N.1
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Gennaio-Febbraio 2015
editoriale
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Nostalgia di unità
ricostruire il mosaico
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Stefano Alberto
Andrej Desnickij
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«Questa è l’opera del Signore: una meraviglia ai nostri occhi»
Marta Dell’Asta L’inverno che ci ha cambiati
Delfina Boero (a cura di) Foto russe dal cuore dell’Ucraina
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Mychajlo Dymyd (intervista di Marta Dell’Asta) Sul Majdan abbiamo imparato l’umiltà
81
passato prossimo
25
il majdan un anno dopo
53
Claudio Cristoni, Giulia Meli
Mariella Carlotti La Sagrada Família
Pietro: roccia o pietra di inciampo?
L’ecumenismo è morto. Viva l’ecumenismo!
20
49
Galina Titiš Arsenij, volontario per forza
Angelo Bonaguro Don Alfonsas: «In trincea per il mio popolo»
88
Marta Dell’Asta, Angelo Bonaguro Cargo 200
itinerari
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Rosa Alcoy, Giovanna Parravicini Alle radici dell’Europa cristiana: la Catalogna
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Nostalgia di unità
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no dei temi ricorrenti di questo numero è quello del cambiamento: il mondo è cambiato. La Russia è cambiata, dice il biblista Andrej Desnickij; è cambiata come avvenne un secolo fa, nel 1913, prima degli sconvolgimenti che tra guerra mondiale e rivoluzione cambiarono il mondo. E c’è da sperare che il cambiamento non avvenga alla stessa maniera. Certo, accanto alla realtà tremenda di una guerra che è sempre pronta a riprendere in Ucraina e di una violenza che cresce ogni giorno in Russia (si pensi solo all’omicidio Nemcov), vi sono pure dei segnali positivi, macroscopici in Ucraina con il fenomeno della solidarietà civile e del volontariato che la sostiene, meno evidenti ma pur sempre reali anche in Russia, con i sussulti di una coscienza civile che non vuole morire. E tuttavia il quadro resta molto preoccupante. L’ecumenismo è o sembra morto, ci ricorda ancora Desnickij, la coesistenza pacifica sembra morta a sua volta. Russia e Occidente sembrano due mondi completamente diversi e inconciliabili, in politica, ma anche in religione: da una parte l’Anno Santo della Misericordia per tutti gli uomini, dall’altra una religione che pare voler mostrare solo il volto corrucciato di un Dio nazionale e dominatore che chiede esclusivamente sottomissione. È davvero un quadro molto preoccupante. E tuttavia c’è anche altro; è pur vero che nei media russi si continua a inveire contro la «Gayropa», ma in fondo la stessa pretesa di un ruolo mondiale, il mito continuamente risuscitato di Mosca Terza Roma rivelano l’inconfessata e
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ineliminabile nostalgia di Roma e dell’Europa, senza le quali queste stesse pretese sarebbero delle pure fantasie sospese nel nulla. Ma come entra la Russia in Europa e come viene accolta questa stessa Russia in Europa? Vi entra con la violenza e viene accolta con il disgusto e l’insofferenza verso dei barbari che non imparano le buone maniere e farebbero meglio ad assimilarle un po’ in fretta? Sono tutte immagini che hanno una loro legittimità, c’è la violenza dei finti separatisti che sono in realtà cittadini russi e c’è la presunzione di un Occidente che vorrebbe appiattire le differenze. Ma c’è anche molto che va al di là di questi stereotipi. Una parte dovrebbe sempre ricordarlo all’altra. Sono i russi a ricordarci sempre più frequentemente che l’Europa è un luogo «in cui si usa essere diversi», uno spazio di incontro tra identità diverse che devono essere rispettate e stimate proprio per la loro diversità; e qui allora potremmo essere noi a ricordare che ad incontrarsi sono gli uomini e non le idee astratte, perché queste, in realtà, non si muovono o se si muovono lo fanno solo per scontrarsi: a muoversi e a incontrarsi sono gli uomini che vogliono crescere, non diventando come gli altri o eliminando gli altri, ma diventando più veri. Lungo questo percorso Russia e Occidente dovranno liberarsi da molti miti e ciascuno dovrà farlo con la serietà che richiede dall’altro. Dovremo liberarci dal mito di una grandezza illusoria, dal mito della forza di un impero che in realtà era solo violento e che si presenta come russo e magari come cristiano, ma sempre più
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spesso è solo una restaurazione di quello sovietico, e fa uso di una violenza molto simile a quella sovietica e per nulla cristiana. Allo stesso modo dovremo liberarci dal mito di un’apertura e di una libertà occidentali che in realtà sembrano voler inghiottire invece che accogliere. Soprattutto, da una parte e dall’altra dovremo liberarci dall’eterna tentazione di una contrapposizione dove l’altro è guardato con sospetto come uno che vorrebbe prevalere. In questo tragitto di liberazione i cristiani hanno un ruolo decisivo ed esemplare per tutto il mondo contemporaneo nella misura in cui la lotta in corso, come ha ricordato papa Francesco, è una lotta tra fratelli, e nella misura in cui da una parte come dall’altra si fa riferimento a un cristianesimo che qualcuno dice di voler difendere e che altri vedono strumentalizzato. Dopo la liberazione dai miti, allora, il primo passo potrebbe essere quello cui ci invita nel suo intervento don Stefano Alberto, quando ci ricorda la discussione tra gli apostoli che si chiedevano chi fosse il più grande fra di loro e si sentirono rispondere: «Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti». Qui davvero l’altro cessa di essere un limite e diventa un aiuto, un pungolo per la crescita personale, per una forza e un primato tutti particolari. Ma una crescita verso che cosa e in forza di che cosa? Che tipo di primato e di forza si guadagna in questo cammino? Don Alberto ci ricorda che si tratta del primato e della forza di Pietro, che diventa la roccia incrollabile dopo aver detto il suo amore e
il suo sì al Cristo che aveva appena tradito. Perdonati, amati, tratti dal nulla in cui ogni giorno cadiamo, diventiamo così, per una forza non nostra, signori dell’universo. E in questo perdono ci ritroviamo come quello sconosciuto del Majdan che, per tutta la vita era cresciuto con l’idea che tutti quelli che incontrava «volevano fregarlo» (annettersi la Crimea e poi tutta l’Ucraina o aprire la via alla corruzione occidentale: ciascuno metta qui l’ipotesi geopolitica che preferisce) e sul Majdan si era invece riscoperto libero, cioè aveva scoperto di avere un luogo in cui stare, un luogo in cui crescere e cambiare sempre più profondamente dopo il primo entusiasmo, anche se le circostanze non erano migliorate poi molto, anche se il paese era ancora tutto da ricostruire e dietro le segrete quinte dei giochi geopolitici c’era ancora chi tramava. Quello che resta, in fondo, del Majdan, al di là di tanti discorsi, quello che continua a venirci, come provocazione, dall’Ucraina come dalla Russia, è proprio la realtà di questi sconosciuti che si sono trovati cambiati, capaci di uno sguardo diverso, non più di sospetto o di odio, ma di amorosa stima di sé e interesse per l’altro. Questa gente che, come vediamo nelle tante testimonianze dall’Ucraina, ha riscoperto la solidarietà e il simbolo di quella nuova nascita di cui hanno bisogno l’Europa e il mondo: il simbolo della rinascita della persona che, nel dono di uno sguardo di misericordia (che genialità e che dono a tutto il mondo, questo Anno Santo della Misericordia!), ridiventa capace di creazione là dove sembrerebbe esserci posto soltanto per l’odio.
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