r i c o s t r u i r e i l m o s a i c o
Colpito dall’amore. Ricordo di padre Adel’gejm
Marta Dell’Asta Un comune caso di cronaca nera: un prete ucciso da uno squilibrato. Ma dietro questo crudo fatto di sangue c’è una vita spesa senza misura per Dio e per gli uomini. Padre Pavel Adel’gejm non è mai stato tranquillo, si è sempre esposto là dove la Chiesa rinasceva. Ne raccontiamo la storia.
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O SCORSO 5 AGOSTO A PSKOV è morto un sacerdote ortodosso,
pugnalato al cuore da uno squilibrato che ospitava in casa da
giorni. Un caso tragico, come se ne verificano talvolta tra
quelli che praticano l’accoglienza fino all’imprudenza, come faceva
appunto padre Pavel.
Ma questa morte tragica assume un senso profondo perché è stata il
coronamento della vita «fuori misura» di un uomo straordinario,
che ha fatto della fede in Cristo la propria forza, in mezzo a sciagure
che avrebbero annientato molti. Padre Pavel Adel’gejm è stato quel che si dice «un prete scomodo»,
uno che spiaceva ai potenti in Unione Sovietica come in Russia; si
può dire che la sua vita è trascorsa sotto il doppio segno dell’amore
bruciante di Dio e della difesa della Chiesa dal potere di questo
mondo. Nato in pieno terrore staliniano, padre Pavel rientrava in tutte le
categorie sociali più invise al regime sovietico: di origini tedesche,
figlio e nipote di nemici del popolo, credente e poi addirittura prete;
ha sofferto personalmente tutte le forme di persecuzione religiosa, –
dall’aggressione fisica all’ingerenza nella vita della Chiesa, dalle per
secuzioni giudiziarie a quelle amministrative, – praticamente senza
interruzione sino ai giorni nostri, e a tutte ha trovato il modo di resi
stere tenendo lo sguardo fisso sull’amore di Dio che aveva incontrato
da bambino. La cosa che lo distingue è che, nonostante fosse un lot
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tatore e la sua vita fosse costellata di conflitti, non si è mai lasciato vincere dal risentimento, e anzi ha largamente praticato la misericor dia.
Segnato dalla morte e dalla gioia
Nel tondo: il giovane
Pavel negli anni ‘50.
Sopra: con la moglie
Vera.
3. Stepan Fomin (in religione Sevastian di Karaganda), (1884 1966), è stato canonizzato dalla Chiesa ortodossa nel 2000. Nell’eremo di Optinve sono trat te da un’intervista del 10 genna io 2008, pubblicata sulla rivista online «Predanie». 3. Stepan Fomin (in religione Sevastiizzato dalla Chiesa orto dossa nel 2000. Nell’eremo di Optina Pustyn’ fu allievo dell’ul timo starec Nektarij; alla chiusu ra del monastero nel 1923 svolse il ministero sacerdotale in vari luoghi fino all’arresto nel 1933. Scontò 7 anni di lager prima presso Tambov poi in Kazachstan, nel terribile campo di Dolinka. Dopo la liberazione rimase fino alla morte nella regione di Karaganda, dove nel 1955 riuscì persino a costruire una nuova chiesa.
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La morte violenta ha toccato la sua famiglia per tre generazioni con secutive: prima di lui, il nonno paterno, industriale d’origine tedesca, viene fucilato a Kiev nel 1938, pochi mesi prima della sua nascita; suo padre Anatolij è fucilato a 31 anni nel 1942, quando lui ha solo 4 anni; anche il nonno materno, colonnello dell’esercito zarista, scompare durante la guerra civile. Parlando della sua famiglia, padre Pavel diceva: «Il regime ha ritenuto necessario fucilarli…». All’arresto del marito, la mamma Tat’jana, che non dev’essere una donna fragile, prende in braccio il bambino e va dritta all’NKVD per chiedere giu stizia. Il suo tentativo disperato non finisce bene, l’arrestano seduta stante e il piccolo finisce in un istituto per un anno. Poi, nel 1946, quando Pavel ha 8 anni, la mamma viene arrestata di nuovo e lui torna in un orfanotrofio, che non ha niente a che vedere con un moderno istituto ma è un vero riformatorio, che riesce a fare dei figli dei nemici del popolo dei ligi ragazzi sovietici. Da questi istituti di solito si esce radicalmente «rieducati», anche perché in molti di questi bambini soli e smarriti gioca l’inconscio desiderio di «lavare» la colpa dei genitori per sentirsi come tutti gli altri; solo in rari casi le personalità più forti riescono a resistere, ma in questi casi soffrono per sempre di un tormentoso rancore. La memorialistica e la letteratura ci offrono tanti esempi del genere, da Ol’ga Sliozberg, che dopo anni di lager trova i figli iscritti ai giovani comunisti, che la guardano con 1 sospetto; a Vladimir Maksimov , che diventato ragazzo di strada, nel riformatorio concepisce un astio radicale per il sistema. Anche Pavel Adel’gejm, per come vanno le cose, sembra destinato ad essere «sovie tizzato», a perdere la memoria di sé e della propria famiglia, e invece accade che non si lascia «normalizzare», non si vergogna dei genitori e quanto ai suoi sentimenti verso il regime, sicuramente non sono teneri, ma saranno gli incontri e le esperienze successive a purificarli e a volgerli verso uno scopo costruttivo. Quando la mamma, dopo il lager, viene mandata al confino ad Aktau, una sperduta cittadina mineraria del Kazachstan, lui ha la fortuna di poterla seguire, e da quel momento la sua vita ha una svolta radicale, perché in un villaggio vicino incontra casualmente una comunità ortodossa clandestina. Per questo incontro che ha
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determinato la sua vita padre Pavel sarà grato a Dio per sempre; diceva: «Le parole evangeliche: “Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Gv 14,6), significano che Dio stesso ci porta a Lui. A noi non resta che descrivere le circostanze e le persone attraverso cui Dio tocca il cuore dell’uomo…»2. Nel suo caso succede che la mamma, che come deportata non può lasciare Aktau, un giorno gli dà 50 rubli e lo manda a Karaganda a fare la spesa ma lui, lungo la strada, si imbatte fortuitamente nel villaggio di Bol’šaja Michajlovka, dove c’è la comunità di padre Sevastian, uno degli ultimi mona ci del monastero di Optina Pustyn’3. Così incomincia la sua vita di fede: la prima cosa che lo colpisce di quella gente è la bontà con cui accoglie lui ragazzino solo e affamato; poi subentra la curio sità ma, soprattutto, il fatto che quella gente sa rispondere alle domande più difficili. Da allora prende ad andarci regolarmente: «La verità che l’uomo cerca e rag giunge non ha bisogno di dimo strazioni: è testimonianza a se stes sa. Lo stesso vale per la vita spiri tuale: è testimonianza a se stessa. Quando sono venuto in contatto con la comunità di padre Sevastian, l’ultimo monaco di Optina, non posso dire di aver capito o trovato qualcosa, semplicemente mi sono sentito a mio agio. Ho trovato la mia vita, ho trovato me stesso in quella comunità». A tredici anni decide che diventerà prete e la mamma, trascinata dal suo esempio, prende a frequentare la comunità di Bol’šaja Michajlovka, dove padre Sevastian celebra clandestinamente la liturgia ogni giorno. Lo fa nelle case private, in giro per tutto il paese: nottetempo celebra la liturgia, poi passa in un’altra casa e celebra l’ufficio delle ore, beve un po’ di tè e ricomincia altrove con le confessioni e il catechismo. Ricorda padre Pavel che tutti gli abi tanti del villaggio sono membri della parrocchia: si tratta di contadini deportati come kulaki, gente in gamba, che ama la terra e che sa col tivare un buon orto anche nella sabbia della steppa, gente che scava pozzi e si ingegna a creare ogni sorta di strumento per farla fiorire. Tra loro non sono andate perdute le tradizioni, hanno famiglie nume rose che vivono in modo patriarcale e lui, bambino cresciuto in orfa notrofio, ne sente fortemente l’attrattiva; ricorda che per un certo periodo lo ha attirato anche il fascino romantico della cospirazione
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3. Stepan Fomin (in religione Sevastian di Karaganda), (1884 1966), è Sevastiizzato dalla Chiesa ortodossa nel 2000. Nell’eremo di Optina Pustyn’ fu allievo dell’ultimo starec Nektarij; alla chiusura del mona stero nel 1923 svolse il ministero sacerdotale in vari luoghi fino all’arresto nel 1933. Scontò 7 anni di lager prima presso Tambov poi in Kazachstan, nel terribile campo di Dolinka. Dopo la liberazione rimase fino alla morte nella regione di Karaganda, dove nel 1955 riuscì persino a costruire una nuova chiesa.
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e delle liturgie notturne, ma poi si è lasciato compenetrare dallo spi rito di comunione che si respira in quel luogo, e quella diventa per lui la cosa essenziale: «Era gente molto attaccata alla Chiesa e alle sue tradizioni. La forza dello Spirito era così presente che ciascuno se ne compenetrava e ne viveva. Devo dire che per me la vita sovie tica e la vita della Chiesa erano cose nettamente contrapposte; sen tivo la vita sovietica come ostile perché mi aveva tolto i genitori, mi aveva mandato in riformatorio. Mentre nella vita della Chiesa percepivo un grande benessere interiore». Il cuore di questa vita è padre Sevastian, un uomo basso e magro, con radi capelli grigi e una lunga barba, che è stato uno dei primi testimoni della fede nel XX secolo ad essere canonizzato dal Concilio della Chiesa ortodossa. Ed è proprio padre Sevastian a risvegliare in Pavel adolescente l’interesse per la vita liturgica: «Il rapporto con lui mi ha fatto innamorare della Chiesa una volta per sempre. Da quel momento la mia coscienza ha trovato il suo punto fermo nella Provvidenza divi na. Il Mistero della Provvidenza mi si è rivelato nelle circostanze della vita. Da quel momento la Provvidenza edifica la mia vita, io non faccio che accoglierla con gratitudine». 3. Stepan Fomin (in religione Sevastian di Karaganda), (1884 1966), è Sevastiizzato dalla Chiesa ortodossa nel 2000. Nell’eremo di Optina Pustyn’ fu allievo
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Kiev e l’Asia Centrale Dopo la morte di Stalin le maglie degli organi repressivi si fanno un
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po’ più larghe e Pavel ne approfitta per lasciare i luoghi di deporta zione; nel 1954 approda a Kiev ed entra nel Monastero delle Grotte ma non ufficialmente come novizio, perché è ancora minorenne. «La vita del monastero era ben cadenzata, severa e intensa»; i due anni di permanenza in questo luogo gli infondono una vera devo zione per il monachesimo, e tuttavia capisce che non è questa la sua strada perciò, compiuti i 18 anni, nel 1956 passa al seminario di Kiev, incominciando la preparazione al sacerdozio. Anche questa nuova vita gli pare bella e piena di letizia grazie all’incontro con «insegnanti straordinari» per cultura e umanità. Pavel trova, per la prima volta in vita sua, un’autentica biblioteca e si tuffa nella lettura forsennata di tutto quello che fuori di lì non esiste. Ma il terzo anno arriva come nuovo rettore l’igumeno Filaret, un monaco trentenne con ambizioni di carriera4 che vuole compiacere in ogni modo il funzionario da cui tutto dipende, il «delegato agli affari religiosi», longa manus locale del KGB. Il rettore vuole far sì che il seminarista Adel’gejm se ne vada, perché ha osato protestare contro il fatto che i festeggiamenti del 1° maggio in seminario si sono sovrapposti al Venerdì Santo. Per raggiungere il suo scopo Filaret estorce a un compagno di corso una denuncia (padre Pavel vedrà in seguito, nel proprio fascicolo giudiziario, la lettera scritta di pugno dall’amico5, ma per 50 anni non farà il suo nome); così nel 1959 Adel’gejm si trova espulso e deve cercare un vescovo che abbia il coraggio di ordinarlo; i monaci del Monastero delle Grotte gli consigliano di rivolgersi a monsignor Ermogen Golubev, arcivescovo di Taškent, in Uzbekistan. L’incidente con Filaret si rivela una vera fortuna, perché viene accol to dall’arcivescovo Ermogen nella sua diocesi, e per la seconda volta nella vita ha la possibilità di vivere accanto a dei veri maestri e testimoni della fede. Qui si compie la sua maturazione umana e cri stiana, diventa, come l’hanno definito, «un uomo non sovietico in un mondo sovietico», un «resistente» disarmato ma irriducibile. Attorno a lui non mancheranno mai i maestri. Ricordando quel periodo della sua vita, padre Pavel ha detto: «La diocesi di Taškent era forte non per i mezzi che aveva ma per i tesori di spirito, di apertura mentale, di cultura illuminata che possedeva. Non si trattava di una cultura puramente secolare, scolastica, c’erano persone che vivevano la vita dello spirito, per le quali la vita era concentrata in Cristo. C’era una vita spirituale di grande libertà, senza alcuna forma di costrizione» 6. In effetti, per una serie di circostanze (le deportazioni, le evacuazioni durante la guerra) il regime ha involontariamente creato in Asia Centrale un micro mondo a se stante, concentrandovi il meglio della società colta (Anna Achmatova, Lidija Cˇukovskaja, Aleksandr
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“Nei suoi articoli, nei libri, nelle numerosissime interviste (padre Pavel accetta di parlare con chiunque, ed è forse uno dei sacerdoti più noti all’opinione pubblica) non si coglie mai il risentimento ma piuttosto il dolore, unito a una grande pacatezza„
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Solženicyn) e della Chiesa ortodossa. Anna Achmatova in una poesia ricorda l’evacuazione a Taškent come «la casa asiatica …solida» dove «si può stare tranquilli»7. In questa «casa asiatica» in quegli anni vivono, volontariamente o costretti, grandi testimoni della fede come il metropolita Arsenij Stadnickij (uno dei tre candidati al soglio patriarcale nel ‘17); il futuro metropolita Gurij Egorov (fondatore della Confraternita di Sant’Aleksandr Nevskij a Pietrogrado); il vescovo chirurgo Luka VojnoJaseneckij (per due volte vescovo di Taškent, grande scien “Nei suoi articoli, nei ziato insignito del Premio Stalin); lo stesso arcivescovo Ermogen Golubev; molti figli spirituali dei padri Aleksij e Sergij Mecˇëv, di libri, nelle Ioann di Kronštadt, del metropolita martire Veniamin Kazanskij. numerosissime Dopo due anni di diaconato e il compimento degli studi interviste (padre all’Accademia teologica di Mosca, Pavel scopre che, per essere ordi Pavel accetta di nato sacerdote deve prima trovarsi una moglie, ma purtroppo lui non conosce nessuna ragazza. Su indicazione di un sacerdote, fa un parlare con chiunque, lungo viaggio nella zona di Cˇernigov per andare a conoscere la ed è forse uno dei diciassettenne Vera: nel giro di tre giorni fanno conoscenza, si fidan sacerdoti più noti zano e registrano il matrimonio civile. Siamo nel 1964, e in campa gna celebrare un matrimonio religioso è ancora uno scandalo; il all’opinione pubblica) direttore del kolchoz chiama la polizia, i soldati e anche il KGB, gli non si coglie mai il sposi sono costretti a fuggire per i campi senza neanche fare il pranzo risentimento ma di nozze. Scappano tutta la notte ma «faceva caldo, era bello. È stato un vero viaggio di nozze», ricorderà padre Pavel. piuttosto il dolore, Subito dopo viene ordinato sacerdote e inizia il ministero nella cit unito a una grande tadina di Kagan, in Uzbekistan; si getta alacremente nel lavoro e pacatezza„ nel 1969, in tempi non più sanguinari ma comunque di lotta anti religiosa, costruisce una nuova chiesa. E viene arrestato.
In lager tra i criminali A distanza di oltre quarant’anni, padre Pavel diceva di non avere ancora capito i motivi di quell’arresto: «Penso di essermi forse allar gato troppo. La mia chiesa di Kagan andava letteralmente in rovina. Ci diedero il permesso di restaurarla, ma quando togliemmo il tetto l’edificio crollò. Dovemmo per forza ricostruire ex novo, del resto ci erano già stati assegnati i mattoni…». Chiede a uno zio architetto di fare il progetto, poi gira qua e là per mezza Unione Sovietica e si fa regalare di tutto: lastre di marmo, un’intera iconostasi; in più coinvolge tutti i parrocchiani nell’opera: a Buchara le vecchie caricano i mattoni su una macchina, a Kagan altre vecchie li scaricano. In due mesi la chiesa è costruita. Ma darsi
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Nel tondo: il giovane Pavel negli anni ‘50. Sopra: con la moglie Vera.Nel tondo: il gio vane Pavel negli anni ‘50. Sopra: con la moglie Vera.
troppo da fare attira l’attenzione delle autorità così, alla fine, viene arrestato nel dicembre 1969 e la moglie resta sola con tre bambini. Tuttavia nella generale miseria, Vera troverà sempre chi l’aiuta: ora è l’arcivescovo Ermogen che alle feste le manda dei soldi; ora è la monaca Evgenija Miller che rinuncia a metà del magrissimo stipen dio d’insegnante per darlo a lei; ora è padre Milij Rudnev, compagno di seminario di Pavel, con sette figli, che offre regolarmente un aiu to. Nella drammaticità della vita di padre Pavel si può constatare che nelle disgrazie c’è sempre un risvolto di bene che apre possibilità di carità e di grazia, di arricchimento spirituale. È così anche questa volta: nei mesi dell’inchiesta, per non stare con le mani in mano in prigione, padre Pavel chiede di poter lavorare con la squadra degli imbianchini. Un giorno, entra in una stanza dove tengono gli oggetti confiscati nelle perquisizioni e scopre una montagna di libri interes santissimi, ma soprattutto trova in un bauletto il necessario per la Liturgia da campo, e addirittura l’eucaristia. La nasconde in un faz zoletto che terrà sempre legato al collo e per tutti gli anni di reclusione potrà fare la comunione. Il caso del sacerdote arrestato in Asia Centrale fa scalpore, almeno
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3. Stepan Fomin (in religione Sevastian di Karaganda), (1884 1966), è Sevastiizzato dalla Chiesa ortodossa nel 2000. Nell’eremo di Optina Pustyn’ fu allievo
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negli ambienti del dissenso; la rivista del samizdat «Cronaca degli avvenimenti correnti»8 riporta le notizie del suo arresto e della con danna a 3 anni di lager. Sulla stampa locale, «Pravda Vostoka», escono ben due articoli su Adel’gejm, Dalla vita del “santo Pavel”, e Padre Pavel senza maschera, perché la propaganda vuole che la vittima sia infangata, ma la cosa che più sorprende nella sua paradossalità, è che in questi articoli si citano delle frasi degnissime di padre Pavel, come questa presa dal suo diario: «Il mio scopo nella vita è vincere la mia natura corrotta, voglio vincere in me il vizio odioso dell’egoi smo. Voglio diventare una persona autentica, cioè buona, magnani ma, onesta… per vincere ogni istante l’egoismo e non vivere più per la mia soddisfazione ma per far sì che attraverso la mia presenza la gente attorno stia meglio e sia più felice, … che diventi migliore». Considerando la sua vita successiva, si può dire che quel proposito giovanile è diventato per lui esperienza quotidiana. Dal testo della condanna, pronunciata nel luglio 1970, si capisce poi l’altro motivo dell’arresto, oltre alla costruzione della chiesa: «la produzione e diffusione di samizdat»; lo stesso elenco dei materiali requisiti a padre Pavel lascia capire molte cose del suo modo di fare il parroco: la lettera di Solženicyn al IV Congresso degli scrittori aperta dei sacerdoti Ešliman e Jakunin al patriar sovietici; la Lettera ca Aleksij; estratti delle opere di V. Ivanov, M. Vološin e A. Achma tova; la lettera dell’arcivescovo Ermogen a Kuroedov, delegato per gli Affari religiosi. Si tratta di «propaganda religiosa» in piena regola, ma una frase di Adel’gejm citata dalla «Pravda Vostoka» testimonia esplicitamente che lui non fa tutto questo per combattere il regime quanto piuttosto per spalancare la coscienza dei suoi fedeli: «Oggi il cristiano deve restituire alla società la vera bellezza, scacciata dalla nostra assurda vita». Il ricorso non viene accolto e padre Pavel finisce nel campo di KyzylTepo; lì, nel 1971, il suo carattere poco incline ai compromessi fa sì che si scontri con il direttore; l’incidente accade quando cerca di impedire i pestaggi di detenuti organizzati dall’amministrazione. A questo punto tentano per tre volte di eliminarlo, e alla terza rie scono a stritolargli la gamba destra sotto una gru. Per mancanza di soccorsi tempestivi e di un’operazione necessaria, dopo un mese inizia la cancrena, così dovranno amputargli la gamba sopra il ginoc chio. Il resto della pena lo trascorre in un lager speciale per invali di. Nonostante tutta questa violenza, del lager padre Pavel parlerà sem pre serenamente, quasi con dolcezza, perché lì ha trovato un gregge tutto speciale, come racconta in un’intervista9: «Al mattino anda vamo al lavoro. Ci mettevano in fila per cinque. Un giorno vedo che all’ingresso c’è un enorme tabellone dove sta scritto: “Persone
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NEL GIORNO DEL MIO 75° COMPLEANNO • Pavel Adel’gejm Il 1° agosto 2013, quattro giorni prima di essere ucciso, nel giorno del suo compleanno, padre Pavel ha inviato un messaggio ai membri della Confraternita della Trasfigurazione, guidata da padre Georgij Kocˇetkov, di cui era entrato a far parte qualche anno fa. Il suo messaggio è diventato una specie di testamento spirituale. «Non siamo noi a contare i nostri giorni», osserva Puškin. Eppure l’età si annuncia con segni inequivo cabili. La vita si appressa al confine che viene chiamato «vecchiaia». L’anima è piena di fuoco, ma il corpo è stanco. Seguendo le parole del salmista, possiamo riconosce con chiarezza che si avvicina il limite della vita: «Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti, ma quasi tutti sono fatica, dolore» (Sal 89,10). A questa età si accoglie ogni nuovo giorno con gratitudine come un dono di Dio, e ci si rammarica di aver buttato via tanto tempo. San Paolo esorta: «Profittate del tempo presente, perché i giorni sono cattivi» (Ef 5,16). Sembrava di averne tanti davanti, ma si sono dispersi come sabbia, e ri mangono solo i ricordi del passato. Nel vortice del tempo e degli affanni quotidiani l’importante è non perdere di vista il fine dell’esistenza e non confondere il fine con i mezzi per raggiungerlo. La cosa principale è lo scopo, i mezzi sono secon dari. Il fine non giustifica i mezzi; un fine degno richiede mezzi degni. Non appena giustifichiamo i mezzi col fine avviene un capovolgimento, e i mezzi prendono il posto del fine. Quello che è secondario va al posto dell’essenziale, mentre l’essenziale esce dal nostro orizzonte e perde il suo valore. Quando ciò che è secondario va al posto di ciò che è principale perde il suo vero significato. Per questo è così im portante discernere e non confondere il fine, il compito con gli strumenti necessari per raggiungerlo. La Scrittura chiama in vari modi il fine della vita cristiana. Cristo lo chiama Regno di Dio: «Cercate an zitutto il regno di Dio e la sua giustizia» (Mt 6,33). In un altro punto Cristo dice che il fine è permanere in Dio: «Rimanete in me e io in voi» (Gv 15,4). Lo chiama anche vita eterna: «Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 17,3). San Pietro dice che lo scopo del cristiano è la deificazione: «partecipi della natura divina» (2 Pt 1,4). Per san Serafim lo scopo della vita cristiana è acquistare lo Spirito Santo. Questo fine si raggiunge con vari mezzi. È necessario preservare pura la coscienza, preservare il cuore dalle intenzioni malvagie e l’immaginazione dalle immagini perverse. In questo ci aiutano la temperanza, la preghiera e le elemosine. Il fine determina anche i nostri compiti quotidiani. Cristo esprime il nostro compito incessante con un breve precetto: «Vegliate!» (Mc 13,35). E tutto questo: il fine, i compiti e i mezzi per raggiungerlo, forma il con tenuto della vita cristiana, riassunta in Cristo. «Per me infatti il vivere è Cristo» (Fil 1,21), scrive san Paolo, esprimendo con queste pa role il contenuto della vita cri stiana dai tempi apostolici fino ai nostri giorni. Nell’amore di Cristo, sacerdote Pavel
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“Nei suoi articoli, nei libri, nelle numerosissime interviste (padre Pavel accetta di parlare con chiunque, ed è forse uno dei sacerdoti più noti all’opinione pubblica) non si coglie mai il risentimento ma piuttosto il dolore, unito a una grande pacatezza„
da perquisire quotidianamente” e sotto 19 nomi. Il primo, in ordine alfabetico, è il mio. E qui succede la cosa interessante: in quell’elenco ci sono, naturalmente, i peggiori delinquenti, ma io sono in cima alla lista. Nel campo nessuno conosce il mio nome e tutti pensano che io sia “il capo dei capi” nel mondo criminale. Mi si presenta una delegazione che mi invita nella baracca dei delinquenti comuni. Mi hanno già preparato un posto, mi si fanno intorno e mi dicono: “Racconta”. Io comincio e loro capiscono subito che ci dev’essere un errore. Si chiarisce l’equivoco ma mi dicono: “Vabbè, visto che la direzione ti ha messo con noi, accomodati pure”. Così mi sono ritrovato a vivere a contatto di gomito coi banditi. Per loro era una cosa interessante. Innanzitutto dovevo scrivere per tutti i ricorsi al tribunale, ma soprattutto si annoiavano ed io potevo raccontare loro qualcosa. Ho tirato fuori tutto quel che sapevo: recitavo poesie, cantavo canzoni, raccontavo favole, poi ho attaccato col Vangelo. E loro ascoltavano a tutt’orecchi. Alla fine ho persino iniziato a fare un po’ di lavoro pastorale: io avevo 30 anni e loro erano tutti più giovani di me; poveri ragazzi abbandonati cui era mancato l’affetto dei genitori, sentivano il bisogno di confidarsi con qualcuno e natu ralmente venivano da me. Parlavamo e così, in un certo senso, si confessavano». Vista in questo modo, l’esperienza del lager diventa non solo accet tabile ma persino utile, provvidenziale; lui la chiama «l’interessante avventura triennale che mi ha rivelato la realtà sovietica. A me, che avevo sempre vissuto in un altro mondo, tra i deportati, poi in monastero, poi in seminario». Questa sua accettazione profonda dei fatti della vita, fedele fino in fondo ai disegni della Provvidenza, non può però farci dimenticare il dolore, l’ansia per la famiglia, la lunga sofferenza fisica che gli sono costati gli anni di lager, anche se lui nel raccontare sorvolava sempre. Ci restano solo, a testimoniarli, alcuni versi scritti in quei mesi: «Anche il tempo ha perso la gamba / i giorni arrancano sulle stampelle».
Le nuove battaglie Tornato in libertà nel 1972, padre Pavel cerca subito una nuova parrocchia, ma nessun vescovo è disposto a prendere un sacerdote reduce dal lager; gli toccherà andare direttamente al KGB a chiedere che gli lascino fare il prete, «oppure fucilatemi». La parrocchia alla fine si trova, a Fergana in Asia Centrale, poi altrove, infine nel 1976 approda a Pskov, nella Russia settentrionale.
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Per alcuni anni deve fare il semplice vicario parrocchiale, poi nell’81 riceve una parrocchia appena fuori città, a Piskovicˇi. E finalmente arriva l’anno della svolta, il 1988 in cui cade il Millennio del batte simo della Rus’, che si festeggia sotto il segno della liberalizzazione religiosa. Padre Pavel ne sente subito gli effetti poiché gli affidano una seconda parrocchia a Pskov, la chiesa delle Donne Mirofore, un capolavoro architettonico in rovina, chiuso da 55 anni. Nella nuova situazione padre Pavel torna a darsi da fare come sa: ricostruisce le chiese ma non si limita a questo, ricrea la comunità, diventa un punto di riferimento, la sua casa è un porto di mare, costruisce anche una nuova chiesa a Bogdanovo; nel 1992 apre una scuola, nel 1993 un ospizio per orfani handicappati. Non ha soldi né appoggi ma riesce a smuovere mari e monti. Inoltre, come esperto di diritto canonico, interviene pubblicamente sui problemi della Chiesa ortodossa russa. Gli interventi di padre Pavel nel samizdat sono numerosi almeno sin dagli anni ‘80; il suo tema preferito sono i rapporti tra Stato ateo e Chiesa, tra ideologia e libertà di coscienza; i suoi articoli escono anche sulla stampa dell’emigrazione russa a Parigi, le sue prediche circolano dattiloscritte. Perciò, caduto il regime, gli sembra naturale proseguire questa attività ed esprimersi a proposito dei fatti nuovi che accadono nella Chiesa. La sua preoccupazione costante, il suo vivo desiderio è liberare al più presto la Chiesa dalle vecchie pastoie sovietiche, perché sia interiormente libera. Ritiene infatti che i tempi siano cambiati ma che il potere mondano tenga ancora le sue grinfie sulla Chiesa, e questo non lo si può accettare, proprio per amore della Chiesa stessa: «La sfida della libertà è stata molto difficile per la Chiesa». La sua critica non va tanto ai casi di corruzione, quanto a certe scelte e riforme ecclesiastiche che giudica esiziali per l’ortodossia, perché capaci di corromperne la vera natura e impedire la salvezza delle anime; in particolare lo preoccupano la stretta alle anza con lo Stato, l’ideologia patriottica, la verticale interna del potere. Scrive: «La sinfonia tra potere politico e Chiesa è innaturale ed esiziale per entrambi. Dando l’appoggio al potere, i vescovi ne ricevono privilegi, beni, soldi ed altro. E pagano con la libertà spi rituale. La Chiesa diventa schiava e giustifica gli atti del potere imperiale, così facendo dissipa l’autorità morale di cui godeva presso la società civile»10. Un altro problema che lo preoccupa molto è il persistere nella Chiesa della «linea sergiana», iniziata con la Dichiarazione di lealtà al regime sovietico sottoscritta dal metropolita Sergij nel 1927: «La Dichiarazione incarna lo stalinismo spirituale di cui da tempo sof frono sia il paese che la Chiesa. Una malattia non si può “migliorare”, si deve curare, se il malato vuole guarire»11. Il vero problema della
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“Nei suoi articoli, nei libri, nelle numerosissime interviste (padre Pavel accetta di parlare con chiunque, ed è forse uno dei sacerdoti più noti all’opinione pubblica) non si coglie mai il risentimento ma piuttosto il dolore, unito a una grande pacatezza„
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Dichiarazione, secondo lui, non è la lealtà allo Stato ma la rinuncia alla verità. Nel 2001, dopo che nel 1996 il celebre monaco iconografo Zinon viene sospeso a divinis per essersi comunicato da un sacerdote catto lico12, Adel’gejm redige un lungo documento molto circostanziato in cui argomenta teologicamente la non canonicità della sanzione ecclesiastica. In tal modo si aliena le simpatie del suo vescovo; per altro, pochi mesi più tardi sarà il patriarca stesso a togliere le sanzioni all’archimandrita Zinon. Un’altra occasione di scontro è costituita, nel 2002, dalla pubblica zione del libro Dogma della Chiesa nei canoni e nella prassi13; nel testo Adel’gejm pone il problema dei rapporti tra i membri della Chiesa, in particolare esamina il ruolo del vescovo e la natura del suo mini stero, l’importanza della sobornost’ (la conciliarità) basata su amore e libertà, e la sua frequente sostituzione con una «verticale del pote re» di impronta civile. Quello stesso anno la parrocchia di Piskovicˇi viene tolta a padre Pavel, e l’annesso ricovero per bambini handi cappati smette di funzionare. In seguito viene sollevato anche dalla nuova chiesa di Bogdanovo, da lui costruita; infine nel 2008 perde anche la parrocchia delle Donne Mirofore a Pskov, dove è retrocesso a semplice vicario; anche la scuola lì accanto viene chiusa. L’ultimo casus belli tra padre Pavel e il Sinodo è la sua opposizione al nuovo statuto parrocchiale, introdotto nel 2008, perché a suo vedere san cirebbe il potere assoluto del vescovo rispetto al clero e ai fedeli. Poi seguono altre dichiarazioni fuori dal coro, come quella sulle Pussy Riot, le ragazze che nel 2012 hanno mimato una litania anti a Mosca; di fronte allo putiniana nella chiesa di Cristo Salvatore scandalo degli ecclesiastici, padre Pavel osserva semplicemente che «quelle povere ragazze vanno compatite e perdonate per il loro sciocco balletto in chiesa»14. Di padre Pavel si è detto più volte, sia in URSS che nella nuova Russia, che è un «prete dissidente», ma questa etichetta non corri sponde ai suoi atti e alle sue intenzioni. Lui si sente un figlio fedele della Chiesa, che ama come propria madre; sul suo blog ha scritto: «Mi chiedono come mai resto nella Chiesa ortodossa russa se non sono d’accordo con i processi che vi accadono. E dove me ne dovrei andare? In questa Chiesa sono stato battezzato e ho trascorso la vita. In questa Chiesa sono diventato sacerdote e l’ho servita secondo coscienza per 50 anni. In quanto sacerdote di questa Chiesa sono finito in prigione e sono rimasto mutilato. Di questa Chiesa erano ministri le persone di cui conservo sin da giovane una riconoscente memoria. Vivo dove sono nato. La Chiesa è cambiata ma io sono rimasto lo stesso, e mi è rimasta l’ultima gioia di celebrare l’Eucaristia. Se me la toglieranno, penserò a dove andare».
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Può sembrare che fare appello, come fa lui, alla lettera della legge si adatti più al dissidente politico che all’uomo di Chiesa, ma l’intenzione della sua protesta non è politica: il suo obiettivo non sono le circo stanze esteriori ma la condizione interiore della Chiesa, quindi non l’aspetto socio politico dell’istituzione ma il fulcro dell’ortodossia. Come ha spiegato nel preambolo dell’articolo in difesa di padre Zinon: «Quando viene meno l’amore abbiamo bisogno della difesa della leg ge». E se la legge non funziona, bisogna farla funzionare. Forse padre Pavel ha peccato di imprudenza denunciando in pubblico i problemi della Chiesa, parlandone in televisione e sui giornali, ma bisogna riconoscergli che anche nelle questioni più spinose ha pro nunciato giudizi equilibrati e prudenti, dandone sempre le ragioni e senza indulgere in scandalismi, senza spirito di crociata: «Solo se scru tiamo con attenzione e insistenza, con occhi pieni di amore, la vita della Chiesa è possibile non perdere di vista il suo vero volto, che non sempre si realizza pienamente nella prassi diocesana»15. Ma soprattutto, padre Pavel non presume di sé: «A differenza della testimonianza degli apostoli, la nostra non è purificata dallo Spirito Santo nei suoi errori e deviazioni, che sono prodotti dalle passioni umane: offesa, invidia, vanità eccetera. Per questo non voglio esagerare il valore delle mie riflessioni e accetto ogni critica fondata»16. Nei suoi articoli, nei libri, nelle numerosissime interviste (padre Pavel accetta di parlare con chiunque, ed è forse uno dei sacerdoti più noti all’opinione pubblica) non si coglie mai il risentimento ma piuttosto il dolore, unito a una grande pacatezza. Sulla vera natura di questa pacatezza non è possibile sbagliarsi… La misericordia è il cuore della sua vita; in predica ha detto che «l’amore significa donarsi continua mente per chi si ama. Non basta offrirsi in sacrificio una sola volta per chi si ama, ma bisogna farlo ogni istante, continuamente. Se smettia mo di farlo, l’amore si volatilizza. Insomma l’amore è la condizione del sacrificio. È l’esperienza del sacrificio». La sua carità è evidente a chi gli sta vicino; dopo la sua morte molti lo hanno descritto come un uomo misericordioso «di rara onestà, apertura, schiettezza e nobiltà», che vive al cospetto di Dio, che vive in spirito di sacrificio, di preghiera e di compassione, con stra ordinaria umiltà, pazienza, obbedienza alla parola di Dio. Quando padre Adel’gejm parla di perdono, si capisce bene che ne conosce il valore e il peso, come ha messo in rilievo Jakov Krotov in un’intervista.
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