Editoriale ne4 2015

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intr oduzione

Crescere nell’unità, rinascere in Cristo

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oi, cristiani, siamo divisi tra noi; ma è poi vero che siamo divisi?… Il cristianesimo è come una foresta. Tutte le piante affondano le radici nel terreno, nello stesso terreno, nello stesso suolo; ad alimentarle è la stessa vita che il Signore ha infuso nel terreno. E di lì crescono i tronchi. Tronchi che si sviluppano in parallelo, ma si protendono tutti verso la luce, il sole, il cielo; e per quanto siano separati fra loro, vivono tutti dell’unità della radice e della meta cui tendono… Se solo lavoreremo affinché la meta sia effettiva, reale, prima o poi le cime si toccheranno, e avverrà l’unità…». Queste parole del metropolita Antonij, a cui sono dedicati lo speciale di questo numero e una grande mostra a Rimini, al Meeting per l’amicizia fra i popoli (20-26 agosto), trovano un sorprendente quanto tangibile riscontro nel lavoro svolto insieme quest’anno da un centinaio di studenti universitari, ortodossi, cattolici o semplicemente in ricerca, provenienti da Italia, Francia, Gran Bretagna, Russia, Bielorussia e Ucraina, per approfondire alla luce dei suoi scritti e della sua personalità i temi fondamentali della vita, della cultura, della società e della fede; un lavoro che si rispecchia simbolicamente, nelle pagine seguenti, nei contributi di padre Aleksej

Uminskij, parroco ortodosso moscovita, del poeta bielorusso Dmitrij Strocev e del filosofo ed editore ucraino Konstantin Sigov. Qual è «la meta effettiva, reale» verso cui protendersi, verso cui crescere, che ha permesso in quest’anno di una crudele guerra combattuta in Ucraina un lavoro comune e uno scambio sincero di esperienze tra giovani e adulti che normalmente si guarderebbero con diffidenza, ostilità? L’arcivescovo Rowan Williams, in un breve scritto sul metropolita Antonij l’ha definito «una personalità di grande complessità, non un uomo blandamente pio o semplicemente “simpatico”; ma dentro e attraverso tutte le lotte interiori e le tensioni che le persone più vicine a lui conoscevano bene, ha accettato di rendersi trasparente a Cristo, così che nella sua presenza si sentiva sempre la realtà assoluta del Signore». Proprio questa centralità di Cristo nella sua vita, questo suo essere di fronte a Lui, e in questo modo al «roveto ardente», cioè al misterioso segno della presenza divina che ogni persona, ogni realtà incontrata costituisce, è stato e continua ad essere un interrogativo che non può lasciare indifferenti, che riapre la ferita dell’umanità in ciascuno e lo sospinge ad

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aprirsi al Mistero. «Non cercare di rendere gli altri simili a noi, ma condividere con loro la gioia trasfigurante della conoscenza di Dio e della comunione con Lui, affinché gli altri possano diventare se stessi, altrettanto dissimili da noi quanto unici agli occhi di Dio», scrive nel 1990 in risposta a una lettera dei giovani ortodossi del movimento SYNDESMOS. E nel 2000, in una conversazione, afferma: «Mi sembra che dobbiamo radicarci in Dio e non aver paura di pensare e sentire con libertà…». È la sua instancabile predicazione dell’autentica missionarietà, che, come ripeteva spesso, non cede a tentazioni di «proselitismo», cioè non impone dei propri schemi ma collabora al disegno di Dio, lascia spazio all’azione della grazia divina che ci supera e ci precede continuamente. Figlio di emigrati russi, ragazzino della banlieue parigina – oggi lo si definirebbe un disadattato – a quattordici anni Antonij legge quasi per scommessa il Vangelo (il più corto, quello di Marco), per poter dire una volta per tutte che Dio non esiste, ma d’un tratto percepisce, senza alcun misticismo ma con grande realismo, che Cristo è lì davanti a lui, presente. La «ferita» di questo incontro avrebbe segnato per sempre la sua vita: «…sentii che nella vita non poteva esistere altro compito se non quello di condividere con gli altri la gioia che trasfigura la vita… E allora, ancora adolescente, a luogo e fuori luogo, sui banchi di scuola, in metrò, ai campi estivi cominciai a parlare di Cristo, così come mi si era rivelato: come la vita, la 4

gioia, come il significato, come qualcosa di talmente nuovo da rinnovare tutto; e se non fosse sconveniente attribuire a sé le parole della Sacra Scrittura, io potrei dire insieme a san Paolo: Guai a me se non annuncio…». Si laurea in medicina, pronuncia in segreto i voti monastici e intanto partecipa attivamente alla Resistenza in Francia; poi gli viene affidata una missione in Inghilterra, diviene sacerdote, vescovo, esarca della Chiesa ortodossa russa per l’Europa occidentale, annuncia instancabilmente la fede sia nella diocesi affidatagli, sia anche in Unione Sovietica, nei brevi periodi di soggiorno legati ai suoi compiti ufficiali in seno al patriarcato di Mosca. In tutta la sua vasta opera non c’è neppure una riga scritta a tavolino: l’imponente mole dei testi che ci sono rimasti è costituita unicamente da conversazioni, omelie, lezioni, lettere – la registrazione di un’esperienza, di «quello che è maturato nella mia anima». È questo il cuore pulsante della sua teologia, che oggi viene definita «teologia dell’incontro, della comunione», e gli è valsa prestigiosi riconoscimenti e lauree ad honorem, sebbene il metropolita Antonij non si sia mai considerato un teologo, bensì un pastore. «Siamo realmente testimoni che il Signore è vivo, che io sono Suo, che Egli mi è caro, vicino, che è la mia vita, la verità della vita, l’unica verità?»: un uomo consumato, ardente di questa passione di testimonianza, trasfigurato da essa e perciò capace di trasfigurare il mondo.

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