A cura dell’Associazione Arte Mediterranea - anno XIII N° 132 febbraio 2020
Mensile d’informazione d’arte
www.artemediterranea.org
n Michal Trpak
“Lieve incertezza”
“Butterfly”, 2013
Fotografia: Fuga dal MANN di Napoli nIllustrazione: Ideo Azuma nCinema: Il cinema n d’animazione di propaganda
Per sponsorizzare “Occhio all’Arte”
Telefona al 347.1748542
Associazione ARTE MEDITERRANEA Aprilia - PROGRAMMA CORSI 2018-2019 CORSO DISEGNO 1° ANNO MARTEDI’ - GIOVEDI’ 09,00 - 11,00 18,00 - 20,00
CORSI IN ORARIO DA DEFINIRE
CORSO OLIO LUNEDI’ - VENERDI’ 18,00 - 20,00 20,00 - 22,00 MARTEDI’ - GIOVEDI’ 09,00 - 11,00 18,00 - 20,00
CORSO ACQUERELLO MARTEDI’ - GIOVEDI’ 9,00 - 11,00 18,00 - 20,00 CORSO ACQUERELLO AVANZATO LUNEDI’ MERCOLEDI’ 18,00 - 20,00
CORSO DI ANATOMIA PER ARTISTI Ins. Antonio De Waure CORSO DI PROSPETTIVA Ins. Giuseppe Di Pasquale
CORSO DI DISEGNO - FUMETTO SCENEGGIATURA ORGANIZZATO DA SCHOOL COMIX APRILIA SABATO 10,30 - 18,45
Dalla Beijing Foreign Studies University
La solidarietà della Redazione a tutti gli uomini e le donne cinesi, in questa fase critica determinata dalla diffusione del coronavirus. Dedichiamo un pensiero affettuoso in particolare agli studenti e alle studentesse, ai professori e alle professoresse del Dipartimento di Italianistica della BFSU.
La Redazione Redazione Maria Chiara Lorenti, Cristina Simoncini, Giuseppe Di Pasquale, Mensile culturale edito dalla Associazione Arte Mediterranea Via Muzio Clementi, 49 Aprilia Tel.347/1748542 occhioallarte@artemediterranea.org www.artemediterranea.org Aut. del Tribunale di Latina N.1056/06, del 13/02/2007
Collaboratori Patrizia Vaccaro, Laura Siconolfi, Maurizio Montuschi, Valerio Lucantonio, Nicola Fasciano, Giuseppe Chitarrini Francesca Senna Responsabile Marketing Cristina Simoncini
Fondatori Antonio De Waure, Maria Chiara Lorenti Cristina Simoncini
Composizione e Desktop Publishing Giuseppe Di Pasquale
Amministratore Antonio De Waure
Tutti i diritti riservati. E’ vietata la riproduzione anche parziale senza il consenso dell’editore
Direttore responsabile Rossana Gabrieli Responsabile di Redazione Maria Chiara Lorenti
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Sommario
Hideo Azuma, papà di Pollon “Il cinema d'animazione di propaganda durante la seconda guerra mondiale” Michal Trpak Fuga dal MANN di Napoli La musica antica Naxi Segnale d’allarme – La mia battaglia VR Pierre Bourdieu e altri “Architettura silenzi e luce”
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illustrazione
Hideo Azuma, papà di Pollon curiosità che forse non sapevate! di Patrizia Vaccaro
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anti ragazzi crescono col sogno di diventare fumettisti, qualche piccolo lavoro viene pubblicato, si decide di lasciare una piccola provincia che li porterà a collaborare con un grande maestro, prima come inchiostratori, rifinitori, per arrivare poi a debuttare riuscendo a firmare i propri lavori e magari affermarsi anche come autori. Ma spesso c’è il rovescio della medaglia: vite al limite, orari impossibili e consegne pressanti, con un successo che non si realizzerà per tutti e che comunque non garantisce una vita agiata o serena. Tutto questo per raccontarvi la vicenda del fumettista giapponese Hideo Azuma, che vale la pena di conoscere e può essere motivo di riflessione per tanti che si affacciano a questo mondo. Il nome forse non vi dirà nulla, ma se invece diciamo che è il papà dei manga Pollon o di Nanà Super Girl? Sicuramente a molti verrà in mente il famoso e divertentissimo cartoon “C’era una volta... Pollon” in cui si rivedono in chiave ironica gli dei dell’ Olimpo. Hideo Azuma è morto lo scorso 13 ottobre, all’età di 69 anni, a causa di un cancro all’esofago. Ma facciamo un passo indietro: nato nel 1950 nell’Hokkaido, si trasferisce a Tokyo come assistente del mangaka Rentaro Itai, debuttando poi nel 1969, sulle pagine del periodico Manga O (Akita Shoten) con il fumetto Ringside Crazy. Azuma è stato inoltre illustratore nel genere dei manga “lolicon”’ fumetti dal taglio erotico con protagoniste adolescenti dall’aria innocente. Nel 1979, con MethylMetaphysik, Fujôri Nikki ha vinto il premio Seiun come migliore manga di fantascienza.
Nonostante fosse già famoso, nel novembre del 1989 abbandona lavoro, moglie e figli e… scompare. Cosa è successo? Lo stesso autore ci racconta tutto in un fumetto: “Il diario della mia scomparsa” dove ci illustra la sua vita senza fissa dimora, fatta di lavoretti saltuari ed il conforto nell’alcool. Realizzerà un fumetto autobiografico che ripercorre tutte le tappe della sua depressione, dalla sparizione, al tentato suicidio; dalla vita per strada all’alcolismo; la vita nei boschi ai margini della città ed infine il ricovero forzato in ospedale e la riabilitazione. Nel fumetto affronta il periodo più buio della sua vita: la crisi, lo fa comunque in maniera positiva, senza rinunciare al suo stile: un tratto con poche linee chiuse e tondeggianti, con una mimica spesso iperbolica e sfondi appena accennati. Nel fumetto in questione l’alter ego fumettistico dell’autore afferma: «Questo manga si sforza di avere una visione positiva di tutta la faccenda. Quindi ho evitato il più possibile i disegni realistici.» Per poi aggiungere: «Perché sono difficili da fare e in più rendono tutto triste.». Si giustifica parzialmente in una didascalia della prima pagina: «non mi andava di lavorare e la sera prima mi ero anche ubriacato». Se la sua storia vi ha incuriosito, non resta che leggere il manga “Il diario della mia scomparsa” che negli anni recenti ha ottenuto l’apprezzamento della critica (in edizione originale è apparso nel 2005), viene pubblicato in Italia da J-Pop e insignito del Premio Gran Guinigi 2019 per la riscoperta di un’opera, promosso da Lucca Comics. 3
“Il cinema d'animazione di propaganda durante la seconda guerra mondiale” la tesi del dottor Stefano Cagnazzo di Nicola Fasciano
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a ricevuto i complimenti della Commissione il lavoro del dottor Stefano Cagnazzo, laureatosi presso l’Università di Roma 3; il suo lavoro ripercorre i decenni che vanno dagli inizi del Novecento fino alla conclusione del secondo conflitto mondiale, attraverso la storia e il ruolo, niente affatto marginale, della propaganda affidata sia al fumetto sia al cinema d’animazione che proprio in quegli anni vedevano la luce e svelavano gradualmente tutte le loro potenzialità comunicative. Tutte le nazioni belligeranti, su entrambi gli schieramenti, utilizzarono fumetti e cartoons per esaltare la malvagità degli avversari e per sensibilizzare la popolazione sulla necessità della guerra e del perseguimento della vittoria. Se i primi fumetti erano nati per il diletto dei lettori e degli spettatori, gradualmente le autorità, concentrate sulle potenzialità e gli effetti della propaganda politica e militare, compresero l’efficacia di questi nuovi mezzi comunicativi e ne curvarono l’impiego ai propri fini. Un’operazione che oggi appare chiaramente strumentale e, in alcuni casi, aberrante. L’esempio più lampante di quanto affermato sta in quel fil-rouge antisemita che attraversò molti dei Paesi in guerra, insistendo sulla pericolosità e la negatività del popolo ebreo, indicato quale radice di ogni male. Lo troviamo nelle pagine di “Der Sturmer”, in Germania, de “Il Balilla” in Italia, e di “Vica”, il cui autore era russo. E se consideriamo che il pubblico privilegiato di cartoons e fumetti sono bambini e adolescenti, si fa presto a capire come tutti i regimi puntassero ad un indottrinamento precoce delle giovani generazioni. 4
Interessante, in tal senso, quanto pubblicato su http:// www.novecento.org, sito che si occupa di didattica della storia. «Testimonianza preziosa del loro ruolo educativo, per i giovanissimi nati in camicia nera, rimane la rievocazione del “Corriere dei Piccoli” da parte di Italo Calvino in una delle sue Lezioni americane: “Vivevo con questo giornalino che mia madre aveva cominciato a comprare e a collezionare già prima della mia nascita e di cui faceva rilegare le annate. Passavo le ore percorrendo i cartoons d’ogni serie da un numero all’altro, mi raccontavo mentalmente le storie interpretando le scene in diversi modi, producevo delle varianti, fondevo i singoli episodi in una storia più ampia, scoprivo e isolavo e collegavo delle varianti in ogni serie… Quando imparai a leggere, il vantaggio che ricavai fu minimo: quei versi sempliciotti a rime baciate non fornivano informazioni illuminanti; spesso erano interpretazioni della storia fatte a lume di naso, tali e quali come le mie; era chiaro che il versificatore non aveva la minima idea di quel che poteva essere scritto nei balloons dell’originale, perché non capiva l’inglese o perché lavorava su cartoons già ridisegnati e resi muti: comunque io preferivo ignorare le righe scritte e continuare nella mia occupazione favorita di fantasticare dentro le figure e nella loro successione” [Calvino, 1993, pp.104-105]. Estraneo al mondo della scuola e al suo “dovere della lettura”, il fumetto rappresenta per bambini e adolescenti il “piacere della lettura” associata alla fruizione dell’immagine.
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Un grande esperto di letteratura per l’infanzia come Gianni Rodari ha scritto a questo proposito che “il fumetto è la prima lettura veramente spontanea e naturale del bambino (…) Direi che fino ad un certo punto, l’interesse principale del bambino al fumetto non è condizionato dai suoi contenuti, ma è in presa diretta con la forma e la sostanza dell’espressione del fumetto stesso. Il bambino vuole impadronirsi del mezzo, ecco. Legge il fumetto per imparare a leggere il fumetto, per capirne le regole e le convenzioni. Gode del lavoro della propria immaginazione, più che delle avventure del personaggio. Gioca con la propria mente, non con la storia ” [Rodari, 1973, p.147, in R. Farnè, 2005, p.233]». Sono veramente testimonianze preziose quelle di Calvino e Rodari, che, sebbene partendo da prospettive diverse, giungono, però, alle medesime conclusioni: i fumetti non solo non sono una forma di lettura “inferiore”, ma hanno, al contrario, il pregio di suscitare nei più piccoli le prime forme di interesse verso la pagina scritta e illustrata. Insomma, se Italo Calvino e Gianni Rodari riconoscono la valenza didattica del cartoon e la sua dignità educativa, resta il fatto che in Italia la dittatura fascista, come altrove fecero altri regimi del tempo, ne deforma e ne altera i contenuti per indottrinare precocemente le giovani generazioni. Il perché della scelta di ricorrere al cartoon per trasmettere delle idee propagandistiche non è stata casuale, visto il grande successo di pubblico e l’affetto che quest’ultimo sviluppava nei loro confronti; per questi personaggi immaginari era più semplice “farsi
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ascoltare” e inoltre questi prodotti artistici agli occhi di una persona comune apparivano “finti”: di conseguenza, la loro mente opponeva meno “resistenze”. La fine della guerra portò a un drastico cambiamento delle scelte politiche, culturali ed editoriali e oggi i fumetti e i film di animazione dell’epoca rimangono testimonianza storica e documentazione preziosa di un’epoca drammatica. Ovviamente, durante la guerra fredda questo “sistema” di fare propaganda venne ri-adottato, cambiavano solo i bersagli e i messaggi da veicolare, come per i cartoon sovietici, che dopo la sconfitta dei nazisti identificarono i “nuovi nemici” negli americani, senza però dimenticare quelli vecchi (il capitalismo). Oggi, fondamentalmente, i baloon e i cartoon “vengono in pace”, sebbene ancora oggi le eccezioni non manchino: a questo proposito vale l a p e n a citare la serie nordcoreana Daram-i-wa goseumdochi (1977-2012, id., lett. Lo scoiattolo e il riccio) e infine il caso di Farfur, il personaggio creato dall’emittente televisiva di Hamas che nell’aspetto riprendeva in tutto e per tutto Topolino, cosa che costò alla televisione palestinese diverse denunce per violazione del copyright. Infine, pur di non pagare i diritti d’autore, si decise di “uccidere” Farfur, ma in modo eroico: il Topolino palestinese verrà infatti ucciso durante un interrogatorio da un militare israeliano. Insomma, una tesi, quella di Stefano Cagnazzo, che tra i molti pregi culturali annovera anche quello di tenere desta l’attenzione sui pericoli di uso distorto che ancora oggi l’informazione e l’arte corrono. 5
Michal Trpak “Lieve incertezza” di Cristina Simoncini
6“Dialog, 2008 - 2009
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curiosArt
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ichal Trpak è nato nel 1982 nella Repubblica Ceca. Si è laureato all’Accademia delle arti e del design di Praga e ha terminato il suo dottorato di ricerca all’Accademia delle Arti di Banska Bystrica-Slovacchia. Dal 2007 Michal Trpak organizza un’esibizione di scultura nello spazio pubblico di Ceske Budejovice chiamato “ART In the City” (www. umenivemeste.cz), dove gli scultori espongono le loro opere durante l’estate. Le sculture e i dipinti realizzati da lui sono in spazi pubblici e collezioni private in Repubblica Ceca, Germania, Russia, Francia, Canada. Oltre a studiare e creare progetti artistici, l’artista viaggia in vari paesi o luoghi remoti del mondo come l’Alaska, la Kamchatka, l’Himalaya o si tuffa nei mari per trarre ispirazione e liberare la mente da una frenetica vita europea. “Le sculture che realizzo sono pensate principalmente per spazi pubblici o architettonici. Credo che esse appartengano sia all’architettura, che allo spazio urbano o al paesaggio. Ecco come le sculture sono state utilizzate per secoli in passato. Nei miei lavori sto lavorando con gli argomenti della nostra società attuale e con lo spazio reale, dove sto installando le mie opere. In una galleria è possibile mettere quasi tutto, in quanto è una sorta di contenitore formato da impotenti pareti bianche e spazi bianchi ... Ma, nell’architettura reale e nello spazio pubblico, l’artista deve pensare alla scala, all’idea e al modo di installazione e questo è ciò che rende tutto più interessante e più bello. Quando le mie opere sono esposte nel mio studio non è la stessa cosa che installarle in una buona posizione in città o incorporarle in qualche architettura - se l’installazione è buona, rende il lavoro migliore e in relazione con lo spazio migliora anche l’architettura. Questo è il dialogo che sto cercando di ottenere con la mia arte, quello tra arte, architettura e persone. E se le persone parlano dell’installazione e se in qualche modo le influenza, significa che è buono. L’artista non ha bisogno di spiegare molto se la sua opera può parlare da sola e le storie sono raccontate dalle persone, e non dall’artista. Come reimpostazione, credo che il linguaggio dell’artista sia il suo lavoro e non le sue parole: esse sono gli strumenti di scrittori, filosofi o critici d’arte. “ Fonte: http://archetypalexpressionism.com
“Escape into reality (what does a painting thinks)”, 2013
Michal Trpak e “ Gens and Generations” 7
Fuga dal MANN di Napoli
Mostra fotografica di Dario Assisi e Riccardo M.Cipolla di Laura Siconolfi e Maurizio Montuschi
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l potere della fantasia è incommensurabile! Sulle sue ali tutto può accadere, anche che delle statue, stanche di essere osservate nella loro consueta e imbarazzante staticità, decidano di <fuggire> da un museo, (e che museo!) per immergersi nella quotidianità di una città fantastica, brulicante di vita, ovunque. Nelle piazze monumentali, tanto per incontrare <personaggi> altrettanto illustri, nelle strade, negli angoli più caratteristici della città, i vicoli del centro storico; a Castel dell’Ovo, sul lungomare, sulle pensiline dei bus e sui vagoni della metropolitana. Statue in libertà, all’insegna del sorriso e della leggerezza in una Napoli tutta da amare! Lassù, in cima alla Salita di Ponte Nuovo, un’insolita candida e turgida < fanciulla>jjj si affaccia su un modesto terrazzino, in una qualunque mattina del terzo millennio, per compiere un gesto casalingo e ripetitivo, con la consueta armonia e leggerezza … Afrodite di Capua! Laggiù, in vico San Domenico, tra i muri vissuti, qui e là, ingentiliti da improbabili murales, un’elegante figura femminile va, quasi a passo di danza, tra il fruscio della veste sinuosa e una melodia che sembra accompagnare la levità del suo incedere …La Danzatrice del Canova. Ci sono anche Amore e Psiche che si abbracciano teneramente nel Real Orto Botanico, un Toro Farnese che sembra dominare un cielo burrascoso; in atteggiamenti più dimessi e goderecci Adone, Afrodite e, niente di meno, l’imperatore Claudio ... intenti a gustare il piatto simbolo di Napoli, la pizza margherita! <Fuga dal museo> è una mostra fotografica di due artisti napoletani che hanno permesso ad alcune delle sculture
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fotografia
della collezione Farnese (24) nonché ad alcuni capolavori del Canova, attraverso il fotomontaggio, di aggirarsi nei luoghi simbolo della città partenopea. <Il nostro progetto nasce dalla volontà di dare vita alle statue del MANN, rendendole vere creature che interagiscono con la realtà. Le sculture divengono persone che si aggirano per la città, desiderose di scoprirne i misteri, le bellezze e le paure> hanno commentato Dario Assisi e Riccardo Cipolla. La bellissima esposizione è stata allestita nella sala in cui è collocato il famosissimo <Toro Farnese> in quello che è il più antico e importante museo al mondo, il Museo archeologico nazionale di Napoli, in cui Ferdinando IV di Borbone, convogliò alla fine del1700, le collezioni paterne, di Carlo III, che comprendevano preziosi reperti archeologici provenienti dalle città vesuviane sepolte dall’eruzione avvenuta nel 70 dc, una ricca collezione ereditata da Elisabetta Farnese, madre di Carlo III. Altre meraviglie, col passare degli anni anzi dei secoli, hanno impreziosito i vetusti ambienti che meritano, a dir poco una giornata intera! Fino alla fine del mese si potrà ammirare anche la mostra fotografica, in seguito, quanto di più bello e interessante si possa immaginare.
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La musica antica Naxi
un fossile vivente della musica cinese di Yaqi Yang , Silvia
Nell’antica Cina, la musica svolge un ruolo di primaria importanza. Per regolare i comportamenti della società, fin dalla dinastia Zhou (circa 1100 avanti Cristo) venne stabilito un sistema che univa ritualità e musica, in cui il rito serviva ad amministrare l’ordine di vari strati sociali mentre la musica cercava di trovare un’armonia tra gli uomini e la natura. Da secoli, integrandosi con la letteratura, la religione e i costumi popolari, la musica cinese si sviluppa in tanti rami, tra cui il più brillante è quella creata e tramandata dalle minoranze etniche. Stiamo parlando di un tipo molto particolare, nata nella Cina sudoccidentale, ovvero la musica antica Naxi. La musica antica Naxi è nota non soltanto per essere tra le più antiche del mondo, ma anche per essere una delle poche forme orchestrali classiche cinesi di grande ampiezza. È originaria di Lijiang, nella Provincia dello Yunnan, famosa per i paesaggi naturali e per la cultura delle minoranze etniche. La sua posizione la rende meno contaminata dall’urbanesimo, e ciò favorisce la conservazione delle tradizioni più antiche. La musica antica Naxi viene considerata “un fossile vivente della musica cinese” per i cosiddetti“tre vecchi”: l’uso degli antichi strumenti, le antiche composizioni musicali e i musicisti anziani. In genere gli strumenti utilizzati nell’orchestra possono essere suddivisi in tre categorie: quelli a fiato, a corda e ad arco, molti dei quali hanno un’ origine molto antica, come lo Yunluo (il gong a dieci piatti) e il Guqin Pipa (uno strumento a corda), che sono andati persi in altre zone della Cina. Nei confronti delle composizioni musicali, da secoli i popoli di Naxi hanno raccolto e creato un’abbondanza di testi letterari e di musiche più originali per comporre l’opera; si tratta di composizioni antiche, molto vicine alla musica della Dinastia Song. Inoltre, gli artisti nell’orchestra di Naxi sono quasi tutti anziani ultra settantanni e quando muore un componente dell’orchestra, viene appeso il suo ritratto sulla parete del palcoscenico per onorare la sua memoria. 10
Le tre parti della antica musica Naxi Generalmente, la musica antica Naxi è composta da tre parti : la “Musica Raffinata Baisha” (Baisha xiyue), la “Musica Dongjing (Dongjing Yinyue) e la “Musica Huangjing” (Huangjing Yinyue), l’ultima delle quali è probabilmente andata persa nel corso della storia. Baisha xiyue, conosciuta come la musica raffinata
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Baisha, fu composta in Cina 700 anni fa ed appartiene alla Dinastia Yuan; fu una forma di musica classica che si diffuse nel territorio del popolo di Naxi. Secondo un detto leggendario, questo tipo di musica fu portato da Kublai Khan durante la sua avanzata verso Dali, una città vicina a Lijiang. Per ringraziare il popolo di Naxi, lasciò un gruppo di musicisti prima di partire. In questo modo la musica di Naxi avrebbe ereditato i caratteri della musica della Pianura centrale e infine avrebbe formato uno suo stile musicale particolare. Essendo dedicata alle cerimonie per i morti, la musica Baisha possiede 24 qupai (melodie) che sono caratterizzate dal ritmo piano, lo stile soave e la melodia triste, ma energica. La musica Dongjing è una combinazione tra la musica taoista, proveniente dalla pianura centrale, e quella tradizionale del popolo Naxi. Riesce meravigliosamente a conservare gli schemi prosodici originali della dinastia Song e Yuan. Gli schemi prosodici richiedono agli artisti di comporre la musica secondo una regola rigida. Per tramandare la conoscenza musicale, i musicisti di Naxi utilizzano il Gongchipu (un tipo di partitura) che insegnano ai loro discepoli. In questo modo la musica Dongjing è stata tramandata e conservata fino ad oggi ed è apprezzata per la sua eleganza e l’imponenza intrinseca. La “Musica Huangjing” (Huangjing Yinyue) è una delle più antiche forme musicali che, secondo i documenti storici, fu dedicata alle cerimonie di sacrificio. Fu una sorta di cristallizzazione della musica taoista e della musica orchestrale confuciana. Purtroppo questa
dalla Cina con...
musica è andata persa nel corso del tempo, e solo qualche testo letterario viene ancora conservato. L’opportunità e le difficoltà della diffusione della musica antica Naxi Indubbiamente la musica antica Naxi è un segno indelebile nella storia della musica nel mondo. Negli anni 90 del secolo scorso, con il supporto del governo, l’orchestra dell’antica musica Naxi ha aggiunto l’apogeo. L’orchestra è stata inviata a Londra per dare luogo a concerti nel 1995 e in Italia nel 1998, lo spettacolo è stato un grande successo, suscitando una febbrile passione per questa antica forma musicale. Per quanto riguarda la Cina, la situazione sta cambiando. Grazie alla commercializzazione promossa da Xuan Ke, un esperto della musica Naxi, l’orchestra comincia a svolgere un ruolo importante nel turismo e diventa un simbolo di Lijiang e anche della provincia dello Yunnan; come dice un proverbio: “solo quelli che sono stati a Lijiang a ascoltare lo spettacolo della musica di Naxi possono dire di essere stati in Yunnan”. Essendo ancora un’arte di nicchia, sta affrontando una grande difficoltà nel tramandare la sua saggezza musicale, tanto è vero che oggigiorno ai giovani piace di più la musica popolare. Quindi quella tradizionale cinese si trova ad un punto di svolta tra opportunità e sfide. Da un punto di vista positivo, con la diffusione di Internet, questa musica viene conosciuta e apprezzata dai più giovani, sia in Cina che all’estero. 11
Segnale d’allarme – La mia battaglia VR Retorica ed estetica nel teatro virtuale di Valerio Lucantonio
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lio Germano, uno degli attori italiani più apprezzati degli ultimi anni, si sta cimentando nella distribuzione di una nuova versione del monologo teatrale scritto insieme a Chiara Lagani “La mia battaglia”, da lui diretto e interpretato. Dopo la serie di spettacoli in forma tradizionale Germano ha operato una riscrittura del testo e, insieme a Omar Rashid, ne ha curato la trasposizione per la tecnologia sempre più diffusa (seppur lontana da essere mainstream) della realtà virtuale. L’opera ha quindi cambiato titolo (“Segnale d’allarme”) e medium, allestendo una rilocazione dell’esperienza teatrale tramite un avvicinamento alla dimensione cinematografica che gioca sulle specificità estetiche della VR. Da ciò deriva una problematizzazione incrociata dei diversi mezzi espressivi e una suggestione su nuove possibilità distributive del teatro più convenzionale. Ci troviamo seduti in prima fila davanti a un palco 12
vuoto, dalla scenografia minimale, e quasi subito la nostra attenzione viene richiamata da Germano che entra in scena alle nostre spalle, dal fondo della sala. Inizialmente l’attore, nella veste di pacato e amichevole intrattenitore, mantiene il contatto con il pubblico e si aggira tra le file rompendo il ghiaccio con domande e affermazioni semplici, spesso addirittura banali, che predispongono alla condivisione. Conclusa l’introduzione il nostro oratore, alternandosi tra palco e platea, comincia a esporre le proprie considerazioni socio-antropologiche incentrate sulla superficialità della condizione umana contemporanea, e finisce inevitabilmente ad affrontare la spinosa questione delle abitudini derivate da smartphone e social network. Il tema centrale è quello della meritocrazia, della necessità di privilegiare la competenza rispetto alla retorica, di dover ricominciare ad affidarsi non a chi
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risulti più abile nel catturare consensi, bensì a individui capaci di assumersi responsabilità e ottenere successi concreti. Se ci ritrovassimo naufraghi su un’isola deserta, non conterebbero più i “like”, ma gli apporti effettivi di ciascun membro della comunità. La parte centrale dello spettacolo procede nell’ampliamento di questa metafora, con Germano che passa più tempo sul palco mentre continua a coinvolgere il pubblico tramite sondaggi per alzata di mano. I contorni e gli assunti della tesi proposta si fanno più chiari e al tempo stesso stridenti per eccesso di faziosità: la critica ai limiti della democrazia, alla quale si dovrebbe integrare una logica della delega più settaria ed escludente, manca di qualsiasi ragionamento dialettico e si mette sempre meno in discussione. L’intrattenitore diventa un oratore da comizio che applica i meccanismi ingannevoli della captatio benevolentiae criticati poco prima, dimostrando implicitamente che slogan e invettive hanno il potere di adattarsi subdolamente al pensiero di qualunque uditorio, una volta allentato il pensiero razionale. L’ultima parte dello spettacolo sfocia in un crescente sproloquio autoritario di Germano, ormai fissamente piantato al centro del palco e immerso nell’ebbrezza degli applausi rivoltigli da attori infiltrati nel pubblico. Senza scendere in ulteriori dettagli sul raccapricciante climax, la cui rivelazione disinnescherebbe la strategia d’urto perseguita dall’opera, si può approfondire
teatro VR
l’intelligente costruzione di questa esperienza sul doppio binario estetico della tecnologia e dei processi cognitivi. “Segnale d’allarme” fa incarnare lo spettatore in una prospettiva semi-limitata (si può ruotare la visuale di 360°, ma si rimane ancorati alla propria sedia in prima fila) che predispone e impone, tanto quanto la manipolazione retorica operata dal performer, una visione individualista e scollata dalla realtà (sia della sala in cui ci si trova, sia del teatro che viene riprodotto). Questa condizione rimanda alla sempre più abituale disposizione del singolo nei confronti della realtà attraverso il filtro della propria bolla telematica, mentre le provocazioni di Germano incentivano una continua analisi del sottotesto e delle conclusioni verso cui tende l’attore. Tale distorsione tecnologica e cognitiva della realtà mette alla prova il fruitore portandolo a interrogarsi sulla legittimità e sulla fallacia del proprio giudizio, nonché sui limiti entro i quali è disposto ad arrivare prima di degenerare nel populismo più nocivo o addirittura in forme di estremismo antidemocratico. Alla fine dell’esperienza virtuale si passa dall’(auto) giudizio alla riflessione, in seguito alla presa di coscienza stimolata da questa particolare opera che non vuole offrire risposte e soluzioni, ma solo indirizzare l’attenzione su una serie di bias cognitivi e reazioni di pancia che ognuno di noi rischia sempre di sostituire al pensiero critico e razionale. 13
Pierre Bourdieu e altri
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occhio al libro
“Un’arte media. Saggio sugli usi sociali della fotografia” di Giuseppe Chitarrini
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. Bourdieu è stato un caposcuola della Sociologia contemporanea non solo francese, ma mondiale; la sua non lunga vita (1930-12002) fu intellettualmente intensa e produttiva: fu autore di numerosi saggi, articoli, studi, ricerche, riflessioni ecc. e fu anche, come sappiamo da questo libro, un eccellente fotografo, che documentò, fra le altre cose, i suoi anni di permanenza in Algeria nel corso della guerra di Liberazione dal colonialismo francese. Svolse in quell’occasione, sia quando era militare di leva e poi successivamente come assistente all’Univ. di Algeri, una serie di ricerche etnosociologiche, corredate da una copiosa raccolta di fotografie: circa duemila, delle quali, successivamente, centocinquanta fra queste, fecero il giro del mondo (Stati Uniti, Europa, Giappone…)in una mostra organizzata nel 2003 l’anno dopo la sua scomparsa. Il quesito che il sociologo francese, insieme ad altri cinque studiosi suoi conterranei (Luc Boltanski, Jean-Claude Chamboredon, Gerard Lagneau, Dominique Schnapper), si pone in questo ponderoso volume è inerente al significato che l’immagine fotografica può avere per la sociologia in particolare, ma anche per le altre scienze sociali. Infatti, ferma restando la comprovata “affinità elettiva” fra lo sguardo del sociologo (cfr. p. 22) e quello del fotografo professionista, ma non solo, ci si chiede in che termini questa affinità venga a concretizzarsi o a declinarsi, cosa è fotografato e cosa è fotografabile, i vincoli relazionali che legano il fotografato e chi fotografa. “La fotografia è insieme indice e mezzo di integrazione sociale”(p- 165), e anche per questo può considerarsi una pratica diffusa trasversalmente ad ogni livello sociale, nelle diverse classi sociali o a seconda dei gruppi o delle categorie professionali o lavorative, da chi vive in campagna, o in provincia o in città, e a seconda 14
poi delle diverse condotte e motivazioni adottate dal fotografo, sia che sia un’esperienza amatoriale o professionale (fotoreporter e altri professionisti dello scatto) , eseguita artisticamente o perché spinti da semplici e generiche motivazione che possono spaziare dalla memoria famigliare, allo scopo didattico e divulgativo, dalla rilevazione tecnico- ambientale alla pubblicità e altro ancora. Nel testo ci si chiede inoltre se la fotografia possa essere, intrinsecamente e nel merito, oggetto di studio o se possa invece costituire solamente, e in che termini, uno strumento e un metodo d’indagine e di ricerca. E poi, ancora, quali sono gli ambiti ed usi sociali percorribili con questa tecnica/arte; quali le ‘materie’ disciplinari concernenti le scienze sociali e dell’uomo che vengono ‘interpellate’ quando si realizza un’esperienza fotografica (sociologia della comunicazione, sociologia dell’arte, sociologia culturale [cultural studies], della famiglia, estetica popolare [cfr. p. 38], etno-sociologia ecc.). Da un punto di viste strettamente editoriale il testo non costituisce una novità, venne infatti pubblicato per la prima volta nel 1965, da allora è stato più volte ripubblicato, stralciato, integrato, rimaneggiato. Questa edizione italiana è la più recente perché risale alla primavera del 2018 e si avvale anche del saggio introduttivo: ”La conversione dello sguardo, Bourdieu, fotografo in Algeria”, di Milly Buonanno. Come dicevo le pagine di questo libro costituiscono i resoconti di una serie di indagini e studi a più voci (Bourdieu e summenzionati colleghi) che si muovono toccando diversi registri: quello estetico e quello sociologico, dall’etno-sociologia alla critica e alla documentaristica, offrendo al lettore diversi ed eterogenei spunti di riflessione sul rapporto di quello che è il mondo quotidiano, le immagini, l’esperienza percettiva e rappresentativa di quel mondo stesso.
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Roma
“Strade di Arabia. Tesori dell’Arabia Saudita” Museo nazionale romano Terme di Diocleziano, fino al 1 marzo “Dialoghi sulla moda” Curia Iulia, foro romano, fino al 21 marzo “Impressionisti segreti” Palazzo Bonaparte, fino al 8 marzo 2020 “Canova. Eterna bellezza” Palazzo Braschi, fino al 15 marzo 2020 Frida Kahlo“il caos dentro” SET Spazio Eventi Tirso, fino al 29 marzo 2020 “Carthago. Il mito immortale” Parco archeologico del Colosseo, fino al 29 marzo 2020 “Roma fotografia 2020. Eros” Sedi varie, fino al 6 aprile “Gio Ponti. Amare l’architettura” MAXXI, fino al 13 aprile “Gabriele Basilico. Metropoli” Palazzo delle Esposizioni,fino al 13 aprile “I love Lego” Palazzo Bonaparte, fino al 19 aprile “The dark side, chi ha paura del buio” Musja Museo, fino al 1maggio 2020 “C’era una volta Sergio Leone” Museo dell’Ara Pacis, fino al 3 maggio “Elliott Erwitt. Icons” WEGIL, fino al 17 maggio “Jim Dine” Palazzo delle Esposizioni, fino al 2 giugno “Raffaello “ Scuderie del Quirinale, dal 5 marzo al 2 giugno “Il centenario. Alberto Sordi 1920-2020” Villa Sordi-teatro Discuti, dal 7 marzo al 29 giugno
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Barletta
“Boldini. l’incantesimo della pittura” Pinacoteca “De Nittis”, fino al 3 maggio
Città della Pieve (Pg)
“Mitopoiesi” Kossuth Spezio Kossuth, fino al 15 marzo 2020
Ferrara
“De Nittis e la rivoluzione dello sguardo” Palazzo dei Diamanti, fino al 13 aprile
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Firenze
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Eventi
“Pietro Aretino e l’arte del Rinascimento” Uffizi, fino al 1 marzo “Picasso.l’altra metà del cielo. Foto di Edward Quinn” Museo mediceo di Palazzo Medici Riccardi, fino al 1 marzo
Milano
“Guggenheim. La collezione Thannhauser, da Van Gogh a Picasso” Palazzo Reale, fino al 1 marzo “Canova - Thorvaldsen. La nascita della scultura moderna” Gallerie d’Italia, fino al 15 marzo 2010
Napoli
“Napoli Napoli di lava, porcellana e musica” Museo e Real Bosco di Capodimonte, fino al 21 giugno 2020 “Fuga dal museo” Mostra fotografica Museo Archeologico Nazionale di Napoli, fino al 24 febbraio
Padova
“Van Gogh, Monet, Degas” Palazzo Zabarella, fino al 1 marzo
Torino
“Konrad Magi. La luce del nord” Musei reali, sale Chiablese, fino al 8 marzo
Urbino
“Raphael Ware. I colori del Rinascimento” Galleria Nazionale delle Marche - Palazzo Ducale, fino al 13 aprile 2020
Venezia
Da Tiziano a Rubens” Palazzo Ducale, fino al 1 marzo
Verona
“Carlo Scarpa. Vetri e disegni 1925-1931” Museo di Castelvecchio, fino al 29 marzo “Il tema di Giacometti - Da Chagall a Kandinsky. Capolavori della Fonfazione Maeght” Palazzo dela Grand Guardia, fino al 6 aprile 2020
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Louis Kahn nelle fotografie di Roberto Schezen al Maxxi fino al 2 giugno 16