista del film è Bahareh, per l’appunto una donna che vuole prendere la patente, a lezione di guida con l’istruttore in compagnia del marito, come imposto dalla legge. Durante l’intero svolgimento della lezione, Mr. Shakiba tratta la moglie come se non esistesse, sostituendosi a lei e rispondendo al posto suo; inoltre approfitta di ogni occasione per fare i propri comodi e non rispetta il severo regolamento, facendo innervosire l’istruttore Keyvan. Anche quest’ultimo però ha comportamenti analoghi nei confronti della moglie: in una telefonata alza i toni e le nega la possibilità di ottenere il visto per fare visita al padre malato. Alla fine Bahareh, stanca del comportamento ostile dei due uomini, delle leggi oppressive, della mancata libertà, attuerà la sua ‘rivoluzione’ silenziosa, basata sui fatti. Le scene, girate principalmente nello spazio chiuso della macchina, ci danno comunque la possibilità di venire a contatto con la vita quotidiana iraniana, e ci invitano a riflettere su situazioni e diritti che noi diamo per scontati, ma che in molti paesi rappresentano ancora degli obiettivi difficili da conquistare per le donne che sono costrette a lottare anche solo per ottenere il diritto di parlare.

IL GENOCIDIO DIMENTICATO ATHYO, IN VIAGGIO VERSO ‘L’AMATA’ di Francesca Assi Del Forte e Lisa Paternuosto “Athyo”, il cortometraggio del regista Jean-Pierre Abdayern, in programma martedì 8 ottobre, alle 17, al Teatro San Marco, attraverso immagini simboliche e allegoriche affronta il tema del genocidio assiro, compiuto durante la prima guerra mondiale dall’Impero turco ottomano. I protagonisti sono un anziano e la sua giovane nipote; insieme affrontano un faticoso viaggio notturno, per raggiungere ‘l’amata’ dell’uomo, che solo nel finale si precisa per lo spettatore. I due personaggi, emblematici, rappresentano le differenze generazionali all’interno di famiglie segnate da avvenimenti drammatici e dal ricordo di una storia passata difficile e tormentata. Gli elementi naturali, come il vento, la pioggia e i tuoni, assumono significati metaforici, mentre i dialoghi e i silenzi tra la ragazza e il nonno coinvolgono lo spettatore nella fatica del cammino. Il film riesce a toccarci profondamente e a suscitare riflessioni e interrogativi sulla storia narrata, ma anche sulle altre tragedie che hanno sconvolto popoli e culture nel corso del Novecento. L’oscurità e il paesaggio solitario rispecchiano le emozioni dei protagonisti e dell’umanità che in passato ha sofferto e tuttora soffre per le discriminazioni e la violenza. Il tema del viaggio richiama anche quello attualissimo dell’immigrazione che costringe tanti popoli ad abbandonare i propri affetti, la terra natale, le proprie tradizioni per scappare dalle persecuzioni, dalla morte, dalla fame, da un misero destino, come è accaduto agli assiri un secolo fa. Nel cortometraggio sono presenti anche immagini di preghiera che alludono alla dimensione religiosa, fattore determinante nella storia del genocidio delle minoranze nel dominio ottomano. Athyo è sicuramente un’opera cinematografica che colpisce profondamente lo spettatore e dà voce ad una cruda e terribile storia che non deve essere dimenticata o ignorata.


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REC • RELIGIONI E CINEMA / N°1 / ANNO X / OTTOBRE 2019 RELIGION TODAY FILM FESTIVAL www.religionfilm.com

ALL’ESSENZA DEL RAZZISMO SKIN, LA SPIRALE DELL’ODIO di Elena Amistadi e Helena Caldonazzi Skin, ovvero pelle, anche quella delle teste rasate dei gruppi neonazisti, in questi anni tornati tragicamente alla ribalta sia in Europa, sia in America. L’autore di origine israeliana Guy Nattiv, con “Skin”, in programma nella serata di martedì 8 ottobre al cinema Modena, ha creato un vero e proprio capolavoro, che con la sua durezza e schiettezza gli ha permesso di vincere il premio Oscar 2018 per il miglior cortometraggio a soggetto. “Skin”, ambientato negli Stati Uniti, racconta la storia di due bambini americani, uno bianco e uno nero: una scelta ben sottolineata dalla locandina divisa a metà (a sinistra). Troy, figlio di uno skinhead, cresce con il fucile in mano e con l’idea che con la violenza si possa ottenere tutto. È l’esempio che riceve da un padre razzista, violento e autoritario nei confronti della moglie, debole e sottomessa al marito. Il sentimento di odio che anima l’uomo e il suo gruppo di suprematisti bianchi viene sottolineato dalla canzone “Fuck the world” che accompagna, con il suo ritmo e la sua potenza, alcune parti del racconto. Bronny, invece, è un bambino afroamericano, figlio di un uomo affabile, educato ai principi di uguaglianza e accettazione della diversità. Le loro vite si incontrano una sera, nel parcheggio di un supermercato, e, da quel momento, per entrambi tutto cambierà mentre le loro esistenze verranno travolte da eventi tragici e dal desiderio di vendetta fino al drammatico finale. Guy Nattiv ha raccontato, in pochi minuti, un problema diffuso universalmente nella nostra epoca: il razzismo, la discriminazione verso il diverso, insieme al desiderio di vendetta e alla violenza come unico modo per affrontare le difficoltà e le differenze presenti nella vita quotidiana, in una società che sembra aver perduto il senso del dialogo e della relazione.

TRAUMATIZZATI DI GUERRA BATTLE FIELDS, LA TRAGEDIA DEI SOPRAVVISSUTI di Elena Bugoloni e Camilla Caccavale In programma a Rovereto martedì 8 ottobre, alle ore 20.45, il cortometraggio “Battle Fields”, del regista americano di origini algerine Anouar H. Smaine, racconta una vicenda ambientata negli Stati Uniti: la storia di due uomini, un tassista iracheno, interpretato dallo steso Anouar, e un soldato americano reduce della guerra in Iraq, che affrontano delle situazioni personali e familiari complicate e dolorose. Il primo vive con la moglie, psicologicamente molto fragile a causa di un trauma subito; il secondo è un alcolizzato che è stato allontanato dalla propria famiglia perché la ex moglie teme che sia pericoloso per sé e per la loro bambina. Le vite dei due personaggi si intrecciano quando il ragazzo americano sale sul taxi dell’iracheno e si fa accompagnare a casa dell’ex moglie con

l’intenzione di incontrare la figlia; i due uomini iniziano a raccontarsi le proprie vite, in un crescendo di drammaticità, fino alla conclusione inaspettata della vicenda che, all’inizio e alla fine, è accompagnata dal suono delle onde, metafora del tragico passato del tassista. Entrambi gli uomini, pur appartenendo a due stati in guerra su fronti opposti, hanno una cosa in comune: vivono le indelebili conseguenze psicologiche della della guerra, che non finisce con il cessare degli scontri (come si legge nella locandina, a destra: Only the dead know the end of war, solo chi muore conosce la fine della guerra). Attraverso la storia dei due personaggi, al tempo stesso molto simili e molto diversi, il regista, segnato personalmente dalle perdite subite durante la guerra civile in Algeria, offre il proprio contributo alla necessità di “portare le persone con visioni contrastanti del mondo a parlarsi, a comprendere i punti di vista reciproci, a rispettare le differenze esistenti nel mondo e infine a vivere in pace”.

MEET THE JURY! AND THE WINNER IS… la redazione Vengono da diverse regioni d’Italia e d’Europa, dall’Africa, dal Medio Oriente, dal subcontinente indiano, ma anche dalle Filippine, dalla Cina e dal Giappone. Il folto gruppo degli ospiti internazionali anche quest’anno darà vita al ‘laboratorio di convivenza’ che da sempre rende speciali le giornate del Festival, con tempi di riflessione, workshop e momenti di incontro nello spirito della convivialità delle differenze. Tra loro i cinque componenti della giuria internazionale chiamati al delicato compito di assegnare i premi per il miglior lungometraggio, cortometraggio, documentario, documentario corto, insieme al riconoscimento caratteristico “Nello spirito della fede”. Si tratta di Godfrey Omorodion (Nigeria), presidente della Nigeria Film Society, fondatore e direttore del Benin City Film Festival; Liya Gilmutdinova (Tatarstan-Russia), direttrice del settore cinematografico del Ministero della Cultura della Repubblica del Tatarstan, che riconferma la partnership con il festival musulmano di Kazan; Shanta Nepali (Nepal) produttrice di programmi e documentari su natura, viaggio e avventura, in onda anche su emittenti internazionali quali Discovery Channel e Animal Planet; e Mo Hamid (Bangladesh), vincitore di prestigiosi premi per i suoi documentari e lavori di teatro. Il membro italiano della giuria sarà Roberto Paglialonga, del Dicastero vaticano dello Sviluppo Umano e Sostenibile.

Altri premi speciali saranno attribuiti, come di consueto, dalla giuria SIGNIS (l’Associazione Cattolica Mondiale per la Comunicazione), dal coordinamento dei film festival trentini CinemAMoRe e da enti e realtà partner che interpretano alcuni degli interessi e dei filoni tematici da sempre cari al Festival: sono nati così, negli scorsi anni, i premi “Nello spirito della pace” del Forum trentino per la pace e i diritti umani, “Migrazioni e coesistenza” del Servizio diocesano Pastorale Missionaria e delle Migrazioni, “Religioni con gli occhi di donna” della giuria interreligiosa espressa dal Comune di Arco, cui si aggiunge il premio “Nuovi sguardi” conferito dagli studenti della Facoltà di Scienze della Comunicazione Sociale dell’Università Pontificia Salesiana. Il premio per la “Miglior colonna sonora” sarà conferito da Musica Riva Festival in collaborazione con il Conservatorio “F.A. Bomporti” di Trento; novità del 2019 è infine la menzione “Film For Our Future”, espressione del coordinamento di una varietà di film festival e organizzazioni internazionali che mira a creare un impatto coinvolgendo i giovani registi per informare e ispirare persone di ogni ceto sociale sulle grandi sfide globali. La cerimonia di premiazione avverrà mercoledì 9 ottobre nella straordinaria cornice delle Dolomiti del Brenta. “Vogliamo che i nostri ospiti internazionali portino nel cuore il ricordo delle nostre montagne, e di una cerimonia di premiazione indimenticabile a 1550 metri di quota” spiega Alberto Beltrami, presidente dell’Associazione Bianconero, che organizza il Festival. Tutti i film premiati saranno proiettati al Teatro San Marco di Trento nella giornata di giovedì 10, per una lunga maratona di cinema che dalle 10 del mattino proseguirà fino alla serata e ai saluti con il concerto degli amici dell’Orchestra Fuori Tempo (nelle fotografie in basso, con il direttore artistico di Religion Today, Andrea Morghen). Ma il Festival continua, a Bolzano, a Rovereto, a Roma e con nuovi scambi internazionali: stay tuned sul nostro sito www.religionfilm.com.

FESTIVAL

MOVIES THAT MATTER


GENTE DA FESTIVAL IN REDAZIONE DAI BANCHI DI SCUOLA Anche quest’anno la rivista del Festival raccoglie il lavoro maturo e appassionato di due classi dell’Istituto Sacro Cuore. Ringraziamo di cuore le ragazze del 5 Liceo delle Scienze Umane (in piedi sul muretto: Helena Caldonazzi, Elena Amistadi, Clarissa Lorenzini; sedute sul muretto: Francesca Assi Del Forte, Camilla Caccavale, Greta La Marca, Sara Fedrizzi, Isabella Mamone Capria, Isabella Zamboni, Elena Bugoloni; sedute in primo piano: Lisa Paternuosto, Agnese Andreotti, Sofia Delpero, Camilla Floriani), guidate dalla professoressa Fabiana Cosatto; e gli studenti del 5 Istituto Tecnico Tecnologico Grafica e Comunicazione (in piedi sul muretto: Gianluca Marocchi, Luca Parisi, Leo Sanna, Francesco Zanetti; seduti sul muretto: Silvia Oss, Beatrice Michelon, Natanaele Fiorito, Jessica Ferliga, Davide Bernardi, Andrea Pittigher, Mattia Zanella, Lorenzo Canali, Elena Panebianco, Arianna Frare; seduti in primo piano: Massimiliano Dalfovo, Gabriele Lott, Filippo Martina, Silvia Bruti Kapalas, Erika Marotto), guidati dalla professoressa Mila Margini.

Religion Today è realizzato grazie a: Promotori - Provincia autonoma di Trento / Regione Autonoma Trentino Alto Adige / Comune di Trento Con il contributo di - Fondazione Caritro / Comune di Arco / Comunità Alta Valsugana / Comune di Rovereto / Forum Trentino per la Pace e i diritti umani / Cassa Rurale Alta Valsugana Main partner - Arcidiocesi Trento / Dhaka International Film Festival / Women of Faith for Peace / OFM Ordo Fratrum Minorum / Religion for peace Europe Collaborazioni - APT Madonna di Campiglio Pinzolo Val Rendena / Associazione Cristiano-culturale degli Ucraini in Trentino “RASOM” / Associazione Giovani Arco / Associazione Sulle Strade del Mondo Onlus / Aurora vision / CinemAMoRE / Cineforum San Marco / Cinit - Cineforum Italiano / Comune di Bolzano / Conservatorio “F.A. Bonporti” di Trento / FBK-ISR Centro per le Scienze Religiose Fondazione Bruno Kessler / Fondazione S. Ignazio Trento / Gruppo editoriale Tangram / Islamic Relief Italia / MalEdizioni / Noi Oratori Pergine / SIGNIS / Tavolo locale delle appartenenze religiose, Trento / UCOII Unione delle Comunità Islamiche d’Italia / Università degli studi di Trento – Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale / Università Pontificia Salesiana / Brescia Winter Film Festival Sponsor Ferrari / Maso Dossi / Fenz / Hotel Maribel Media partner - Nigrizia / Vita Trentina / La Nuova Sud.

N°1 / ANNO X / 2 OTTOBRE 2019 COPIA OMAGGIO RELIGION TODAY FILM FESTIVAL www.religionfilm.com

DIRETTORE — ANDREA CAGOL EDITO DA — ASSOCIAZIONE BIANCONERO / RELIGION TODAY FILM FESTIVAL

DESIGN E IMPAGINAZIONE — LORENZO FANTETTI ILLUSTRAZIONE IN COPERTINA — CHIARA ABASTANOTTI + LUIGI FILIPPELLI STAMPATO DA — FLYERALARM.COM


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