Alcuni punti cardine: esperienza, educazione e comunione

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Novembre-Dicembre 2010 presentazione

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un incontro che continua. vita e pensiero tra Oriente e Occidente

Aleksandr Filonenko

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La teologia dell’incontro in Russia nel XX secolo

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Emmaule Falque

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Costantino Esposito Don Giussani: la totalità della ragione

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Adriano Dell’Asta

Alessandra Gerolin John Milbank: la vita come dono e perdono

Alcuni punti cardine: esperienza, educazione e comunione

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Kristina Stoeckl Vladimir Bibichin: filosofia e memoria

L’incontro col mistero di Dio in Occidente. Filosofia e teologia, nuove frontiere

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Giovanna Parravicini Sergej Averincev: una ragione generatrice di comunione

atti del convegno

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Michail Seleznëv Padre Aleksandr Men’: il superamento delle fratture

La gioia dell’incontro

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Alla Vajsband Valentin Sil’vestrov: la musicologia come incontro

Gianfranco Dalmasso Ragione come avvenimento

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Aleksandr Kyrležev

Chesterton e Lewis nel contesto russo

Nikolaj Afanas’ev e Aleksandr Šmeman: la teologia eucaristica

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Ol’ga Sedakova Vento da Occidente. L’idea occidentale nella cultura russa

Natal’ja Likvinceva La «mistica della comunione umana» di madre Marija: la liturgia fuori del tempio

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Aleksej Judin

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Pëtr Mešcˇerinov Le sfide dell’oggi. Sguardo dalla Russia

Anna Šmaina-Velikanova Chiesa come incontro: alcuni aspetti dell’ecclesiologia del metropolita Antonij Blum

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Indice annata 2010

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Adriano Dell’Asta

ALCUNI PUNTI CARDINE: ESPERIENZA, EDUCAZIONE E COMUNIONE

‫ﱛﱜﱛ‬ I

L CONVEGNO DI QUEST’ANNO segna come un nuovo punto di partenza dopo un lungo tragitto che, nelle edizioni passate, ci ha portato a cogliere nella storia della cultura russa un continuo sviluppo e una continua rinascita dell’uomo e della sua ragione, alimentati dalla fede e resi capace, proprio in forza di Cristo «luce della ragione», di ritrovare la realtà, minacciata e quasi distrutta dalla violenza dell’ideologia. Questo tragitto, che era stato contrassegnato in Russia da personaggi luminosi come gli slavofili, Dostoevskij, Solov’ëv e gli esponenti della rinascita religiosa dell’inizio del XX secolo (Berdjaev, Bulgakov, Frank, Flo renskij, Ivanov, ecc.), era sembrato poi interrompersi con la scomparsa dei suoi protagonisti; come ebbe a dire Olivier Clément, successivamente avrebbe dato anche ulteriori frutti con fenomeni come il dissenso nei paesi dell’Est europeo e un movimento ecclesiale come Comunione e Liberazione,

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ma poi, mentre l’Occidente aveva seguito una sua vita autonoma, la Russia sembrava aver conosciuto come una battuta d’arresto. Sorprendentemente, invece, questo tragitto si è riaperto proprio quando la caduta del regime sembrava avesse anche segnato una caduta di tensione e un assopirsi della sete di infinito che aveva caratterizzato la rinascita di fine Ottocento e di parte del Novecento. Sorprendentemente, con delle caratteristiche molto simili a quello che è accaduto in Occidente, è venuto alla luce un mondo di esperienze e di elaborazioni culturali capace di rispondere alle nuove sfide del terzo millennio, quando la fede non è più minacciata da una violenza diretta ma pare non meno in pericolo per una riduzione che la omologa a una delle tante visioni fatte da mano d’uomo e che toglie all’umanità anche la sola idea di un desiderio al quale può rispondere solo qualcosa di infinito, non fatto da mano d’uomo.

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Questa comune sensibilità, che dopo l’apertura di ieri verrà illustrata e sviluppata nelle relazioni che costituiranno il corpo del nostro convegno, può essere come esemplificata dalla contemporanea ripresa di alcune parole centrali, il cui senso viene spesso quasi dimenticato. Nel mio intervento vorrei richiamare alcune di queste parole e dare l’idea della complessità e della ricchezza del loro significato, una complessità e una ricchezza che cercherò di richiamare in parte attraverso i suggerimenti, le provocazioni o le sorprese di alcuni autori della tradizione filosofica e letteraria russa, così che risulti evidente tra l’altro come la nuova nascita odierna si colloca all’interno di una tradizione vivente, è cioè la trasmissione di un’esperienza e non l’invenzione di qualche intellettuale o il desiderio di qualche mistico o utopista: l’erba che cresce non si sente, ma può nascere solo da un terreno fertile, amorosamente coltivato. La cosa sorprendente è che nel mondo contemporaneo sembra che questo terreno fertile e questa cura amorosa non esistano più. Il titolo del nostro convegno, così come quello della mia relazione, utilizza alcune parole di uso così quotidiano (incontro, esperienza, educazione e comunione) che poi in effetti si rischia di dare per scontata la questione del loro significato; e allora c’è il rischio che accada quello che sant’Agostino diceva del tempo: è la cosa più normale e comune di questa vita, perché per poco che si viva ci siamo immersi completamente, eppure, quando si tratta di capire davvero che cosa sia, tutto diventa molto più complesso: il passato è ciò che non è più, il futuro è ciò che non è ancora, e il presente è l’istante che fugge. Non si capisce più cos’è il tempo, al punto che per definire quello che facciamo durante il tempo libero, quando facciamo quello che maggiormente ci piace e ci realizza, abbiamo trovato l’espressione terribile «ammazzare il 34

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tempo»; ma, come diceva padre Aleksandr Men’ a questo proposito, «il tempo è la nostra vita. E se noi ammazziamo il tempo, lo sprechiamo inutilmente, noi uccidiamo la nostra vita». Davvero non abbiamo quella misura dell’eterno e dell’infinito che, come vedremo, dovrebbero essere al cuore del quotidiano, giudicare queste parole e impedirci anche solo di pensare che il quotidiano e il modo di viverlo possano essere definiti dalla morte: il tempo può continuare a morire solo se siamo afflitti da quel peccato ultimo che è l’insensibilità al Risorto, la non disponibilità a vedere nella vita di ogni giorno la presenza di un mistero che scompagina i nostri schemi e rimette in discussione le nostre risposte già date una volta per tutte, riaprendo una prospettiva ai vicoli ciechi in cui si chiude l’uomo isolato, che riduce anche la vita a un vuoto sentimento o, in senso diametralmente opposto, a un principio o a un valore astratto.

«INCONTRO», «UNITÀ», «COMUNIONE» Così diciamo «incontro» e rischiamo di restare senza parole di fronte a chi ci chiede provocatoriamente di quale incontro stiamo mai parlando visto che Oriente e Occidente cristiani, nonostante una vicinanza che ultimamente ha conosciuto nuovi progressi, restano comunque divisi. E se poi parliamo di «unità» rischiamo di perderci nei due fraintendimenti più comuni di questa parola: l’unità imposta, l’unità della conquista, che la tolleranza moderna facilmente respinge come una violenza intollerabile o l’unità che si riduce all’assenza di differenze, alla riduzione delle differenze a qualcosa di poco significativo; ma se l’unità è questo piattume, quale spazio e quale interesse ci può mai esse-

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re per cercare un incontro? Se l’unità è quella cosa smorta e povera in cui ciascuno rinuncia alle proprie specificità per non offendere l’altro, che interesse ci può essere ad incontrare una reale diversità? Se l’unità, l’identità è questa miseria, non ci può neppure venire in mente che le differenze possano essere una ricchezza; ne nasce una noia mortale che priva la vita di qualsiasi fascino (si ammazza il tempo, appunto). Non c’è più quella bellezza che gli antichi chiamavano lo splendore del vero e che, appunto, rende affascinante, non opprimente, la verità, ed efficace, concreto, non sentimentale o astratto, il bene. Non è un caso che un artista, pur lontanissimo da ogni impostazione ideologica, da ogni culto delle verità imposte, ma profondamente sensibile al fascino e al mistero infinito della realtà, come Cˇechov, in una lettera del 25 novembre 1892, denunciasse proprio in questi termini la malattia mortale che stava minando la Russia all’alba del XX secolo e della rivoluzione: «La causa non sta nella nostra stupidaggine, non nell’inettitudine e nemmeno nell’arroganza (…), ma in un male che per l’artista è peggiore della sifilide o della nevrastenia sessuale. Sì, è giusto, a noi manca un “non so che” e questo significa che se sollevate la gonnella della nostra musa, vedrete in quel punto un affarino piatto piatto. Gli scrittori che noi diciamo immortali o semplicemente buoni e che ci inebriano hanno, ricordatevelo, un contrassegno comune e assai importante: essi procedono in una data direzione e v’invitano a seguirli, e voi sentite non con la mente ma con tutto l’essere che hanno uno scopo (…). E noi?! (…). Non abbiamo scopi né immediati né lontani, e nella nostra anima c’è il vuoto assoluto. Non abbiamo concezione

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politica, non crediamo nella rivoluzione, non abbiamo un Dio, non temiamo i fantasmi e, quanto a me, non temo neppure la morte e la cecità. Chi non vuole, non spera e non teme nulla, non può essere un artista»1. Tutto era molto chiaro in Cˇechov, ma questa chiarezza è stata come dimenticata, echov viene ridotto normalmente ad un autore disimpegnato nei confronti delle grandi domande dell’uomo e anche se si continua a parlare di incontro, spesso non si sa dove andare, rischiando di vagare a vuoto, persi in contrapposizioni astratte che non ci portano da nessuna parte perché non c’è neppure l’idea che uno si debba effettivamente muovere, avere uno scopo, sperare o temere, soprattutto, dice esplicitamente echov, avere qualcuno da seguire o da cui essere accompagnati in questo cammino, in una parola, avere un’attesa, una domanda che non sia la pretesa di avere una risposta già fatta e conclusa, ma la coscienza di un bisogno. Come diceva ancora Cˇechov in un’altra lettera del 27 ottobre 1888, si è completamente dimenticato che se l’artista non deve dare lezioni di morale o di politica, cioè non deve mai diventare lo strumento di alcuna ideologia, non può però, allo stesso modo, rinunciare a porsi dei problemi e delle domande; semplicemente deve stare bene attento a non confondere le cose, a non confondere «due concetti: la soluzione del problema e la sua giusta impostazione. Per l’artista soltanto quest’ultima è obbligatoria. In Anna Karenina e in Onegin non viene risolto alcun problema, eppure queste opere vi soddisfano appieno perché in esse tutte le questioni sono impostate giustamente. Un tribunale ha l’obbligo di porre le domande, poi decidano pure i giurati, ciascuno secondo il suo gusto»2.

1. A. Cˇechov, Lettera ad A. Suvorin, in Perepiska (Corrispondenza), vol. I, Mosca 1984, pp. 240-241. 2. Ibidem, p. 196.

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Quando poi si passa dall’incontro alla comunione, cioè alla condivisione e alla solidarietà che dovrebbero instaurarsi in un incontro che sia realmente tale, la situazione non migliora di molto. Il destino di questa parola sembra molto vicino a quella della sua omologa russa, la sobornost’ slavofila di cui tutti parliamo ma la cui definizione si perde in controversie anche linguistiche infinite e la cui pratica sembra incontrare difficoltà anche maggiori, come fa provocatoriamente notare chi osserva che è strano tanto parlare di conciliarità là dove da tempo ormai non si celebra più un concilio pan ortodosso. Ma, appunto, anche senza risalire alla sobornost’, la stessa idea di comunione non conosce sorte migliore. Il vuoto prodotto dall’indifferentismo contemporaneo elimina certo la pretesa di avere sempre le risposte e le ricette pronte, ma non rende per altro capaci di porre domande; semplicemente, in Oriente come in Occidente, ci si dimentica che la comunione è innanzitutto un incontro di persone originariamente unite da un reciproco riconoscimento (l’«es ergo sum», il «tu sei, quindi sono anch’io», ricordato da Vjacˇeslav Ivanov) e quindi ci si fossilizza ancora una volta sulla vecchia contrapposizione tra l’aggressività di un individualismo chiuso e la massificazione di un universalismo omologante (è quella che oggi viene chiamata globalizzazione): un’alternativa in cui l’evidente inaccettabilità di entrambe le prospettive rivela contemporaneamente una doppia paralisi: lo scarso acume della ragione e l’inattitudine della volontà a compiere un effettivo passo verso l’altro. Che si tratti dei vecchi nazionalismi o dei nuovi fondamentalismi religiosi, l’altro che mi sta di fronte è sempre e soltanto qualcuno che devo conquistare o dal quale devo lasciarmi assorbire; lo schematismo della ragione e la pigrizia della volontà mi hanno ormai fatto dimen36

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ticare il momento originario dell’incontro, quando l’altro, destando la mia attenzione, è segno di qualcosa, mi invita a seguirlo in una data direzione, cioè mi desta all’essere e all’azione, suggerendomi che le cose hanno uno scopo, un senso, magari un’idea universale, così grande che nessuno può possederla tutta, ma che vive interamente in tutti i particolari, nella misura della loro apertura all’universale.

LA DIFFICOLTÀ DI EDUCARE Senza la coscienza di questa misura infinita, invece, non solo non si ha più nessuno slancio che vada al di là dell’istante e delle impressioni sentimentali, ma non si capisce neppure il valore del particolare e della sua trasmissione. È da questo che dipende in fondo la difficoltà di educare e prima ancora di capire che cosa sia l’educazione stessa. Per poco che ci muoviamo nella realtà, noi tutti educhiamo e siamo stati educati, ci è stato trasmesso un modo di guardare la realtà e di affrontarla, e noi stessi, per poco che amiamo e stimiamo la nostra vita e il nostro prossimo, cerchiamo di comunicare questa esperienza, perché non si dà umanità se non nella condivisione delle proprie esperienze. È quella che Solov’ëv chiamava la compassione e che, insieme al pudore e al senso religioso, costituisce uno dei tre elementi morali fondamentali senza dei quali non si dà vero uomo. Non c’è vera umanità, che valga la pena di essere vissuta, là dove non c’è il desiderio di comunicare ciò che di bello uno prova, quello che uno ritiene essenziale per stare nella realtà in modo da goderne senza rovinarla e senza esserne rovinati; non c’è vera umanità là dove non c’è il desiderio di condividere con gli altri quello che permette di godere di tutta la realtà, senza perderne nem-

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meno un frammento e senza che nulla di ciò che è nostro vada perso in questo godimento: è la sete di quel rapporto totale con la totalità delle cose che gli antichi chiamavano propriamente l’eternità e che definisce il desiderio e il destino proprio dell’uomo. Eppure, quando cerchiamo di capire più a fondo in che cosa consista questa educazione che, secondo quanto sentiremo più volte, è stata definita sinteticamente da don Giussani come l’introduzione alla realtà secondo la totalità dei suoi fattori, quando cerchiamo di capire in che cosa consista esattamente questa introduzione al senso totale dell’essere, che pare costituire la stoffa stessa della nostra vita, tutto diventa molto più complesso. In primo luogo, l’educazione ci fa paura, perché, soprattutto in Russia dopo l’esperienza del totalitarismo, abbiamo preso l’abitudine di scambiarla con l’indottrinamento, e allora rinunciamo a comunicare qualsiasi cosa per la paura di imporre un nostro punto di vista parziale, mentre in realtà, come abbiamo detto, l’educazione non ha mai a che fare con qualcosa di parziale e anzi, la coscienza della realtà secondo la totalità dei suoi fattori è il solo strumento che ci può proteggere dalla pretesa di un aspetto parziale che voglia diventare assoluto, da quella pretesa cioè che costituisce appunto il totalitarismo: un parziale che vuole sostituire tutto il resto e diventare tutto. In secondo luogo, là dove non c’è la paura, abbiamo il falso pudore di chi, in nome di un pluralismo che spesso è solo un relativismo, si nasconde dietro una finta modestia, sostenendo di non aver nulla di proprio da dare e abbandonando così il suo prossimo all’avventura di esplorazioni nuove e rischiose, invece di aiutare i propri simili ad evitare cadute vergognose. In terzo luogo, abbiamo l’atteggiamento scettico di chi dice che, non solo da un punto di vista personale ma anche in generale non v’è nulla da dare, nulla a cui L A

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educare, perché non esiste propriamente un senso delle cose, non esiste una verità, non esiste in fondo nulla per cui valga la pena di vivere; conclusione sconsolata di tanto nichilismo contemporaneo. E così si perde il senso dell’educazione, la possibilità stessa di concepire qualcosa che si chiami educazione; tuttavia questa perdita non è dovuta a particolari carenze nella scienza pedagogica o nelle tecniche educative, ma al fatto che si è persa l’umanità nella sua pienezza: non c’è più nessuno che abbia il gusto di educare né il desiderio di essere educato, e si è persa la realtà stessa nella sua pienezza, non c’è più niente a cui educare. È su questo tragitto che vorrei soffermarmi, perché solo la comprensione dei meccanismi che hanno portato a questa perdita, solo il recupero di che cosa siano questa realtà, questo senso e questa umanità perdute potrà ridarci uno strumento per capire che cosa sia l’educazione: se non c’è una realtà dotata di un senso che vale per tutto ciò che esiste e che può essere percepito e vissuto dall’uomo, allora non è possibile alcuna educazione, e là dove pure si tenta di educare ci si ferma spesso sul piano di un generoso spontaneismo.

L’USO RIDUTTIVO DELLA RAGIONE Il mondo contemporaneo, invece, è segnato da una storia che, nata per liberare l’uomo e la sua ragione, così come la natura e le sue potenzialità, affermandoli in maniera unilaterale, ha finito col rischiare di annichilire l’uomo e la natura stessi. Infatti, se le cose stanno così, se tutto dipende da un uomo che non dipende da nulla, la realtà è dissolta nei nostri processi mentali soggettivi e l’uomo non incontra più realmente la natura ma soltanto i propri processi logici. Paradossalmente gli uomini e la realtà scom-

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paiono da questo mondo che l’uomo voleva dominare e nel quale invece, alla fine del tragitto, domina soltanto la ragione astratta. Il ragionamento logico, infatti, secondo l’osservazione di Hannah Arendt, è l’«unica capacità della mente umana che non ha bisogno dell’io, dell’altro o del mondo per funzionare, e che è indipendente dall’esperienza come dalla riflessione». L’esperienza e la riflessione sull’esperienza vengono sostituiti dalla reinterpretazione soggettiva del reale, e così la realtà non viene più considerata secondo la totalità dei suoi fattori, ma viene di volta in volta ridotta in funzione di quella che è l’immagine (soggettiva e necessariamente parziale) che di essa si fa la mentalità dominante. In questo modo il mondo non è più quello reale, ma quello che la nostra ragione riesce a riprodurre e a dominare. In realtà la vera vittima di questo percorso è proprio la ragione, cioè quanto l’uomo ha di più caratteristico. Infatti, in un mondo in cui non esistono più né un senso reale né un criterio di verità reale (Dio stesso è stato ridotto a un’idea), la ragione si trova sola: nel mondo non esiste più nulla all’infuori di quello che lei stessa decide di far esistere, senza dover più rispondere né alla realtà né al suo creatore. Ma in questo modo la ragione cessa di essere se stessa, cessa di essere il carattere proprio dell’umanità, smette cioè di essere apertura sul reale e ricerca del suo significato, e diventa arbitra del reale. In questo delirio di onnipotenza, in un mondo nel quale non esiste più la realtà, l’io dell’uomo si ritrova vuoto e questo vuoto viene riempito o dalla pura irrazionalità degli istinti individuali o dalla pesante razionalità del potere; comunque sia, la libertà e la responsabilità scompaiono e vengono sostituite dall’indifferenza della scelta, sia che essa si realizzi nel trionfo dell’istintività, sia che essa si manifesti come imperativo dell’utile: non importa quello che si fa, purché sia quello che 38

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uno si sente di fare e venga fatto bene, più sinteticamente: non importa fare il bene, ma fare bene. Nell’uno e nell’altro caso si ha solo l’illusione della libertà, in realtà si tratta della vittoria della solitudine e della negazione. In un mondo nel quale la ragione ha smesso di essere apertura sulla realtà e accoglienza della realtà ed è diventata misura che limita, esclusione di quello che sta al di là della sua misura, anche la libertà cessa di essere forza di adesione al reale, cessa di essere quella positiva «libertà per» qualcosa, di cui parlava Berdjaev, e diventa la pura negazione della «libertà da» qualcosa. Ma questa finta libertà, che è negazione di vincoli e negazione di rapporti, condanna l’uomo a una solitudine ancor più assoluta: egli non perde soltanto la realtà e se stesso, ma perde anche i propri simili. In questa libertà che è assenza di vincoli non c’è più una casa dove stare come si sta a casa propria, cioè, come si dice, sentendosi liberi. L’ultima conseguenza di questa serie di riduzioni è che l’uomo perde i propri simili, la propria casa, il proprio popolo, la propria tradizione; quest’ultima cessa di essere la trasmissione di una vita e diventa al massimo la conservazione di alcuni valori astratti. È perfettamente comprensibile, allora, che in queste condizioni l’educazione sia impossibile e diventi persino detestabile: perché non c’è più nessuno a cui trasmettere qualcosa oppure si pretende di imporre una propria visione del mondo, un indottrinamento, là dove si dovrebbe invece offrire un’educazione, quell’educazione che è introduzione al cammino della vita e che come tale diventa cultura (prosvešcˇenie) e «quel che già letteralmente è espresso nella parola stessa “cultura”, cioè una luce (svet) spirituale che rischiara l’anima, illumina il cuore, dà indirizzo alla mente e le mostra la via della vita». Questa era la definizione che Dostoevskij dava di cultura

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poco prima di morire, ma la sua definizione era come rimasta lettera morta, e il gioco di parole che sottolineava il rapporto strutturale tra la cultura e la luce del battesimo di Cristo veniva ridotto con l’evocazione di un parallelo del tutto incongruo tra prosvešcˇenie come illuminazione e prosvešcˇenie come illuminismo.

L’«ESPERIENZA» Davvero in questa e simili riduzioni l’esperienza e la riflessione sull’esperienza vengono sostituiti dalla reinterpretazione soggettiva del reale, persino a livello linguistico, così che non si abbiano più neppure le parole per esprimere la novità del cristianesimo. L’esperienza viene allora ridotta a qualcosa di molto soggettivo: svincolata da qualsiasi rapporto con un giudizio e una ragione che la rendano realmente condivisibile, si riduce alla serie delle mie esperienze personali private, magari anche religiose, molto belle e profonde, ma anche molto sentimentali e puramente emotive; oppure è ridotta in senso razionalistico alla pura esperienza scientifica matematizzante, all’esperimento, molto utile, ma dal quale deriva una concezione del mondo necessitante, nella quale non c’è posto per la libertà o l’errore, cioè per la realtà propriamente umana. Invece l’esperienza autentica è inseparabile dal giudizio, apre alla ragione e apre la ragione, si comunica come qualcosa che proprio per la sua ragionevolezza merita credito intersoggettivo. Può sicuramente valere la pena a questo punto leggere la definizione di esperienza che Solov’ëv aveva dato nel dizionario enciclopedico Brockhaus-Efron: «L’esperienza è la fonte primaria delle nostre conoscenze, quella che dà il materiale per ogni altra conoscenza. A seconda dei diversi punti di vista, L A

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l’esperienza si divide in diretta e indiretta, interna ed esterna, di vita e scientifica. Gli stati che vengono vissuti e che sono stati vissuti dal soggetto dato costituiscono la sua esperienza diretta o immediata; la testimonianza attendibile delle esperienze altrui costituisce per questo stesso soggetto l’esperienza indiretta. Le conoscenze che si hanno sull’America, chiunque sia quello che le possiede, sono comunque (per la loro origine) frutto di esperienza, dato che simili cognizioni non sono da noi acquisite né attraverso il puro pensiero né attraverso una rivelazione dall’alto; ma è evidente che per chi non è stato in America, ogni conoscenza empirica su di essa viene acquisita solo in maniera indiretta, attraverso l’assimilazione delle esperienze altrui. Col progresso della vita personale e collettiva, questi due tipi di esperienza crescono in maniera diseguale: quella indiretta diventa senz’altro prevalente». In un convegno che ospiterà una relazione su don Giussani non deve sfuggire il fatto per nulla casuale che anche lo stesso Giussani, a tanti anni di distanza e in un contesto completamente diverso, avrebbe usato lo stesso esempio dell’America per mostrare a propria volta la potenza conoscitiva della fede e l’importanza della testimonianza oltre che per sostenere una concezione dell’uomo e della sua ragione nella quale quanto più cresce il sapere tanto meno questo progresso si confonde con una pretesa di dominio e di eliminazione del mistero, anzi, superando ogni isolamento dell’uomo, dai suoi simili e dal creatore, porta a riconoscere il carattere originariamente relazionale e creaturale dell’uomo e porta a riconoscere in questo carattere la carta delle libertà dell’uomo, come diceva Berdjaev. E anche a questo proposito non dovrà sfuggire il fatto che per Berdjaev il ritorno sotto le volte del tempio aveva significato non solo la liberazione ma anche la riscoperta della

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realtà («ritornammo sotto le volte del tempio e là ritrovammo il realismo perduto») e la riscoperta del rapporto che rendeva possibile questa nuova coscienza; come avrebbe detto la moglie di Berdjaev, per spiegargli l’origine di una forza che lui stesso non riusciva a comprendere: «tu non sei solo Ni[kolaj], tu sei con Cristo», con un Cristo irriducibile a un oggetto di speculazione o al contenuto di un discorso teorico. È in effetti al rapporto con Cristo che riportano tutte le parole che sono al centro di questa ripresa comune, quando vengono comprese secondo tutta la loro pienezza e quando, rifiutando di chiudersi nel vicolo cieco dei concetti astratti e dei sistemi, diventano occasione di una sempre nuova apertura alla ricchezza del mistero della vita. Del resto, all’origine della rinascita religiosa russa, quando si era trattato di definire il carattere specifico del cristianesimo, era stata proprio

questa la caratteristica che Solov’ëv aveva messo in primo piano, sottolineando la centralità della persona di Cristo e negando che il cristianesimo potesse essere ridotto anche alla più alta e completa concentrazione di tutti i sistemi religiosi, filosofici e morali precedenti: «Se il cristianesimo fosse soltanto l’insieme di questi elementi, non sarebbe affatto una nuova forza universale, sarebbe solamente un sistema eclettico simile a tanti altri sistemi filosofici che non agiscono sulla vita, non producono svolte storiche di portata mondiale, non distruggono un mondo per costruirne un altro. Il cristianesimo ha un suo proprio contenuto indipendente da tutti questi elementi che entrano a farvi parte, e questo suo contenuto specifico è unicamente ed esclusivamente Cristo. Nel cristianesimo in quanto tale noi troviamo Cristo e solo Cristo, ecco una verità molte volte espressa ma molto poco assimilata»3.

3. V. Solov’ëv, Sulla divinoumanità e altri scritti, Milano 1971, p. 143.

SOMMARIO

Adriano Dell’Asta, (1952) è docente di lingua e letteratura russa presso l’Università Cattolica. Accademico della Classe di Slavistica della Biblioteca Ambrosiana, è direttore dell’Istituto di cultura italiana a Mosca e vicepresidente della Fondazione Russia Cristiana.

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Esperienza, educazione, comunione, concetti di uso quotidiano ma la cui comprensione si presta a mille equivoci e sterili contrapposizioni: la comunione imposta o quella dell’indifferenza delle identità? E qui ci si dimentica che la comunione è innanzitutto l’incontro di persone originariamente unite da un reciproco riconoscimento. Per l’educazione la contrapposizione è invece quella tra indottrinamento e puro tecnicismo nozionistico, tra un parziale che vuole sostituire il tutto e la paura del tutto; e allora ci si dimentica la vera esperienza educativa che ciascuna persona fa come introduzione di un singolo, di un particolare alla realtà presa nella totalità dei suoi fattori. Così si finisce con lo smarrire lo stesso senso di ogni esperienza, perchè scompare la realtà di cui si dovrebbe fare esperienza e il culmine della storia moderna è la morte della ragione, salvo che questa non trovi nella donazione originaria della fede una nuova luce.

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