Editoriale3_2015

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N.3

(381)

Maggio-Giugno 2015

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editoriale

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a cura di Caterina Dell’Asta Crimea: com’è andata veramente

Lo sforzo della Resurrezione

ricostruire il mosaico

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pietre miliari

Sergej Cˇapnin La Russia dopo la rinascita ecclesiale

Sergij Bulgakov Insegnamenti di grazia di san Sergio

Ljubomir Husar Dove sta la nostra vittoria?

12

74

Augustyn Babiak

russia cristiana notizie

89

Giovanna Parravicini «Come se ci aspettassero da tutta la vita»

L’azione pastorale del metropolita Szeptyckyj opinioni a confronto

23

Andrej Zubov Perché l’Ucraina distrugge i monumenti sovietici

28

Sergej Kovalëv, Oleg Orlov Patriottismo? Parliamone…

36

Giovanna Parravicini Un Giobbe dei nostri giorni

45

Angelo Bonaguro, Sergej Cˇapnin Patria e moralità per la Russia

58

Lev Šlosberg Il Rubicone della Crimea e migliaia di vite

SOSTIENI RUSSIA CRISTIANA CON IL 5 X MILLE Anche per quest’anno è confermata la possibilità, per le persone fisiche contribuenti, di destinare il «cinque per mille» della propria IRPEF a diversi soggetti, tra cui rientra anche la Fondazione Russia Cristiana. La scelta avverrà tramite esplicita opzione • con modello CUD, oppure • con modello 730, o ancora • con Modello Unico Persone Fisiche. Basta apporre la propria firma nella prima sezione relativa anche alle «fondazioni riconosciute» e indicare il codice fiscale della Fondazione che è il seguente: 97110580152.

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Lo sforzo della Resurrezione

I

n questo numero si parla molto di nazione, patriottismo, valori tradizionali: sono i temi che oggi rimbalzano da tutte le tribune in Russia, anche in concomitanza con il 70° della vittoria del 1945. La Russia vuole spasmodicamente sentirsi, riproporsi come un «grande paese», come una potenza mondiale imbattibile e al tempo stesso come una cultura unica. Conseguentemente cerca di ottenere un riconoscimento all’esterno e di riscuotere un credito di riconoscenza da parte dell’Occidente, che «senza l’URSS non si sarebbe mai liberato di Hitler». Ma è qui, appunto, che scatta la falsa identificazione tra la grandezza, indiscutibile, della Russia e il regime sovietico, quell’URSS che non è mai stata veramente giudicata e superata. Quello sovietico è un capitolo ancora aperto ed è per questo che la nostalgia di Stalin ciclicamente risorge, contraddicendo la memoria storica e la semplice razionalità. Molti in Occidente sono disposti a riconoscere alla Russia i suoi meriti, desiderosi di non isolare il grande vicino, ma in realtà l’esigenza russa è difficilmente accontentabile, perché dentro vi brulica anche molto altro che non c’entra con le ingratitudini storiche dell’Occidente. Affiorano e fermentano vecchie ferite, conti aperti della coscienza russa. Ad esempio l’eterno complesso di Stalin, questo mostro che ha prodotto al popolo russo più perdite di Hitler, ma che oggi ritorna sugli altari ed è paragonato a un 2

padre nell’immaginario collettivo. Non si può dire che negli ultimi trent’anni non si sia fatto ogni sforzo, da parte di storici, scrittori e attivisti civili, per illuminare tutti i fatti del terrore totalitario: fosse comuni, documenti d’archivio, testimonianze a centinaia e migliaia. Ma è come se questi fatti provati oggi non incidessero più, non scuotessero più le coscienze – come fece a suo tempo l’Arcipelago Gulag – davanti al fascino della bella leggenda, al mito immarcescibile. Il ritorno dello stalinismo, dello stile poliziesco (come succede in Crimea), del predominio della paura testimoniano che un paese che non ripudia il suo torturatore e non riconosce il male che ha subito come male, ha perso il «principio di realtà», che è l’unico freno contro il predominio assoluto dell’arbitrio e dell’insignificanza. Come aveva intuito G.K. Chesterton: «Tutto verrà negato. Tutto diventerà un credo. Sarà un atteggiamento ragionevole negare l’esistenza delle pietre sulla strada; sarà un dogma religioso affermarlo… Accenderemo fuochi per testimoniare che due più due fa quattro». Ed è esattamente quel che vediamo: oggi persino il Grande terrore staliniano è entrato nella sfera dell’opinabile, un libro uscito di recente ribattezza le purghe staliniane «grande purificazione, dolorosa ma necessaria»; e i lutti familiari provocati da questo terrore sono rimossi, non generano alcun giudizio di condanna.

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È abbastanza evidente il progetto politico che sta dietro a tutto questo, che usa i vecchi miti sovietici, il patriottismo e finanche i «valori cristiani tradizionali» per compattare e mobilitare la popolazione. Ma in nessun modo quest’unità coatta e aggressiva può fare il bene della nazione, come sembrano invece credere molti membri del governo russo. I valori tradizionali, la fede, la difesa della famiglia, l’amor di patria sono una realtà positiva su cui si può veramente costruire il futuro, a patto che siano reali e non puro discorso ideologico. Il sergente russo Aleksandr Aleksandrov, caduto prigioniero in Ucraina il 16 maggio, ha scoperto con amarezza che i suoi superiori, l’esercito cui appartiene e che lo ha mandato a combattere, ora non lo riconoscono più come militare effettivo, il che fa di lui un terrorista e non un prigioniero di guerra. Nell’intervista che ha rilasciato dal letto d’ospedale ha detto: «Il mio patriottismo non è morto. Amo la mia patria. Ma la patria non è il sistema statale né il leader del paese. Sono i miei cari, gli amici, i miei concittadini, i posti dove sono nato. Lo Stato non si è comportato bene rifiutando di riconoscermi. Ha fatto anche peggio coinvolgendo i membri della mia famiglia. Non mi sembra molto umano… Penso all’intervista che ha dato mia moglie alla tivù “Russia 24”, e che mi ha ferito fin nel profondo dell’animo… Penso che insieme possiamo porre fine a tutto questo. Così che né i nostri ragazzi né quelli ucraini

vadano più in guerra». Il dolore fisico e morale ha bruscamente riportato il sergente Aleksandrov alla realtà, del resto non c’è altra via da percorrere, se non quella di una coscienza che si fa vulnerabile alla realtà, per spazzar via finalmente la «teoria del complotto» che attanaglia i russi, i miti patriottici, la pseudo-fede religiosa che annuncia crociate ma lascia la vita tale e quale. Pasternak scriveva che «si potrà vincere la morte / con lo sforzo della Resurrezione»: oggi questo sforzo esige la fatica di un incontro. Mentre la retorica ufficiale sbandiera a buon mercato la difesa del cristianesimo su tutti i fronti, il lavoro dell’incontro, duro e persino tormentoso, spezza l’indistinto impersonale, il pregiudizio, vede i volti reali pur nel dolore. E mentre nel regno astratto dell’ideologia il dolore genera l’odio, nell’universo reale come quello del sergente Aleksandrov il dolore può essere condiviso, e perciò unisce. Né Russia, né Ucraina, né Occidente debbono inseguire gli eroi dell’ira e della vendetta ma solo dei testimoni che mostrino come l’offesa, il dolore e la paura non sono l’ultima parola.

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