Sentalinskij

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N.4

(370)

Luglio-Agosto 2013

editoriale

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IL MONDO DELL’ARTE

La bellezza rompe il nostro limite

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OPINIONI A CONFRONTO

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Michail Novosëlov Lettera aperta al conte Lev Tolstoj

archivio storico

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Sergej Brjun

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Josef Zveˇrˇina

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Sergej Šcˇeglov

Ol’ga Sedakova,

Non vivere nell’odio

Ricordo la cattedrale e mia madre…

Gli apostoli degli slavi e la Sede di San Pietro

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Angelo Bonaguro Effetto Havel. Gli scritti dei «senza potere»

ricostruire il mosaico

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Delfina Boero Teologia? Una «croce», per gli scienziati!

Michail Novosëlov La via smarrita della conoscenza di Dio per esperienza

Vladimir Novikov I gladiatori vagano per la Russia

Giovanna Parravicini, Gisella Zenovelli Michail Novosëlov: la vera rivoluzione è una Presenza

Vitalij Šentalinskij Minuzie

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meeting 2013

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La poesia liturgica

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Angelo Bonaguro Anime in controluce

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il mondo

d e l l ’ a rt e

Minuzie Vitalij Šentalinskij

N

ato nel 1939 a Kemerovo, in Siberia, V. Šentalinskij è un’originale figura di esploratore letterato. Laureatosi all’Istituto Artico di Leningrado, ha partecipato a cinque spedizioni nell’Isola di Wrangel e nella Terra di Francesco Giuseppe. In seguito si è laureato in giornalismo lavorando come corrispondente di radio, riviste e tv. Con la perestrojka ha concepito l’idea di riportare alla luce i copiosi archivi letterari segreti conservati dal KGB; a questo obiettivo consacrerà tempo ed energie. I materiali raccolti usciranno in tre opere preziose che mettono in luce i destini tragici di molti intellettuali sovietici (tra cui Babel’, M. Bulgakov, O. Mandel’štam e tanti altri). Di queste opere in italiano è uscita I manoscritti non bruciano da Garzanti, nel 1994. Inoltre Šentalinskij è autore di nove libri di versi e prose. Offriamo qui alcuni suoi raccontini brevi.

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Un quartiere di Mosca. ndt

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IL MONDO DELL’ARTE

Pasqua Un vicolo della Presnja1. Pioggia, umido. E un peso sul cuore, angoscia: da un po’ di tempo qualcosa non va. Sta andando tutto a rotoli. Ho sbattuto la porta: via, andarmene, da qualsiasi parte!… Davanti a me cammina una vecchietta piegata in due, curva come un punto di domanda. Si vede che sta andando in chiesa, ha in mano un fagottino bianco con i cibi pasquali da benedire. Guardala qua la vita – penso, – guarda quello che mi aspetta: dalla posizione verticale a quella orizzontale, e amen; senza essere arrivato a niente, senza aver capito niente. D’un tratto la vecchina si ferma, quasi le casco addosso, alza il volto verso il cielo: – Oh Signore!… che bellezza! Resto di stucco, come fulminato. Ri-sor-go. ■

1. Un quartiere di Mosca. ndt

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Minuetto

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a piccola amavo molto il «Minuetto» di Boccherini. Sullo spartito c’era disegnata una damina in abito da ballo, che danzava. Papà suonava ed io, bruttina, spigolosa, con le lentiggini, allungavo le bretelle della vestina e ballavo come lei. Ma proprio col minuetto, durante la guerra, successe un fatto… Papà era maestro, pittore e musicista; quando i tedeschi furono vicini scappò dai nostri, e noi non ne sapemmo più niente sino alla fine della guerra. Con la mamma restammo noi tre sorelle femmine. Nel nostro paese arrivò un reparto italiano. Si misero a saccheggiare le case dove vivevano le donne sole, le vedove; facevano una croce col gesso. Anche sulla nostra la fecero. Eravamo pronte al peggio. La mamma nascose noi tre sopra la stufa, ci coprì con dei vestiti e ci ingiunse di non mostrare neanche il naso. La sera entra un ufficiale col mitra. Un soldato sprimaccia il letto, ci mette della biancheria candida e se ne va. L’ufficiale alza la fiamma della lampada a cherosene e incomincia a spogliarsi. La mamma è seduta presso la stufa e fa la maglia, ma i punti non entrano gli uni negli altri, si disfano. Noi ce ne 54

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stiamo quatte. In maglia e mutande l’ufficiale gira per la stanza e osserva attentamente i quadri di papà. Ho paura, l’immensa ombra curva saltella sulle pareti. Si ferma, guarda la mamma. Poi scopre una pigna di spartiti, li afferra tutti in una bracciata e li porta sul tavolo. Si siede, apre e incomincia a canticchiare. Canta un pezzo, un altro, un terzo… poi va al piano e si mette a suonare… è il mio «Minuetto», suona Boccherini! Qui ho un sussulto, non so trattenermi e dò in un singulto, forte. Lui sente e dice alla mamma: – Signora! Io non sono un soldato, sono un professore… del conservatorio… di Milano. Non sono un soldato, signora… E continua a suonare. Non ho più risentito, dopo quella volta, un’esecuzione così; ho pianto tutte le mie lacrime. Poi spense la luce. Si mise a letto. Ma durante la notte ci fu all’improvviso un urlo tremendo: – Signora, lampas, lampas! La mamma saltò giù dalla stufa e accese la lampada. Continuò a gridare qualcosa per tutta la notte, in delirio. Al mattino uscì e non lo vedemmo mai più. ■ L A   N U O V A   E U R O P A   4

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il mondo dell’arte

La soffitta-cabina Via Pisemskij, già Boris e Gleb. Abitava qui. Primo piano. Un appartamento in coabitazione. Busso. Non è qui, provi all’altra porta. Busso di là. Sulla soglia appare una vecchia alta e ossuta in vestaglia, con un viso grande e duro. – Che vuole? – È qui che viveva Marina Cvetaeva? – E chi è Marina Cvetaeva? – Una poetessa. Ha vissuto qui dopo la rivoluzione… – E allora? Io cosa c’entro? – Posso dare un’occhiata? – Cosa vuol vedere? Non è rimasto niente. È tutto cambiato. – Sì, ma dò solo uno sguardo un attimo, la disposizione. Cosa si vede dalla finestra. La Cvetaeva chiamava questa stanza la soffitta-cabina… – E io le dico che non c’è niente da vedere. Qua ci abito io. – Ma… – E va bene, entri, solo un minuto. Intanto che a piccoli passi giro per la minuscola stanza, tra la stufa e la finestra, l’inquilina sta seduta sul sofà, osservandomi in silenzio con uno sguardo caustico, la schiena dritta, le mani sulle ginocchia. Dopo cinque minuti sbotta: – Perché poi tutti impazziscono per questa Cvetaeva? E io, allora? Ho lavorato una vita in tipografia, ero un lavoratore modello, lei non sa quanti certificati d’encomio ho ricevuto, ci potrei tappezzare le pareti. Ero un’attivista, abituata a stare col popolo. Ma adesso che sono in pensione non servo più a nessuno! Non un cane che si ricordi del mio compleanno. Ma sono ancora viva! E questa Cvetaeva, questa L A   N U O V A   E U R O P A   4

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monarchica, emigrata o che so io – contro quella gente noi abbiamo combattuto all’ultimo sangue, – lei, dico, sta già da un pezzo all’altro mondo… e tutti ne hanno bisogno. Mo’ tutti vengono a cercare questa trapassata, e da me che son viva non viene nessuno. Perché? Lei dice che scriveva poesie, sono belle almeno? – Belle. Le legga! – D’accordo, magari le leggo… Mi congedo, ringrazio. E lei, dalla soglia: – Mi dia il suo cognome, che prendo nota. – Perché mai? A cosa le serve il mio cognome? – Come… ammiratore della Cvetaeva… Passano due anni. L’attrice Anna Smirnova, di Tbilisi, ha messo in scena uno spettacolo sulla Cvetaeva e io le propongo di andare a vedere la soffitta-cabina. – Volentieri! La stessa porta, busso. Assumo una certa espressione, per cercare di rabbonire la padrona di casa. La porta si spalanca. – Benvenuti da Marina Cvetaeva! La padrona sta sulla soglia e fa un gesto d’invito, festosa, con la permanente, vestita di tutto punto e col sorriso stampato sul volto. – Accomodatevi. Qui in questa stanza, dal 1917 al 1922, ha vissuto la 58

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grande poetessa russa Marina Cvetaeva. Furono per lei anni difficili ma fecondi… Gorgheggia come un usignolo. Non mi ha riconosciuto. Ma anche lei è irriconoscibile: è come rifiorita, ringiovanita e, soprattutto, ha qualcosa da fare. È utile, è rinata. E passa rapidamente dalla prosa ai versi: – «…Due alberi: nel fuoco del tramonto Sotto la pioggia, e poi sotto la neve, Sempre, sempre: l’uno verso l’altro, Questa è la legge: l’uno verso l’altro, Soltanto una: l’uno verso l’altro…». Evidentemente si riferiva ai pioppi presso la nostra casa. Andate a vedere, là di fronte, dall’altra parte della strada. «Due alberi si cercano l’un l’altro. Due alberi. Di fronte alla mia casa…». Solo che ormai un albero non c’è più. Ma l’altro c’è ancora!… Nel salutare ci porge un grosso registro con scritto in copertina: «Ammiratori della Cvetaeva»: – Firmate. Lo apro e vedo, al numero uno, il mio cognome. Il registro è quasi tutto pieno. È la Cvetaeva, che resuscita ciò che è abbandonato e gli dà nuovo respiro attraverso il proprio. ■

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La mosca

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na stazione di svernamento nel Mar glaciale artico. Un pugno di esploratori polari. Ormai si conoscono così bene che se uno incomincia a raccontare la propria vita, gli altri lo possono correggere. Stufi di raccontare, si sono messi a cantare. Hanno cantato per due giorni. E d’un tratto una bella novità: una mosca! Si è riscaldata e ha ripreso a volare. Tutta la tenerezza residua, tutta la nostalgia di casa, del calore, della gente, si concentrano su questa mosca. La seguono, la curano, le lasciano delle briciole. Ed ecco che uno della spedizione, detto Cˇajnik (testa calva, orecchie a sventola, naso lungo e lustro) si immerge nella lettura e istintivamente si dà una manata sulla testa, schiacciando la mosca. Subito un altro, senza stare a pensarci, gli dà una scoppola sulla pelata: paf! Cos’hai fatto, assassino! Scoppia una rissa. Si lanciano a dividerli. Il giorno dopo i contendenti sono tutto un livido ma si coprono l’un l’altro di commoventi attenzioni. Vedi cosa può fare agli uomini una comune mosca! ■ 60

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il mondo dell’arte

Fräulein

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jusja era russa ma era cresciuta a «New York», nome americano che, chissà perché, era rimasto appiccicato a un villaggio di tedeschi nella regione di Doneck. La ragazza parlava perfettamente il tedesco sin dalla più tenera età. E questo l’aveva salvata. Durante l’occupazione tedesca Ljusja aveva diciassette anni. La sua famiglia si era spostata da un posto all’altro e una volta, nel paese dove si trovavano, erano arrivati i carri armati pesanti «Tigre», che si erano disposti proprio a ridosso delle abitazioni, così che la nostra aviazione era stata costretta a bombardare le case. Al comando della divisione c’era un alto ufficiale tedesco. Un giorno, Ljusja e sua sorella, minore di un anno, attraversavano di corsa la strada per andare a casa quando, all’improvviso, non si sa da dove, si avvicinò un’auto, da cui uscì l’alto ufficiale col suo aiutante di campo. L’ufficiale guardò dritto le ragazze e disse con un rozzo accento dialettale: – Queste due, chiaramente, non sono di qua. Dopo una buona lavata, possono andarci bene… Al che Ljusja, senza neppure sapere come, gli si avvicinò decisa e sparò in purissimo tedesco: – Già, non siamo di qua, ma per quanto ci laviate non potremmo mai andar bene per uno come Lei, con quell’orribile pronuncia che si ritrova! I tedeschi restarono di sasso. Poi l’aiutante di campo si riprese: – Scusi Fräulein, non sapevamo. E rivolto al superiore: – Herr General – e gli spiegò qualcosa, ma «cosa» le ragazze non lo sentirono, erano già scappate. ■

Vitalij Šentalinskij (1939).

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