A cura dell’Associazione Arte Mediterranea - anno XV N° 149 novembre 2021
Mensile d’informazione d’arte
www.artemediterranea.org
nDedicato a: Klimt
Gustav Klimt, “Ritratto di signora”
nCuriosart: Naoto Hattori
nIn mostra: Quyola
nDedicato a:
Maurizio D’Andrea
Per sponsorizzare “Occhio all’Arte”
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dall’Associazione
Telefona al 347.1748542
Associazione ARTE MEDITERRANEA Aprilia - PROGRAMMA CORSI 2021-2022
Le attività didattiche, aperte dal primo di settembre, comprendono vari corsi suddivisi nei giorni della settimana: Lunedì e Venerdì Martedì e Giovedì Martedì e Giovedì Lunedì e mercoledì Mercoledì Sabato
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corso corso corso corso corso corso
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pittura ad olio pittura ad olio disegno e olio acquarello pastello fumetto
dalle dalle dalle dalle dalle dalle
18 alle 20 e dalle 20 alle 22 9 alle 11 18 alle 20 18 alle 20 20 alle 22,30 9 alle 15
Oltre alle lezioni, l’associazione, guidata dal suo presidente Antonio De Waure, supporterà gli allievi che vorranno fare delle esposizioni, organizzerà gite culturali e mostre estemporanee. Chi vorrà iscriversi potrà farlo negli orari di apertura della scuola.
Redazione Maria Chiara Lorenti, Cristina Simoncini, Giuseppe Di Pasquale, Collaboratori Mensile culturale edito dalla Patrizia Vaccaro, Valerio Lucantonio, Associazione Arte Mediterranea Nicola Fasciano, Giuseppe Chitarrini Via Muzio Clementi, 49 Aprilia Francesca Senna Tel.347/1748542 occhioallarte@artemediterranea.org Responsabile Marketing www.artemediterranea.org Cristina Simoncini Aut. del Tribunale di Latina N.1056/06, del 13/02/2007 Composizione e Desktop Publishing Fondatori Giuseppe Di Pasquale Antonio De Waure, Maria Chiara Lorenti Cristina Simoncini Tutti i diritti riservati. E’ vietata la riproduzione anche Amministratore parziale Antonio De Waure senza il consenso dell’editore Direttore responsabile Rossana Gabrieli Responsabile di Redazione Maria Chiara Lorenti
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Sommario
Il quartiere Coppedè Quayola, Naoto Hattori KLIMT Le coscienze artistiche di Maurizio D’Andrea Freaks Out “Il sentiero dei nidi di ragno” Sul filo di china
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la Roma insolita
Il quartiere Coppedè di Nicola Fasciano
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l Quartiere Coppedè, … non è un quartiere, ma una parte, una frazione del quartiere Trieste, anche se il fascino che emana lo fa elevare a dignità di “quartiere”. La caratteristica di questo stupendo angolo di Roma è l’architettura, che risulta decisamente insolita e che per la sua particolarità viene definito stile Coppedè. Il nome così originale, è fornito dall’architetto che lo ha ideato nei primi anni del Novecento, Gino Coppedè, nato a Firenze nel 1866 da una famiglia di artigiani. Dai documenti conservati all’Archivio Storico Capitolino, risulta che il progetto iniziale prevedeva la realizzazione di un vero e proprio villaggio medievale circondato da un corso d’acqua, che non fu mai realizzato, del quale rimane solo un ricordo nella vasca sulla sinistra dell’arco d’entrata. I lavori di costruzione iniziarono nel 1917, ma subirono subito un rallentamento negli anni della Prima Guerra Mondiale, ripresero negli anni Venti e terminano nel 1927, anno della morte di Gino Coppedè. Dopo la Prima
Guerra Mondiale, il progetto iniziale fu notevolmente ridimensionato e dalla costruzione di 18 palazzi e 27 tra palazzine e villini, ne vennero previsti solamente 7 palazzi, 10 palazzine e 18 villini. Non fu solo la guerra a contribuirne il rallentamento dello sviluppo, ma anche il piano regolatore che, oltre a ridimensionare le torri, prevedeva che le nuove costruzioni avessero una impronta romana, piuttosto in antitesi con impronta originaria gotico – liberty. Il villino delle fate, la fontana delle rane, il palazzo del ragno, le immagini sull’arco di coppe che richiamano il Santo Graal, i richiami alla Torre di Babele e al Tempio di Salomone, sono solo alcune delle magnificenze che si possono ammirare e che rappresentano una piccola parte dell’arte espressa da Gino Coppedè. Oltre al fatto che buona parte dei simboli disseminati lungo il quartiere, possono essere interpretati in chiave esoterica. Infatti sembra che l’architetto fosse massone e il lampadario che si trova sotto l’arco dell’entrata non sia solo un ornamento, ma possa anche essere interpretato come l’inizio di un viaggio iniziatico. I massoni sono detti anche “figli della luce” intesa come “luce della conoscenza”, chiave per accedere alle verità nascoste. “Massoneria è ricerca della luce” scrisse nel XIX sec. Albert Pike, considerato papa della massoneria. La fontana delle rane è anche famosa per l’aneddoto relativo al bagno che i Beatles vi fecero vestiti dopo un loro concerto tenuto nella vicina discoteca Piper. Insomma, un luogo che per chi non lo conosce rappresenta una scoperta che lascia senza fiato, mentre per il romano innamorato della propria città, un perpetuarsi continuo della bellezza senza tempo che fa bene all’anima. 3
Quayola,
chi si cela dietro questo nome? di Patrizia Vaccaro
n realtà si parla di un artista “italianissimo” Davide Quagliola , romano, classe 1982, che in poco tempo è diventato un importante esponente della media-art. Vive attualmente a Londra, città che gli ha permesso nel 2000 di emergere nel panorama artistico internazionale, ma come vedremo rimarrà sempre legato a Roma e alle sue opere classiche. Già a 14 anni scopre il potenziale della computer grafica, i suoi attrezzi del mestiere non sono pennelli e tele, ma si avvale di sistemi robotici, usa l’ intelligenza artificiale e le stringhe di codice generativo, sfrutta le opportunità che la tecnologia può offrire. Ha creato un personalissimo codice espressivo che permette di rivisitare le opere classiche, attualmente Quayola vanta un gran curriculum internazionale avendo esposto a Londra, New York, Bruxelles, Tokyo.. inoltre ha realizzato progetti sperimentali con delle orchestre. Possiamo ammirare il suo lavoro a Roma, a Palazzo Cipolla con la mostra monografica: QUALOYA RE-CODING fino al 30/01/2022, dove possiamo vedere una sintesi della sua
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produzione artistica che va dal 2007 al 2021, la mostra si compone di videoproiezioni, sculture, e stampe ad altissima definizione. L’ambientazione è bellissima, i lavori sono valorizzati dalle luci e dai colori delle pareti che li avvolgono ed esaltano, gli spettatori possono così confrontarsi con nuove potenzialità artistiche, con nuovi mezzi espressivi ed acquisire moderni strumenti di lettura della nostra società contemporanea. La mostra si sviluppa in tre aree tematiche : iconografia classica, sculture non finite , pittura di paesaggio. Ci sono le gigantesche stampe dove puoi vedere complesse composizioni digitali, in questo caso, la tecnologia, diviene una
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nuova tavolozza in cui i dipinti rinascimentali e del barocco sono scomposti e ricomposti come in piccoli origami variopinti, dove si palesano nuovi linguaggi e nuove prospettive. Poi si passa alle sculture ispirate alla tecnica michelangiolesca del non-finito: sono scolpite mediante mezzi robotici, in cui, ad esempio, il “Laocoonte” ci appare in tutta la sua magnificenza, da un lato ben definito e dall’ altro scomposto, quasi a ricordare le figure cubiste di Picasso, così si vengono a creare nuovi canoni estetici, molto potenti. Nella terza area, c’è la natura esplorata con mezzi tecnologici, ma che paradossalmente ci fa notare come il mondo naturale e
in mostra
quello digitale si somiglino, infine veniamo immersi in un enorme bosco “fatato” in cui passeggiare. Interessante osservare come i lavori materiali, fisicamente esposti, si affiancano a quelli immateriali, come i video di realizzazione dell’opera stessa o i video del processo di ricerca, che diventano a loro volta delle vere e proprie opere d’arte Insomma Qualoya ci fa rivivere la storia dell’arte da un nuovo punto di vista, con linguaggi innovativi, il passato viene ridefinito e le opere classiche divengono astratte, ciò nonostante non rimangono opere sterili, ma sono invece impregnate di un gran fascino. 5
Naoto Hattori
Bizzarri ibridi con gli occhi spalancati riflettono paesaggi immaginari di Cristina Simoncini
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curiosArt
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llo stesso tempo adorabili e inquietantemente surreali, le creature fantastiche rese da Naoto Hattori fondono perfettamente la miriade di trame e colori presenti in natura in insoliti ibridi. Sono spesso soffici, dotati di corna in punti sorprendenti e hanno occhi così straordinariamente grandi e vitrei da riflettere paesaggi a grandezza naturale. Che si tratti di un personaggio simile a un cavalluccio marino peloso o di una grande testa bulbosa che fluttua a mezz’aria, le figure sono riflessioni sulle esperienze di Hattori. “Quando sono in un sogno lucido, mi immagino come una creatura ibrida fluttuante o qualcosa in armonia con la natura” Lavorando principalmente in acrilico, l’artista giapponese mantiene i suoi dipinti su piccola scala, optando per tavole in miniatura che generalmente non si estendono più di sei pollici. Accoglie con favore la sfida tecnica di spazi così piccoli, anche se il vincolo dimensionale si è sviluppato originariamente quando gli è stata diagnosticata una grave spondilosi cervicale circa 10 anni fa. “Quando ho provato a disegnare muovendo i gomiti e le spalle, le punte delle dita sono diventate insensibili e non riuscivo a controllare il pennello”, egli dice, “Se l’opera ha le dimensioni di un quaderno, posso disegnare senza muovere il collo o le spalle... Quindi, attualmente, sto dipingendo una dimensione più piccola che mi consente di creare liberamente con i movimenti dei polsi e delle punte delle dita”. Si possono ammirare altre creazioni di Naoto Hattori nel suo sito: www.naotohattori.com
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KLIMT
La Secessione e l’Italia di Maria Chiara Lorenti
Gustav Klimt, “Giuditta”
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asta nominare Gustav Klimt e la prima immagine che subito sovviene alla mente è “il bacio”, l’opera più romantica e pudicamente sensuale di questo grande artista, un gioiello dove solo i volti e le mani degli amanti 8
sono dipinti in maniera reale, incastonati in un fregio aureo formato dalle vesti e dal velo che li imprigionano, e che si rifà ai mosaici, da lui studiati in gioventù e riscoperti poi nella città di Ravenna. Ma la mostra “Klimt. La Secessione e l’Italia”, esposta a Palazzo Braschi a Roma fino al ventisette marzo, salvo diverse disposizioni sanitarie, verte appunto sul movimento creato, da lui ed altri artisti ed architetti viennesi, per staccarsi dal classicismo imperante delle convenzioni accademiche. In esso si asseriva che l’arte doveva essere figlia del proprio tempo, libera da ogni costrizione, politica, ideologica e che doveva rifarsi alla ricerca del bello. Non osteggiati, come fu invece per gli impressionisti a Parigi, i secessionisti ebbero da subito il sostegno sia dai finanzieri che dai grandi industriali, che ne sovvenzionarono le iniziative. All’inaugurazione della loro prima mostra a Vienna partecipò anche lo stesso imperatore, che, nonostante l’età avanzata, pensava fosse suo dovere patrocinare ed incoraggiare le nuove idee artistiche, purché non fossero rivoluzionarie e si attenessero entro i limiti della convenienza, e fu particolarmente compiaciuto che a guidare questa nuova corrente fosse un pittore ottuagenario, Rudolf von Alt, presidente onorario e portavoce dei suoi giovani colleghi. “Sono davvero molto vecchio Maestà, ma mi sento ancora abbastanza giovane per ricominciare daccapo”. Un aneddoto documentato dalle cronache giornalistiche del tempo e che fu pure illustrato da Rudolf Bacher, uno degli aderenti alla Secessione. A centodieci anni dalla sua partecipazione all’Esposizione Internazionale d’Arte, a Roma nel 1911, Klimt torna nella capitale con una rassegna di opere sue e di altri artisti contemporanei, duecento tra dipinti, disegni, affiches d’epoca e sculture. Una mostra nata per narrare per la
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in mostra
Gustav Klimt. “Sorelle”
prima volta lo stretto rapporto che egli aveva con il nostro Paese, più volte visitato e studiato per la ricchezza delle sue opere d’arte, soprattutto il Rinascimento e per i mosaici dorati di Venezia e Ravenna, che tanto lo ispirarono nel suo “periodo d’oro”. A questi anni di sperimentazioni dell’aureo metallo, corrisponde la consapevolezza di essere approdato alla piena maturità creativa, la potenzialità espressiva dell’uso di lamine e fogli dorati, ma soprattutto del ruolo strutturale assunto in pittura, l’oro più che un complemento diviene trasfigurazione della realtà, da semplice fondale si trasforma, nella dualità di lucido ed opaco, in elemento essenziale che determina, impreziosendolo, l’idolo femmineo. “Giuditta I” incarna perfettamente questa peculiarità, bella e fatale, crudelmente seducente e seduttiva, con queste armi incanta e conquista il suo amante, per ridurlo suo schiavo e portarlo alla morte. Oloferne, generale assiro, agli ordini di Nabucodonosor, intraprende una guerra contro il popolo ebraico, che viene sottomesso, ma la sua inarrestabile conquista si arena a Betulia, dove è raggirato dalla bella Giuditta, che lo induce ad ubriacarsi fino all’oblio, e lì, davanti al corpo addormentato dell’oppressore, prende la spada e lo decapita, privando l’ esercito del suo capo, questo si disperde, abbandonando l’occupazione.
Gustav Klimt, “La sposa”
A questo celeberrimo dipinto si affiancano altre opere di eguale spessore, quali “la sposa”, opera incompiuta dalle forti simbologie, i ritratti di “Amalle Zuckerkandl” e “signora in bianco”, per non tralasciare l’ormai famoso “ritratto di signora”, rocambolescamente ritrovato, dopo dodici anni dal furto a Piacenza, celato nel muro dello stesso museo. A questi e molti altri, si affiancano artisti italiani influenzati dalla sua arte, come Galileo Chini, Camillo Innocenti, Giovanni Prini, Vittorio Zecchin e Felice Casorati, solo per citarne alcuni, che seppero recepire il messaggio klimtiano più dei suoi colleghi viennesi. Oltre a questi capolavori, la mostra offre una occasione davvero unica di poter osservare la triologia ormai perduta dei dipinti “la Filosofia”, “la Giurisprudenza” e “la Medicina”, ricostruiti digitalmente da Google Arts & Culture Lab Team, di cui rimangono solo foto in bianco e nero, e che sono state ricreate a colori grazie a queste testimonianze e al contributo del dott. Franz Smola, esperto mondiale delle opere di Klimt. 9
Le coscienze artistiche di Maurizio D’Andrea Si presentano alla Fiera d’Arte a Padova di Barbara Viale
sua interiorità più intima e profonda. Tuttavia il percorso che questa interiorità compie può variare a seconda del mezzo usato per esprimersi. Proprio perchè crede fortemente nell’unione delle arti, dopo aver presentato a Venezia gli sguardi musicali del flautista Marco Gaudino che hanno raccontato la sua mostra, torna ad unire pittura e musica anche a Padova attraverso le improvvisazioni del talentuoso organista Gabriele Studer su “Donna”, “Guardo il blu” e “Pensieri”, tre sue opere portate in mostra. Kandinsky suggeriva: “Presta le tue orecchie alla musica, apri gli occhi alla pittura, e ... smetti di pensare! Chiediti solamente se lo sforzo ti ha permesso di passeggiare all’interno di un mondo fin qui sconosciuto. Se la risposta è sì, che cosa vuoi di più?” Esiste una sicura relazione tra suono e colore e D’Andrea ci svela la sua idea: “penso che ci sia una stretta ed evidente connessione tra colori e note, tra l’energia del suono e la forza della psiche che spinge, in una sorta di simbiosi Maurizio D’Andrea, artista contemporaneo, ama sperimentare ed unire. L’arte è comunicazione, bellezza, empatia, ma anche unione. Riscuote molto successo a seguito di mostre collettive e personali fino ad arrivare ad esporre a New York, precisamente nella prestigiosa Agora Gallery di Manhattan. Precedentemente i suoi lavori sono stati nelle gallerie di Genova, Cortina D’Ampezzo e Brera-Milano. Ha partecipato inoltre alla mostra collettiva “I Mille di Sgarbi”, che seleziona i migliori artisti nazionali e internazionali. I numeri alla fine gli hanno dato il successo che meritava. Il discorso artistico di D’Andrea parte da un’idea semplice, perché il fine della sua arte è quello di dare forma alle sue emozioni, alla 10
Maurizio D’Andrea, “Guardo il blu”
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Maurizio D’Andrea, “Donna”
cosmica riflessa allo specchio. Ogni colore sulla tela produce un effetto psichico nello spettatore come qualsiasi accordo musicale. Basta solo vedere e saper ascoltare”. Il suo progetto di arte e musica è approdato a Padova, dal 12 al 15 novembre, all’interno della fiera di arte contemporanea più importante d’Italia, riscuotendo un grande successo, forse inaspettato, ma piacevolmente accolto. Dopo un anno di forzato stop per la Fiera d’Arte, il 2021 ha potuto accogliere moltissimi visitatori. Tanti giovani curiosi di scoprire qualcosa di nuovo nel panorama artistico, ma anche tanti “veterani” ed intenditori d’arte che hanno colto l’occasione per tornare a poter assaporare il profumo dell’acrilico sulla tela, la vista della pennellata e l’emozione della vicinanza fisica all’opera d’arte. Le considerazioni di Maurizio D’Andrea, nel giorno finale della mostra si possono riassumere nelle parole pubblicate nella video intervista sul suo profilo Instagram fatta dalla curatrice Arch. Barbara Viale, (che segue l’artista negli allestimenti, nella scelta delle opere e
dedicato a...
dei dettagli espositivi): “Sono felice di aver partecipato alla Fiera e sicuramente è stata un’esperienza molto positiva. Sono presenti oltre 300 artisti e gallerie importanti, quindi è stata una grande occasione di confronto, anche per vedere cosa fanno gli altri e cosa propone in generale il mondo dell’arte, poichè credo che guardando gli altri c’è sempre qualcosa da imparare. Ho portato in questa occasione la mia pittura che è introspettiva, raffinata, che porta l’anima sulla tela e che rappresenta la mia essenza artistica: a differenza di molte cose che ho visto, che puntano più sull’impatto e sulla novità, la mia è una pittura un pò più complessa, che va spiegata, che va anche capita soffermandosi un attimo e dedicandole un pò di tempo. Nonostante la sua lettura spesso non immediata e talvolta un pò complessa, posso dire che è stata apprezzata da moltissimi visitatori interessati e curiosi. Questo per me è un grande piacere oltre che un grande onore: ho potuto parlare con il mio linguaggio migliore, il linguaggio dell’anima.” E dopo questa gratificante esperienza l’artista è già pronto ad affacciarsi a nuovi progetti, nuovi orizzonti che un tempo erano definiti da lui stesso impossibili, ed ora più che mai stanno prendendo forma e regalando importante spazio nel mondo alla sua arte.
Maurizio D’Andrea, “Luna 11
Freaks Out
Aspirazioni e limiti del film italiano ad alto budget di Valerio Lucantonio
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Freaks out, l’attesissimo secondo lungometraggio di Gabriele Mainetti, ha concluso il suo percorso distributivo nelle sale con un risultato modesto al botteghino e un’accoglienza critica divisa tra entusiasmo e insoddisfazione. È innegabile che dopo l’esordio fulminante di “Lo chiamavano Jeeg Robot” gli autori – lo stesso Mainetti in coppia con Nicola Guaglianone – si dovevano confrontare con un carico di aspettative soverchiante, e hanno deciso di affrontarlo alzando il tiro dal punto di vista sia produttivo che narrativo; la storia è infatti incentrata su un gruppo di freak circensi costretti a scontrarsi con i nazisti durante l’occupazione di Roma nel 1943, tra commedia grottesca, azione e racconto di formazione. Questa impegnativa operazione cinematografica presenta sì molte somiglianze con la precedente 12
pellicola di Mainetti, ma anche altrettante differenze, che sono forse la causa della sua non ottimale ricezione da parte del pubblico. “Jeeg” operava infatti una rilettura grottesca e intimista del film supereroistico, confrontandosi in particolare con la struttura narrativa del racconto di origini per formularne una versione italiana, in grado di seguire la lezione del Neorealismo non per quanto riguarda il luogo comune degli attori non professionisti e delle riprese “dal vero”, ma per la capacità di ottimizzare ogni risorsa produttiva e costruire ingegnosamente un’impressione di presa diretta sulla realtà. Se in quel caso Mainetti riuscì a comporre un racconto non artificioso e spontaneo nonostante gli effetti fumettistici e le atmosfere al limite del surreale, trovando una cifra stilistica tanto citazionista e postmoderna quanto originale e coinvolgente, in Freaks Out invece l’eredità neorealista si riscontra solamente in una certa maniera di mettere in scena ambienti e personaggi, con fisionomie caricaturali e scenografie sporche e decadenti. Inoltre, lo stile e lo storytelling seguono in maniera più pedissequa non solo la struttura narrativa, ma anche la filosofia e la retorica di certi film fantasy e/o supereroistici statunitensi. In “Jeeg” ci si soffermava specialmente sui personaggi, mentre qui è l’impianto spettacolare a prendere il sopravvento: l’effetto che arriva più diretto allo spettatore è quello dell’esibizione di risorse e mezzi impiegati nel progetto, che però in più di un’occasione si rivelano comunque non all’altezza dei modelli stranieri. L’ambizione della sceneggiatura si scontra con un budget che, per quanto fuori scala rispetto alla media italiana, si rivela limitato, con compromessi più o meno celati dal punto di vista estetico. La costrizione produttiva che si manifesta di frequente nel film è ben rappresentata – e forse consapevolmente tematizzata – dalla sequenza di apertura, che racconta l’esibizione dei protagonisti nello spazio intimo e ristretto del circo Mezzapiotta; un quadro famigliare che viene interrotto bruscamente dai bombardamenti, i quali permettono a Mainetti di lanciarsi nel passaggio più virtuosistico del film: un pianosequenza frenetico che percorre con panoramiche a schiaffo e inversioni continue lo spettacolo della devastazione
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bellica. Dopo un inizio tanto roboante, sul versante narrativo si mantengono in tensione il famigliare e lo spettacolare, mentre su quello estetico prevale la dimensione di ristrettezza, evocata dalle esibizioni dei freak nel tendone del piccolo circo. Gli esterni magniloquenti, soprattutto a causa dei vincoli dell’ambientazione storica, mostrano spesso il fianco all’impossibilità di filmare a tutto campo e di muovere liberamente la macchina da presa. Questa sensazione di restrizione del mostrabile, con il campo visivo dello spettatore sempre convesso o centripeto, si riflette anche negli interni, che si presentano come ambienti claustrofobici da studio di posa con poco spazio e “aria” tra i diversi set. Anche l’ambiziosità degli effetti speciali, e soprattutto di quelli digitali, si scontra con imperfezioni e limiti trascurabili se circoscritti alla media italiana, ma perlopiù carenti se confrontati con gli standard internazionali. Rispetto a “Jeeg” abbiamo quindi un film in cui
cinema
Mainetti scopre di più le carte non solo delle proprie aspirazioni, ammirevoli in quanto legate a una visione estremamente romantica dello spettacolo cinematografico contemporaneo, ma anche dei propri immaginari di riferimento: cercando un punto d’incontro tra Spielberg e Leone, il regista ottiene una sintesi in cui lo stile registico è al servizio di esigenze più produttive che narrative, mancando di carica epica soprattutto nel finale troppo affrettato e concitato. Nonostante sia visto da molti come un esponente di spicco della rinascita del cinema di genere nostrano, con questo film atipico e dal modello produttivo difficilmente replicabile Mainetti si distingue più che altro come difensore dello spettacolo cinematografico classico, capace di intrattenere e stupire, ma non di intercettare, un pubblico abbastanza ampio e diversificato da avviare un nuovo filone nel panorama italiano ed europeo. 13
“Il sentiero dei nidi di ragno”
Di Italo Calvino, con un racconto inedito, “Flirt prima di combattere”
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occhio al libro
di Giuseppe Chitarrini
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l sentiero dei nidi di ragno’ è il primo romanzo pubblicato da I. Calvino ed è una storia di Resistenza. Di resistenza di montagna, visto che, come dice Calvino stesso, una bella storia di Resistenza cittadina era già stata scritta e pubblicata tre mesi dopo il 25 aprile ’45 da E. Vittorini: “ Uomini e no”, ambientata a Milano (cfr. la prefaz. di I. Calvino a p. XI). Calvino – come dice egli stesso nella prefazione-confessione - scrive questo libro per esigenze personali e per testimonianza; ma anche per far fronte a due esigenze che negli anni del dopoguerra erano di attualità: quella di rispondere ai detrattori della Resistenza (‘ partigiani banditi, nemici della patria al soldo dello straniero, nemici dell’ordine istituzionale ’ ecc. ecc.) ed evitare il rischio del prevalere di un racconto agiografico e retorico di una grande stagione che non aveva avuto eguali nella storia italiana; cosa quest’ultima che faceva storcere il naso al nascente éngagment di sinistra di allora che tendeva a una mitizzazione eroica, al ‘positivismo’ del partigiano indomito. Per questo Calvino sceglie per il suo libro dei personaggi irregolari, dai toni ‘espressionistici’, calati nel paesaggio e nella memoria locale (cfr. VII, VIII, IX), stando attento, allo stesso tempo, a non cadere nel localismo e nel provincialismo. Insomma un compito non facile in un clima di neorealismo ormai pienamente dispiegato, dopo “ Roma città aperta ” e “ Sciuscià ” (e altri) e che si avviava a raccontare il dopoguerra italiano con “ Ladri di biciclette ” e “ Umberto D. ”. Infatti Calvino sceglie come protagonista Pin: un ragazzino 14
non proprio ‘come si deve’, cencioso, maligno, innocente, picaresco e vitale, uno ’scugnizzo’ fra i carrugi genovesi, che dice parolacce e bugie, ha una sorella prostituta e coltiva frequentazioni poco raccomandabili. Solo lui conosce i segreti dei sentieri dove i ragni fanno i nidi; e sarà proprio lui, frequentatore di osterie, con la voce “rauca da bambino vecchio” (p. 4), a conferire alla scrittura del romanzo un vago retrogusto incantato e favolistico, come notò da subito C. Pavese (cfr. p. XVI), una tonalità letteraria che nel tempo si svilupperà, accompagnando la ricerca e la poetica di I. Calvino. Il romanzo venne pubblicato nel 1947 e riedito diverse volte, nel 1964 vennero apportate alcune piccole modifiche al testo e venne aggiunta una prefazione scritta dallo stesso Calvino: una densa riflessioneconfessione che apre il volume anche di questa ultima edizione di fine 2020, che contiene anche un racconto assolutamente inedito: “ Flirt prima di combattere” . Una quindicina di pagine scritte sempre sull’onda dell’esperienza resistenziale così come l’aveva vissuta Calvino; infatti nel personaggio principale: Attilio, Mario Barenghi - nella preziosa postfazione nelle ultime pagine del volume - riconosce Calvino stesso. La lettura del “Sentiero…” costituisce per me una lettura della mia tarda adolescenza: fine anni ’60, il libro preso in prestito dalla mitica Biblioteca ‘Porfiri’ di Nettuno a P.le della Stazione. Questa ultima riedizione costituisce un vero e proprio ‘dispositivo’ letterario, perché, oltre al romanzo stesso, vi compare la prefazione-riflessione di Calvino, l’inedito racconto e la postfazione.
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Roma
“Giulia Spernazza. Vulnerabile” Galleria Faber, fino al 4 dicembre “America on screen” Centro studi americani, fino al 21 dicembre “Vinicio Berti. Antagonista continuo” Galleria d’Arte Moderna di Roma Capitale, fino al 21 Dicembre “L’eredità di Cesare e la conquista del tempo” Musei Capitolini- Palazzo dei Conservatori, fino al 31 dicembre “Art makes you travel again” Rosso20sette arte contemporanea, fino al 23 dicembre “Mario Giacomelli. Il tempo di vivere” Galleria Gilda Lavia, fino al 31 dicembre “Raffaello nella Domus Aurea. L’invenzione delle grottesche” Domus Aurea, fino al 7 gennaio 2022 “All about Banksy” nuova mostra Chiostro del Bramante, fino al 9 gennaio 2022 “Napoleone ultimo atto. l’esilio, la morte, la memoria” Museo napoleonico, fino al 9 gennaio 2022 “Pietro Raspi. Dalla luce al colore. Dipinti 1955 – 2005” Museo di Villa Torlonia, fino al 9 gennaio 2022 “Inferno” Scuderie del Quirinale, fino al 9 gennaio 2022 “Calogero Cascio. Picture stories, 1956-1971” Museo di Roma in Trastevere, fino al 9 gennaio 2022 “Quayola. Re-coding” (articolo a pag. 4,5) Palazzo Cipolla, fino al 30 gennaio 2022 “Sebastiao Salgado. Amazonia” MAXXI, fino al 16 febbraio 2022 “Prima, donna. Margaret Bourke-White” Museo di Roma in Trastevere, fino al 27 febbraio 2022 “Dante nelle sculture di Pietro Canonica” Museo Pietro Canonica, fino al 27 febbraio “Klimt. La secessione e l’Italia” (articolo a pag. 8-9) Museo di Roma Palazzo Braschi, fino al 27 marzo 2022 “Una rivoluzione silenziosa. Plautilla Bricci pittrice e architettrice” Galleria Nazionale di Arte Antica di Palazzo Corsini, fino al 19 aprile 2022
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Mamiano di Traversetolo (Parma)
Mirò.Il colore dei sogni Villa dei capolavorim, fino al 12 dicembre
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Gallarate (Varese)
“Impressionisti. Alle origini della modernità” Museo MA*GA, fino al 6 gennaio 2022
Genova
“Escher” Palazzo Ducale, fino al 20 febbraio 2022
Milano
“Claude Monet. Opere dal Musèe Marmottan Monet di Parigi” Palazzo reale, fino al 30 gennaio 2022 “L’arte di raccontare storie senza tempo” Mudec, fino al 13 febbraio 2022 “Maurizio Cattelan. Breath Ghosts Blind” Pirelli Hangar Bicocca, fino al 20 febbraio 2022 “Saul Steinberg” Triennale Milano, fino al 13 marzo 2022 “Gran Tour. Sogno d’Italia da Venezia a Pompei” Gallerie d’Italia, fino al 27 marzo 2022 “Realismo magico” Palazzo Reale, fino al 27 marzo
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Napoli
“Gladiatori” MANN, Museo archeologico Nazionale di Napoli, fino al 6 gennaio 2022 “Frida Khalo. Il caos dentro” Palazzo Fondi, fino al 9 gennaio 2022
Piacenza
“Klimt e i maestri “segreti” della Ricci Oddi” Galleria d’Arte Moderna Ricci Oddi, fino al 9 gennaio 2022
Ravenna
“Dante. Gli occhi e la mente” Mar, fino al 9 gennaio 2022
Eventi
“Indiana-Yawanawa.-Stato-di-Acre-Brasile-2016-©-Sebastiao-Salgado”
Sebastiao Salgado. Amazonia MAXXI Roma fino al 16/02/2022
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