A cura dell’Associazione Arte Mediterranea - anno XIV N° 135 maggio 2020
Mensile d’informazione d’arte
www.artemediterranea.org
n Visioni
dell’Inferno G.Dorè, “Paolo e Francesca”
Dedicato a: quando il linguaggio n si fa manifesto
In mostra: Rodari e n Munari
Cinema: n favolacce
Per sponsorizzare “Occhio all’Arte”
Telefona al 347.1748542
Associazione ARTE MEDITERRANEA Aprilia - PROGRAMMA CORSI 2018-2019 CORSO DISEGNO 1° ANNO MARTEDI’ - GIOVEDI’ 09,00 - 11,00 18,00 - 20,00
CORSI IN ORARIO DA DEFINIRE
CORSO OLIO LUNEDI’ - VENERDI’ 18,00 - 20,00 20,00 - 22,00 MARTEDI’ - GIOVEDI’ 09,00 - 11,00 18,00 - 20,00
CORSO ACQUERELLO MARTEDI’ - GIOVEDI’ 9,00 - 11,00 18,00 - 20,00 CORSO ACQUERELLO AVANZATO LUNEDI’ MERCOLEDI’ 18,00 - 20,00
CORSO DI ANATOMIA PER ARTISTI Ins. Antonio De Waure CORSO DI PROSPETTIVA Ins. Giuseppe Di Pasquale
CORSO DI DISEGNO - FUMETTO SCENEGGIATURA ORGANIZZATO DA SCHOOL COMIX APRILIA SABATO 10,30 - 18,45
Al momento, per decreto ministeriale, i corsi dell’Associazione Arte Mediterranea sono sospesi e la scuola rimarrà chiusa fino a nuove disposizioni
La Redazione
Redazione Maria Chiara Lorenti, Cristina Simoncini, Giuseppe Di Pasquale, Mensile culturale edito dalla Associazione Arte Mediterranea Via Muzio Clementi, 49 Aprilia Tel.347/1748542 occhioallarte@artemediterranea.org www.artemediterranea.org Aut. del Tribunale di Latina N.1056/06, del 13/02/2007
Collaboratori Patrizia Vaccaro, Laura Siconolfi, Maurizio Montuschi, Valerio Lucantonio, Nicola Fasciano, Giuseppe Chitarrini Francesca Senna Responsabile Marketing Cristina Simoncini
Fondatori Antonio De Waure, Maria Chiara Lorenti Cristina Simoncini
Composizione e Desktop Publishing Giuseppe Di Pasquale
Amministratore Antonio De Waure
Tutti i diritti riservati. E’ vietata la riproduzione anche parziale senza il consenso dell’editore
Direttore responsabile Rossana Gabrieli Responsabile di Redazione Maria Chiara Lorenti
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Sommario
Il Futurismo in musica Quando il linguaggio si fa MANIFESTO Salman Khoshroo Dorè Rauschenberg Brand Rodari e Munari FAVOLACCE La peste e la letteratura sul filo di china
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dalla Cina con...
Il Futurismo in musica Francesco Balilla Pratella
di Kitty Wei Lan - Beijing Foreign Studies University
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rancesco Balilla Pratella fu un compositore e musicologo italiano, nonché l’unico musicista futurista con una educazione professionale in composizione. Nacque a Lugo, in una famiglia di musicisti, per cui imparò a suonare la chitarra da suo padre sin da piccolo. Nel 1899 si iscrisse al conservatorio di Pesaro, frequentando i corsi tenuti da Mascagni e Cicognani e si laureò con un diploma in composizione nel 1903. Dal 1910 al 1929 diresse l’Istituto Musicale Comunale di Lugo e l’Istituto Musicale Giuseppe Verdi di Ravenna dal 1920 al 1945. Nel 1910, al Teatro Comunale di Imola, l’intermezzo “La Sina‘d Vargöun” eseguito da Pratella attirò l’interesse di Marinetti. I due si conobbero e Pratella aderì al gruppo futurista. In seguito, pubblicò il Manifesto dei Musicisti Futuristi e La Musica FuturistaManifesto Tecnico che aprirono la via alla musica futurista. Nel Manifesto dei Musicisti Futuristi Pratella accusava i conservatori, le accademie, insieme con gli editori-mercanti di aver impedito la libertà e la novità musicale della composizione e di averne frenato lo sviluppo. Era, per l’appunto, un attacco drammaticamente diretto ai compositori italiani contemporanei ed alla loro tendenza a perpetuare le forme musicali del passato piuttosto che tentare ciò che è nuovo e veramente creativo. Quindi, invitò i giovani musicisti a: “Liberare la propria sensibilità musicale da ogni imitazione o influenza del passato, sentire e cantare con l’anima rivolta all’avvenire, attingendo ispirazione ed estetica dalla natura, attraverso tutti i suoi fenomeni presenti umani ed extraumani; esaltare l’uomo-simbolo rinnovantesi perennemente nei vari aspetti della vita moderna e nelle infinite sue relazioni intime con la natura”.[ F. B. Pratella, Manifesto dei Musicisti Futuristi] Dopo circa due mesi da tali dichiarazioni, Pratella approfondì il concetto della musica futurista in La Musica FuturistaManifesto Tecnico, contenete dettagliate proposte tecniche musicali. In generale, in accordo al suo pensiero, per ottenere la libertà di comporre bisogna basarsi su: - Nuovi accordi, nuova armonia e melodia: disertare i valori di consonanza e dissonanza e limitare la scala - Ritmo libero: senza la misura dei ritmi o degl’intervalli - Nuovo timbro: i nuovi atteggiamenti della natura I manifesti di Pratella costituiscono la base di un nuovo sistema estetico musicale completo. In aderenza con il movimento intero, l’idea di fondo e l’obiettivo della musica
futurista era di rompere e perdere i ristretti ed antiquati valori musicali tradizionali, di trovare e creare una nuova forma della musica, nuove sperimentazioni musicali e finalmente di abbracciare e avanzare nel nuovo mondo, il mondo moderno, senza guardare indietro e senza fermarsi. Ispirarono molti artisti e subito apparirono molte nuove opere ed innovazioni musicali. I musicisti futuristi continuarono a lavorare per sviluppare il concetto di questa musica futurista. Pratella iniziò a mettere in pratica i principi che aveva enunciato nei manifesti. Una delle sue opere più importanti è “L’Aviatore Dro”, che fu presentato per la prima volta al Teatro Comunale Rossini nel 1920. Vi si racconta una storia di un giovane pilota che tenta di sfuggire alla depravazione del mondo moderno decidendo di volare avventurosamente verso il mare, e infine muore con un sogno in cui la sua allucinazione lo porta un’altra volta in cielo. Anche se si è polemizzato a proposito del fatto che quest’opera sia a rigore realmente futurista, essa contiene certamente molte scene che rientrano in tale prospettiva. L’opera, infatti, mostrava il suo interesse intersezionale e la sua devozione nel futurismo e folclorismo. L’opera fu suonata dall’orchestra tradizionale insieme con i nuovi strumenti musicali futuristi e l’Intonarumori di Luigi Russolo, una innovazione musicale importante, per simulare gli aerei e le macchine nell’opera. Dopo la Prima Guerra Mondiale, Pratella continuò ad occuparsi della composizione e dello studio musicale teorico focalizzandosi sul folclorismo. Dal 1927 e fino alla fine della Seconda Guerra, diventò il direttore del Liceo Musicale Giuseppe Verdi di Ravenna. Morì nel 1955 a Ravenna. Pratella non fu veramente un musicista radicale di natura, rispetto agli altri artisti futuristi. Non disprezzava tutto ciò che era vecchio, e mostrava rispetto per almeno alcuni dei compositori del passato. Le sue opere presentavano sempre la combinazione del folclore e lo spirito futuristico, invece di essere radicalmente e completamente futuriste. La sua educazione professionale musicale fu anche una parte molto importante nella sua devozione alla musica futurista che gli ha permesso di creare e concepire concetti ed elementi tecnici.
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Quando il linguaggio si fa MANIFESTO Il fascino senza tempo dell’arte applicata di Laura Siconolfi e Maurizio Montuschi
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héret, Cappiello, Hoenstein, Mataloni, Dudovich, Terzi, Villa, Metlicovitz, sono solo alcuni degli artisti, ai più sconosciuti, che non hanno espresso la loro genialità attraverso l’arte pittorica, anche se, tra loro, molti erano stati dei pittori, bensì attraverso una spiccata capacità di “comunicatori”, resa concreta da incredibili successi commerciali, dei loro committenti innanzitutto. In quest’articolo e nel successivo, sarà approfondito un argomento, di grande fascino ed interesse storico, che riguarda il manifesto illustrato a scopi pubblicitari, stampato in Italia nell’arco di un secolo, più o meno. Sulla scia degli altri paesi europei, soprattutto della Francia, in Italia erano stati fatti molti tentativi per realizzare dei manifesti artistici, ma il vero nuovo manifesto italiano fu realizzato nel 1895 dal romano Giovanni Maria Mataloni per “La società anonima incandescenza a gas, brevetto Auer”. A tale opera il critico napoletano Vittorio Pica dedicherà delle pagine dalla rivista “Emporium”, <<Questo cartellone che ci mostra una vaga fanciulla, il cui formoso corpo ignudo traspare dentro un sottile velo nero e che voluttuosamente ride sotto una radiante corona di fiammelle a gas, è il primo cartellone italiano che, per concezione, per fattura e per tiraggio, sia degno di stare a confronto coi cartelloni bellissimi che, a Parigi, a Londra,
Chéret - 1894
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Dudovich - 1913
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dedicato a
Aleardo Villa o il giovane Marcello Dudovich, sempre in bilico fra tradizione e innovazione. Aldo Mazza inimitabile nella sua capacità di cambiare tono alle sue creazioni, a volte umoristiche, altre caricaturali o gioiosamente narrative. Leopoldo Metlicovitz, anch’egli coraggioso e abilissimo nell’utilizzare registri linguistici diversificati in funzione dell’esigenza comunicativa, divenne famoso soprattutto per i capolavori realizzati per I Grandi Magazzini dei fratelli “Mele” di Napoli. Nati nel 1889 sul modello degli Empori francesi Lafayette e Le Bon Marchè, incarnarono per circa venti anni la cultura commerciale più emancipata. I manifesti realizzati per i fratelli Mele sono i più efficaci narratori della Belle Epoque italiana, da essi si stagliano: dame belle, eleganti, raffinate negli abiti e negli accessori, in compagnia di uomini fascinosi e molto curati nell’abbigliamento, ricercato e alla moda. Sempre belle, ma di una bellezza meno bamboleggiante, elegantissime, ma più disinvolte, spesso con un sorriso velatamente beffardo, le donne che passeggiano da sole per le vie della città. In un manifesto, una single, come la definiremmo oggi, ci osserva stando in primo piano, con un sorriso canzonatorio, mentre sul fondo, una coppia, quasi nascosta, la osserva con disappunto, o forse con invidia!
Mazza - 1908 a New York, consolano in qualche modo le pupille degli aristocratici amatori d’arte, offese di continuo dalle grossolane ed anti-estetiche sagome degli enormi ed umilianti caseggiati moderni>>. Fu questo un avvio tutto italiano nella forma (un insieme di retaggi classicisti e innovazioni moderniste, all’insegna dell’armonia e dell’efficacia comunicativa) e universalmente moderno nei contenuti pubblicitari che parlavano d’illuminazione artificiale “per accendere i veri lumi del progresso comunicativo”. Un ruolo fondamentale, per il successo di tale settore dell’arte grafica, ricoprì la Casa Ricordi, editoriale musicale dal 1808, lungimirante e iperattiva nell’estensione dei suoi campi d’attività, si era dotata di aggiornatissime attrezzature per ogni tipo di stampa che le permisero di contribuire oltremodo all’eccellenza della pubblicità illustrata nel nostro paese. Successivamente nacquero, con compiti mirati, Le Officine grafiche Ricordi, il cui primo direttore Adolf Hohenstein, abilissimo nell’uso di tecniche tradizionali, soprattutto nel disegno, sarà comunque molto sensibile ad ogni tipo di innovazione, anche la più audace. Utilizzando la fotografia, ad esempio, realizzerà dei veri e propri manifesti-capolavori per l’Iris di Mascagni, per la Tosca di Puccini, per il Cordial Campari e per il Bitter Campari. Sempre le Officine Ricordi daranno corpo alla creatività di artisti come Aleandro Terzi, raffinatissimo autore anche di cartoline e spartiti musicali;
Mataloni - 1895 5
Salman Khoshroo
Matasse di lana composte in ritratti intimi durante la quarantena di Cristina Simoncini
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er Salman Khoshroo, trasformare con cura spesse fibre in ritratti maschili ha un effetto terapeutico. L’artista iraniano afferma che la sua serie “Wool on Foam” è nata da un trauma recente e dall’esperienza della quarantena. Scolpendo le matasse di lana in nasi delicati, labbra arricciate e capelli fluenti, Khoshroo evoca la delicatezza e la vulnerabilità che gli umani affrontano in situazioni 6
precarie. “Viviamo in tempi fragili e sento il bisogno di trovare nuovi materiali e la mentalità per reinventare la mia pratica. La lana porta calore e intimità in queste opere provocando l’istinto del nutrimento. Fare ritratti maschili con questo materiale abitualmente percepito come femminile fa parte di un viaggio personale nella reinterpretazione della condizione
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maschile.” L’artista racconta che preferisce mantenere le matasse pigmentate nella loro forma naturale, piuttosto che filarle o abbinarle prima dell’uso. “Ho disposto la lana come pennellate galleggianti e questi sono i risultati. Immagino che affrontare l’uso di un nuovo materiale senza alcuna preparazione
curiosArt
renda più semplice creare qualcosa senza l’onere di osservare tecniche consolidate“, afferma. Khoshroo vede queste opere come un’estensione della sua pratica artistica consolidata che produce ritratti similmente astratti. Fonti: www.thisiscolossal.com
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Dorè Rauschenberg Brand Visioni dell’inferno di Maria Chiara Lorenti
Gustave Doré, “Divina Commedia-Inferno-canto-XXXIIl gigante Anteo depone Virgilio e Dante sul-fondo del pozzo di Cocito”
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re artisti per interpretare l’Inferno dantesco. Tre secoli a confronto, l’ottocento con Dorè, il novecento con Rauschenberg e il duemila con Brand. Diversissimi nello stile pittorico, nella raffigurazione e nella sensibilità artistica. Gustave Dorè, artista poliedrico, versato su varie tecniche pittoriche, è noto soprattutto per le sue incisioni, utilizzate come illustrazioni di grandi opere letterarie, di cui le più famose sono senz’altro quelle per La Divina Commedia di Dante. “Nel mezzo del cammin di nostra vita, mi ritrovai per una selva oscura, che la diritta via era smarrita…” così inizia il viaggio di Dante che si inoltra all’Inferno con una guida eccezionale, il poeta latino Virgilio, che lo accompagnerà a visionare tutti i gironi infernali ed anche il Purgatorio, solo alle soglie del Paradiso dovrà lasciare il compito a Beatrice, essendo egli non 8
cristiano, e quindi impossibilitato ad entrare. Dorè immagina, in questa incisione, un Dante guardingo, all’armato, che si volge indietro, titubante se addentrarsi in quella foresta dai grandi alberi dalle fronde intricate, dove la luce non penetra. Bellissima la trasposizione dai minuziosi particolari paesaggistici, con gli alberi aggrappati al declivio, dalle nodose radici che sfiorano il sentiero, quasi cancellato dalle foglie caduche. “...ove udirai le disperate strida, vedrai li antichi spiriti dolenti, ch’a la seconda morte ciascun grida...” , “...per me si va ne la città dolente, per me si va ne l’eterno dolore, per me si va ne la perduta gente...Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate.” Una tra le più struggenti liriche degli inferi, è certamente quella che canta l’ “amor, ch’a nullo amato amar perdona..” tra Paolo e Francesca, due sfortunati amanti, che, rapiti dalla lettura dell’amore di Lancillotto per Ginevra, si fecero travolgere dalla passione. “Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse...” e Dorè, in una visione intrisa di malinconia e romanticismo, li disegna così come narrati, fluttuanti al vento, le nuda membra allacciate, lui, protettivo, la sorregge, mentre lei gli si abbandona, col petto trafitto, ancor stillante di vermiglio sangue. Dorè è un artista strettamente legato alla sua epoca, fedele riproduttore delle cantiche dantesche, che con sensibilità e virtuosismo ci trascina visivamente nei vortici degli inferi. Robert Raushenberg, invece, utilizza una tecnica mista per poter raffigurare le vicende narrate, il transfer drawing. Più freddo e razionale, usa decalcomanie, tinte con colori ad acqua, acquarelli e gouache, e rifiniture a matita, con un collage di foto, trasposte dalle pagine patinate di riviste. Barbara Codogno lo descrive riferendo come “Egli riporta a galla l’Inferno, contestualizzandolo in una dimensione contemporanea. Le immagini
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Rauschenberg, CANTO XIV
“sorgente” usate da Raushenberg mettono infatti in relazione la vita politica e l’anima sociale americana del dopoguerra con la narrazione epica di Dante, entrambe unite da un’ineluttabile discesa agli inferi”. Ultima, in ordine temporale, l’artista tedesca Brigitte Brand. Con sensibilità tutta femminile, affronta la sfida con dipinti astratti, dove il colore campeggia prepotentemente la scena, con la contemporaneità propria degli anni duemila. “La potente fascinazione dell’Inferno dantesco l’ha portata a rielaborare il bagaglio dei suoi appunti visivi sulla Commedia umana, osservata alle diverse latitudini del pianeta, con i luoghi e le figure del primo cantico del poema. Nella trasfigurazione, piccoli segni vaganti in
in mostra
Brand, “INFERNO, CANTO 2”
spazi sulfurei e vorticosi sembrano narrare le vicende e i protagonisti dei canti, ora sollevati da onde di colore, ora affiancati da citazioni iconiche legate alla vita quotidiana”, queste le parole della critica d’arte Virginia Baradel per esplicare la ricerca con cui la pittrice ha affrontato questo grande incarico. “Visioni d’Inferno” è una mostra che rientra nel progetto “La quercia di Dante”, che condivide la stessa sede espositiva, il Palazzo Roncale di Rovigo, curata da Barbara Codogno, Virginia Baradel, Mauro Carrera e Alessia Vedova. La mostra si protrae sino al 28 giugno, quindi visitabile in maniera reale, salvo diverse disposizioni. 9
Rodari e Munari
Pura creatività al servizio dell’infanzia di Patrizia Vaccaro
Gianni Rodari
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n occasione dei 100 anni dalla nascita di Gianni Rodari può essere interessante parlare del rapporto di collaborazione che ebbe con Bruno Munari: il primo come scrittore, l’altro come illustratore. L’ occasione la dà la casa editrice Einaudi, con cui Rodari inizia a pubblicare nel 1960 e dove collabora anche Munari. Gianni Rodari (nato ad Omegna, 23 ottobre 1920 e morto a Roma, 14 aprile 1980), era un noto scrittore della letteratura d’ infanzia, nonché pedagogista, giornalista e poeta italiano, inoltre vincitore italiano del Premio Hans Christian Andersen nel 1970 e teorico dell’arte d’ inventare storie. Bruno Munari (nato a Milano, 24 ottobre 1907, morto a Milano, 29 settembre 1998) esponente dell’arte, del design e della grafica del ventesimo secolo, si è dedicato anche alla didattica, alla ricerca e allo sviluppo della creatività e della fantasia nel mondo dell’ infanzia attraverso il gioco, grazie a lui si è creato il primo laboratorio per bambini in un museo, presso la Pinacoteca di Brera a Milano, nel 1977. Munari ci racconta di aver conosciuto Rodari attraverso Giulio Einaudi, per illustrare un suo libro: “Filastrocche in cielo e in terra”, in seguito saranno molte le copertine illustrate dal designer, che coglie appieno la filosofia di Rodari, “brevità” e “rapidità” sono caratteristiche che avranno in comune. Egli interpreta, le storie dello scrittore, con pochi e veloci segni, spesso prendendo a riferimento un’ immagine del testo che può anche non essere significativa rispetto alla trama del racconto stesso. Non vuole influenzare troppo il lettore con i suoi disegni. Chi legge o ascolta, ha ancora tanto spazio per 10
far correre la fantasia. Se gli scritti sono ricchi di dettagli, il segno è nero e leggero, mentre se il racconto è breve, Munari usa il colore, infatti con “Filastrocche in cielo e in terra” ci sono segni dai colori vivaci, diversi e brillanti. Spesso l ‘artista sintetizza in un’ unica immagine tutto il racconto, ad esempio, in CI VUOLE UN FIORE, raffigura un fiore arancio e giallo nel quale al centro mette un tavolo blu, mentre Rodari ripercorre tutta la storia: dal tavolo, al legno, all’albero... fino ad arrivare al fiore, Munari traduce e sintetizza tutto riducendolo a tavolofiore. In “Favole al telefono”, forse il suo libro più conosciuto, ci sono brevi racconti che, come ci spiega la prefazione, sono fiabe che il ragioniere Bianchi di Varese, lavorando spesso fuori, racconta tutte le sere alla figlia, telefonando a casa, stiamo parlando di quei telefoni vintage con disco a rotella che il Munari sintetizza con un disegno grafico nel quale, in ogni cerchietto del disco, al posto
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in mostra
Bruno Munari
dei numeri, inserisce come dei scarabocchi, quei segni inconsci che spesso si fanno distrattamente proprio parlando al telefono con qualcuno. Interpreta il tutto in modo marginale senza entrare nello specifico, si sofferma su pochi elementi che ci rimandano al contesto o ad una parte di esso. Possiamo concludere dicendo quanto sia stato importante, per il mondo dell’infanzia, l ‘incontro tra questi due grandi maestri, che hanno messo le loro capacità al servizio della creatività, realizzando opere fantastiche, da riscoprire in questo particolare periodo storico che stiamo vivendo. (Potrete approfondire l’argomento con la mostra: TRA MUNARI E RODARI /ASPETTANDO LA MOSTRA, presso il Piano zero al Palazzo delle Esposizioni di Roma, prevista per giugno, pandemia permettendo. Ci sono già on-line diversi contenuti disponibili a riguardo.) 11
FAVOLACCE
Le conseguenze delle narrazioni “sbagliate” di Valerio Lucantonio
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on il loro film d’esordio “La terra dell’abbastanza” i gemelli Damiano e Fabio D’Innocenzo si erano fatti notare dalla critica e dal circuito dei premi, vincendo tra gli altri il Nastro d’Argento per la regia di un’opera prima e suscitando interesse per il loro prossimo lavoro. Dopo due anni arriva la conferma della particolarità dello sguardo e della filosofia del duo romano con “Favolacce”, presentato in anteprima al Festival di Berlino (dove si è aggiudicato l’Orso d’argento per la miglior sceneggiatura) e uscito per ora solamente in streaming a causa della pandemia di Covid-19. Il titolo semplice, ma evocativo, fa presagire il tono di degrado e instabilità che pervade la pellicola fin dall’introduzione del narratore esterno, il quale 12
denuncia l’inaffidabilità della storia, in quanto frutto del ritrovamento di un diario di cui ha riempito le pagine rimaste vuote: “quanto segue è ispirato a una storia vera, la storia vera è ispirata a una storia falsa, la storia falsa non è molto ispirata”. Queste parole anticipano e sintetizzano l’atmosfera e la rarefazione narrativa che fin dalle prime scene denotano l’intento dei due sceneggiatori-registi: ritrarre con attenzione, ma senza fretta e ordine, gli eventi apparentemente poco significativi, addirittura sciatti, vissuti dalle famiglie residenti in una manciata di villette a schiera nella provincia romana. In questo luogo indefinito, di cui non si comprendono mai precisamente coordinate e confini, una specie di punto d’incontro tra il sobborgo idilliaco dell’immaginario statunitense e la piazza desolata di Dogman (per il quale i D’Innocenzo hanno collaborato alla scrittura con il regista Matteo Garrone), la piccola comunità fatta di genitori e figli quasi adolescenti vive pigramente una giornata dopo l’altra tra la facciata del benessere piccolo-borghese e un intrinseco vuoto di valori condiviso. Con l’arrivo dell’estate emerge ancora di più la frustrazione dissimulata della generazione cresciuta durante la Seconda Repubblica, adesso arrivata a doversi confrontare con il ruolo familiare di maggiore responsabilità e incapace di costituire un modello positivo. L’unica eredità lasciata alla prole, inconsapevolmente, è quella mancanza di obiettivi concreti e riferimenti per la quale non si riesce a volere nulla al di fuori degli ormai triti e ritriti status symbol, adottati in quanto unica scelta possibile in assenza di stimoli culturali alternativi. A questo senso di fragilità e inconsistenza si uniforma la composizione drammaturgica di una struttura esile, per la maggior parte del film frammentaria e situazionista, ma sostenibile grazie al montaggio, e la regia che si articola rifiutando misura ed equilibrio e ricorrendo a fuori fuoco, long take a camera fissa o primissimi piani fuori bolla. Prima del tardivo evento scatenante, che
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smuoverà la staticità di questo piccolo mondo, si percepisce spesso la fermezza nel negare una direzione precisa della progressione narrativa e la volontaria sciatteria di inquadrature, scenografie e dialoghi, a suggerire la tensione sottotraccia che potrebbe esplodere in un qualsiasi momento scatenando una tragedia. Come e ancora di più del loro film precedente, i D’Innocenzo dimostrano interesse e cura di stampo antropologico divergenti da qualsiasi pretesa paternalista o freddamente accademica, portando di nuovo al centro del proprio sguardo e del lavoro attoriale frammenti di realtà come gesti, fisime e modi di dire e parlare così caricati, ma al tempo stesso così verosimili per chi abbia frequentato almeno una volta le molte estensioni periferiche di Roma. Anche le tematiche trattate ne “La terra dell’abbastanza” ritornano con tratti ancora più
cinema
esasperati e disincantati, soprattutto per quanto riguarda l’inadeguatezza che emerge dal confronto generazionale e il conseguente disorientamento dei giovani. I bambini sono silenziosi, insicuri e spaesati avendo avuto come modello soltanto narrazioni “sbagliate”: le favole, un tempo parabole d’intento morale, si sono deformate nei cattivi esempi dei genitori che, invece di raccontare storie educative, fanno zapping sugli eventi di cronaca nera. Ed è proprio con uno di questi che la storia si chiude e si apre, delineando una struttura ciclica che riflette il senso di imprevedibilità e reiterazione di epiloghi tanto terribili quanto squallidi e penosi, tristemente all’ordine del giorno, osservati da una pellicola che nel finale ammette la propria visione pessimista, o meglio spietatamente realista, con il congedo del narratore e il macabro memento mori della canzone nei titoli di coda. 13
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occhio al libro
La peste e la letteratura di Giuseppe Chitarrini Il Coronavirus, che ci costringe a stare a casa, può costituire l’occasione per dedicarsi alla lettura, e magari ci si potrebbe ispirare, nello scegliere i testi da leggere, proprio all’argomento della pestilenza, dell’isolamento, della segregazione-quarantena; argomenti che costituiscono veri e propri ‘topos’ letterari. Il più antico esempio potrebbe essere la narrazione del mito di Edipo: ‘Edipo Re’ come ce lo propone Sofocle nella sua tragedia (distinta dalla successiva ‘Edipo a Colono’). La città di Tebe è sconvolta dalla peste, la popolazione è decimata dal morbo, il tutto da quanto Edipo è diventato re. E’ proprio quest’ultimo a mettersi alla ricerca delle motivazioni, dei possibili ‘untori’, autori di tale flagello. Edipo ancora ignora che la causa dell’epidemia è proprio lui che a sua insaputa ha ucciso il padre Laio e, di conseguenza, ha ‘giaciuto’ con la madre Giocasta, scatenando l’ira del Fato. La cifra della tragedia è proprio in questa inconsapevolezza colpevole, innocenza e responsabilità dell’eroe, il quale alla fine, scoperta la verità preferirà accecarsi e ritirarsi in un semi eremitaggio a Colono, mentre Giocasta preferirà il suicidio; questo destino tragico si ripercuoterà poi nella generazione successiva nelle vicende di Antigone, Polinice e Creonte. Comunque, piuttosto che la non facile lettura della tragedia, è preferibile guardare il DVD dello splendido ‘Edipo Re’, film di P.P. Pasolini del 1967, con una meravigliosa Silvana Mangano nella parte di Giocasta, Franco Citti nella parte di Edipo, poi Carmelo Bene, Alida Valli, Ninetto Davoli e altri. Prendiamo in esame da “I Promessi Sposi” le pagine della peste di Milano: una nemesi cristiana che alla fine vede una Divina Provvidenza che fa giustizia uccidendo i cattivi e salvando i buoni. Grandiose e commoventi le pagine della madre milanese: una donna dalla bellezza ‘lombarda’ un po’ disfatta dal dolore e dalla stanchezza che, uscendo dal portone di un palazzo signorile, depone, con rassegnata e dolorosa dignità, il corpo senza vita della figlioletta (Cecilia), vestita a festa, sul carretto dei monatti stracolmo di cadaveri. Voglio ricordare il racconto di Edgar Allan Poe: “La maschera della morte rossa” ne “I racconti straordinari”, dove si narra del Principe Prospero che, con la sua corte di nobili, si auto-segrega nelle stanze del suo lussuosissimo palazzo, mentre fuori incombe una terribile pestilenza che non perdona nessuno. Feste, danze, banchetti, le cantine e le dispense sono stracolme… però, durante uno di questi festini in maschera, compare una figura con in viso una maschera che rappresenta il volto di un appestato. La presenza desta prima curiosità, poi inquietudine, poi paura. Il principe Prospero insegue il silenzioso sconosciuto per le stanze del palazzo, brandendo una spada, seguito da tutti i cortigiani spaventati. Il principe muore e uno dei
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presenti, in preda al panico, strappa la maschera dal volto dello sconosciuto: sotto la maschera non c’è un viso, non c’è niente: è la morte ‘rossa’ che è penetrata nelle mura del palazzo, il destino di tutti è segnato. Anche il ‘Decamerone’ ci racconta una storia simile: un gruppo di giovani sfuggono alla pestilenza chiudendosi nelle stanze di un palazzo, raccontandosi novelle più o meno licenziose: Eros e Thanatos ai tempi di quella che, probabilmente, passò alla storia come la peste del 1300, che sconvolse a più riprese l’Italia e l’Europa. La trasposizione (in dialetto napoletano) di sette fra queste di novelle è stata portata sullo schermo da P.P.Pasolini nel 1971. Come si può non citare il romanzo ‘La Peste’ del francoalgerino Albert Camus, scrittore e filosofo esistenzialista, amico (e nemico) di J. P. Sartre. Il romanzo scritto alla fine della guerra e pubblicato nel 1947, racconta l’assedio della peste in una città del nord Africa (Orano) come metafora del male che assedia, in maniera soverchiante, il genere umano, come era accaduto poco prima con il nazifascismo e la guerra. Brevemente possiamo citare anche il bel romanzo d’avventura “L’Ussaro sul tetto” dell’italo-francese Jean Giono del 1951 e dal quale è stato tratto il film del 1995, nel quale un Ussaro italiano fuggito in Francia, in una città della Provenza, si riduce a vivere segregato sui tetti della città per sfuggire al colera e all’ira degli abitanti, che, in quanto straniero, lo accusano di essere un untore. Storie di morte, di reclusioni e di istituzionalizzazioni, e in questo senso possiamo anche ricordare il feroce film - ancora di Pasolini -, tratto da De Sade: ‘Salò o le 120 giornate di Sodoma’, anche qui una storia di autoesclusione totale, mentre fuori infuriano ancora gli ultimi bagliori pestilenziali della guerra. E, a proposito di istituzioni segreganti e totali, possiamo ricordare di I.Calvino ‘La giornata di uno scrutatore’ che, come enunciato dal titolo narra la giornata di uno scrutatore, in un seggio elettorale particolare, all’interno di quella grande istituzione totale che fu il ‘Cottolengo’ di Torino. Istituzioni totali e segreganti, dove la morte però imperversa, in questo caso, all’interno delle rispettive mura, sono anche il sanatorio de ‘La montagna incantata’ di Thomas Mann e il sanatorio de ‘La diceria dell’untore’ di G. Bufalino; nel primo siamo alla vigilia della devastante prima guerra mondiale e della grande epidemia che ne seguì (la cosiddetta ‘Spagnola’); nelle vicende raccontate da Bufalino invece siamo a guerra appena finita, la pestilenza è appena passata e il protagonista infatti si salva: ma è solo un sopravvissuto.
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Roma
“Jim Dine” Palazzo delle Esposizioni, fino al 2 giugno “Raffaello” Scuderie del Quirinale, fino al 2 giugno “Esther Klas. Maybe it can be different” Fondazione Giuliani, fino al 13 giugno “Rembrandt alla Galleria Corsini. l’autoritratto come san Paolo” Galleria Corsini, fino al 15 giugno “Orazio Borgianni, un genio inquieto nella Roma di Caravaggio” Palazzo Barberini, fino al 30 giugno “Rinascimento marchigiano. Opere d’arte restaurate dai luoghi del sisma” Complesso monumentale di San Salvatore in Lauro del Pio sodalizio dei piceni, fino al 5 luglio “Elliott Erwitt. Icons” WeGil, fino al 12 luglio “Banksy, a virtual protest” Chiostro del Bramante, fino al 26 luglio “Civis Civitas Civilitas” Mercati di Traiano, fino al 6 settembre “Il tempo di Caravaggio. Capolavori della Collezioni di Roberto Longhi” Musei Capitolini, Palazzo Caffarelli, fino al 13 settembre “Ahmed Aisoudani in Between” Palazzo Cipolla, fino al 20 settembre “A distanza ravvicinata” GNAM, fino al 16 ottobre “The Torlonia Marbles, Collecting Masterpieces” Musei Capitolini, fino al 10 gennaio 2021
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Bologna
“La riscoperta di un capolavoro” Palazzo Fava, fino al 28 giugno “Monet e gli Impressionisti. Capolavori dal Musèe Marmottan Monet, Parigi” Palazzo Albergati, fino al 12 luglio
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Ferrara
“Oltre la cornice. Gaetano Previati e il rinnovamento artistico tra Ferrara e Milano” Castello estense, fino al 7 giugno
Eventi
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Firenze
“Tomas Saraceno aria” Palazzo Strozzi, fino al 19 luglio “Allan Kaprow. I will always be a painter-of sorts” Museo Novecento, fino al 4 giugno
Milano
“Georges de La Tour. L’Europa della luce”art. Palazzo Reale, fino al 7 giugno “Trisha Baga. The eye , the eye end the ear” Pirelli Hangar Bicocca, fino al 19 luglio “The Porcelain Room Chinese Export Porcelain” Fondazione Prada, fino al 28 settembre “Carla Accardi. Contesti” Museo del novecento, fino al 2 giugno “Disney. L’arte di raccontare storie senza tempo” Mode, fino al 13 settembre
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Montevarchi (Arezzo)
“Ottone Rosai” Palazzo del Podestà, fino al 12 luglio
Napoli
“Napoli Napoli di lava, porcellana e musica” Museo e Real Bosco di Capodimonte, fino al 21 giugno 2020
Rovigo
“Visioni dell’inferno” (articolo a pagg.8-9) Palazzo Roncale, fino al 28 giugno “Marc Chagall. Anche la mia Russia mi amerà” Palazzo Roverella, fino al 5 luglio
Venezia
“Migrating-Objects. Arte dell’Africa, dall’Oceania e dalle Americhe nella Collezione Peggy Guggenheim” Collezione Peggy Guggenheim, fino al 14 giugno
Frammenti. Fotografie di Stefano Cigada Museo di Roma in Trastevere, fino al 20/09 16