Partecipiamo!

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Luigi Schiatti

PARTECIPIAMO! L’uomo nella Bibbia


INDICE

Partecipiamo! .............................................................................. pag.

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II DOMENICA dopo Pentecoste – Anno C........................ pag. 11 II! DOMENICA dopo Pentecoste – Anno C....................... pag. 15 IV DOMENICA dopo Pentecoste – Anno C ...................... pag. 20 V DOMENICA dopo Pentecoste – Anno C ........................ pag. 24 VI DOMENICA dopo Pentecoste – Anno C ...................... pag. 28 VII DOMENICA dopo Pentecoste – Anno C..................... pag. 32 VIII DOMENICA dopo Pentecoste – Anno C ................... pag. 36 IX DOMENICA dopo Pentecoste – Anno C ...................... pag. 40 X DOMENICA dopo Pentecoste – Anno C........................ pag. 44 XI DOMENICA dopo Pentecoste – Anno C ...................... pag. 47 XII DOMENICA dopo Pentecoste – Anno C .................... pag. 51 XIII DOMENICA dopo Pentecoste – Anno C ................... pag. 55 XIV DOMENICA dopo Pentecoste – Anno C ................... pag. 58

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Partecipiamo! NON SOLO “PRESENTI” Talvolta provo disagio e soffro una vera distrazione perfino durante la celebrazione della Messa; allora mi chiedo: Quanti di questi fratelli che sono qui attenti alla Messa sono soltanto “presenti” alla celebrazione? Quanti invece “partecipano” all’Eucaristia, cioè vivono col cuore, la mente e i sentimenti quello che avviene sull'altare? Tutti... sentono, odono le letture che vengono proclamate, ma quanti “ascoltano” la Parola di Dio che viene annunciata, oggi, per me e per noi? Sappiamo che il verbo “ascoltare” richiede un atto personale della mente e della volontà, vuole approfondimento e riflessione ed esige un profondo coinvolgimento. Particolarmente impegnativo è l’ascolto della Parola di Dio. È l’insegnamento delle singole letture che conta, non il racconto in sé: e ancor più è importante il legame tra di loro. È necessario ancora chiederci quale insegnamento ci sta dando la Chiesa in quel determinato tempo liturgico mediante le letture della Messa nella successione delle singole domeniche. Da ultimo: quanti fedeli riflettono durante la giornata sulle letture “ascoltate” durante la partecipazione alla Messa? In caso contrario, l’Eucaristia domenicale è addirittura una... parentesi (forse anche fastidiosa) dell’attività della giornata, ma non incide nella vita vissuta. Eppure, la partecipazione personale e comunitaria alla Messa domenicale è l’atto di culto certamente più importante della Chiesa intera a Dio, creatore e fine di tutta la realtà, e ancor più è l’atto massimo di lode e di ringraziamento a Dio-Padre. Il Concilio Vaticano II si limita a due formidabili parole per definire il bene e la necessità dell’Eucaristia: afferma che l’Eucaristia è “fonte” e “culmine” di tutta la vita cristiana. Dalla fonte scaturisce continuamente l’acqua viva, fresca, pulita che dona la vita alla natura, e non si limita a un momento iniziale, ma dona acqua sempre. È anche il culmine, il punto più alto e conclusivo di tutta la vita. È il completamento di ogni impegno e di tutto l’agire quotidiano. 3


Sappiamo che ogni nostra azione porta per sua natura all’incontro con Cristo, che è sempre “il Vivente” nell’Eucaristia. La Liturgia (in primo luogo la S. Messa) va partecipata e vissuta: non è sufficiente “assistere alla Messa! Scrive il Concilio Vaticano II al n. 11 del documento sulla Liturgia: «È ardente desiderio della Madre Chiesa che tutti i fedeli vengano formati a quella piena, consapevole e attiva partecipazione alle celebrazioni liturgiche, che è richiesta dalla natura stessa della Liturgia e alla quale il popolo cristiano… ha diritto e dovere in forza del battesimo. A tale piena e attiva partecipazione di tutto il popolo va dedicata una specialissima cura… (La Liturgia) è la prima e indispensabile fonte dalla quale i fedeli possano attingere il genuino spirito cristiano» (Concilio Vaticano II, Costituzione Sacrosantum Concilium del 4.XII.1963, n.11). COME “LEGGERE” QUESTE PAGINE? Solitamente, quando leggiamo un testo scritto, abbiamo il desiderio, o l’esigenza, di ricordare quanto più è possibile il contenuto; se invece costatiamo che la nostra memoria è… arrugginita, pensiamo di aver perso tempo e che l'impegno profuso nella lettura non serva proprio a nulla. Invece… no! Una lettura meditata deposita sempre nel nostro cuore qualche seme che in futuro darà frutti, anche a nostra insaputa. È proprio questo seme piccolo, piccolo che fa vivere e crescere la nostra vita spirituale. Mi spiego con il racconto di un Padre del deserto: «Un anziano eremita viveva nel deserto. Ecco che si presenta a lui un giovane con ideali di santità, ma in preda allo scoraggiamento gli dice: “Leggo i sacri testi, studio libri e cerco di penetrarne la bellezza del contenuto. Vorrei conservare in me questi riflessi della verità, ma è inutile, dimentico tutto e le mie letture e riflessioni sono senza frutto”. Il vegliardo ascolta con calma e a sua volta, indicandogli un cesto di vimini, lo manda ad attingere alla fonte. Il giovane pensò di non essere stato compreso, ma compì l’ordine con il suo cesto vecchio e fangoso. Lo riempì alla fonte, ma per via si vuotò. L’eremita lo rinvia, e così per dieci volte, senza frutto. Allora disse il vegliardo: “Hai capito? La cesta si è pulita del tutto, e non mi interessava l’acqua, ma la cesta. Così ti succede con le parole che leggi e mediti. Non riesci a ritenerle e credi di perder tempo. Ma senza che tu lo avverta, nel passare per la mente illuminano i tuoi pensieri e purificano il tuo cuore» (Esperienze mistiche, a cura di Vincenzo Noja, Paoline, p. 26). 4


ENTRIAMO IN ARGOMENTO Con la solennità della SS. Trinità (la domenica che segue la Pentecoste) si completano le grandi celebrazioni del tempo pasquale. Dopo la Trinità (ossia dalla II domenica dopo Pentecoste), nell’anno C, la Chiesa Ambrosiana ci invita a considerare l’azione di Dio nel popolo ebreo, e, attraverso lui, con tutta l’umanità, lungo tutti i secoli della storia. Questo lo fa soprattutto mediante la prima lettura domenicale. È un’ottima catechesi che ci illumina la mente e ci aiuta ad allargare i nostri orizzonti, a non concentrarci troppo sui problemi personali e del momento che stiamo vivendo per non correre il rischio di soffocare chiudendoci solo nell’istante presente. È una ventata salutare che ci pone di fronte al grande, ineffabile piano salvifico di Dio: è il disegno del Padre, iniziato con la creazione all’inizio del tempo e che si concluderà quando terminerà il tempo, perché oramai… tutto sarà davvero compiuto ed esisterà solo la gloria di Dio Padre e del Figlio Gesù, il Cristo glorioso e… “il Vivente”. Credo che un cristiano autentico (e pensante) non possa prescindere dal riflettere su questi temi fondamentali che costituiscono la vita della Chiesa. È questa conoscenza e consapevolezza che dà alla vita quotidiana di un cristiano un respiro oltre il contingente e l’immediato un respiro che va al di là del tempo e che lo immerge nell'eterno: ecco la… vita eterna! Da qui derivano, scaturiscono tanti aspetti belli della vita: la gioia, la positività di fronte ai fatti di ogni giorno, la missionarietà, ossia la necessità di testimoniare e di trasmettere agli uomini anche di oggi il valore della vita, la fortezza per affrontare le difficoltà, la bellezza del creato, la bontà naturale dell’uomo, e tanti altri valori. Le letture della Messa non vanno lette o ascoltate come tutte le altre letture “profane”, siano scientifiche, o culturali, o dilettevoli. Dev’essere un ascolto… spirituale, perché in quelle pagine è Dio stesso che ci parla, che parla a me, adesso, per la mia vita concreta, piacevole o faticosa, che sto vivendo oggi. In tal modo è Dio stesso che si rende presente in modo attivo nella mia ferialità di vita e la rende… “cristocentrica”. Ascoltiamo… in silenzio quanto ci dice un esperto di vita spirituale, un certosino: «Non si tratta tanto dell’approccio teologico o esegetico del testo, bensì di una lettura medita5


tiva che vuole trovare una luce per dare a tutta la realtà personale un significato in relazione a Dio, la salvezza, la conversione interiore e la trasformazione nello Spirito. Nel contatto continuo col testo sacro emerge così lentamente il senso divino e cristiano dell’essere umano e delle sue vicende. Si vede sempre più chiaramente come Dio cammina insieme a ogni uomo che è aperto sulla via che percorse con il popolo eletto. La rivelazione biblica diventa una rivelazione personale. Il senso che la Scrittura dà alla storia del popolo di Dio è anche il senso della vita personale di ognuno» (Tim Peeters, Quando il silenzio parla, Ed. Paoline, p. 203). TEMA PRINCIPALE È L’INCARNAZIONE ATTUALIZZATA L’insegnamento che le letture delle domeniche dopo Pentecoste dell’anno “C” ci offrono è assai importante: Dio non si è limitato a preferire il popolo d'Israele rispetto a tutti gli altri, più popolosi e forti. Non si è accontentato di stabilire con lui un’alleanza di amicizia, quasi abbandonando il popolo a se stesso, realizzatore del suo destino. Dio è attivamente presente nelle varie vicende di Israele: è Lui che indica al popolo le decisioni da prendere, è Lui che aiuta a realizzare le decisioni prese; è Lui che guida il popolo nell’affrontare i pericoli, i momenti difficili. Al popolo d’Israele chiede però di ascoltare sempre le Sue indicazioni e di attuare le Sue scelte. Vuole che Israele segua Lui, Jahvé; non accetta che il popolo pretenda di andare per la sua strada, dimenticando le indicazioni di Dio, o addirittura allontanandosi volontariamente dai Suoi suggerimenti. In questo sta il peccato del popolo: il vero peccato che consiste nella rottura dell’alleanza, che Dio ha voluto stabilire liberamente e gratuitamente con Israele. La conseguenza della rottura dell’alleanza è inevitabile: è il castigo; dato, permesso da Dio non per… “vendetta”, ma affinché, soffrendo, il popolo si penta e ritorni all’alleanza con Jahvé. È un discorso chiaro e lineare, ma può sembrare astratto, teorico. Invece la prima lettura di tutte queste domeniche prese in esame ci assicura che è storia vera, concreta, fatta di persone e di avvenimenti. Infatti ogni domenica presenta un personaggio, che fa da attore principale, quasi un portavoce di Javhé presso il popolo. 6


Suo compito è quello di dire ad alta voce i desideri di Dio; è quello di rimproverare, minacciare gli eventuali castighi e di verificare la coerenza del popolo con gli impegni liberamente presi per la realizzazione dell’alleanza con Dio. Inoltre, il patto con Dio e la partecipazione personale di Javhé alla storia del popolo d’Israele è fortemente concreta, reale, legata ad avvenimenti storici. Di fatto ogni prima lettura descrive un fatto storico veramente accaduto. Quindi il modo di esprimersi della Parola di Dio in queste domeniche ci insegna davvero che Dio partecipa di fatto, storicamente, direi “sensibilmente” alla storia vera di Israele come ha fatto dalla liberazione dalla schiavitù di Egitto fino all’ingresso nella Terra promessa. Le altre due letture di ogni domenica, soprattutto l’epistola che è sempre di S. Paolo, completano l’insegnamento dicendo che, data la continua ostinazione del popolo d’Israele nell’incoerenza e nei peccati, non erano sufficienti i vari personaggi delle prime letture, i portavoce di Dio, ma era “necessario” che Dio stesso si facesse “visibile”, diventasse Lui stesso… “Uomo”. Gesù, il Verbo Incarnato, sempre Dio come il Padre e lo Spirito, si fa Uomo proprio per essere sempre presente, attivamente presente e operante nel “nuovo” popolo eletto, ossia nella Chiesa, per sempre fino alla fine dei tempi! È proprio vero che l’Incarnazione del Figlio di Dio non è un fatto limitato a quel momento storico, ma è una realtà sempre presente nella storia, ed efficace, attualizzata, per il bene dell’umanità, degli uomini di ogni tempo. L’INCARNAZIONE È UN “MEMORIALE” L’Incarnazione del Verbo non è solo un fatto storico che appartiene al passato: è ancora e sempre presente, attuale ed efficace, è un “Memoriale”; e lo è in tutti i tre elementi che costituiscono un “memoriale”. 1. RICORDO – Le domeniche dell’anno “C” del tempo dopo Pentecoste ci invitano e ci aiutano a “ricordare” la presenza continua e attiva di Dio nelle vicende umane di noi uomini. E 7


hanno ribadito che nel tempo Dio è davvero con noi, vive con noi e opera per noi in Gesù Cristo, perché solo Lui è il DioUomo, il Dio che, perché fattosi vero uomo, è… tra di noi, visibile e tangibile; ed è sempre l’unico Salvatore in tutti i tempi. È l’Incarnazione-Redenzione che continua. 2. RINNOVAZIONE – Tocca a noi accettarlo, agganciarci a Lui; addirittura, per attualizzare la Sua Incarnazione, è necessario… credere in Lui! Ricordo che il significato originario del verbo “credere” significa: “appoggiarsi, affidarsi” a qualcosa che sta fermo ed è sicuro. Allora, nostro impegno, anzi nostra gioiosa originale missione, come cristiani, sta proprio e soltanto nel… credere in Gesù, il Cristo, cioè il Dio che si incarna per noi e ci salva con la sua morte e risurrezione. Questo significa essere cristiani, essere cioè Corpo mistico di Cristo. Scrive G. Moioli una pagina inequivocabile: «Fede e vita non si possono contrapporre: perché chi “crede” ha un determinato modo di interpretare la realtà e quindi un determinato modo di vivere. O anche: il credente ha un certo modo di vivere perché ha visto, ha interpretato la realtà in una certa maniera; cioè, secondo Gesù» (v. G. Moioli, Temi cristiani maggiori. Glossa, p. 47). Tutto questo noi cristiani siamo chiamati a viverlo nella quotidianità, nei fatti concreti propri alla vocazione di ciascuno di noi. Qui ripenso ai fatti narrati nelle prime letture di tutte le domeniche prese in esame. È proprio vero: la Parola di Dio che la liturgia offre ogni domenica alla nostra meditazione non è un racconto antico: è attuale, è per noi di oggi; ci chiama in causa personalmente e come Chiesa. I Santi sono la prova sperimentale di ciò: con la loro vita reale, quotidiana, fanno “vedere” la continua presenza attiva del Dio misericordioso nel tempo. 3. PREPARAZIONE – Nella misura in cui viviamo una tale fede in Gesù Cristo, che sia davvero cristocentrica, aiutiamo l’umanità, anche gli uomini dei nostri giorni, a… prepararsi all’incontro col Cristo Glorioso alla fine della storia, quando il grande progetto di Dio si realizzerà pienamente. È opportuno riflettere su un brano di S. Paolo molto sintetico e conclusivo, espresso nella prima lettera ai cristiani di Corinto: «Poi sarà la fine (= il completamento 8


del progetto del Padre), quando egli (Gesù) consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla (= dopo aver vinto e fatto scomparire) ogni Principato e ogni Potenza e Forza (= tutto ciò che Gli si oppone)». L’IMPOSTAZIONE DELLE LETTURE + L’argomento generale delle letture di questo tempo liturgico è: La presenza ... attiva di Dio nel popolo di Israele = Dio è protagonista nella storia di Israele + Ogni domenica sviluppa un aspetto particolare e progressivo (ossia, un determinato momento) della storia del popolo. Pertanto ogni domenica ha un titolo che la caratterizza. + Il tema della domenica è presentato e sviluppato mediante un personaggio. + La lettura-guida che tratta l'argomento della domenica è la prima lettura, presa sempre dall’Antico Testamento. L’epistola e il vangelo completano lo sviluppo del tema al di là del popolo di Israele. Prima di passare al commento delle singole domeniche è opportuno ricordare che il primo e insostituibile compito della Chiesa è la lode di Dio. Ascoltiamo quanto dice un grande maestro di spiritualità: «Il Signore merita la lode, e non è giusto che noi, poveretti che siamo, togliamo a Dio la lode che la sua maestà, la sua gloria, la sua bontà, la sua provvidenza, la sua sapienza, la sua pazienza, la sua misericordia meritano. Che cosa c’è in Dio che non meriti la lode? Eppure le cosiddette impegnatissime preghiere che assumono tutte le realtà terrene diventano geremiadi: ma assumiamo le realtà celesti una buona volta e lodiamo il Signore! Lodiamo e non lasciamo illanguidire questa preghiera della lode che il Signore merita, che il Signore aspetta, poiché ci ha dato una voce per lodarlo, ci ha fatto canori per lodarlo, ci ha fatto loquaci per lodarlo e bisogna che la lode diventi una dimensione dell’anima anche in questi tempi, perché tutti i tempi sono i tempi della lode di Dio» (A. Ballestrero, Gesù il Salvatore, Piemme, p. 80). E il modo più eccellente per lodare Dio da parte della Chiesa è vivere la liturgia, al cui primo posto troviamo la Messa! Tutte le va9


rie devozioni (tutte rispettabili) trovano valore da una vera, personale e cordiale “partecipazione” alla Messa. Non è proprio concepibile essere solo fisicamente presenti alla celebrazione eucaristica. N.B. Un’avvertenza: la I domenica dopo Pentecoste non entra in queste riflessioni perché in tale domenica si celebra sempre la solennità della Trinità. N.B. Le riflessioni qui contenute non si spingono fino all’Avvento: si fermano alla XIV domenica dopo Pentecoste. Con la domenica successiva la liturgia ambrosiana inizia una nuova sezione, perché ritiene che il martirio di Giovanni Battista segni la fine del profetismo, della preparazione al Messia, e inizia la realizzazione del regno di Dio.

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II DOMENICA

DOPO PENTECOSTE – Anno C Argomento Personaggio Letture

LA CREAZIONE DIO CREATORE Siracide 18, 1-2; 4-9; 13 Romani 8, 18-25 Matteo 6, 25-33

«Colui che vive in eterno ha creato l’universo» (Sir 18,1). Così inizia la lunga serie delle letture di queste domeniche, il cui argomento fondamentale (e fontale) è la presentazione e l’invito a contemplare il disegno di amore di Dio verso l’intera umanità, iniziato con la creazione e che si rivela lungo tutta la storia della salvezza. La prima lettura è proprio la base di tutto l’insegnamento di queste domeniche: o si accetta “cordialmente” questa verità, o ci è impossibile aprire il cuore alla Parola di Dio. Facciamo nostro il salmo 103: «Quanto sono grandi, Signore, le tue opere! Tutto hai fatto con saggezza, la terra è piena delle tue creature». Due sono gli insegnamenti di questa lettura: – DIO è l’unico creatore di tutte le cose esistenti, compreso l’uomo: «Colui che vive in eterno ha creato l’intero universo». – L’UOMO, in sé, non è nulla: non può nemmeno esistere: «Che cos’è l’uomo? A che cosa può servire? Qual è il suo bene e qual è il suo male? Quanto al numero dei giorni dell’uomo, cento anni sono già molti. Come una goccia d’acqua nel mare e un granello di sabbia, così questi pochi anni in un giorno dell’eternità» (Sir 18). Due sono gli impegni che ne derivano per vivere la Messa: – Vedere positivamente tutte le realtà esistenti, perché tutte sono create da Dio per amore. Ovviamente ogni cosa, in sé, è buona, se esiste come Dio l’ha creata. Penso al salmo 18: «I cieli narrano la gloria di Dio e l’opera delle sue mani annuncia il firmamen11


to». Anche la storia, se non è inquinata dal peccato degli uomini, è buona: è il realizzarsi, nel tempo, del piano di Dio. – L’uomo è chiamato a collaborare all’opera creatrice di Dio: penso al lavoro, che non è solo per un guadagno necessario, ma che ha un valore molto più profondo e umano. La dignità del lavoro consiste nel rendere l’uomo collaboratore di Dio nella creazione, non iniziale, ma continua nel tempo. Penso al doveroso rispetto della natura. A questo proposito è d’obbligo l’invito a leggere l’enciclica di papa Francesco: Laudato sii…. Una conseguenza meravigliosa è la contemplazione gioiosa della bellezza sotto tante forme: arte figurativa, musica, cultura ecc. E aggiungo: lo sviluppo della scienza e della tecnica e tutto ciò che è… umano. A questo punto mi pare opportuno ripetere più volte come preghiera il salmo responsoriale n. 135: «Rendete grazie al Dio degli dei, perché il suo amore è per sempre. Rendete grazie al Signore dei signori, perché il suo amore è per sempre. Lui solo ha compiuto grandi meraviglie, perché il suo amore è per sempre./ Ha creato i cieli con sapienza, perché il suo amore è per sempre. Ha disteso la terra sulle acque, perché il suo amore è per sempre. Ha fatto le grandi luci, perché il suo amore è per sempre./ Il sole, per governare il giorno, perché il suo amore è per sempre. La luna e le stelle, per governare la notte, perché il suo amore è per sempre». A proposito della bellezza del creato, accogliamo l’invito di San Paolo VI: «Guardate quanto di bello vi è nel mondo! Perché? Ma è creatura di Dio, è uscito dalle Sue mani. I progressi, i lavori, le tecniche, sono indirettamente emanazioni della Eterna Sapienza; sono i derivati della carica di sapienza e di armonia infusa nella creatura, nel cosmo. Il Concilio vorrebbe che noi cristiani fossimo capaci di aprire gli occhi e di soffermarci ovunque è una traccia di Dio, a cominciare dalle armonie dell’universo, dalla materia, dalle energie, dalle fonti del lavoro umano. Che cosa è il lavoro se non la trasformazione della materia? Ebbene, il Concilio ha infuso nel cristiano un senso di simpatia, di amore per queste cose in quanto creature di Dio: anche nell’ordine naturale» (Paolo VI, Parlo a voi, giovani…, Ed. Ancora-Usmi, p. 18). EPISTOLA (Rom 8, 18-25) S. Paolo scrive la sua lettera ai Romani almeno tre secoli dopo il libro del Siracide: ormai la vicenda umana di Gesù è terminata; 12


ormai Gesù è morto, è risorto ed è per sempre nella gloria della Trinità. Pertanto l’apostolo Paolo conosce bene, anche personalmente, la realtà del peccato e le conseguenze. Vede quindi l’aspetto negativo della creazione e prende atto soprattutto della creazione rovinata dal peccato. Nella lettera ai Romani tratta proprio questo aspetto, ma vede come un fatto futuro l’azione redentrice di Cristo, che oramai è compiuta perfettamente e che continua nel tempo. La Parola di Dio – scrive il card. Martini – ci aiuta sempre a leggere la storia con gli occhi di Dio, a cogliere il disegno di Dio che si realizza progressivamente nel tempo. È proprio quello che S. Paolo fa anche in questo brano della lettera ai Romani: «La creazione infatti è stata sottomessa alla caducità… nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi» (Rom 8, 2 s). Ecco l’insegnamento di S. Paolo: – Tutta la realtà – dice l’apostolo delle genti –, il cosmo intero e le attività umane, saranno redente dal Cristo mediante la sua morte in croce. – L’uomo, vivente in Cristo per opera del battesimo, è chiamato a collaborare alla redenzione del cosmo e degli uomini, partecipando alla Croce di Cristo; oserei dire: vivendo la sua personale Via Crucis. In questa ottica acquista valore, un valore redentivo, il dolore, ogni forma di dolore… “umano”; in particolare acquista un valore redentivo il… “dolore innocente”! Perché chi soffre innocentemente rende attuale in sé, per tutti gli uomini, il Cristo innocente che soffre e muore per noi. Un posto particolare a questo riguardo meritano i martiri di ogni tempo: pensiamo solo agli innumerevoli martiri dei nostri giorni! VANGELO (Mt 6, 25-33) L’insegnamento del Siracide l’accettiamo abbastanza facilmente, anche perché lo sentiamo come verità un po’ lontana dalla vita concreta di ogni giorno: non ne sperimentiamo personalmente e sensibilmente la verità. Invece la parola di Paolo ci tocca da vicino: tutti sperimentiamo la sofferenza, il dolore, con le conseguenze molto concrete nella vita quotidiana. Perciò un tale discorso ci mette in vera difficoltà e fa sorgere tante domande e forse anche dubbi. 13


Forse per tale motivo la parola del Vangelo ci invita ad avere sempre il senso della Provvidenza, la necessità di non perdere mai la fiducia in Dio, che è amore e misericordia. Non possiamo, quindi, nutrire la pretesa di costringere Dio a intervenire oggi stesso per risolvere le nostre difficoltà, ad accontentare i nostri desideri, quasi… obbligare Dio a ubbidire a noi! Infatti il brano di Vangelo dice: «Non preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”… Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. Cercate, invece, anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6, 32 s). Se Dio è creatore di tutto, solo per amore (!), oggi preghiamo con il salmo responsoriale 135: «Rendete grazie al Signore, il suo amore è per sempre». Son tre versetti che riassumono tutte le bellezze che Dio ha creato per noi uomini e fanno sgorgare dal cuore una vera litania: «Rendete grazie al Signore dei signori, perché il suo amore è per sempre». Una precisazione necessaria: è vero, l’uomo non è nulla in se stesso, non ha in sé l’esistenza; eppure è il re, il centro di tutto l’universo; sì; perché Dio lo ha creato così; e per puro amore. Rileggiamo con gioia quanto il libro del Siracide scrive a questo proposito: «Il Signore… rivestì (gli uomini) di una forza pari alla sua e a sua immagine li formò. In ogni vivente infuse il timore dell’uomo, perché dominasse sulle bestie e sugli uccelli. Discernimento, lingua, occhi, orecchi e cuore diede loro per pensare. Li riempì di scienza e di intelligenza e mostrò loro sia il bene che il male... Loderanno il suo santo nome per narrare la grandezza delle Sue opere… Stabilì con loro un’alleanza eterna e fece loro conoscere i suoi decreti. I loro occhi videro la grandezza della sua gloria» (Sir 17, 1 ss).

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III DOMENICA DOPO PENTECOSTE – Anno C

Argomento Personaggio Letture

IL PECCATO ADAMO ED EVA Genesi 3, 1-20 Romani 5, 18-21 Matteo 1, 20-24

Le letture di domenica scorsa ci hanno raccontato lo splendore dell’amore di Dio: la creazione. È una verità basilare: tutto ciò che esiste, esiste perché Dio l’ha voluto! Tutto è opera della volontà e dell’amore di Dio. Per tale motivo tutto, in sé, è bello e buono. Nel piano iniziale di Dio non c’era nessuna negatività: fatica, dolore…, nemmeno la morte. Il creato sarebbe stato un anticipo del paradiso e la vita umana una vera felicità. Splendido il progetto di Dio! Invece la Parola di Dio di questa domenica ci presenta il “rovescio” della medaglia: il peccato, commesso da Adamo ed Eva. L’uomo, insegna il libro della Genesi (Gen 1,26 s), è stato creato da Dio (unico tra tutti gli esseri viventi) a sua “immagine e somiglianza”, quindi… libero. (N.B. Per un approfondimento di questo tema, rimando al libretto Chi sei?, pp. 28-33) “Libero” vuol dire che l’uomo, pur dipendendo inevitabilmente da Dio, suo creatore, può decidere nella vita quotidiana in base a quello che egli ritiene causa e fonte della sua felicità, anche al di fuori e perfino contro la indicazione, la proposta di Dio. Il peccato è proprio l’agire contro la proposta di Dio con la pretesa di conoscere meglio di Dio in che cosa consiste la nostra felicità. Adamo ed Eva, sia pure per suggerimento di Satana, hanno ritenuto di poter realizzare la propria felicità da soli, con le proprie mani, rifiutando il “comando” di Dio, ossia negando che solo Dio era la radice, la fonte della loro realizzazione e felicità. Quindi, “peccato” è “auto-esaltazione”, è scegliere e agire solo in base alla propria volontà, misconoscendo la proposta di Dio, che è sempre amore per l’uomo, per la sua felicità. 15


Per un commento ampio del tema del peccato rimando al libretto Chi sei?, pp. 44-54. Qui mi limito ad alcune osservazioni: – Satana è sempre “il bugiardo” e in ogni circostanza tenta di ingannare l’uomo. Qui sussurra ad Eva: «È vero che Dio ha detto: “Non dovete mangiare di alcun albero del giardino”?» (Gen 3,1). Sa benissimo che è una bugia la sua domanda, ma la pone apposta per ingannare Eva e presentare Dio come un padrone despota. Addirittura ingigantisce la bugia: «Non morirete affatto. Anzi… sarete come Dio conoscendo il bene e il male» (vv. 4-5). Mi pongo una domanda: Nelle mie piccole scelte quotidiane sono capace di cogliere le insinuazioni di Satana che mi spinge ad agire solo in nome mio e non in rapporto con Dio? Dove cerco la mia felicità… piccola: nell’aderire alla volontà di Dio, o nella mia autodeterminazione? – Il grido di Dio: «Adamo, dove sei?» (v. 9). Quanta tenerezza in quel richiamo! Sarebbe almeno banale supporre che Dio non veda Adamo e non sappia dove si è nascosto. La domanda di Dio va letta solo in chiave morale: «Caro Adamo, vedi come ti sei conciato allontanandoti da me e pretendendo di essere tu stesso l’autore della tua felicità?». Eva, cedendo alla lusinga del serpente, ha visto che la mela (simbolo di ogni realtà creata) «era buona da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza,… ne mangiò; poi ne diede anche al marito… e anch’egli ne mangiò» (v. 6). Nota i tre aggettivi “buona” (= realtà in sé positiva); “gradevole” (= bello, piacevole a vedersi); “desiderabile” (= ciò che suscita le passioni). È proprio così: anche i nostri peccati personali hanno spesso questi aspetti positivi; è questo il motivo che ci spinge a cedere alle tentazioni. Le conseguenze negative vengono dopo, inevitabilmente. Allora anche per noi si rinnova il grido di Dio: Dove sei? Perché hai ceduto alla tentazione? Vedi che ti sei rovinato con le tue mani? LA NUDITÀ Adamo rispose: «Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto» (v. 10). Il problema non è affatto quello della nudità fisica. Il significato della parola “nudità” qui è molto più profondo: esprime la totalità dell’uomo… svelato, della 16


persona umana in tutti i suoi elementi positivi e negativi: doti e qualità, limiti e difetti di ogni genere, fisici, morali, culturali, spirituali ecc. Ogni uomo vuol apparire agli occhi degli altri solo nelle positività e desidera che gli altri lo vedano come egli vuole che lo vedano. Soprattutto non gradisce che chiunque possa vedere, notare, sottolineare i suoi limiti e gli aspetti negativi della sua persona. Ecco la paura di Adamo. È la consapevolezza dei suoi elementi negativi, ma come conseguenza dell’aver agito contro la richiesta di Dio. Quindi li vede come un fatto morale; anzi li vede come vera colpa. Pertanto ha paura di Dio, che, secondo quanto ha suggerito Satana, è un dio dominatore, geloso e anche vendicativo. I CASTIGHI Segue la descrizione dei castighi. Per Satana, il bugiardo incorreggibile e l’ingannatore, è riservata addirittura la maledizione definitiva. Per l’uomo invece le conseguenze del peccato: il dolore sotto le varie forme e specifiche secondo la natura di uomo o di donna. Per tutti il castigo peggiore: la morte. Eppure l’amore di Dio vince ancora: tra la maledizione a Satana e il castigo ai nostri progenitori brilla la promessa della Redenzione, ossia della ricostituzione dell’uomo, sia pure sempre peccatore, nella sua dignità di essere a “immagine e somiglianza di Dio” come il Creatore lo aveva pensato, voluto e creato solo per amore. Dice il libro della Genesi: «Io porrò inimicizia tra te (Satana) e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno» (Gen 3,15). La Chiesa ha sempre visto prefigurata in questa donna la Vergine Santissima; e nella stirpe della Donna ha normalmente contemplato il Messia, il Salvatore Gesù. EPISTOLA E VANGELO L’EPISTOLA (Rom 5, 18-21) e il VANGELO (Mt 1, 20-24) riprendono la rigenerante promessa che abbiamo letto in Gen 3, 15. Il Vangelo narra il sogno di Giuseppe, in cui l’angelo gli fa sapere che la sua sposa Maria avrà un figlio generato dallo Spirito Santo, e che verrà chiamato Gesù: «… e tu (Giuseppe) lo chiamerai Gesù, egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1,21). E sarà la 17


presenza reale di Dio tra tutti i popoli: «Ecco, la Vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele, che significa Dio con noi» (Mt 1, 23). Mi soffermo sull’Epistola (Rom 5, 18-21); merita di essere riportata per intero, perché la vedo come un approfondimento speciale di Gen 3,15: «Fratelli, come per la caduta di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera giusta di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione, che dà vita. Infatti, come per la disobbedienza di un solo uomo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti. La Legge poi sopravvenne perché abbondasse la caduta; ma dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia. Di modo che, come regnò il peccato nella morte, così regni anche la grazia mediante la giustizia per la vita eterna, per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore» (Rom 5, 18-21). È un brano della lettera ai Romani, una delle lettere più profonde di S. Paolo, quindi merita una parola di commento. Sono elencati tre elementi negativi come conseguenze e manifestazioni del peccato originale. Noto anche un crescendo evidente: “caduta”, “disobbedienza”, “peccato”. Il primo termine (caduta) esprime un semplice fatto, direi, naturale; il secondo (disobbedienza) dice una scelta contro la volontà di Dio; il terzo (peccato) dà un netto giudizio morale negativo. Questo è il comportamento dell’uomo, che si allontana da Dio. A ognuno dei tre termini negativi corrisponde con esattezza l’opera divina del Redentore: “giustificazione”, “obbedienza”, “grazia”. C’è un crescendo sia nel male, che termina nel peccato, sia nel bene, che termina nella grazia, ossia nella vita di Dio nell’uomo. E proprio nella grazia vissuta consiste la “vita eterna”, già durante la vita terrena. È fondamentale sapere che la vita eterna, già adesso, ci è donata “per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore” (Rom 5, 21). Che verità ineffabile! Una domanda conclusiva: Oggi esiste il peccato? Ascoltiamo una parola autorevole: può sembrare una visione pessimistica, eppure mi pare realissima! Afferma il beato papa Paolo VI: «Innanzi tutto, voi non troverete più nel linguaggio della gente perbene di oggi, nei libri, nelle cose che parlano degli uomini, la tremenda parola che, invece, è tanto frequente nel mondo religioso, nel nostro, segnatamente in quello vicino a Dio: la parola peccato. Gli uomini, nei giudizi odierni, 18


non sono più ritenuti peccatori. Vengono catalogati come sani, malati, bravi, buoni, forti, deboli, ricchi, poveri, sapienti, ignoranti; ma la parola “peccato” non si incontra mai. E non torna perché, distaccato l’intelletto umano dalla sapienza divina, si è perduto il concetto del peccato. Una delle parole più penetranti e gravi del sommo Pontefice Pio XII di v. m. risulta questa: “Il mondo moderno ha perduto il senso del peccato”; che cosa sia, cioè, la rottura dei rapporti con Dio, causata appunto dal peccato. Il mondo non intende più soffermarsi su tali rapporti. E allora la filosofia contemporanea dell’uomo parte da un ottimismo aprioristico… Viene adottata così, quale norma, una indulgenza molto liberale, molto facile, che spiana le vie a ogni sorta di esperienze e di capricci, giacché, ammettendo nell’uomo tutti i diritti, bisogna lasciare che egli li esplichi nelle sue singole facoltà. Il male dunque non esiste. Questo famoso peccato originale – che è la prima verità sull’uomo – non è più ammesso e descritto nelle diagnosi che il mondo oggi vuol tracciare di sé» (Pensieri di Paolo VI, a cura di Ulderico Gamba, Edizioni Carroccio, p. 264).

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IV DOMENICA DOPO PENTECOSTE – Anno C

Argomento Personaggio Letture

L’OMICIDIO CAINO E ABELE Genesi 4,1-16 Ebrei 11,1-6 Matteo 5,21-24

Il capitolo terzo della Genesi ci ha presentato la problematica del peccato così detto “originale”: la radice di ogni atto peccaminoso con le conseguenze inevitabili. Il peccato è presentato come disubbidienza alla volontà di Dio: qui il peccato è visto unicamente nei confronti di Dio, in rapporto a Lui. La prima lettura della quarta domenica invece allarga il discorso e nello stesso tempo lo concretizza: il peccato è un comportamento o un atteggiamento interiore negativo nei confronti del prossimo. La forma estrema di un tale atto peccaminoso è l’omicidio, l’uccisione fisica di un fratello, qualunque sia la sua esistenza concreta e lo sviluppo della sua persona, o il suo valore agli occhi degli uomini. Il capitolo quarto della Genesi non si limita a prendere in considerazione l’uccisione di un uomo: fa intravvedere anche le ragioni di un tale atto, ossia la gelosia e l’invidia. E, nel brano del Vangelo, insiste sulla necessità del comportamento positivo verso ogni fratello. La seconda lettura, l’epistola, legge il diverso comportamento dei due fratelli come problema di “fede’. LETTURA (Gen 4, 1-16) Seguendo lo stile usato in queste domeniche, la prima lettura ci presenta un fatto concreto di vita: qui l’uccisione di Abele per mano del fratello Caino. Le altre due letture, l’epistola e il vangelo, ci danno la visione religiosa del fatto narrato; direi, la spiegazione profetica del fatto. L’impostazione dell’episodio di Caino e Abele richiama quello 20


del peccato di Adamo ed Eva: troviamo innanzi tutto la narrazione dell’uccisione del fratello Abele da parte di Caino; quindi la minaccia del castigo inevitabile; da ultimo una conclusione positiva. Più precisamente, il brano di oggi e quello di domenica scorsa hanno delle somiglianze ben chiare: – Domenica scorsa Dio poneva ad Adamo una domanda personale, che riguardava “solamente” la persona di Adamo: «Dove sei?». Non si riferisce a un luogo, ma a una situazione interiore, umana, del cuore; forse vuol dire: «Adamo, prendi coscienza di come ti sei ridotto». Il motivo: perché mi hai disubbidito, ti sei allontanato da me e hai preteso di costruirti la felicità con le tue mani. Oggi la domanda riguarda il fratello Abele. Il Signore chiede a Caino: «Che fine ha fatto tuo fratello?». Sottinteso: per colpa tua. Vedo un primo insegnamento: non è sufficiente pensare al proprio bene, e neppure limitarsi a vivere un proprio rapporto con Dio… da solo, individualmente, chiuso nel proprio “io”, ignorando tutti e tutto quello che mi sta attorno. È necessario invece che mi interessi anche del bene del mio prossimo: «Nessun uomo è un’isola», affermava T. Merton. – Anche per Caino, come per Adamo, è previsto il castigo: «Quando lavorerai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti: ramingo e fuggiasco sarai sulla terra». Nel paradiso terrestre Dio fissò un castigo per l’uomo e per la donna, e addirittura la maledizione per il serpente. Però nello stesso tempo promise la Redenzione per l’uomo (Gen 3,15). Per Caino Dio stabilisce il castigo, ma subito dopo assicura di continuare a volere il bene anche di Caino, nonostante il gravissimo peccato commesso: «Chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte». Dio è sempre dalla parte dell’uomo, perché è sempre misericordioso. – Il movente del peccato dei progenitori fu l’orgoglio, il ritenere di essere in grado di procurarsi da soli la propria felicità, senza riferimento a Dio. Nel caso dell’omicidio di Abele fu la gelosia e l’invidia di Caino a spingerlo all’omicidio del fratello. Abele, per rispetto a Dio, a cui spetta sempre il primo posto, Gli offriva i “primogeniti del suo gregge”; Caino invece Gli offriva soltanto “i frutti del suolo”. Dice il libro della Genesi: «Il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e la sua offerta». Non significa che Dio fa delle preferenze verso Abele. Dice 21


invece che Abele aveva il senso della grandezza e del primato di Dio, per cui era giusto e doveroso offrirGli le primizie. L’insegnamento fondamentale di queste due domeniche è che il peccato, ogni peccato, è sempre una conseguenza dello “sganciamento” da Dio. EPISTOLA (Eb 11, 1-6) Con brevità e chiarezza la lettera agli Ebrei afferma che è questione di fede; ossia, alla base del diverso comportamento dei due fratelli c’è una fede viva in Abele; o la mancanza di fede in Caino: «Per fede, Abele offrì a Dio un sacrificio migliore di quello di Caino e in base ad essa fu dichiarato giusto». «Senza la fede è impossibile essergli graditi; chi infatti si avvicina a Dio, deve credere che Egli esiste e che ricompensa coloro che lo cercano». In fondo, la Parola di Dio di oggi non intende raccontare un omicidio, ma il valore, la necessità della fede nella vita vissuta. È la fede che determina il comportamento nei confronti di Dio e anche verso il prossimo. E non si tratta solo di evitare l’omicidio, ma ogni atteggiamento e ogni comportamento cattivo verso il prossimo, chiunque sia: è sempre un atto contro Dio, quindi è un peccato. VANGELO (Mt 5, 21-24) È un brano del discorso della montagna, la “magna carta” di ogni comportamento cristiano; quindi è fondamentale per comportarsi da cristiano, da vero amico di Gesù. «Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: “stupido”, dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: “pazzo”, sarà destinato al fuoco della Geenna». Gesù non cancella la Legge di Mosè, bensì la perfeziona. Guarda i tre esempi riferiti da Gesù: c’è un crescendo di gravità del male e, quindi, di castigo: «Chiunque si adira…»; «Chi dice al fratello: stupido…»; «E chi gli dice: pazzo…». La conclusione di Gesù è disarmante: «Se tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono». Mi chiedo: le mie, le nostre Comunioni, che riceviamo con tanto sentimento, sono secondo il desiderio 22


di Gesù? Forse è necessario mettere in pratica il detto: “meno Comunioni, ma più Comunione!”. Giustamente l’assemblea liturgica così prega in questa Eucaristia con il salmo 49: «Sacrificio gradito al Signore è l’amore per il fratello. Ti siedi, parli contro il tuo fratello, getti fango contro il figlio di tua madre. Hai fatto questo e io dovrei tacere? Forse credevi che io fossi come te! Ti rimprovero: pongo davanti a te la mia accusa». Noi, no! Non c’è dubbio: nessuno di noi “praticanti” vuol arrivare a compiere un omicidio; eppure l’esperienza insegna che anche i grossi peccati hanno una radice piccola piccola e silenziosa nel cuore: se non estirpiamo con prontezza la radice, il male che si annida nel cuore può portarci dove noi sicuramente non vorremmo. Spesso l’omicidio ha una origine molto piccola e ben nascosta, in particolare l’invidia e la gelosia. Accogliamo l’affermazione di S. Francesco di Sales: «Si può concludere che le piccole tentazioni di collera, di sospetto, di gelosia, di invidia, di antipatia, di stranezza, di vanità, di doppiezza, di affettazione, di astuzia, di pensieri indecenti, sono abituali anche per coloro che sono già incamminati nella devozione e più risoluti! Ecco perché, cara Filotea, è necessario che ci prepariamo con grande cura e diligenza a questo combattimento; sii certa che tutte le vittorie che riporterai contro questi piccoli nemici, saranno tante pietre preziose incastonate nella corona di gloria che Dio ti prepara in Paradiso. Ecco perché sostengo che, in attesa di lottare bene e con valore, contro le grandi tentazioni, se verranno, nel frattempo difendiamoci bene da questi piccoli e deboli attacchi» (S. Francesco di Sales, Filotea, quarta parte, cap. VIII).

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V DOMENICA

DOPO PENTECOSTE – Anno C Argomento Personaggio Letture

LA FEDE, UNA FEDE… ATTIVA ABRAMO Genesi 18, 1-2 Romani 4, 16-25 Luca 13, 23-29

Le prime tre domeniche che abbiamo preso in considerazione finora, mi pare che trattino un problema non riguardante direttamente il popolo eletto: sono quasi una introduzione e danno l’impressione di essere lontane, molto lontane nel tempo. Con l’attuale domenica invece troviamo episodi e personaggi d’Israele. Incomincia davvero la narrazione della presenza attiva di Dio nel suo popolo. Infatti, Abramo chi non lo conosce? Chi non sa che con lui ha davvero inizio la storia del popolo d’Israele? Il racconto della prima lettura è assai caratteristico al riguardo. Abramo è ritenuto giustamente l’iniziatore del popolo d’Israele, ma non per merito suo, non perché ha compiuto qualche impresa militare particolare. Lo è per la sua fede, perché ha creduto in Dio, si è affidato completamente a Lui e ha agito con impegno come Dio gli chiedeva. Nell’epistola di domenica scorsa abbiamo incontrato alcuni uomini veri “credenti”: Abele, Enoc, ecc. Si affermava «che la fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede. Per tale fede i nostri antenati sono stati approvati da Dio… Senza la fede è impossibile essergli graditi». Dunque la fede è la base del popolo eletto; è ciò che mette il popolo in rapporto reale con Dio. Invece la fede di Abramo è speciale per intensità e profondità: «Egli credette – afferma l’epistola di oggi – saldo nella speranza e contro ogni speranza». Pensiamo alle tante e difficili prove cui è stato chiamato Abramo: dall’ordine di Dio di lasciare il suo paese e di andare in un paese sconosciuto; ciò significava rompere totalmente con la sua storia, con il passato; ma quel che conta di più era il diventare oggetto di derisione della gente, perché era ritenuto da tutti 24


l’uomo veramente giusto, amico sincero di Dio: la prova era l’abbondanza dei beni in terreni, animali e anche uomini. Secondo il loro modo di pensare la quantità dei beni era la prova certa dell’amicizia da parte di Dio. Pensiamo inoltre alle numerose volte in cui Dio promette ad Abramo una discendenza assai numerosa, nonostante sia ormai vecchio e vecchia soprattutto la moglie Sara, e di figli non ne hanno mai avuti. Eppure Abramo crede sempre in Dio e si fida di Lui nonostante le tentazioni e le provocazioni. Continua così fino alla prova suprema del sacrificio di Isacco. Abramo anche in questo momento umanamente assurdo si fida di Dio. Finalmente Dio lo premia in abbondanza e definitivamente. Però l’episodio della lettura di oggi ci presenta un aspetto nuovo e caratteristico della fede di Abramo. Normalmente la fede era vista e vissuta come un fatto personale, che interessa le singole persone. Qui, no. In questo episodio Abramo è un uomo di fede straordinaria, ma a vantaggio degli altri, per il bene, la salvezza delle due città in pericolo, Sodoma e Gomorra. Ecco il racconto semplice, quasi infantile, ma chiaro della preghiera di intercessione di Abramo. Egli è sicuro che Dio è buono, misericordioso e fedele alle sue promesse; pertanto osa “sfidarlo” sulla misericordia. È un racconto che al di là di ogni discorso esalta la esagerata misericordia di Dio. Nello stesso tempo ci insegna che la fede di Abramo non è per un interesse personale, non è “egocentrica”, ma è per il bene, la salvezza del popolo. Penso che a questo punto sia opportuno che ciascuno di noi si ponga qualche domanda sulla propria fede: Qual è il movente della mia fede? È la grandezza, l’“alterità” di Dio, oppure è un mio personale interesse? La mia fede mi chiude in un rapporto a due: io e Dio, oppure mi apre al prossimo, al bene “vero” degli altri? Nelle difficoltà della vita continuo a fidarmi di Dio, convinto che è un Dio di amore e sempre fedele? EPISTOLA (Rom 4, 16-25) S. Paolo dà la spiegazione teologica dell’insegnamento della prima lettura, come sempre. Qui, addirittura, non solo conferma quanto è detto nella lettura della Genesi, ma fa un elogio, quasi un inno alla fede granitica ma anche tragica di Abramo. Afferma perfino che proprio in forza della sua fede Abramo è diventato padre 25


di molti popoli: «Egli (Abramo) credette, saldo nella speranza contro ogni speranza, e così divenne padre di molti popoli»… «Egli non vacillò nella fede, pur vedendo come morto il proprio corpo –aveva circa cento anni – e morto il seno di Sara». La fede di Abramo – continua Paolo – non solo fu salvezza per il popolo d’Israele, ma perfino per quella dei popoli di ogni tempo; quindi anche per noi, uomini del terzio millennio. Però, dopo la venuta di Cristo, morto e risorto per tutti gli uomini, è indispensabile credere in Gesù, “il Cristo”, il Salvatore. Quella fede viene accreditata anche «a noi che crediamo in colui che ha risuscitato dai morti Gesù nostro Signore, il quale… è stato risuscitato per la nostra giustificazione». VANGELO (Lc 13, 23-29) Come sempre, il vangelo non ha il compito di dimostrare o di provare una verità; taglia corto: si limita ad affermare ciò che occorre per vivere, e basta. Qui dice: «La porta è stretta», ossia non è facile entrare nel Regno; occorre credere IN Cristo, il Vivente! Ciò comporta una personale conoscenza di Cristo, un rapporto vivo con Lui e un coinvolgimento nella Sua missione, ecc. Una sola domanda: Qualche volta ti sei lasciato sconvolgere da Gesù, fino al punto di cambiare i criteri della tua vita e le scelte quotidiane? Altrimenti: «Non so di dove siete» – direbbe Gesù. PER RIFLETTERE Sono innumerevoli i commenti sull’esperienza di Abramo. Tra i tanti ne ho scelto uno che mi pare particolarmente vivo, che mi coinvolge in profondità. Purtroppo mi devo limitare a qualche parte della lunga riflessione di Carlo Carretto; spero che tanti leggano l’intero capitolo al riguardo. Ecco alcuni brani di Carretto: «Che la fede sia un rischio, lo si capisce ben presto, ma quale sia il prezzo di questo rischio lo si impara molto tardi… Io non credo esista al mondo un mestiere così difficile come quello di vivere di fede, di speranza e di amore. Si tratta in fondo di fare un salto nel buio o, per essere più precisi, un salto nell’Invisibile. Non è facile. Io sono abituato da tempo, eppure vi dico che tremo sempre davanti alla novità di un nuovo salto propostomi dalla presenza di Dio nella mia coscienza. Direi che è come il dolore, meglio, come la morte: 26


non ci si abitua mai… È inutile nascondercelo: la fede è una prova, una tremenda prova che ha come paradigma la morte stessa e nessuno può evitarcela, nemmeno Dio. Si direbbe poi, e non penso di sbagliarmi, che non ci sia nulla che interessi Dio nei nostri riguardi più di questo vederci immersi in questo atto di fede. Lui è come un amante che guarda dalla finestra l’arrivo ansioso dell’amato. È come il padre che gode nel veder correre suo figlio tra la folla verso di lui e con l’ansia addosso. Perché non dobbiamo dimenticare che la fede non è disgiunta dall’amore e, in fondo in fondo, è la prova dell’amore, direi la prima. La prima prova dell’amore è credere nell’amato. La prima prova dell’amore è credere alla sua presenza. Se non credo alla sua presenza, come posso comunicare con Lui? Se non credo alla sua presenza, come posso parlare con Lui? Aver fede è credere che Lui riempie tutto lo spazio e che nessun salto mi sbatterà lontano dalle sue braccia… Dio disse ad Abramo: “Prendi il tuo figlio; l’unico che hai e che tu ami, Isacco, e va’ nel territorio di Mori, e là offrilo in olocausto su un monte che ti indicherò”. (Gen. 22, 2) Ecco un salto nella fede pura proposto ad Abramo. È un atto personale e un atto di morte. Chi non ama non può capire una proposta del genere, anzi si scandalizza… e come! Chi vede Dio avvolgere la personalità gigantesca di questo patriarca, solo, nel deserto, accanto alla sua tenda… oh, no… non si scandalizza, anzi…! Quel Dio che vuol comunicarsi nel profondo dell’essere di Abramo, che vuol strapparlo a se stesso, alla sua possibilità di ripiegarsi sulle sue cose come su un possesso egoista, che vuol fare “più sua” la già sua creatura, il suo uomo destinato non alle tende della terra ma a quella del Cielo, quel Dio che gli chiede una prova assurda, come è assurdo l’amore quando non lo si vive, ma così vero e inesorabile quando lo si possiede… Io credo che in quell’alba, da tutti i buchi del cielo gli angeli si affaccendavano a fissare il monte su cui un uomo si apprestava a compiere un rito d’amore così tragico e così radicale! Io credo che al sorgere del sole di quella fredda mattina d’oriente, lo spazio attorno ad Abramo era trapuntato di occhi invisibili di tutti i morti prima di lui, preoccupati di vedere come la faccenda sarebbe andata a finire!... Oh, se Abramo avesse dovuto rivolgere il coltello contro di sé, sarebbe stato più facile!» (C. Carretto, Il Dio che viene, Città Nuova, pp. 41-48).

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VI DOMENICA DOPO PENTECOSTE – Anno C

Argomento Personaggio Letture

L’ALLEANZA MOSÈ Esodo 24, 3-18 Ebrei 6, 6-13 Giovanni 19, 20-35

Abramo è l’iniziatore del popolo d’ Israele; Mosè è il realizzatore del popolo “eletto” mediante l’ALLEANZA, voluta e stabilita da Dio stesso. La prima lettura è un passo significativo e particolarmente importante, perché, in forza dell’Alleanza, Israele non è solo uno dei tanti popoli, uguale agli altri: è profondamente diverso perché vive un rapporto specialissimo e unico con Dio, diventa addirittura un popolo “religioso”. Allora capisco il racconto di questa lettura, il rito con cui viene sancita l’alleanza popolo – Dio; non la trovo più fuori dalla nostra logica. Comprendo anche l’insistenza sulla diversità di questo rito con le altre religioni. Occorre però che noi, uomini acculturati, non giudichiamo i segni e i gesti di quel rito in base ai nostri criteri, ma abbiamo un po’ il senso della storia e delle altre culture. Ecco come avveniva il rito dell’Alleanza nel popolo di Israele: – Mosè chiede al popolo di accettare la proposta di Dio: «Tutto il popolo rispose a una sola voce dicendo: Tutti i comandamenti che il Signore ha dato, noi li eseguiremo!». – Mosè inizia il rito costruendo un altare… “ai piedi del monte” (“monte” esprime la presenza e la “alterità” di Dio), “con dodici stele per le dodici tribù” di Israele. Così è rappresentato tutto il popolo. – Segue l’offerta a Dio prima di ogni altro gesto: «Incaricò alcuni giovani tra gli israeliti di offrire olocausti e di sacrificare giovenchi come sacrifici di comunione, per il Signore». L’uccisione della vittima (qui i giovenchi) era indispensabile per gli antichi, perché il sangue 28


esprimeva la vita. L’effusione reale del sangue indicava quindi l’offerta della propria vita, di se stesso. – Mosè versa metà del sangue sull’altare, quindi lo offre a Dio, e l’altra metà la raccoglie in catini con cui aspergerà il popolo. Sarà il sangue della unica vittima che unirà Dio e il popolo; così verrà stabilita una unione, un patto, anzi un’alleanza tra Dio e il popolo. Prima, però, – dice la Lettura – «prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo». Quindi il gesto compiuto da Mosè non è un semplice gesto privato, ma è ufficiale e pubblico: si rifà alla Legge. Pertanto, tutti «dissero: Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto». Dal rapporto spirituale con Dio deriva quindi un comportamento, la vita concreta del popolo. EPISTOLA (Eb 8, 6-13) La lettera agli Ebrei dice che l’alleanza stabilita mediante Mosè era imperfetta, era “esterna”, perché stabilita mediante il sangue di animali: non toccava il cuore! Per questo motivo gli ebrei non rimasero fedeli agli impegni presi solennemente con Dio. La conseguenza fu dura per il popolo: Dio – afferma l’autore dell’epistola – «non ebbe più cura di loro». Ne derivarono tante sofferenze, guerre, schiavitù ecc., perché Dio li aveva abbandonati a se stessi. Dio non castiga mai direttamente, ma l’uomo, se si allontana dal Signore, si autocondanna al male, alle sofferenze reciproche. Non è quello che capita ancora oggi?! Come non vedere che le violenze di ogni genere, le guerre, i massacri, il disprezzo della persona umana e della vita specialmente dei più indifesi hanno un’unica radice: l’abbandono di Dio, almeno un abbandono… pratico, morale, che vuol dire: non vivere più la pratica religiosa, anche se si pretende e si afferma di continuare a credere in Dio! Una tale cosiddetta “fede” è un semplice sentimento umano e forse interessato! La fede così intesa non ha un fondamento reale, che è la morte in Croce del Cristo, il Dio fatto uomo per noi. La lettera agli Ebrei afferma che Dio, perché sempre misericordioso, stabilisce col popolo di Israele, quindi con tutta l’umanità di sempre, una “nuova” alleanza, migliore della precedente. Ricorda che l’aggettivo “nuovo”, nel significato originario latino, significa: diverso rispetto al precedente e anche definitivo, che durerà quindi per sempre. Difatti la seconda e nuova alleanza stabilita da 29


Dio ancora con il popolo ebreo ha una sola vittima, che è sempre viva e operante nella storia, ed è Gesù! Sarà quindi una alleanza sempre valida da parte di Dio, perché in Dio non c’è e non ci può essere un divenire, un cambiamento. Questo ci porta a considerare la centralità del sacrificio di Cristo morto in croce come fondamento unico della vita cristiana. Per tale motivo, l’atto di culto più importante e perfino necessario per un cristiano è la partecipazione viva e personale alla S. Messa. È inconcepibile che un cristiano vada a Messa solo perché è obbligato o per abitudine. Richiamo qui il titolo delle riflessioni contenute in questo volumetto: PARTECIPIAMO!. Non ha senso l’essere solo presenti fisicamente alla Messa, sperando che sia breve, specialmente l’omelia! VANGELO (Gv 19, 30-35) Il brano del vangelo di oggi si concentra tutto sull’ultimo istante della vita di Gesù in croce: «Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: Tutto è compiuto! E, chinato il capo, consegnò lo spirito». Da questo istante l’alleanza Dio – umanità è definitiva: durerà senza dubbio fino alla fine dei tempi. Personalmente sono convinto che la partecipazione alla Messa (Non la sola presenza fisica!) sia non più un dovere per chi si riconosce “cristiano”, ma sia un’esigenza viva e irrinunciabile. Nella Messa anch’io divento vittima con Gesù e in me continua a realizzarsi l’alleanza tra Dio e l’umanità. Non è una esagerazione, perché anch’io faccio parte del Corpo Mistico di Cristo. PER NOI L’alleanza voluta da Dio non è una specie di contratto alla pari tra Dio e l’umanità: è un aspetto dell’amore di Dio verso l’uomo, è la manifestazione storica dell’attenzione che Dio necessariamente, ma liberamente ha nei nostri confronti. Dio non ha limitato l’alleanza col popolo ebreo di allora, ma continua per sempre con il “nuovo” popolo, che è la Chiesa. Inoltre, l’alleanza tra Dio e l’umanità i è realizzata, per sempre, nella morte di Cristo in croce. E continua ininterrottamente nella celebrazione dell’Eucaristia. Ascoltiamo quanto scrive il grande maestro C. M. Martini. 30


«Nell’Eucaristia Gesù si consegna a noi, riattualizzando quella consegna di sé operata definitivamente sulla croce, di cui l’ultima cena è l’anticipazione profetica. Ma questo fatto si colloca sullo sfondo dell’alleanza di Dio col popolo, richiamata espressamente dalla parola di Gesù: “Questo è il mio sangue dell’alleanza” (Mt 26, 28). L’alleanza dice il legame profondo che univa l’antico Israele con Dio e lo faceva “suo popolo”: il dono del Cristo sacrificato per noi ha come fine la creazione del nuovo popolo di Dio. L’alleanza ricorda l’instancabile amore con cui Dio, fin dalla creazione, ha trattato l’uomo come un amico, ha promesso una salvezza dopo il peccato… Nella concezione biblica l’alleanza è dunque il principio che costituisce e configura tutta la vita del popolo…» (C. M. Martini, Attirerò tutti a me. – Lettera pastorale 1982/83). Il card. Martini conclude con una ispirata preghiera che facciamo nostra: «O Signore, noi ci prepariamo ad adorare il sacramento della nuova ed eterna alleanza che tu hai stipulato con noi. Se mangiamo questo pane, rimaniamo in te e tu in noi. Se partecipiamo alla tua cena, noi che siamo molti formiamo un corpo solo. Fa’, ti preghiamo, che in virtù di questo sacramento possiamo diventare ciò che già siamo e dobbiamo essere: persone nelle quali la presenza della tua grazia trova un segno per rivelarsi e operare in coloro ai quali dobbiamo prestare il nostro sevizio. Ciò che celebriamo nel culto e nell’adorazione di questo sacramento, fa’ che si compia e si celebri, in virtù della tua grazia, nella nostra vita» (Giovedì Santo 1989).

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VII DOMENICA DOPO PENTECOSTE – Anno C

Argomento Personaggio Letture

ANCORA L’ALLEANZA GIOSUÈ Giosuè 24, 1-2; 15-27 I Tessalonicesi 1, 2-10 Giovanni 6, 59-69

Alleanza è una parola chiave per quanto riguarda i rapporti tra Dio e il popolo di Israele. È vero: Dio stesso ha stabilito liberamente questo rapporto speciale, di preferenza, con Israele; e lo ha fatto sicuramente a vantaggio del popolo. Le numerose domande che possono sorgere a proposito di una tale decisone divina trovano una risposta nel mistero di Dio: a nessuno è concesso di entrare nella mente di Dio. Dobbiamo fidarci di Lui, che è sempre amore misericordioso. Però l’alleanza non è una imposizione di Jahvé: il popolo non è costretto a subire la volontà di Dio e a piegarsi silenziosamente alla Sua volontà. L’uomo – lo sappiamo – è stato creato libero proprio da Dio, e il Sommo Creatore ha accettato perfino che Adamo rifiutasse di accettarlo come la causa della sua felicità, fino al punto di… mangiare la mela(!), pensando di essere lui il creatore, l’origine della sua felicità indipendentemente dal suo creatore. E Dio, addolorato, si limita a cercarlo nel paradiso terrestre gridando: «Adamo, dove sei?»; ossia: «Uomo, guarda come ti sei ridotto!». La libertà, quindi la personale responsabilità, è il bene sommo dell’uomo; è proprio questo bene che lo distingue sostanzialmente da tutte le creature. A maggior ragione per un valore fondamentale, qual è l’alleanza con Dio, il popolo doveva giocarsi la sua libertà. Se da parte di Israele non ci fosse stato un atto libero di accettazione dell’Alleanza, il fatto stesso dell’Alleanza sarebbe stato una vera e tremenda schiavitù, perché voluta addirittura da Dio. Questo ci dice la lettura di questa domenica: si tratta ancora dell’ Al32


leanza, ma presenta il rovescio della medaglia: qui è il popolo, tutto il popolo, che deve giocarsi la sua libertà: un patto, un’alleanza richiede la partecipazione di tutte e due le parti: a Dio spetta l’iniziativa, ovviamente, ma c’è un vero patto costringente solo se anche l’altra parte, il popolo di Israele, dice: Sì, accetto e mi impegno praticamente ad osservare le condizioni affinché l’alleanza esista di fatto e sia operativa. Ancora una volta – ci insegna la Parola di Dio – Dio si… scomoda e agisce a vantaggio dell’uomo, però l’uomo deve fare la sua parte. Sembra addirittura che Dio aspetti la libera decisione del popolo. Che rispetto per la dignità dell’uomo! Dovremmo imparare dal comportamento di Dio ad avere il massimo rispetto per la grandezza dell’uomo, di qualsiasi uomo! Ma, che cosa narra la prima lettura di oggi? Giosuè, a nome di Dio, pone al popolo direttamente la domanda fondamentale: «Chi volete servire: gli dei che i vostri padri hanno servito oltre il fiume, oppure gli dei degli Amorrei, nel cui territorio abitate? Scegliete oggi chi servire». Continua Giosuè: «Quanto a me e alla mia casa serviremo il Signore». Il popolo all’unisono grida: «Lontano da noi abbandonare il Signore per servire altri dei!». Tutto il popolo riconosce quanto Jahwè ha fatto per Israele: «Poiché è il Signore, nostro Dio, che ha fatto salire noi e i padri nostri dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile; egli ha compiuto quei grandi segni dinanzi ai nostri occhi e ci ha custodito per tutto il cammino che abbiamo percorso e in mezzo a tutti i popoli fra i quali siamo passati. Il Signore ha scacciato dinanzi a noi tutti questi popoli e gli Amorrei che abitavano la terra. Perciò anche noi serviremo il Signore, perché egli è il nostro Dio». Giosuè non si accontenta di una bella, e sincera, dichiarazione; vuole fatti e impegni concreti: «Eliminate allora gli dei stranieri, che sono in mezzo a voi, e rivolgete il vostro cuore al Signore, Dio d’Israele». «Il popolo rispose a Giosuè: “Noi serviremo il Signore, nostro Dio, e ascolteremo la sua voce!”. Giosuè in quel giorno concluse un’alleanza per il popolo e gli diede uno statuto e una legge a Sichem». Giosuè convalida la decisione del popolo con un atto religioso: pone una pietra «sotto la quercia che era nel santuario del Signore» e proclamò a tutto il popolo: «Ecco: questa pietra sarà una testimonianza per noi, perché essa ha udito tutte le parole che il Signore ci ha detto; essa servirà quindi da testimonianza per voi, perché non rinneghiate il vostro Dio». 33


Dopo l’approvazione religiosa Giosuè diede uno statuto, quasi una conferma giuridica e stabilì una legge da osservare. È vero: la fede in Dio esige anche una morale, un comportamento adeguato. Dunque, il popolo intero si è impegnato a rispettare il patto con Jahvè e quindi ad attuare la Sua volontà. EPISTOLA (I Ts 1, 2-10) E VANGELO (Gv 6,59-69) Anche questa domenica S. Paolo, partendo dall’episodio narrato nella prima lettura, fa una applicazione di carattere teologico e generale. Afferma che non è sufficiente accogliere e vivere “in proprio” l’alleanza con Dio: è conseguenza necessaria diventare testimoni divenendo modelli di fede, di speranza e di carità. Quanto S. Paolo propone alla comunità di Tessalonica vale per tutte le comunità di ogni tempo, quindi anche per noi. Evitiamo di ascoltare le letture della liturgia domenicale pensando che si riferiscano solo alla gente di quei tempi, in particolare al popolo d’Israele. La Messa, comprese le letture, è un “memoriale”, ossia una vera attualizzazione: nessuno può sentirsi un semplice spettatore: ognuno è attore, è chiamato personalmente in causa in quel momento e nella situazione personale in cui si trova in quel momento. Tutti noi facciamo parte del popolo dell’alleanza con Dio, perché tutti siamo “stabiliti” nell’alleanza mediante Gesù, grazie al battesimo: da qui nasce la necessità, vera e inequivocabile, di essere missionari, testimoni credibili nella vita quotidiana di ciascuno. L’impegno è serio, talvolta difficile o molto faticoso; gli stessi apostoli hanno protestato con Gesù – si legge nel brano evangelico –: «Questa parola è dura!». Eppure Gesù lo vuole, quasi lo pretende da parte di ciascuno, sempre, anche nelle situazioni di oggi. E non fa sconti, non fa nemmeno un passo indietro: «Volete andarvene anche voi?» – afferma Gesù con forza, quasi con una punta di durezza. Allora cerchiamo di imitare S. Pietro che prontamente, e un po’ troppo istintivamente, protesta: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna…». Diventeremo senza dubbio, non apostoli, però veri ed efficaci missionari dell’alleanza di Dio con l’umanità di sempre. 34


PER NOI Le letture di oggi interpellano anche noi, come persone singole e come comunità. Alla richiesta di Giosuè: «Chi volete servire?», il popolo grida all’unisono: «Lontano da noi abbandonare il Signore per servire altri dei… Noi serviremo il Signore, nostro Dio». Secondo voi che leggete questi pensieri, la società attuale sarebbe altrettanto pronta a rispondere positivamente come il popolo di allora? Giosuè diede al popolo “uno statuto e una legge”; noi oggi siamo invitati, come risposta alla iniziativa di Dio, ad essere testimoni autentici nella vita concreta personale e di tutta la comunità, divenendo modelli credibili di fede, di speranza e di carità. Quanto è difficile vivere così! Ma Gesù non addolcisce la sua richiesta: «Volete andarvene anche voi?». Non siamo troppo veloci e istintivi a rispondere come Pietro: «Signore, da chi andremo?». L’umiltà, che è verità, vuole che siamo prudenti e cauti nella risposta. Auguriamoci che l’elogio di Paolo ai Tessalonicesi possa essere rivolto anche a noi: «Rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere e tenendo continuamente presenti l’operosità della vostra fede, la fatica della vostra carità e la fermezza della vostra speranza nel Signore nostro Gesù Cristo, davanti a Dio e Padre nostro» (I Tess 1, 1-3). Gli esempi di testimoni autentici sono innumerevoli: ciascuno ne scelga qualcuno di sua conoscenza, cercandoli nella ferialità, nella propria esperienza, tra le persone che vivono accanto a noi. La Sacra Scrittura ci presenta una testimonianza significativa all’alleanza con Dio: i Maccabei. Dapprima fuggono nel deserto per non sottomettersi all’ordine del re Antioco Epifane, il quale pretendeva che tutti i suoi popoli rinunciassero alle loro tradizioni, anche religiose, per formare un unico popolo secondo i suoi desideri. I Maccabei vollero osservare ad ogni costo la Legge di Mosè e soprattutto vollero rispettare l’osservanza del sabato. E furono fedeli fino al martirio. È utile leggere tutto l’episodio in I Maccabei, 1, 41-2, 29-38.

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VIII DOMENICA DOPO PENTECOSTE – Anno C

Argomento Personaggio Letture

IL POPOLO CHIEDE UN RE SAMUELE I Samuele 8, 1-22 I Timoteo 2, 1-8 Matteo 22, 15-22

Dopo la volontà espressa da tutto Israele di voler servire Jahvè e di osservare fedelmente il patto di alleanza con Lui – questo aveva chiesto Giosuè – sembrava che tutto fosse a posto e che il popolo si fosse davvero convertito al vero Dio. Addirittura sembrava assodato che il popolo avrebbe avuto la consapevolezza di essere stato scelto da Dio stesso per un patto speciale di amicizia con Lui, a vantaggio anche degli altri popoli. Invece… vuole un re, un uomo in carne ed ossa; un re che si ponga alla guida (anche politica e militare) di Israele. Quindi, un re ben visibile, che dia delle regole, a cui si debba ubbidire e che in caso contrario, possa castigare. La motivazione di una tale richiesta sembra buona: Samuele, ormai vecchio, lascia ai figli il compito di guidare il popolo e di esserne i giudici che amministrano la giustizia tra i cittadini. «I due figli di lui, però – afferma la lettura – non camminavano sulle sue orme, perché deviavano verso il guadagno, accettavano regali e stravolgevano il diritto» (N.B. Gli uomini non cambiano proprio mai!). Allora gli anziani del popolo, giustamente secondo i criteri umani, chiesero a Samuele di domandare a Jahvè un re come tutti gli altri popoli: «Stabilisci per noi un re che sia nostro giudice, come avviene per tutti i popoli». Il peccato sta nel fatto che non si fidavano più di Dio come il loro unico e sicuro punto di appoggio (questo era lo scopo dell’Alleanza!), ma tendevano a comportarsi come tutti gli altri popoli, non “religiosi”, ossia non in rapporto stretto con Dio. Ancora una volta l’uomo vuol essere lui a vedere, a decidere, pensando di essere l’unico autore della propria vita. 36


Jahvè suggerisce a Samuele di accogliere la richiesta del popolo, ma nello stesso tempo li prepari a “subire” la potenza, e la prepotenza, di un Re… “uomo”, semplice uomo con tutti i suoi difetti e soprusi. La lettura fa un elenco dettagliato delle conseguenze negative sui loro figli e figlie, sugli animali e anche sui beni materiali: «Prenderà pure i vostri campi, le vostre vigne, i vostri oliveti più belli e li darà ai suoi ministri. Sulle vostre sementi e sulle vostre vigne prenderà le decime e le darà ai suoi cortigiani e ai suoi ministri. Vi prenderà i servi e le serve, i vostri armenti migliori e i vostri asini e li adopererà nei suoi lavori. Metterà la decima sulle vostre greggi e voi stessi diventerete suoi servi». Quindi, inevitabilmente soffriranno e grideranno, ma il Signore li abbandonerà: «Allora griderete a causa del re che avete voluto eleggere, ma il Signore non vi ascolterà». Nonostante le sofferenze subite, il popolo si ostina nel rifiuto di Dio, rompe di fatto l’alleanza con Lui e si ostina nel suo peccato: «Il popolo rifiutò di ascoltare la voce di Samuele e disse: No! Ci sia un re su di noi. Saremo anche noi come tutti i popoli; il nostro re ci farà da giudice, uscirà alla nostra testa e combatterà le nostre battaglie». Come sempre, Dio accetta le decisioni degli uomini; però non esclude le conseguenze negative. Nella ostinazione del popolo di volere un re “come gli altri popoli” c’è anche la tentazione dell’idolatria, che consiste nel rifiutare l’alleanza con Jahvé per piegarsi agli dei “falsi e bugiardi”. A proposito dell’idolatria scrive Bruno Maggioni: «Tutta la storia biblica è una lotta contro questa tentazione. I profeti hanno ampiamente illustrato l’importanza e l’esigenza del monoteismo e hanno ironizzato sul culto degli idoli… A noi interessa cogliere la radice dell’idolatria. I peccati contro Dio sono molti e svariati, ma la radice che li provoca è la medesima: … la sfiducia in Dio (la convinzione che Dio ci ostacoli), la ricerca della sicurezza al di fuori della parola di Dio, la volontà di indipendenza sono le tre componenti dell’idolatria. Del resto il peccato non è mai semplicemente un rifiuto di Dio (concretamente un sottrarsi al suo progetto): Dio, una volta rifiutato, viene sempre sostituito con qualcosa che si crede più importante e più sicuro di lui. E questo è idolatria… L’idolatria, in altre parole, non consiste soltanto e innanzitutto nell’abbandonare Jahvé, unico Dio, per una pluralità di dei; non è solo questione di monoteismo, è questione di tipo di Dio. Idolatria è credere in un Dio diverso da Javhé o ridurre Javhé a un Dio diverso… Si finisce con l’erigere gli “idoli muti’ a valori supremi, a cui l’uomo sacrifica 37


se stesso e gli altri. Come si intravede, la perdita di Dio è sempre – in una forma o nell’altra – anche una perdita dell’uomo» (Bruno Maggioni, Un Dio fedele alla storia, San Paolo, pp. 84-86). EPISTOLA (I Tim 2, 1-8) S. Paolo, nella lettera a Timoteo, afferma che è necessario che a capo di un popolo ci sia una guida, un re (oggi non si pensa necessariamente a un re, tradizionalmente inteso; può essere qualche altra forma di governo… lecito), affinché i cittadini possano condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio. In caso contrario avremo re, capi, guide come quelli descritti nella prima lettura: capi che pensano soltanto ai propri interessi! (Spero che siano esclusi certi governanti di oggi!) Accogliamo l’invito di Paolo e preghiamo fiduciosi per i nostri governanti. E ricordiamo che uno solo è la guida vera dell’umanità, è Gesù Cristo: «Uno solo è Dio – proclama S. Paolo – e uno solo anche il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti». Il salmo 88, proposto dalla liturgia di questa domenica, può servire ottimamente come preghiera personale. Recita così il ritornello: «Sei tu, Signore, la guida del tuo popolo». E un versetto prega così: «Perché tu, Signore, sei lo splendore della sua (del popolo) forza e con il tuo favore innalzi la nostra fronte. Perché del Signore è il nostro scudo, il nostro re, del Santo d’Israele». Da ultimo, per il bene dell’umanità, teniamo ben distinti – invita il vangelo odierno (Mt 22, 15-22) – i due ambiti: quello religioso da quello civile. «È lecito o no pagare il tributo a Cesare? – chiedono a Gesù, ed Egli ribatte: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono? Gli risposero: “Di Cesare”. Allora disse loro: “Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”». Dunque: l’insegnamento delle letture di oggi ribadisce quello basilare di tutto questo periodo: Dio è sempre attivamente operante nella storia d’Israele, quindi del popolo di Dio di ogni tempo, fino alla fine dei tempi. Sempre e solo perché vuole il bene vero dell’uomo che Egli ha creato a Sua immagine e somiglianza. Solamente per tale motivo si è incarnato ed è morto e risorto. Nel Dio Incarnato, Gesù Cristo, è sempre presente nella storia l’alleanza tra Dio e l’uomo. Però vuole la fedeltà dell’uomo all’alleanza. Dio è un Dio… geloso! 38


In ogni Messa, nell’istante della consacrazione, il celebrante dice: «Questo è il calice del mio sangue per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati. Fate questo in memoria di me»; ossia: comportatevi come io son vissuto per voi; imitatemi! E tutta l’assemblea risponderà «Amen; sì, Signore, te lo promettiamo». Ricordo il titolo delle riflessioni contenute in questo libretto: PARTECIPIAMO! Pertanto, se è vera l’osservazione precedente, non è possibile essere solo fisicamente presenti alla Messa: mi trovo inevitabilmente coinvolto anche nella mia vita quotidiana.

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IX DOMENICA DOPO PENTECOSTE – Anno C

Argomento Personaggio Letture

L’UNZIONE DEL RE DAVIDE I Samuele 16, 1-13 II Timoteo 2, 8-13 Matteo 22, 41-46

Le letture delle domeniche dopo Pentecoste sono divise, quasi, in settori: le prime tre (dalla II alla IV domenica) ci danno un insegnamento universale, non limitato al popolo ebreo; poi, con la grande figura di Abramo, il capostipite del popolo eletto, viene presentata la storia propria di Israele, mediante personaggi qualificati ed episodi speciali, importanti, riguardanti solo il popolo dell’Alleanza. Da oggi la prima lettura si concentra, o meglio, fa vedere in filigrana il centro della storia del popolo di Israele: ossia, si vede che la Parola di Dio ci invita a fissare lo sguardo sul Messia promesso tante volte dai Profeti. Oggi ci presenta… un ragazzo; sì, un ragazzo ancora piccolo, quindi incapace di combattere, men che meno pronto a prendere delle decisioni importanti, e che non può nemmeno essere preso in considerazione dagli adulti, tanto meno da un re speciale qual era Saul. Ecco Davide, con la sua storia che, umanamente parlando, ha dell’incredibile, per non dire dell’assurdo. Ci chiediamo: l’episodio di Davide è vero? È proprio avvenuto così? Rispondo: A noi non interessa sapere la storicità precisa di quanto narrato. Ancora una volta affermiamo che a noi interessa soltanto l’insegnamento che la Parola di Dio ci vuol dare mediante questo episodio. Possiamo dire che anche qui, come in altri casi, l’autore sacro certamente esagera nel racconto di alcuni elementi per far capire a tutti, senza discorsi astratti, che Dio agisce liberamente per i Suoi progetti e non si sente affatto costretto dai nostri criteri, tanto meno dai nostri desideri È innegabile che l’episodio è chiaro per tutti e tutti lo possono capire senza fare 40


delle elucubrazioni mentali, grazie anche alle esagerazioni del racconto. Ed è solare che Dio decide come vuole Lui, e che si comporta proprio al di fuori del nostro modo di agire. Chi è Davide? È figlio di “Jesse, il Betlemmita” (nota: Jesse è di Betlemme; non è un puro caso!). È il suo ottavo figlio! (Sì, con il punto esclamativo) Dire: “ottavo figlio” significa: fuori dal numero sacro della perfezione, che era il numero 7. Quindi, dire “ottavo” voleva dire che non aveva importanza, non aveva valore agli occhi di Dio! Eppure Dio sceglie proprio lui per farlo re al posto di Saul. Anche in questo caso si vede che Dio non segue i criteri di noi uomini. Egli è libero, completamente libero di agire come vuole Lui; però, sempre per il bene del popolo di Israele. Dio invia Samuele nella casa di Jesse per ungere come re uno dei suoi figli. Dio gli dice che sarà Lui a indicargli quale figlio di Jesse ha scelto come re. Ovviamente Samuele incomincia a prendere in considerazione il figlio maggiore, perché secondo il loro modo di pensare era il più importante tra tutti i figli. Ma Dio continua a dire a Samuele: «No, non è questo che io ho scelto». Allora Jesse fa passare davanti a Samuele i primi sette figli, ma Jahvé continua a dire di no. La conclusione del racconto ha quasi del ridicolo: Samuele non sa più che cosa fare; chiede a Jesse: «Sono qui tutti i tuoi figli?». «Rimane ancora il più piccolo» – dice Jesse –, «che ora sta a pascolare il gregge»; quasi non contasse proprio nulla! Stando al racconto sembra che Jesse si dimentichi di avere un altro figlio! Letto invece con gli occhi di Dio si ricava un insegnamento inequivocabile: Dio è libero, sovranamente libero! Dio… va per la sua strada, non è per nulla sottomesso ai criteri dell’uomo. Talvolta pare addirittura che si comporti in modo assurdo e ingiusto – secondo noi uomini –; eppure ha sempre ragione Lui; e ogni sua scelta è per il bene “vero” dell’uomo, se però l’uomo accetta la scelta di Dio e si comporta di conseguenza. A questo punto credo che sia opportuno rileggere attentamente la lettura proposta dalla liturgia, e godere nel cuore per il modo sconvolgente di comportarsi di Dio. Così termina la lettura: «Samuele disse a Jesse: “Manda a prenderlo, perché non ci metteremo a tavola 41


prima che egli sia venuto qui”. Lo mandò a chiamare e lo fece venire. Era fulvo, con begli occhi e bello di aspetto. Disse il Signore: “Alzati e ungilo: è lui!”. Samuele prese il corno dell’olio e lo unse in mezzo ai suoi fratelli, e lo spirito del Signore irruppe su Davide da quel giorno in poi». Penso che questo sia il racconto, molto chiaro, che più di altri suscita non poche domande profonde e talvolta inquietanti sulla presenza attiva di Dio nella vita di ogni uomo e sulla grande storia. Quanti “Perché?” balzano prepotenti nel nostro cuore. Talvolta siamo tentati di pretendere una chiara e plausibile risposta da Dio, ovviamente una risposta secondo i nostri modi di pensare, una risposta “razionale”, cioè a misura d’uomo. Che cosa è il bene e dove sta la felicità per noi?; che cosa è la giustizia di Dio?; perché Dio permette certe enormi atrocità?; perché non interviene a punire, o almeno a fermare la mano omicida, o a raddrizzare il modo di pensare degli uomini?; ecc. ecc. ecc. Così, senza ammetterlo, noi ci riteniamo i facitori del bene, coloro che, senza incertezze, possiedono la verità (e in questo caso la verità è una sola: la nostra! Che strano: negli altri casi parliamo solo di “opinioni”, quindi modi di vedere e di giudicare… personali!) Per non dilungarmi e per non fare un discorso moraleggiante, mi fermo qui. EPISTOLA (II Tim 2,8-13) S. Paolo, nella lettera a Timoteo, pare che riprenda la lettura di Samuele e la applichi a Gesù, il Messia. Dice: Gesù è discendente di Davide, è “Figlio di Davide”. Quindi Gesù è davvero uno di noi, del nostro popolo, uscito dalle nostre famiglie; non è un Grande venuto dal di fuori del popolo di Israele. I profeti affermavano proprio questo: il Messia, il nostro Salvatore uscirà dalle nostre case, uscirà “dalla radice di Jesse”. È quindi un vero uomo come noi! Pertanto – insiste S. Paolo – accogliamo Gesù come il vero Messia promesso dai Profeti e atteso da secoli. Il re Davide, in fondo, è l’anticipatore del vero re e Messia di tutti i tempi, Gesù il Cristo. Per questo, S. Paolo scrive: «Se moriamo con lui, con lui anche vivremo; se perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà; se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso». Anche a noi, oggi, Gesù chiede: «Che cosa pensate di Cristo? 42


Di chi è figlio?». Cerchiamo di non rispondere come i farisei interpellati direttamente da Gesù: “…di Davide”. La fede non può fermarsi a Gesù… uomo: il nocciolo della nostra fede è: Gesù è Figlio di Dio! È Dio vero, come il Padre e lo Spirito Santo. Prima di far risorgere Lazzaro, Gesù afferma: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me non morrà in eterno». E subito chiede a Marta: «Credi tu questo?» Ma Marta va più in profondità, va all’origine di tale verità: «Sì, Signore, credo che tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente!» (Gv 11, 27). Ancora, quando Gesù chiede: «La gente chi dice che io sia?», Pietro a nome di tutti esplode: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16). Ballestrero esulta di gioia pensando che Gesù è vero Dio, realmente Dio: «Sappiamo che Gesù è il Figlio del Padre, è il Figlio di Dio, ma lo sappiamo perché il Padre ce lo ha rivelato e allora è un saperlo che non è la conclusione dei nostri illustri sillogismi, non è la scoperta conquistatrice del nostro acume, ma è un saperlo che è un dono di Dio. Sapere che Gesù è il Figlio di Dio si fa presto a dirlo. Ed è un vero peccato che abbiamo disimparato a tremare quando diciamo di saperlo: è un vero peccato che abbiamo disimparato ad essere sopraffatti dallo stupore, dalla meraviglia quando pensiamo che Gesù è Figlio di Dio. Dobbiamo invece cercare di mantenere vivi questi atteggiamenti del nostro sapere che Gesù è il Figlio del Padre, questo senso dell’adorazione e della meraviglia. Gesù, Figlio di Dio! Vediamo di pensarci sul serio. Gesù, Figlio di Dio! Come è possibile abituarci a sapere una cosa simile? Come è possibile rimanere con l’anima dormiente sapendo una cosa simile? In paradiso a sapere questa verità dedicheremo la vita e l’eternità, non ci annoierà proprio perché saremo impegnati a sapere che “Dio è Padre perché ha un Figlio, e questo Figlio si chiama Gesù”» (A. Ballestrero, Gesù il Salvatore, Piemme, p. 10). E il Vangelo (Matteo 22, 41-46) aggiunge: sì, il Messia è “Figlio di Davide”, quindi vero uomo; ma nello stesso tempo è, ed è sempre stato, vero Dio come il Padre. La fede deve arrivare fino a questo punto: il Cristo è il Salvatore vero e unico, perché è Dio!

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X DOMENICA

DOPO PENTECOSTE – Anno C Argomento Personaggio Letture

LA SAPIENZA SALOMONE I Re 3, 5-15 I Corinzi 3, 18-23 Luca 18, 24-30

A detta del nuovo re, Salomone, Davide fu un grande re, giusto, imparziale e timorato di Dio: Salomone dice a Dio, che gli è apparso in sogno: «Tu hai trattato il tuo servo Davide, mio padre, con grande amore, perché egli aveva camminato davanti a Te con giustizia e con cuore retto verso di Te». Da una tale descrizione Davide sembra quasi un santo, tanto che qualcuno lo chiama “il santo re Davide”. Eppure ha commesso anche lui tanti peccati, e anche grossi; pensiamo al peccato di adulterio con Betsabea, moglie di Uria e madre di Salomone (II Samuele 11). Quanti peccati commise poi il re Davide derivati dal peccato con Betsabea! Tutto questo è vero; però Davide si rese conto dei suoi peccati, li riconobbe e chiese perdono a Dio. Ciò è proprio quello che vale per essere considerati santi agli occhi di Dio. Dopo Davide diventa re il figlio Salomone, il re “sapiente”. Quindi un re che non fonda il suo potere sulla forza e sulla violenza. Salomone si rende conto che ciò che serve è la sapienza del cuore; diremmo noi: ciò che conta sono le qualità umane, addirittura: per governare bene, contano le virtù morali e civiche. Splendida è la preghiera di Salomone a Jhavé: «Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male». Iddio accettò volentieri una tale richiesta e benedisse Salomone promettendogli non solo di realizzare pienamente il suo desiderio, ma promise che gli avrebbe concesso molto di più: «Piacque agli occhi del Signore che Salomone avesse domandato questa cosa. Dio gli disse: “Poiché hai domandato questa cosa e non hai domandato per te molti giorni, né hai domandato per te ricchezza, né hai domandato la vita dei 44


tuoi nemici, ma hai domandato per te il discernimento nel giudicare, ecco, faccio secondo le tue parole. Ti concedo un cuore saggio e intelligente: uno come te non ci fu prima di te né sorgerà dopo di te. Ti concedo anche quanto non hai domandato, cioè ricchezza e gloria, come a nessun altro fra i re, per tutta la tua vita”». In fondo, Salomone ci insegna che non sono le “cose” che ci rendono felici, ma è il cuore puro, retto. Che insegnamento per i politici, i governanti e gli uomini “importanti” di oggi! Ma anche noi uomini “comuni” dovremmo ispirarci spesso alla preghiera di Salomone! Così ci ammonisce S. Paolo nell’epistola: «Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto per diventare sapiente, perché la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio. Sta scritto infatti: Egli fa cadere i sapienti per mezzo della loro astuzia». Il brano del vangelo è addirittura esagerato: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio. È più facile infatti per un cammello passare per la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno di Dio!». Sembra un’affermazione assurda; eppure è il pensiero di Dio. È parola di Dio, sempre valida, anche oggi! PER NOI La lettura di oggi è presa dal I libro dei Re e ci presenta una figura eccellente di un uomo sapiente, il re Salomone, ritenuto “il sapiente” dell’Antico Testamento. È augurabile, adesso, che ciascuno legga per diletto spirituale tutto il libro della sapienza, uno dei libri più umani e incoraggianti dell’Antico Testamento. Qui riporto solo un brano e una preghiera di questo “libretto” sacro: «In lei (Sapienza) c’è uno spirito intelligente, santo, unico, molteplice, sottile, agile, penetrante, senza macchia, schietto, inoffensivo, amante del bene, pronto, libero, benefico, amico dell’uomo, stabile, sicuro, tranquillo, che può tutto e tutto controlla, che penetra attraverso tutti gli spiriti intelligenti, puri, anche i più sottili. La sapienza è più veloce di qualsiasi movimento, per la sua purezza si diffonde e penetra in ogni cosa. È effluvio della potenza di Dio, emanazione genuina della gloria dell’Onnipotente; per questo nulla di contaminato penetra in essa. È riflesso della luce perenne, uno specchio senza macchia dell’attività di Dio e immagine della sua bontà. Sebbene unica, può tutto; pur rimanendo in se stessa, tutto rinnova e attraverso i secoli, passando nelle anime sante, prepara 45


amici di Dio e profeti. Dio infatti non ama se non chi vive con la sapienza. Ella in realtà è più radiosa del sole e supera ogni costellazione, paragonata alla luce, risulta più luminosa; a questa, infatti, succede la notte, ma la malvagità non prevale sulla sapienza» (Sapienza 7, 22-30). La preghiera: «Dio dei Padri e Signore della misericordia, che tutto hai creato con la tua parola, e con la tua sapienza hai formato l’uomo perché dominasse sulle creature che tu hai fatto, e governasse il mondo con santità e giustizia ed esercitasse il giudizio con animo retto, dammi la sapienza, che siede accanto a te in trono, e non mi escludere dal numero dei tuoi figli, perché io sono tuo schiavo e figlio della tua schiava, uomo debole e dalla vita breve, incapace di comprendere la giustizia e le leggi. Se qualcuno fra gli uomini fosse perfetto, privo della sapienza che viene da te, sarebbe stimato un nulla» (Sapienza 9, 1-6).

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XI DOMENICA DOPO PENTECOSTE – Anno C

Argomento Personaggio Letture

LA VIGNA DI NABOT NABOT Genesi I Re 21, 1-19 Romani 12, 9-18 Luca 16, 19-31

L’insegnamento delle letture di oggi è fondamentale, così fondamentale che noi spesso lo consideriamo ovvio, quindi lo diamo per scontato; invece, guardando la mentalità di oggi, non lo è affatto. La Parola di Dio di questa domenica ci dice che il comportamento dell’uomo, quando agisce “da uomo”, non è mai indifferente, non è mai a-morale, cioè non è mai staccata da un valore morale positivo o negativo: è sempre un’azione buona o cattiva. Questo vale in ogni tempo e in ogni cultura; penso quindi ai rapporti tra la scienza o la tecnica e l’etica; penso ai rapporti tra la politica e l’etica; tra l’economia e l’etica; anche ai rapporti dell’arte con l’etica. Anche lo sport non è staccato dalla morale, e perfino il modo di trattare la natura ha un aspetto morale: lo afferma in lungo e in largo papa Francesco nell’enciclica Laudato si…. Sì, anche l’arte nelle sue tante espressioni soggiace al problema morale: il bello è per il bene! Sì, ogni azione dell’uomo è “umana”, quando e perché è un’azione morale, cioè tende al bene vero dell’uomo, alla sua realizzazione di creatura a “immagine e somiglianza di Dio”. Per tale motivo è proprio il nostro agire “da uomo” (azioni, scelte, finalità…) che determinano il nostro destino futuro, il nostro domani personale e anche quello finale. Dio stesso non è indifferente al nostro comportamento da uomini! Qui sta il valore “religioso” del mio vivere: agisco così e non cosà, affinché questo mio agire mi conduca a Dio. Ecco l’insegnamento di oggi. La lettura dell’Antico Testamento (I Re 21, 1-19) ci presenta due personaggi: Acab, re di Samaria, e Nabot. Il primo è un re, 47


segno del potere, di uno a cui tutto è permesso proprio perché è re; Nabot è un uomo “comune”, ma è simbolo dei valori umani, uno che rispetta i valori tradizionali e religiosi. Il re Acab gli chiede di dargli la sua vigna perché gli fa comodo quel terreno vicino al suo palazzo. Ma Nabot non glielo cede, nemmeno dietro un congruo pagamento, perché quel terreno apparteneva ai suoi antenati, quindi va conservato per rispetto ai propri avi. Inoltre vede quella vigna come un valore religioso, lo vede com un dono del Signore. Interviene Gezabele, moglie del re Acab, la quale, con un inganno e coinvolgendo i notabili della città e due testimoni falsi, fa uccidere Nabot. Consegna quindi la vigna ad Acab e tutto sembra finito. Apparentemente tutto è a posto, ma Dio non può accettare né l’inganno, né l’uccisione di un giusto. Appena Acab prende possesso della vigna, Dio lo castiga; invia Elia il Tisbita a dirgli: «Hai assassinato e ora usurpi. Gli dirai anche: Così dice il Signore: Nel luogo ove lambirono il sangue di Nabot, i cani lambiranno anche il tuo sangue». Con il susseguirsi delle domeniche che stiamo esaminando, la Parola di Dio chiama sempre più in causa il comportamento, la risposta dell’uomo, specialmente verso il prossimo. Certamente Dio è sempre attento alle necessità del popolo d’Israele e continua a intervenire storicamente in suo favore, nonostante il popolo continui a commettere peccati, quindi a rompere l’alleanza voluta da Jahvé. Però Dio chiede un comportamento onesto, giusto, non egoistico, ma costantemente aperto ai fratelli e in ogni caso rispettoso degli altri. In caso contrario è inevitabile un castigo: lo insegna chiaramente la fine del re Acab. Una osservazione: la parola “castigo” a noi tutti dà molto fastidio e la vorremmo addirittura eliminare dal vocabolario divino! Non vogliamo accettare che Dio possa castigare. Eppure c’è anche il castigo nella logica dell’amore di Dio! Strano, ma vero! Addirittura, il brano del vangelo odierno (è noto a tutti l’episodio di Lazzaro e del ricco “epulone’) insegna a chiare lettere che c’è un giudizio, una situazione finale di felicità o di castigo, per sempre, dopo la nostra morte (Paradiso o Inferno). E aggiunge che ciascuno determina la propria finale con le scelte semplici di ogni giorno, mediante la vita… “feriale”. Il vangelo di oggi (Lc 16, 19-31) ci suggerisce qualche altro insegnamento: nel mondo ci saranno sempre i ricchi ricchi e i pove48


ri poveri: è inevitabile, è una conseguenza dell’egoismo presente in ogni uomo nell’umanità intera: fa parte della natura umana. La condanna del ricco alla pena eterna non vuol essere una condanna dei beni in sé, ma dell’attaccamento del cuore ai beni posseduti o no, come se la nostra felicità e realizzazione consistessero nel possesso e nell’uso dei beni materiali. Ancora una volta il vangelo chiede di non chiudersi in uno sterile egoismo. E di sollevare lo sguardo verso Dio, vivendo non in modo esaustivo, autosufficiente la nostra vita concreta. L’uomo si realizza nella misura in cui vive IN DIO!, anzi, più precisamente IN CRISTO, perché Dio è in rapporto con l’uomo proprio “in Cristo”. L’insegnamento che più ci inquieta è la certezza di un giudizio dopo la nostra morte, e la situazione finale di sofferenza: oggi, interpretando a nostro comodo la misericordia di Dio, facciamo fatica ad accettare una tale verità! È curiosa, quasi ridicola la richiesta del ricco, il quale dall’Inferno chiede di mandare Lazzaro ad avvertire i suoi fratelli perché si convertano e «perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro…”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”». Non dobbiamo aspettarci interventi “strani” da parte della Provvidenza per rimetterci sulla strada giusta: è necessario soltanto vivere la Parola di Dio e gli insegnamenti della Chiesa. Ma quanto è faticoso vivere così! PER NOI Non è il caso di fare l’elogio della povertà: il vangelo chiede di amare i poveri, ma non fa mai l’elogio della povertà in sé. È invece una esigenza autenticamente cristiana quella di vivere la libertà: innanzi tutto dalle “cose”, dalle ricchezze e poi dai beni “morali” (es: il potere, la gloria, il successo…) che ci legano, ci rendono ciechi e non ci permettono di volare alto! Libertà anche dall’eccessivo attaccamento a se stessi. Canta il salmo 48, 17-21: «Non temere se un uomo arricchisce, se aumenta la gloria della sua casa./ Quando muore, infatti, con sé non porta nulla né scende con lui la sua gloria/ Anche se da vivo benediceva se stesso: “Si congratuleranno, perché ti è andata bene”,/ andrà con la generazione dei suoi pa49


dri, che non vedranno mai più la luce./ nella prosperità l’uomo non comprende, è simile alle bestie che muoiono». E il monaco T. Merton ci suggerisce: «Mi chiedo se vi siano ora venti uomini al mondo che vedano le cose quali esse sono in realtà. Ciò significherebbe che ci sono venti uomini liberi, non dominati e neppure influenzati dall’attaccamento delle cose create, a loro stessi o a uno qualsiasi dei doni di Dio, o anche alla più alta, alla più soprannaturalmente pura delle Sue grazie. Non credo vi siano oggi al mondo venti uomini simili. Ma uno o due ce ne devono essere. Sono essi che tengono insieme ogni cosa ed impediscono all’universo di sfasciarsi. Tutto ciò che tu ami per se stesso, al di fuori di Dio, accieca il tuo intelletto, mina il tuo giudizio sui valori morali e vizia la tua scelta, tanto che tu non puoi distinguere chiaramente il bene dal male e non puoi conoscere in verità il volere di Dio» (T. Merton, Semi di contemplazione, Ed. Figlie della Chiesa, p. 80).

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XII DOMENICA DOPO PENTECOSTE – Anno C

Argomento Personaggio Letture

LA DISTRUZIONE DI GERUSALEMME NABUCODONOSOR II Re 25, 1-17 Romani 2, 1-10 Matteo 23, 37-24, 2

La domenica precedente ci ha presentato la prepotenza e la usurpazione del re Acab, fino all’omicidio di Nabot, grazie alla malvagità della moglie Gezabele. Quindi il castigo come conseguenza del peccato. Oggi leggiamo una delle pagine più dolorose della storia d’Israele: la presa e la distruzione di Gerusalemme per mano dei Babilonesi (nel 587 a.C.). Ma quello che più colpisce e addolora il popolo è la distruzione del Tempio che fu costruito dal re Salomone circa quattro secoli prima. In modo speciale addolora gli ebrei la rapina e la distruzione degli arredi sacri. Per il popolo la vita civile e l’aspetto religioso, ossia il rapporto con Jhavé (= l’Alleanza) era un tutt’uno, la stessa cosa; anzi, la vita sociale dipendeva dalla religione. Per tale motivo era ritenuto un fatto ancora più grave della distruzione del Tempio lo scempio compiuto dai Babilonesi nei confronti degli oggetti per il culto contenuti nel Tempio. Forse questi nostri “fratelli maggiori” esageravano; ma noi, oggi, quale conto facciamo dei vari aspetti della vita religiosa? dei nostri “doveri” verso Dio? Ci rendiamo conto che la nostra fede richiede scelte e gesti concreti? Oppure io vivo una fede a modo mio? Tutto questo male nei confronti del Tempio fu compiuto ancora una volta come conseguenza del peccato del popolo, specialmente la infedeltà all’Alleanza con Javhé. Mi chiedo: noi accettiamo che certe malvagità di tanti tipi, compiute oggi con particolare efferatezza e anche con sfacciata pubblicità, sono un vero castigo che reciprocamente ci infliggiamo, e sono un castigo dei peccati che noi uomini di oggi continuiamo a commettere? Siamo 51


in grado di riconoscere una reale dipendenza tra peccato e castigo? Certo è necessario riconoscere che il peccato, ogni peccato, non è un semplice errore, ma sempre ha un valore “religioso” (ammoniva San Paolo VI), ossia è sempre un atto contro Dio. Per una riflessione personale, riassumiamo i principali insegnamenti che ci offre il brano del libro dei Re: – Dio non ha legato la sua presenza nel popolo di Israele in modo perpetuo e incondizionato a un luogo materiale, il Tempio. – Dio esigeva fedeltà all’Alleanza, che non c’è stata. Per questo si abbatterono sul popolo eletto vari castighi: guerre, schiavitù, soprusi e violenze varie, ecc. Ma tutti sono compiuti dagli uomini, da popoli nemici di Israele. Non è mai Javhé che li compie, anche se i racconti biblici attribuiscono a Lui l’intervento diretto nei castighi. – Da una lettura religiosa dei castighi si sviluppò lentamente la convinzione che la salvezza e la gloria di Israele sarebbero venute non dal Tempio, ma da un inviato da Javhé stesso, il Messia profetizzato dai Profeti. Quindi occorreva una più profonda apertura all’insegnamento dei Profeti. Ecco perché, dopo la Legge, i vari Profeti erano la guida sicura del popolo. Tutti questi insegnamenti diventano preghiera mediante il salmo 77 recitato nella Messa: «Ciò che abbiamo udito e conosciuto e i nostri padri ci hanno raccontato non lo terremo nascosto ai nostri figli, raccontando alla generazione futura le azioni gloriose e potenti del Signore./ Scacciò davanti a loro le genti e sulla loro eredità gettò la sorte, facendo abitare nelle loro tende le tribù d’Israele. Ma essi lo tentarono, si ribellarono a Dio, l’Altissimo, e non osservarono i suoi insegnamenti./ Dio udì e s’infiammò, e respinse duramente Israele. Abbandonò la dimora di Silo, la tenda che abitava tra gli uomini./ Diede il suo popolo in preda alla spada e s’infiammò contro la sua eredità…». Il ritornello che abbiamo ripetuto più volte esprime l’invito di Dio rivolto al popolo d’Israele e, oggi, a noi tutti: «Popolo mio, porgi l’orecchio al mio insegnamento». A noi, uomini del terzo millennio, che cosa suggerisce il fatto narrato nella prima lettura di oggi? Oso elencare qualche invito: – Chiediamoci qualche volta i motivi profondi dei tanti mali 52


“storici” di oggi. E come hanno reagito gli ebrei di fronte alla distruzione del Tempio, anche noi apriamoci di più con umiltà e fede a Dio, senza pretendere che Dio in persona intervenga a porre fine o a liberarci dai tanti mali dell’umanità di oggi. – Non siamo noi a “costruirci” la felicità con le nostre mani, neppure con le opere “pie”. È Dio la nostra vera realizzazione e felicità. Dobbiamo quindi sviluppare una visione trascendente della nostra vita, quella semplice di tutti i giorni. – Accettare di più la Parola di Dio (i profeti di ieri, la Chiesa di oggi) come metro per scoprire la presenza operante di Dio nella nostra storia; e che Dio vuole sempre solo il bene per noi, anche quando umanamente sembra il contrario. A proposito del nostro atteggiamento verso la Parola di Dio suggerisco 5 elementi, cinque “A”: ASCOLTARE, NON SOLO SENTIRE. L’ascoltare esige un coinvolgimento della nostra mente e del nostro cuore; entra nel profondo della nostra persona; ci coinvolge e ci costringe sempre a prendere una posizione: o sì, o no. APPROFONDIRE. La Parola di Dio va studiata con impegno; va conosciuta il meglio possibile, sia l’Antico Testamento, sia il Nuovo Testamento. Non può essere una conoscenza immediata o istintiva o appoggiata al solo sentimento. APPLICARE. Ogni insegnamento della Sacra Scrittura va vista nella vita quotidiana di ciascuno di noi. Anzi, dobbiamo imparare a leggere gli avvenimenti nostri personali e sociali sugli insegnamenti della Bibbia. ATTUARE. È un’esigenza dei tre punti precedenti: la Parola va vissuta, non solo conosciuta. ANNUNCIARE. È una necessità: se la Parola di Dio è guida della vita, la devo far conoscere il più possibile; è l’invito di papa Francesco: «Andate alle periferie!», ossia: annunciate, fate conoscere gli insegnamenti divini. EPISTOLA (Rom 2, 1-10) Siamo tutti peccatori; per questo nessuno deve puntare il dito contro un fratello e accusarlo. Il giudizio spetta solo a Dio, che ama sempre ogni uomo benché peccatore. La scoperta di un Dio 53


sempre misericordioso ci spinge alla conversione; lo afferma l’epistola: «La bontà di Dio ti spinge alla conversione»; senza però eliminare la valutazione finale dopo la morte: «Il giusto giudizio di Dio renderà a ciascuno secondo le sue opere: la vita eterna a coloro che, perseverando nelle opere di bene, cercano gloria, onore, incorruttibilità; ira e sdegno contro coloro che, per ribellione disobbediscono alla verità e obbediscono all’ingiustizia». Nel VANGELO (Mt 23,37-24,2) Gesù ribadisce che non è il tempio fatto di mattoni che gli interessa, tanto che del Tempio non rimarrà pietra su pietra. È Lui il vero tempio: «Vi dico infatti che non mi vedrete più, fino a quando non direte: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore”». La scoperta di un Dio sempre misericordioso ci spinge alla conversione; lo afferma l’epistola (Rom 2,1-10): «La bontà di Dio ti spinge alla conversione»; senza però eliminare la valutazione finale dopo la morte: «Il giusto giudizio di Dio renderà a ciascuno secondo le sue opere: la vita eterna a coloro che, perseverando nelle opere di bene, cercano gloria, onore, incorruttibilità; ira e sdegno contro coloro che, per ribellione, disobbediscono alla verità e obbediscono all’ingiustizia».

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XIII DOMENICA DOPO PENTECOSTE – Anno C

Argomento Personaggio Letture

LA RICOSTRUZIONE DEL TEMPIO NEEMIA Neemia 1, 1-4; 2,1-8 Romani 15, 25-33 Matteo 21, 10-16

Dio è ostinatamente fedele all’alleanza con Israele: è il “suo” popolo! Domenica scorsa abbiamo ascoltato l’episodio della distruzione della Città Santa, Gerusalemme, con la conseguente dispersione degli ebrei; quasi abbiamo partecipato al dolore di tutto il popolo per lo scempio del Tempio, il luogo sacro più di ogni altro e il simbolo di Israele; considerato addirittura “lo spazio” di Javhé, dove Egli è sensibilmente presente tra gli uomini. Ancora una volta i Profeti hanno ribadito che tutto questo dolore era la conseguenza, il castigo per l’infedeltà del popolo all’alleanza con Javhé. Ma il castigo è stato positivo, perché il popolo ha finalmente capito, o almeno ha intravisto, il motivo “religioso” di tanto dolore e si è impegnato a ritornare a Dio, ad aprirsi di più all’insegnamento dei profeti. E Dio gli rinnova ancora l’amicizia. Oggi la Parola di Dio ci presenta la prova della fedeltà di Javhé: Gerusalemme risorgerà e il Tempio sarà ricostruito ancora più bello, con pietre e legni preziosi. Il re Artaserse concede a Neemia di riorganizzare il gruppo dei superstiti «che erano scampati alla deportazione» e gli dà il permesso di ricostruire la città e il Tempio: sarà un tempio “nuovo”, che durerà molto a lungo e sarà “diverso” (qualitativamente) dal precedente. Sì, sarà fatto ancora di mattoni, ma avrà un significato più spirituale, sarà una prefigurazione di “quanto Gesù operava”, sarà “casa di preghiera”. È significativo vedere che anche in questo caso c’è un intermediario tra il popolo e Dio: qui è il profeta Neemia. È innanzi tutto l’interprete del dolore di tutto il popolo per la distruzione di Ge55


rusalemme, del Tempio e della dispersione dei giudei superstiti: «Anani, uno dei miei fratelli, e alcuni altri uomini arrivarono dalla Giudea. Li interrogai riguardo ai Giudei, i superstiti che erano scampati alla deportazione, e riguardo a Gerusalemme. Essi mi dissero: “I superstiti che sono scampati alla deportazione sono là, nella provincia, in grande miseria e desolazione; le mura di Gerusalemme sono devastate e le sue porte consumate dal fuoco”. Udite queste parole, mi sedetti e piansi; feci lutto per parecchi giorni, digiunando e pregando davanti al Dio del cielo».’ Dopo aver invocato l’intervento di Dio («Ascolta, Signore, il grido della mia preghiera» recita il salmo responsoriale), si rivolge al re Artaserse e ottiene il permesso di andare a ricostruire il Tempio. Ripeto: le letture di oggi ci portano a sottolineare la “novità” del Tempio che verrà ricostruito e che sarà una chiara figura di Gesù, il tempio vivo di Dio. A questo punto diventa comprensibile il brano del Vangelo (Mt 21, 10-16): Il vero tempio che Dio vuole non è quello fatto di mattoni, costruito dalle nostre mani; non deve servire ai nostri interessi: «Gesù entrò nel tempio e scacciò tutti quelli che nel tempio vendevano e compravano; rovesciò i tavoli dei cambiamonete e le sedie dei venditori di colombe e disse loro: “Sta scritto: la mia casa sarà chiamata casa di preghiera. Voi invece ne fate un covo di ladri”». In fondo, l’insegnamento principale è che la giustizia, la salvezza, non viene dalla Legge, anche se deve essere rispettata; ma dipende dal cuore, ossia dal rapporto personale con Dio: è questione di preghiera, che non sia una semplice ripetizione di formule, ma una orazione cordiale, fatta con il cuore e la mente. A questo serve il tempio materiale. Come conseguenza, è anche il luogo della carità, ai bisognosi di ogni genere: «Gli si avvicinarono nel tempio ciechi e storpi, ed egli li guarì». Anche oggi Gesù, il tempio vivo del Padre, continua a guarire ciechi e storpi, ossia ricostruisce l’uomo nella sua dignità. È necessario essere piccoli di spirito, genuini nel cuore, e anche per essere in grado di cogliere l’azione di Dio per l’uomo. Proprio come «i fanciulli che acclamavano nel tempio: Osanna al Figlio di Davide… Dalla bocca di bambini e di lattanti hai tratto per te una lode». Non invece come i benpensanti che «mentre il Signore Gesù entrava in Gerusalemme, tutta la città fu presa da agitazione e diceva: Chi è costui?». La gente umile dà la risposta: «E la folla rispondeva: “Questi è il profeta Gesù, da Nazaret di Galilea”». 56


È augurabile che ai giorni nostri si facciano sentire di più i bambini e gli umili, le persone semplici e normali, perché loro sono più in grado di conoscere la verità e di seguire Gesù senza complicazioni. PER NOI La ricostruzione del Tempio di Gerusalemme mi invita a riflettere sul nuovo popolo di Dio, la Chiesa. A questo proposito riporto qualche pensiero di G. Biffi: La Chiesa è “Madre de’ santi” (per dirla con A. Manzoni): «I “santi”, per quanto possa sembrare una battuta di spirito, siamo noi. Più o meno: Tanti lo furono in maniera così esemplare, che quasi noi peccatori non ci si ritrova nella stessa famiglia. Eppure in qualche modo “santi” lo siamo tutti. Programmaticamente santi: chi ha tolto la santità dai suoi piani di vita, è un uomo in un senso un po’ superficiale; almeno il tentativo merita di essere quotidianamente ripetuto. Inizialmente santi; per quanto sviata sia la nostra condotta, ci sono nel nostro essere delle incancellabili venature di santità: il segno battesimale, indelebile, dell’appartenenza a Cristo; la fede, spesso fumosa e baluginante eppure vera, perché a questo mondo, se è faticoso credere, è anche più arduo e faticoso negare… Noi siamo santi e la Chiesa ci è madre: l’assemblea dei credenti ci preesiste e ci ha comunicato l’esistenza aggregandoci a sé. Noi siamo arrivati dopo: il cristianesimo non comincia con noi… Io sono entrato a far parte di un organismo precostituito, che, accettandomi, mi ha, in quanto cristiano, portato alla luce… Naturalmente è “madre de’ santi” in quanto è santa e riscattata. Se non mi persuado dell’intrinseca santità della Chiesa, non potrò mai capirne la maternità… E se non credo alla maternità della Chiesa, non è più il mistero della Chiesa di Cristo, vergine e feconda, umana e trascendente, santa e santificante, ma una sua arbitraria deformazione, a essere oggetto di questi miei pensieri» (G. Biffi, Meditazioni sulla vita ecclesiale, Editrice Ancora, pp. 133-135).

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XIV DOMENICA DOPO PENTECOSTE – Anno C

Argomento Personaggio Letture

IL TEMPO “NUOVO” TUTTO IL POPOLO Esdra 2, 70; 3, 10-13 – gioia per la ricostruzione del Tempio – Efesini 4, 17-24 Matteo 5, 33-48

La gioia per la ricostruzione del Tempio è davvero grande: Javhé è ancora presente nel popolo, è ancora e sempre suo amico e non si è dimenticato di Israele. Pertanto il “nuovo” tempio ha un valore “religioso”, non solo materiale e neppure solo sociale. Dio è con noi – pensa il popolo –; questo fatto ci invita, anzi ci costringe a riprendere con rinnovato impegno ad essere ubbidienti alla Legge e ad ascoltare più interiormente i profeti. Sottolineo il valore religioso con cui tutto il popolo festeggia la ricostruzione del Tempio, che è visto come lo spazio di Dio nel popolo, il “luogo” in cui Dio abita in Israele. Lo esprime bene la premura e la solennità con cui tutto il popolo partecipa alla ricostruzione: ancora prima di iniziare i lavori, il popolo intero offre già sacrifici a Dio, e vi partecipano anche i sacerdoti e i leviti rivestiti con gli abiti della solennità: «Cominciarono a offrire olocausti al Signore dal primo giorno del mese settimo, benché del tempio del Signore non fossero poste le fondamenta»; «Vi assistevano i sacerdoti con i loro paramenti e con le trombe, e i leviti, figli di Asaf, con i cimbali, per lodare il Signore secondo le istruzioni di Davide, re d’Israele. Essi cantavano lodando e rendendo grazie al Signore, ripetendo: Perché è buono, perché il suo amore è per sempre verso Israele». Questo per lodare il Signore! Il salmo responsoriale (salmo 101) prega così: «Sia lode in Sion al nome del Signore»; «Le genti temeranno il nome del Signore e tutti i re della terra la tua gloria, quando il Signore avrà ricostruito Sion e sarà apparso in tutto il suo splendore./ Questo si scriva per la generazione futura e un popolo, da lui creato, darà lode al Signore: “Il Signore si è affacciato dall’alto del suo santuario, dal cielo ha guardato la terra”».’ 58


Dunque, la ricostruzione materiale del Tempio è motivo di gioia e incitamento a riprendere con decisione la vita religiosa. Ma questo – afferma S. Paolo nell’epistola (Ef 4, 17-24) – è troppo poco, è solo un simbolo: siamo noi, anche noi del terzio millennio, invitati a diventare uomini nuovi… in Cristo! Quindi a lasciare le passioni ingannevoli. Come sempre, S. Paolo parla chiaro e con forza: «Si sono abbandonati alla dissolutezza e, insaziabili, commettono ogni sorta di impurità. Ma voi non così avete imparato a conoscere il Cristo, se davvero gli avete dato ascolto e se in lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, ad abbandonare, con la sua condotta di prima, l’uomo vecchio che si corrompe seguendo le passioni ingannevoli, a rinnovarvi nello spirito della vostra mente e a rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità». Ma come fare per diventare uomini nuovi? Risponde il Vangelo (Mt 5, 33-48): vivere la Parola di Dio! Per tre volte il brano del vangelo di oggi afferma: «Ma io vi dico…». Con questa correzione categorica Gesù non abolisce la Legge di Mosè, fondamento della religiosità e della moralità di Israele, ma la perfeziona e la rende positiva, essenziale, e la aggancia decisamente a Sé, alla sua persona e alla sua parola. Tutta la Legge si riduce a una sola parola: l’amore!. Ricorda che il brano del vangelo di oggi fa parte del “Discorso del monte”, che costituisce l’insegnamento fondamentale, anzi, fontale, di tutto il Vangelo. Sì, è semplicemente questione di amore: amare perfino i propri nemici e tendere alla perfezione perché Dio Padre è perfetto. Ci basta il terzo “Ma io…”; «Ma io vi dico: “Amate i vostri nemici…”». Che difficoltà! Eppure lo vuole Gesù! Tempio “nuovo”, popolo “nuovo”: quindi anch’io sono “uomo nuovo’! È proprio così: ciascun battezzato è davvero tempio “nuovo” di Dio. È vero che il battesimo mi rende “uomo nuovo”, oggettivamente, realmente: è un fatto innegabile ed è un dono di Dio. Ma io come posso vivere da… uomo nuovo? Chiama in causa la mia responsabilità: Dio ha fatto la sua parte; ora tocca a me agire di conseguenza. S. Tommaso esprimeva l’opera del battesimo con brevità, diceva: il battesimo è “aversio a creaturis et conversio ad Deum”. È tutto qui: per diventare “uomo nuovo” è sufficiente non aderire alla mentalità del mondo, ossia non lasciarsi “accalappiare” dall’interesse per le cose create, come fossero la causa 59


della mia felicità, e “convertirmi” a Dio. Forse è sufficiente riassumere il tutto con una brevissima formula: vivere IN CRISTO, il Vivente! RIFLESSIONE CONCLUSIVA Desidero concludere questa serie di riflessioni sulla Incarnazione di Dio che continua nella storia mediante il nuovo popolo che è la Chiesa riportando una pagina del Card. G. Biffi sulla presenza della Chiesa nel mondo odierno: «Che cosa riesce a fare di concludente la Chiesa in questo mondo? Riesce a portare la pace tra i popoli? No, non c’è mai riuscita. Quel poco di pace che l’umanità ha potuto godere è sempre stato frutto o di una potenza soverchiante o del riconosciuto equilibrio delle aggressività; più che pace, provvisoria incapacità di colpire. Riesce a portare la giustizia? No, non ci è mai riuscita. Piuttosto è stata essa stessa immobilizzata e coinvolta nell’ingiustizia di ogni tempo, trascinata e qualche volta trascinatrice, in un cammino senza riposo e senza molta logica evidente… Riesce a portare il benessere e la prosperità economica? Non si direbbe. Con le sue preoccupazioni di ordine spirituale e morale, è spesso di intralcio all’inseguimento di quella ottusa e disperata felicità che l’uomo tenta e ritenta di ricavare dalle cose… Il culto del risultato tangibile; il postulato della realtà mondana intesa come unica e totale… rendono particolarmente insopportabile la percezione della inefficienza ecclesiale, al punto che a molti una Chiesa che non incida sulla storia e non contribuisca in modo determinante al sorgere di nuove e migliori forme di socialità non appare credibile… Va piuttosto ricordato con la massima energia e con la massima chiarezza che la Chiesa prosegue nei secoli la “sterilità” mondana di Cristo. Sotto il profilo sociale o politico, il passaggio del Figlio di Dio non ha lasciate tracce immediate ed è stato in fondo irrilevante. Non ci si è neppure accorti, esteriormente, che fosse apparso finalmente qualcosa di nuovo sotto il sole, tanto che le fonti non cristiane dell’epoca non danno nessuna notizia di qualche importanza su Gesù di Nazaret. L’evento centrale della storia è passato praticamente inosservato. E il fatto non è casuale, anzi appare voluto e programmatico. Gesù rifugge nel modo più assoluto da ogni tentativo di introdurre modifiche nello stato esteriore del suo paese. Per quanto la cosa ci possa irritare, Gesù si dimostra perfettamente “integrato” nel sistema. Non è che lo approvi; non ritiene che sia questo il suo campo di incidenza. La sua carica rivo60


luzionaria si esercita a un altro livello. Il rivolgimento che egli annuncia e avvera è cosmico, non sociale; mira ad abbattere il dominio di Satana o di Ponzio Pilato. Il mutamento che egli propone è nei cuori, non nei contratti di lavoro. Il suo programma è la “metànoia”, non la lotta politica. Proprio qui si è collocato il malinteso più grosso tra Gesù e i suoi contemporanei e molto probabilmente la ragione umana della sua morte. Gesù ha deluso gli uomini, come deve continuare a deluderli la Chiesa. La missione del Figlio di Dio non conosce insidia più grande della richiesta di questa mondana fecondità: di tutti i travisamenti del Vangelo, questo è il più radicale. I discepoli di Gesù sono stati condotti con lunga fatica ad accettarne la “sterilità secolare”; è stata la loro prova più dura e solo dopo averla superata sono diventati “cristiani”. Oggi non è diverso: accettare lo scandalo della “sterilità” della Chiesa come parte dello sconcertante progetto divino è tra le prime e più difficili condizioni per un cristianesimo vero. Non è giusto blandire e affascinare gli uomini includendo nell’ambito della speranza cristiana una viva, emozionante, desiderata attesa terrestre… Il che non include affatto l’esaltazione del disimpegno. L’uomo non può pretendere di arrivare al Regno se non attraverso a una totale assunzione delle responsabilità umane a tutti i livelli. La vita terrestre va vissuta con pienezza in tutte le sue implicazioni, nell’assolvimento di tutti i compiti che il nostro momento storico concretamente ci assegna» (Giacomo Biffi, Meditazioni sulla vita ecclesiale, Editrice Ancora, pp. 137-140). Dunque: Amiamo la Chiesa di oggi; viviamo nella Chiesa! La quale, scrive S. Ambrogio, è “Ex maculatis, immaculata” (Composta di peccatori, ma innocente). Sì, amiamo e difendiamo la “nostra” Chiesa nonostante sia composta da noi peccatori. Scrive ancora S. Ambrogio: «Sembra sterile la Chiesa in questo mondo, perché non genera frutti mondani e presenti, ma futuri, cioè che non si vedono» (S. Ambrogio, De Abraham, II, 10). UBI ECCLESIA, IBI FIDES NON C’È FEDE SE NON NELLA CHIESA

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COLLANA GOCCE EUCARISTIA – Memoriale e segno (2012)

QUARESIMA AMBROSIANA – Vangeli delle domeniche (2012)

SEGUIMI – Spunti di vita cristiana (2013)

PASQUA – Memoriale della Redenzione (2014)

COME – Lo stile del cristiano (2014)

CHI SEI? – L’uomo nella Bibbia (2015)

FELICI SE… (2016)

La Sua e la mia VIA CRUCIS (2017)

PAROLE PARLANTI (2018)

PARTECIPIAMO! (2019)

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Pro manuscripto

Finito di stampare nel marzo 2019



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