Parole Luminose

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Luigi Schiatti

PAROLE LUMINOSE L’uomo nella Bibbia


INDICE

…luminose!

........................................................................... pag.

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ALLEANZA .............................................................................. pag.

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AMORE “NUOVO” ................................................................... pag. 11 ARDORE ................................................................................... pag. 15 ATTENZIONE ........................................................................ pag. 18 CERCARE.................................................................................. pag. 20 CONTEMPLAZIONE ............................................................ pag. 23 COSCIENZA ............................................................................ pag. 27 ECCOMI .................................................................................... pag. 30 EUCARISTIA: SACRIFICIO ....................................................... pag. 33 FELICISSIMO .......................................................................... pag. 36 FIDUCIA.................................................................................... pag. 39 FINALMENTE ......................................................................... pag. 41 GLORIA RECIPROCA ................................................................ pag. 44 DI PIÙ ........................................................................................ pag. 47 SGUARDO ................................................................................ pag. 50 2


SILENZIO ................................................................................. pag. 52 STUPORE .................................................................................. pag. 57 VERGINE E MADRE ................................................................ pag. 60 VIVERE ..................................................................................... pag. 65 VOCAZIONE ........................................................................... pag. 68

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…luminose! Qualcuno mi chiederà in base a quale motivazione ho scelto queste parole tra le innumerevoli possibili. Rispondo con sincerità: non mi ha mosso un motivo logico; si è trattato solo di spontaneità; sì, perché le ho sentite nel mio cuore in tempi diversi e in circostanze differenti, però sempre legate a situazioni concrete della mia vita. Tutto qui. Uno degli slogan, sempre brevi e significativi, recita: «Chi prega si salva, chi non prega si danna». Tutti siamo pronti ad ammetterne la validità; però nel concreto, con immediatezza (e con istintiva pigrizia) ci scusiamo con facilità e con buona coscienza: «Non ho tempo». Se poi si tratta di considerare la preghiera come ascolto della Parola di Dio, o come meditazione, ci riteniamo addirittura incapaci, o la riserviamo a compito specifico ed esclusivo delle monache. Invece S. Teresa di Gesù invitava tutti gli amici di Dio a dedicare cinque minuti ogni giorno alla meditazione. L’importanza – diceva – è la fedeltà quotidiana a questa pratica e ad ascoltare davvero lo Spirito Santo: Dio, quando parla, se la sbriga in un attimo, e si fa sentire con chiarezza ed efficacia! Se è vero che i tanti impegni quotidiani non ci permettono di dedicare ore alla meditazione, ecco un aiuto, modesto e utile: questo libretto contiene una serie di parole luminose. Sì, luminose perché partono sempre dalla Parola di Dio; trattano vari aspetti della vita “feriale”; sono brevi riflessioni e ci aiutano in pochi istanti ad afferrare un concetto, o meglio, una verità che ci possa accompagnare per tutta la giornata. Si richiede solo la fedeltà: non solo qualche volta alla settimana, ma ostinatamente ogni giorno, specialmente quando si dice senza riflettere: «Non ho tempo». È sufficiente conservare nel cuore una sola parola letta, o una breve frase. Però va richiamata più volte durante il giorno, anche in macchina. Il card. Martini affermava che la Parola di Dio va “ruminata”. Le riflessioni contenute in questo volumetto hanno tutte la Parola come fonte di acqua viva, perché è Lui, Gesù, che le suggerisce. 5


Le riflessioni seguono semplicemente l’ordine alfabetico, perché non sono lo sviluppo di un tema, ma sono solo un aiuto, modesti spunti per la meditazione. In tal modo ciascuno può leggere (e riflettervi) quell’argomento che più gli interessa in quel momento. La meditazione quotidiana dà sapore alla vita e la rende… una vita viva! Scrive il card. Ballestrero: «L’esigenza del dire di sì è il vertice della preghiera. Fino a quando ci limitiamo a ragionare, ad ascoltare il Signore senza comprometterci, la preghiera è soltanto preliminare, introduttiva. Se non arriva ad essere un Sì unificante, è un balbettare, non intride della conoscenza e dell’amore del Signore. Il momento contemplativo, unitivo della preghiera comincia quando il Sì è vero. Allora avviene un tale dilagare di Dio nella vita, che la creatura non vive più di sé ma di Lui» (A. Ballestrero, A immagine di Dio, p. 166). E Martini, da maestro della Parola, scrive: «È bello fare anche nella nostra preghiera questa esperienza d’intimità: sentirete il respiro del Signore, il rumore dei suoi passi nel nostro giardino. Per conoscere bene una persona non ci si può accontentare del sentito dire: dobbiamo dialogare con lei a quattr’occhi: può bastare anche uno scambio di saluti per cominciare a farci un’idea dell’altro. La cosa straordinaria del nostro dialogo con Lui è che, se all’inizio sembriamo noi incominciare a parlare a Dio, ad un certo punto ci troviamo a parlare con Lui, ed infine scopriamo che pregare è ascoltare Dio che parla con noi!» (C. M. Martini, C’è ancora qualcosa in cui credere?, Edizioni Piemme).

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ALLEANZA Tutti conosciamo l’importanza di questa parola, specialmente nel campo politico: esprime il patto di collaborazione tra due o più popoli (meglio: governi) per raggiungere fini positivi per tutti i partecipanti all’alleanza. I vari partecipanti devono fare la loro parte. Impegnarsi a dare il proprio contributo per raggiungere i fini previsti. L’alleanza tiene fino a quando fino a quando ognuno è fedele agli impegni presi di comune accordo. Questa parola acquista un significato fondamentale e “religioso” quando esprime il rapporto di amicizia, quasi di collaborazione tra il popolo d’Israele e Dio. È proprio l’alleanza che sta alla base e fonda un tale rapporto, che è fondamentale per Israele, e, attraverso Israele, con tutta l’umanità. Nell’Antico Testamento l’alleanza tra Dio e il popolo eletto comprende tutta la vita di Israele, ed è proprio questa speciale alleanza che lo rende un popolo “religioso”. Pertanto tutta la vita di questo popolo consiste nel realizzare e vivere consapevolmente l’alleanza con Dio. Difatti tutta la storia d’Israele è una storia “religiosa”, sia quella politica, sia quella civile, sia quella sociale e quella familiare; perfino quella personale: ogni atto normale ha un valore religioso – secondo la convinzione di questo popolo – ed è una attuazione o una rottura dell’alleanza con Dio. Come in ogni alleanza ognuno deve fare la sua parte. Dio – insegna tutto l’Antico Testamento – si impegna liberamente ad essere presente e operante nel popolo; addirittura è Dio che guida e agisce nel popolo e per il bene, la libertà, la felicità ecc. di Israele. Fino al punto di farsi uomo come noi e di morire per noi. «L’Alleanza – scrive C. M. Martini – ricorda l’instancabile amore con cui Dio, fin dalla creazione, ha trattato l’uomo come un amico, ha promesso una salvezza dopo il peccato, ha scelto i patriarchi, ha liberato Israele dall’Egitto, l’ha accompagnato nel cammino attraverso il deserto, l’ha introdotto nella terra promessa, segno dei misteriosi beni futuri, l’ha aperto alla speranza con la promessa del Messia e dello Spirito. Nella concezione biblica l’alleanza è dunque il principio che costituisce e configura tutta la vita del popolo. Accolta 7


mediante il culto e la legge, essa plasma, momento per momento, tutta l’esistenza. Promessa come “nuova” alleanza nella predicazione profetica, essa è vista come principio divino che risiede nella profondità del cuore e dal di dentro muove, orienta, influenza tutta la vita» (C. M. Martini, Dizionario spirituale, p. 11). Da parte sua Israele è tenuto ad osservare, scrupolosamente, la legge di Mosè. Dio è sempre, ovviamente, fedele al suo impegno di presenza attiva nel e per il popolo; gli israeliti, purtroppo, sono spesso infedeli. Per questo motivo, Dio arriva fino al punto di farsi uomo (Incarnazione) per la Redenzione dell’uomo peccatore. Si capisce allora che la morte del Cristo è il punto terminale e conclusivo dei rapporti tra Dio e Israele. Ed è proprio la Sua morte che rende “nuova” (ossia: diversa e definitiva) l’alleanza tra Dio e il “nuovo” popolo di Dio: la Chiesa. Una tale spiegazione molto sintetica ci rimanda all’Eucaristia, in particolare al momento centrale della Messa, quando il celebrante pronuncia le parole della consacrazione: «Questo è il calice del mio sangue per la nuova ed eterna ALLEANZA…». Riflettiamo qualche volta sul “peso” di queste… sante parole: con le parole pronunciate dal sacerdote in ogni Messa si rende attuale ed efficace l’alleanza tra Dio e la Chiesa! È una verità che lascia senza fiato! A questo punto della Messa dovremmo fermarci a riflettere, a contemplare e a rivivere il “fatto storico” dell’alleanza tra noi e Dio. Tutta la nostra vita acquista valore proprio da queste parole e le nostre opere “buone” sono una conseguenza: ricevono efficacia dall’Eucaristia. L’alleanza era l’elemento costituente, la ragion d’essere di Israele: tutto riceveva valore e significato dall’alleanza con Dio. Si capisce allora la descrizione precisa dell’atto di stipula dell’alleanza da parte di Mosè a nome e a vantaggio del popolo intero. Vale la pena di leggere con attenzione il capitolo 24 del libro dell’Esodo: «Mosè andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore e tutte le norme. Tutto il popolo rispose a una sola voce dicendo: “Tutti i comandamenti che il Signore ha dato noi li seguiremo!”. Mosè scrisse tutte le parole del Signore. Si alzò di buon mattino ed eresse un altare ai piedi del monte, con dodici stele per le dodici tribù di Israele. Incaricò alcuni giovani tra gli israeliti di offri8


re olocausti e di sacrificare giovenchi come sacrifici di comunione, per il Signore. Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini e ne versò l’altra metà sull’altare. Quindi prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: “Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto”. Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: “Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole”. (…) Il Signore disse a Mosè: “Sali verso di me sul monte e rimani lassù: io ti darò le tavole di pietra, la legge e i comandamenti che io ho scritto per istruirli”. (…) Mosè salì dunque sul monte e la nube coprì il monte. La gloria del Signore venne a dimorare sul monte Sinai e la nube lo coprì per sei giorni. Al settimo giorno il Signore chiamò Mosè dalla nube. La gloria del Signore appariva agli occhi degli israeliti come fuoco divorante sulla cima della montagna. Mosè entrò quindi in mezzo alla nube e salì sul monte. Mosè rimase sul monte quaranta giorni e quaranta notti» (Esodo 24, 3-18). Per chiarezza espongo i vari momenti del rito dell’alleanza: – Mosè chiede al popolo di accettare la proposta di Dio: «Tutto il popolo rispose a una sola voce dicendo: “Tutti i comandamenti che il Signore ha dato, noi li eseguiremo”». – Mosè inizia il rito costruendo un altare… “ai piedi del monte” (“monte” esprime la presenza e l’“alterità” di Dio), “con dodici stele per le dodici tribù” di Israele. Così è rappresentato tutto il popolo. Segue l’offerta a Dio prima di ogni altro gesto: «Incaricò alcuni giovani tra gli israeliti di offrire olocausti e di sacrificare giovenchi come sacrifici di comunione per il Signore». L’uccisione della vittima (qui i giovenchi) era indispensabile per gli antichi, perché il sangue esprimeva la vita. L’effusione reale del sangue indicava quindi l’offerta della propria vita, quindi di se stesso. – Mosè versa metà del sangue sull’altare, quindi lo offre a Dio, e l’altra metà la raccoglie in catini con cui aspergerà il popolo. Sarà il sangue dell’unica vittima che unirà Dio e il popolo; verrà stabilita una unione, un patto, anzi, un’alleanza tra Dio e il popolo. Prima, però, «prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo». Quindi il gesto compiuto da Mosè non è un semplice gesto privato, ma è ufficiale e pubblico: si rifà alla Legge. Pertanto tutti dissero: «Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto». Dal rapporto spirituale con Dio deriva quindi un comportamento, la vita concreta del popolo. 9


UN INVITO Partecipiamo responsabilmente e con il cuore alla Messa, soffermandoci qualche istante sulle parole della consacrazione: “… della nuova ed eterna ALLEANZA”. Così ogni Messa ci trasformerà. Inoltre, se vogliamo rendere vivo e attuale il rapporto con Dio, dobbiamo partire sempre dalla Messa, perché lì si attualizza ogni volta l’alleanza tra noi, il nuovo Israele, la Chiesa intera, e Dio. Tutto il resto viene dopo.

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AMORE “NUOVO” È argomento troppo vasto e vissuto da tutti: mi affido pertanto a una pagina del vangelo di S. Giovanni, che suggerisce qualche osservazione pertinente. «Il Signore Gesù disse ai discepoli: “Come il padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il sevo non sa quello che fa il suo padrone, ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri”» (Gv 15, 9-17). Pochi versetti, tanti spunti di riflessione. L’argomento centrale di questo brano giovanneo è l’AMORE. Parola magica! Ricordo che l’amore è l’opposto di: possesso, pretese, orgoglio, interesse egoistico, ecc. Siamo tutti esperti per esperienza personale che cosa significa e che valore ha l’amore nella vita, anche in quella semplice di ogni giorno. Mi guardo bene dal trattare un tale argomento: ognuno di voi è certamente in grado di farmi da maestro a questo riguardo. Il brano in esame si trova nella IV domenica di Pasqua (Anno C). Forse ci vuole ricordare che il primo frutto della Pasqua celebrata è l’amore tra fratelli. Però Gesù non si accontenta di una tale affermazione piuttosto scontata. Gesù ci chiede un amore speciale, non solo “umano”, cioè il frutto di una nostra comune esperienza. Gesù risorto ci propone un amore molto più alto, “diverso”, addirittura “trinitario”: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi» (v. 9). È questo l’amore che Gesù ci dona. Con ciò non vuol 11


negare il valore dell’amore puramente umano; ci invita però a domandarci: Quando noi parliamo di amore, ci innalziamo fino all’amore divino, oppure ci limitiamo a un amore terreno? RIMANETE L’amore che ci offre il Risorto è certamente un dono, dato gratuitamente all’uomo dal Signore Gesù, perché è una realtà divina, trinitaria. Però Gesù aggiunge che dipende da noi, dalla nostra libertà, accoglierlo e viverlo: non possiamo rimanere incerti di fronte a un tale dono! Il verbo “RImanete” afferma due aspetti e due esigenze. Il prefisso “RI-” esprime continuità e fedeltà. Diventa insomma uno stile di vita. Afferma inoltre che dipende dalla volontà nostra (il comando è rivolto a noi personalmente e ci chiama in causa). Non è questione di un puro sentimento, o affare di un momento; non è nemmeno frutto di istintività. Quel “RI-” suggerisce anche l’esigenza di profondità dell’amore, cioè un amore che tocca il mio cuore, la profondità della mia persona: non va d’accordo con la emotività e la superficialità. Un tale amore mi prende tutto e mi coinvolge inevitabilmente! Questa voce verbale (rimanete) è ripetuta tre volte in questo brano evangelico. Non è un verbo messo lì quasi per caso. Va ricordato che nel brano precedente, la parabola della Vite e dei tralci, questo verbo è ripetuto ben sette volte! L’insegnamento è solare! OSSERVARE I COMANDAMENTI Quasi per evitare qualsiasi fraintendimento, Gesù ci ricorda che l’amore non è fatto di parole o di desideri: occorrono azioni, gesti, che esprimano la realizzazione concreta dell’amore. È ovvio che gli innamorati non si accontentano di dire: «Ti amo, ti amo…»; manifestano il loro reciproco amore compiendo gesti concreti. Allo stesso modo Gesù ci invita caldamente a compiere atti che manifestino di fatto il nostro amore verso di Lui. E gli atti richiesti da Gesù sono i Comandamenti, cioè l’osservanza della sua Parola. In concreto, io dimostro che davvero amo Gesù mediante la pratica della vita cristiana. Quindi non è sufficiente dire: «Io credo in Dio»; lo devo dimostrare con la pratica cristiana, cominciando dalla pratica domenicale della Messa e dal vivere i Sacra12


menti. Senza mezzi termini Gesù dice: «Come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore». Non c’è proprio via di scampo: l’esempio di Gesù, Figlio del Padre, ci… «costringe liberamente» a vivere nella vita quotidiana la Parola di Dio, che è quella di Gesù. COME È un avverbio mozzafiato! Non è possibile nessuna interpretazione personale; si tratta solo di renderci conto del “come” Gesù ci ha amato e continua ad amarci. Sono parole pesanti come il piombo: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi». Mi chiedo qual è il contenuto di quel “come”. Dapprima vedo esprimere una causa: dobbiamo amarci perché Gesù ci ama per primo. Poi vedo alcuni contenuti dell’avverbio “come”. Eccoli: – Gesù ci ama di un amore redentivo: ci ama per salvarci, per liberarci dai peccati. – Gesù ci ama di un amore che previene: non aspetta che noi glielo chiediamo: è Gesù che si muove per primo, liberamente, verso di noi. – Gesù ci ama di un amore rispettoso: non ci obbliga mai a ubbidirgli. – Gesù ci ama di un amore personale: ama la mia persona, anima e corpo, spirito ed esigenze umane. E ama ogni uomo! Ama ciascuno a ‘misura d’uomo’, diremmo noi. – Gesù ci ama di un amore universale: non fa alcuna differenza né preferenze: Egli ama tutti, tutti gli uomini; e ci ama ad uno ad uno, non come gruppo. Ci bastino questi suggerimenti. GIOIA Il fine dell’amore di Gesù per noi uomini è la gioia nostra: «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena». L’insegnamento finale è chiaro, indiscutibile: «Fratelli – ci dice Gesù – se cercate la gioia, la felicità (chi non la cerca?), la piena realizzazione della vostra vita, dovete venire dietro a me, anzi, dovete vivere IN ME!». 13


Scrive il card. Martini: «Tutto il vangelo di Marco è meditato nell’ipotesi, nella presupposizione, meglio, nell’accettazione che Gesù vive e parla oggi ai suoi e li chiama, così come ha chiamato presso il lago, o presso il monte, e continua a spiegare la sua vera identità nella Chiesa. Si potrebbe, forse, valorizzare anche in questa maniera l’uso del presente storico in Marco. Sappiamo che egli usa volentieri il presente: Gesù va, passa, Gesù chiama, Gesù dice. Questo modo potrebbe essere stato scelto per presentare Gesù come Colui che oggi vive, chiama, annuncia, esige, invita, rimprovera. Gesù viene presentato come Colui che vive nella Chiesa e può quindi essere fonte di chiamata, Persona che può venire concretamente seguita, accettata, riconosciuta ed amata» (C. M. Martini, L’itinerario spirituale dei Dodici, Borla, p. 99). Un augurio finale: ciascuno possa dire ogni giorno, sinceramente: «Per me vivere è Cristo» (Fil 1, 21).

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ARDORE Come vivi? Ti muove ad agire la mente, l’interesse personale, l’istinto o quale altro motivo? Quando agisci, ci metti anche il cuore, o no? Ti soddisfa e ti dà gioia quello che stai facendo, oppure lavori con fatica, mosso solo dalla volontà, perché “devi” farlo? Sono soltanto inviti per aiutarti a renderti conto del come vivi. C’è modo e modo di vivere, di agire, di compiere un’azione o un lavoro qualsiasi. C’è un modo distaccato, che non ti coinvolge, anche interiormente. Se manca l’ardore in quello che fai, finisci per vivere una vita trascinata, faticosamente “vivacchiata”, quasi sopportata, o almeno annoiata. Che peso vivere così! L’ardore è una qualità interiore che risiede nel cuore, ma che si manifesta nelle opere e dà bellezza, vivacità e dona efficacia a tutto quello che fai. L’ardore ha un’importanza ancora maggiore quando si tratta di annunciare e testimoniare il Vangelo. Scrive il card. Martini: «(L’ardore) è una caratteristica importante del ministero del Vangelo, soprattutto oggi, in cui il “pluralismo” – quando diventa pluralismo filosofico, culturale, religioso – sembra in qualche modo togliere l’ardore di predicare il Vangelo della pace. Qualcuno vorrebbe addirittura sostituire e correggere l’imperativo di Matteo “Andate e predicate a tutte le genti” (Mt 28, 19) con l’esortazione “Andate e imparate da tutte le genti”, perché ci sono valori ovunque e, si dice, non conta tanto portare il messaggio quanto ascoltare umilmente ciò che gli altri hanno da dirci. E si rischia di perdere l’ansia di predicare il Vangelo della pace. (…) Conciliare l’ardore del Vangelo con la stima dei valori altrui è l’opera mirabile a cui è chiamata la Chiesa di oggi, se vuole conservare il suo slancio missionario» (C. M. Martini, L’itinerario spirituale dei Dodici, Borla, p. 108). “Ardore” richiama il fuoco, quindi il calore, la luce. L’ardore fa uscire dal proprio torpore, dalla pesantezza, anzi, dalla sopportazione della vita. Nella Messa della festa del Sacro Cuore di Gesù c’è una orazione, che sembra un inno all’ardore di una vita cristiana, perciò missionaria. 15


Ecco il testo: «Lo Spirito Santo, o Padre, ci infiammi di quel fuoco che il Signore nostro Gesù Cristo ha riversato in terra dall’intimo del suo cuore e ha voluto che in noi divampasse per attrarci a lui che vive e regna nei secoli dei secoli» (Orazione a conclusione della liturgia della Parola). L’orazione contiene quattro verbi tutti “esagerati”, che esprimono la domanda di una forza speciale, di entusiasmo, non una domanda… sottovoce, quasi timida: mentre pronuncio questa preghiera pare che anche il mio cuore si infiammi di zelo per opera dell’azione dello Spirito dentro di me. Allora, l’ardore non me lo do io, non è un frutto mio, del mio cuore e della mia volontà. È un dono dello Spirito Santo. È Lui che mi infiamma il cuore e mi rende splendente la vita. La vita vissuta con ardore è anche fonte (direi, è… parente stretto) della gioia di vivere come Gesù mi chiede. Lo testimonia Santa Madre Teresa di Calcutta: «La gioia è preghiera – la gioia è forza – la gioia è amore – la gioia è una rete di amore con cui potete catturare le anime. Dio ama il datore gioioso. Dà di più chi dà con gioia. Il modo migliore di mostrare la nostra gratitudine a Dio e alla gente è quello di accettare ogni cosa con gioia. Un cuore gioioso è il risultato inevitabile di un cuore ardente di amore. Non permettete che niente vi riempia di tristezza, fino al punto di farvi dimenticare la gioia di Cristo risorto. Aspiriamo tutti ardentemente al cielo, dove c’è Dio, ma possiamo essere in paradiso con Lui già in questo stesso momento. Ma essere felici con Lui già ora significa: amare come Lui ama, aiutare come Lui aiuta, dare come Lui dà, servire come Lui serve, redimere come Lui redime, essere con Lui ventiquattro ore su ventiquattro, restare con Lui nei suoi umili travestimenti» (Madre Teresa di Calcutta, Sorridere a Dio, Edizioni Paoline, p. 91). I quattro verbi “esagerati” che ho richiamato sopra ci insegnano che non si può essere cristiani a metà. Occorre esserlo fino in fondo, totalmente cristiani: è necessario perfino esagerare! Ce lo insegna “Sant’Esagerato”. È un racconto brioso che ho trovato in un libro originale, sempre piacevole, di Mons. Alessandro Pronzato. Mi limito a qualche parte perché il racconto è lungo. «Se tu fossi predicatore?... – Mi sentirei più confortato da uno che scuote la testa, stringe i pugni, borbotta “cose dell’altro mondo…”, piuttosto che da un atteggiamento di… docile indolenza. – Adesso che ti sei sfogato contro la nostra impassibilità, riferisci piuttosto la tua reazione al “… ma io vi dico”. 16


– Mi sono sentito disturbato. Chiamato in causa. Ho mostrato insofferenza verso quel discorso impossibile ma necessario. – … E ti sei fatto avanti. – Sì. Mi rendevo conto che Cristo intendeva reclutare coloro che sono sensibili al “fattore s”. – Che sarebbe? – Lo straordinario. “… E se date il vostro saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario?”. La vocazione del cristiano è una vocazione allo straordinario, ossia a ciò che è insolito, niente affatto normale, non va da sé, non è naturale, non segue l’andazzo comune. È ciò che supera abbondantemente le misure del buonsenso, del calcolo giudizioso. Il cristiano si rende visibile solo con lo straordinario. – Ci è sempre stato insegnato che la virtù sta nel mezzo. – Nel mezzo ci sta chi coltiva l’aspirazione di farsi appiattire dal rullo compressore dell’uniformità. – Qual è la tentazione peggiore contro la santità? – L’accontentarsi. Il non desiderare altro. – Ci sono delle norme oggettive da osservare? – Il santo non ubbidisce a un copione fissato una volta per sempre. Lui presta attenzione a un’altra voce, che diventa “ispiratrice”, di volta in volta, di comportamenti inattesi, inediti, audaci, eccessivi, per nulla scontati, perfino scandalosi. Il terreno, ovviamente, non è quello arido di un codice, ma quello fertile della vita» (A. Pronzato, …Ma come avete fatto?, Ed. Gribaudi, pp. 172 ss. passim). Auguro a me e a voi di vivere con ardore nella gioia.

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ATTENZIONE Quante volte diciamo: «Sii attento; non essere superficiale o immediato nelle tue reazioni, ecc.». In concreto vogliamo dire: «Sii calmo e paziente, rifletti prima di agire». Quando poi si tratta di un discorso, chiedere attenzione richiede calma, non istintività; vuol dire anche: non dare giudizi affrettati, non pensati su persone o su fatti. L’attenzione richiede innanzi tutto “ascoltare”, quindi analizzare una situazione per essere in grado di dare un giudizio o un parere motivato. Ciascuno rifletta sull’uso che fa della parola “attenzione”. Penso che si possa dire che è l’inizio della profondità personale. Già queste osservazioni hanno un “peso” notevole nella vita di ogni giorno. Se non altro perché il porgere normalmente attenzione a quello che facciamo e a ciò che ci sta attorno è senz’altro segno di maturità. Se poi esamino la parola attenzione, scopro qualcosa di più importante. Vedo che è composta dalla preposizione “ad”, che significa movimento verso un punto fermo e che mi interessa. Non necessariamente esprime un movimento fisico; può esprimere solo un movimento interiore, un atto dello spirito. “Tenzione”, o “tensione” deriva dal latino “tendere”. È un verbo che ha un valore specifico. Nell’antichità esprimeva la situazione umana dell’arciere, colto nell’istante in cui ha già incurvato l’arco, e la freccia è lì, pronta per essere scoccata, però è ancora tutto fermo: la persona dell’arciere, la freccia, l’arco già incurvato. Tutto questo è fisicamente vero. Però il cuore dell’arciere e la sua mente sono già “umanamente” là nel centro, in cui l’arciere spera di far giungere la sua freccia. È un’immagine che a mio parere ha un valore morale molto significativo. Leggendo una sera, nella tranquillità e nel silenzio, una pagina di un vero maestro spirituale, mi ha fatto riflettere una sua affermazione. Diceva che, per incamminarsi seriamente sulla via della orazione – come la intendeva S. Teresa d’Avila – è opportuno vivere l’“attenzione a Dio”. È una affermazione superlativa, se 18


leggo la parola “attenzione” usando l’immagine dell’arciere. In breve: la meta a cui tende la mia persona (cuore – mente – volontà – sentimenti – desideri, ecc.) è Dio. In un certo senso sono già là, in Lui! Però la mia vita si svolge quotidianamente nel ritmo che mi è richiesto dalla mia concreta situazione di vita. Vivo qui, ma “esisto già in Dio”! Questo è l’inizio della vera vita di orazione, che trasforma ogni mia azione, e anche le preghiere vocali, in vera orazione. È un impegno faticoso; però fa davvero sperimentare la pace del cuore; quasi ci fa vivere l’amicizia con Dio. In ciò sta l’orazione spirituale, secondo la grande maestra, S. Teresa d’Avila. È tutto vero e chiaro quanto ho detto fin qui. Però ora mi sorge una domanda: è tutto qui? Questa è la vita spirituale autentica? Quando parlo di “attenzione a Dio”, mi rendo conto che chiamo in causa tutte le mie facoltà (mente – volontà – cuore – sentimenti, ecc.)? Forse sì; però probabilmente le colgo in un insieme indistinto, poco specificato. Provo allora la necessità di passare all’“Eccomi”, come fece Maria SS. dopo l’iniziale stordimento all’annuncio dell’Angelo. Ora Maria ha deciso, impegna la sua volontà e si rende presente responsabilmente a Dio, che le rivolge un invito… impensabile. E si dichiara pronta a compiere la richiesta di Dio. Impegna quindi la sua fede-fiducia; direi, la sua fede operativa: Fiat, ossia: va bene, farò quello che mi chiedi, Signore. E vive per tutta la vita questo suo Fiat, tremendamente impegnativo, senza pretendere di conoscere in anticipo quale sarà il suo destino. Il terzo momento di una vita cristiana autentica è il vivere il desiderio della gloria di Dio! Non si tratta di un semplice sentimento o poco più. Io leggo la parola “desiderio” (secondo una spiegazione data da un uomo di vera vita spirituale) come “esigenza sofferta e insopprimibile di un bene che ritengo indispensabile per me”. In concreto significa che io ho bisogno e voglio vivere per la gloria di Dio. Il che significa spendermi per far conoscere il più possibile chi è Dio e gridare ai quattro venti che Dio è Amore, solo Amore! I Santi sono la prova autentica, ciascuno nella propria originalità, che la santità è proprio il vivere l’attenzione a Dio, nella propria concretezza e quotidianità. 19


CERCARE Il verbo “cercare” esprime tensione interiore verso qualcosa che mi interessa; esprime anche l’impegno per trovare questo qualcosa che ho smarrito o che desidero. Quindi è un verbo che esprime una meta, un fine; nello stesso tempo indica la costanza nell’impegno e una certa fatica inevitabile. Penso subito all’affermazione di Gesù: «Cercate innanzi tutto il regno di Dio: il resto vi sarà dato in più». Inoltre, mi rimanda immediatamente a due episodi del Vangelo, simili nella formulazione, ma ben diversi nell’insegnamento. Il primo è riportato dall’evangelista Giovanni: narra dei due discepoli del Battista, che, ascoltando Gesù, lasciano il loro Maestro, Giovanni, e seguono Gesù. Scrive l’evangelista: «Il giorno dopo, Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse. “Ecco l’agnello di Dio!” E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: “Che cosa cercate?”. Gli risposero: “Rabbì – che, tradotto, significa Maestro –, dove dimori?”. Disse loro: “Venite e vedrete» (Gv. 1, 35-39). Apparentemente è una domanda ovvia, quasi indifferente. Invece, guardando a fondo questa domanda, ci si rende conto che ha una importanza grande, profondamente umana: «Voi avete una esigenza profonda – ci suggerisce –; avete la necessità di trovare il significato della vostra vita, il perché del vostro vivere». Gesù non chiede ai due. «Chi cercate?». Questo pronome indicherebbe una persona; invece, il «Che cosa cercate?» esprime una esigenza che è dentro di voi, nel profondo del vostro cuore. Insomma, esprime un bisogno fondamentale che dia significato alla vostra vita e dia risposte adeguate alle domande che conservate nel vostro cuore. L’altra domanda è quella che Gesù pone a Maria Maddalena subito dopo la Risurrezione. «Chi cerchi?» chiede dolcemente Gesù alla Maddalena. Che differenza di “peso” con la domanda che Gesù rivolge ai due discepoli del Battista! La Maddalena non 20


ha dubbi sul valore della sua vita, dopo la sua conversione. Lei ha conosciuto personalmente Gesù; ha ammirato le folle che, entusiaste, lo seguono; ha assistito a tanti miracoli compiuti da Gesù; a bocca aperta ha ascoltato gli insegnamenti del Maestro e di persona ha sperimentato che nessuno “parlava come lui”. Anche il suo cuore era totalmente… impegnato per Gesù! Per tutti questi motivi avrebbe dovuto riconoscerlo immediatamente! Invece non lo riconosce subito. Forse si è fermata a godere lo stupore per le meraviglie a cui ha assistito. Nonostante la sua esperienza personale, la Maddalena si è fermata ad ammirare Gesù come uomo; non è arrivata fino a Gesù, Figlio di Dio. E Gesù la richiama proprio su questo punto: è Gesù che dà significato alla vita della donna (verità che i due discepoli del Battista non avevano affatto colto!); però adesso la Maddalena deve fare il passo più importante, anzi, quello fondamentale e indispensabile: ora Maria Maddalena deve vedere il Gesù “diverso” da quello che vedeva prima; allora non era ancora capace di “vedere” (col cuore!) il Risorto. Per vederlo così, Risorto, occorre un cuore “nuovo”! Oltre ai due episodi evangelici che ho commentato, troviamo altre pagine dei Vangeli in cui si parla di “cercare”. Famose sono le parabole della “pecora smarrita” e della “moneta perduta”, raccontate da Luca al capitolo 15, vv. 1-10. Qui voglio ricordare invece l’episodio dei Re Magi (Mt 2, 112) che affrontano un lungo viaggio e tante fatiche alla ricerca del… “nuovo” Re, Gesù Bambino. Al riguardo ritengo significativo il commento che fa il card. Martini: «L’evangelista Matteo ci descrive, attraverso simboli evocativi, il faticoso peregrinare dell’uomo e dei popoli alla ricerca della verità. Itinerario tormentoso, che si risolve nel riconoscimento del Re Messia, nell’adorazione e nell’offerta di quanto si ha di più prezioso. Nel pellegrinare dei Magi ciascuno di noi riconosce se stesso, le sue oscurità e i suoi momenti di luce. Ricercare il volto di Dio nei segni della storia è ancora oggi vocazione degna e possibile per ogni uomo. Neppure Erode si ritrae da quel minimo di ricerca che consiste nel consultare i sacerdoti e gli scribi, nel farsi leggere le pagine della Scrittura! E una civiltà che ritenesse lo studio dei Testi sacri come un’occupazione marginale misconoscerebbe l’anelito più profondo del cuore umano, che è l’interrogazione e la ricerca della verità. Nel brano di Matteo noi vediamo 21


espresse le operazioni essenziali di questa ricerca: domandare, informarsi, leggere, ascoltare, sono momenti della ricerca spirituale e religiosa, che non richiedono più viaggi lunghi e avventurosi come quelle dei Magi, ma esigono un minimo di vittoria sulla propria pigrizia, un minimo di fatica nell’interrogare e nel riflettere» (C. M. Martini, Dizionario spirituale, Piemme, p. 155). Aggiungo un esempio dei nostri tempi: S. Teresa Benedetta della Croce (Edith Stein). Era ebrea di origine, donna molto intelligente e filosofa affermata; di religione ebrea, poi completamente atea. La sua nota caratteristica era la ricerca insaziabile della verità per dare un significato, anzi, un valore alla sua vita. Quasi ansiosa di trovare la Verità che colmasse finalmente il vuoto del suo cuore. Finalmente, in casa di una amica, tra i libri dell’amica trovò un libro che lesse con avidità: era l’Autobiografia di S. Teresa d’Avila. Lo lesse tutto velocemente, e alla fine esclamò: «Ho trovato la Verità!». Conseguentemente si fece cattolica; ricevette il battesimo a 31 anni (il 1° gennaio 1922); si fece carmelitana e morì ad Auschwitz nei forni crematori il 9 agosto 1942. E NOI? A me, a ciascuno di noi che cosa insegna il verbo “cercare”? Mi chiedo: Io sono alla ricerca della Verità, cioè, cerco davvero nella mia vita chi è per me Gesù, Dio e Uomo, il Salvatore, il Vivente? Vedo che a tale scopo mi è necessario non chiudermi dentro un mio progetto di vita, secondo criteri miei, solo miei? Ha ragione Don B. Maggioni: «La correttezza della ricerca non sta nel sapere già con esattezza che cosa si vuole, ma piuttosto nel porsi sulla strada giusta, nella direzione giusta, disposti a percorrerla dovunque ci conduca. Il difetto di fondo sta nella pretesa di chiudere il cammino, di… sapere già: rinchiudersi entro un progetto, anziché aprirsi alla libertà di una persona». Continua il noto biblista: «cercare la propria gloria non è una vanità di superficie. Cercare dice il desiderio, l’intenzione, la passione, l’orientamento della vita o, addirittura, la ragione (anche se spesso nascosta) per cui si vive». E conclude. «Il segno concreto e rivelatore dell’autentica ricerca di Dio è l’abbandono di sé come centro dell’azione». (B. Maggioni, La brocca dimenticata, Vita e Pensiero, p. 27, 100, 101).

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CONTEMPLAZIONE È una parola che rifugge da spiegazioni astratte, troppo razionali. Contemplazione non è nemmeno una parola da teologi professionisti (lo dico con rispetto). Solo chi vive la contemplazione è in grado di parlarne in modo adeguato. Siccome io sono un sacerdote “normale”, senza esperienze contemplative, tanto meno mistiche, mi rifaccio a uno speciale maestro di vita spirituale, il card. A. Ballestrero. Era un uomo che viveva realmente IN Cristo, e del quale si poteva dire in verità: «Per me vivere è Cristo» (Fil 1, 21). Penso che fosse un vero contemplativo, e forse per questo era sempre in azione, ma non per sé, bensì solo per la gloria di Dio. Parlando dello sposo di Maria SS., Ballestrero afferma che S. Giuseppe ha vissuto una «solitudine silenziosa, che è il segreto della contemplazione». Esaminiamo questa affermazione: l’oggetto è la “contemplazione”, che è quasi un uscire da se stessi, o almeno non è più un percepirsi sensibilmente, perché si coglie piuttosto una certa presenza di Dio in noi, almeno nel cuore, nel profondo di noi stessi. Il Maestro carmelitano spiega che, per giungere alla contemplazione, c’è una via da percorrere con alcune tappe necessarie. Innanzitutto occorre la SOLITUDINE. Questa parola non esprime isolamento, chiusura in se stessi per un rifiuto istintivo di rapporti. Vuol dire, invece, raccoglimento nel profondo del proprio animo; più precisamente invita a mettersi in una situazione umana che permetta un vero raccoglimento dentro di sé. Quindi, non si parla di esclusione di fratelli, ma di interiorizzazione nel proprio intimo. Aggiunge l’aggettivo SILENZIOSA. Anche questo aggettivo non dice incapacità o rifiuto di comunione. Esprime invece una necessità e nello stesso tempo una conseguenza della solitudine come l’ho espressa sopra. Una tale solitudine non accetta distrazioni di nessun genere. Se mantengo legami con persone; se trattengo pensieri miei, o coltivo interessi 23


operativi, o inseguo programmi personali, o altro, non sono in grado di aprire il cuore a Dio, perché Dio parla nel silenzio, a un cuore “libero”, vuoto: quando parla, vuole tutto lo spazio per Sé: è un Dio totalizzante! Quindi: contemplazione è uscire dal proprio “io” percepito sensibilmente, perché tutto il mio cuore, e anche la mia mente, sono occupati da Dio! L’unica cosa che percepisco in quel momento è una profondità che mi riempie, che mi fa vivere una vitalità interiore nuova, non sperimentata prima. Per comprendere ci può essere d’aiuto l’immagine del mare. Pensa di essere sull’ultimo centimetro del bagnasciuga, con di fronte il mare aperto. Spingi lo sguardo fino all’estremo orizzonte: che cosa vedi? Solo il mare, solo acqua, nemmeno un briciolo di terra; lo sguardo e il tuo cuore corrono verso l’infinito. Ciò ti dà l’impressione di essere staccato dalla terra, senza un appiglio, in un mondo non più afferrabile. Inoltre, se la superficie del mare è senza la più piccola increspatura ed è tutta liscia… come un olio (si usa dire), quindi senza alcun rumore, provi dentro di te un silenzio “sensibile”, una pace e una quiete di tutte le emozioni, che ti fa sentire fuori dal mondo e quasi staccato dalla terra. Rimani a bocca aperta e con gli occhi spalancati: pare che gli occhi vedano l’impossibile. Se poi fissi lo sguardo sulla superficie marina completamente liscia, senza alcuna increspatura, ti dà l’impressione di totale inerzia, e ti rovi in uno stato di quasi staticità: ogni movimento è diventato impossibile. Perfino osi pensare di essere… fuori dalla tua pelle. Invece, cerca di guardare, di curiosare nel profondo del mare: scopri un mondo vivacissimo, molto vario e meraviglioso, tutto in movimento: flora e fauna marina splendide, dai colori non terrestri. Ha ragione H. Nouwen: «Il contemplativo non guarda tanto le cose, quanto attraverso le cose, fino al centro. E, attraverso quel centro, scopre un mondo di bellezza spirituale che è più vera, ha più densità, più massa, più energia e maggiore intensità della materia fisica. In effetti, la bellezza della materia fisica è un riflesso del suo contenuto interiore» (Henri J. M. Nouwen, Ho ascoltato il silenzio, Editrice Queriniana, p. 30). Penso in questo momento al sonetto L’infinito di Giacomo Leopardi. 24


Questa è la contemplazione: hai la sensazione di essere fuori dal mondo agitato, frenetico e talvolta caotico. E vivi una situazione interiore di completa pacificante “quiete”, dove tutto appare immobile, inattivo e statico, quasi una completa mancanza di vita. Invece è proprio una tale situazione “nuova”, ossia diversa da quella normale e nello stesso tempo oltre la nostra natura; è proprio questa esperienza fisicamente non percepibile, che rende la tua persona “profonda”, intima, che fa vivere in un mondo molto diverso da quello che viviamo “ferialmente”, ricchissimo e splendido di vita bella, che ti fa gridare: Come è bella la vita! La mia vita che qui, adesso sto vivendo. E, strano ma vero, non ti permetterà di rimanere con le mani in mano, ma ti porterà ad agire, anzi, ad “operare” quello che un Altro (Dio!) ti suggerirà. Non potrai più operare secondo i tuoi progetti e con i tuoi criteri. Allora ha ragione il card. Ballestrero: «Quanto è fecondo il tuo silenzio: Dio parla e tu agisci». Vale la pena di ascoltare direttamente la parola di un tale Maestro: «Tu, San Giuseppe, hai servito i misteri del Signore in una solitudine silenziosa, che è il segreto della contemplazione. Nell’umile silenzio che sei riuscito a creare in e attorno a te, hai potuto contemplare, indisturbato e in pace, il tuo Signore. La tua è una disposizione che è a un tempo abbandono, fiducia, speranza, amore, fedeltà e motivo di perseveranza, di continuità nella pratica del bene e della virtù. Solo le anime pacifiche sono veramente perseveranti». «Ho bisogno di guardare a te, San Giuseppe, per sapere come lasciarmi travolgere da Dio, dai suoi progetti, dalle sue iniziative. Dove ti porta il Signore? Non lo sai. Dio non te lo dice. Non spiega niente. Ma tu obbedisci. Gli hai detto sempre di sì, non con le parole ma con la vita. Non hai mai avuto dubbi da sollevare, questioni da proporre. Ti sei lasciato coinvolgere ciecamente. E, lasciandoti portare, sei diventato contemplativo di quel mistero che è l’Incarnazione del Cristo nella Vergine, tua sposa. (…) E quanto è fecondo il tuo silenzio: Dio parla e tu operi». Siamo tutti, almeno in certi momenti o in situazioni particolari della vita, dei contemplativi: l’esigenza della contemplazione è dentro nel profondo del nostro essere, nell’intimo del nostro cuore. Però alcuni si sentono più disposti di altri a vivere la contemplazione: non perché siano più santi degli altri, ma perché Dio li ha creati così. Spero che siano tanti anche oggi i veri contemplativi. 25


A questo proposito scrive il solito card. Ballestrero: «I grandi contemplativi sono insaziabili di contemplare, e il loro contemplare perde sempre più la caratteristica di analisi di una verità o di espressione di un affetto, per diventare l’esperienza di una comunione personale, ben altra cosa dal pensiero e dagli affetti, perché né l’uno né gli altri sono la persona, mentre la vera dimensione della contemplazione è l’incontro della persona con la Persona, al di là e al di sopra dei pensieri e degli affetti: è un perdersi nella comunione» (Ci richiama la Elevazione alla SS. Trinità di S. Elisabetta della Trinità). E aggiunge Ballestrero: «Chi guarda il sole ne esce cieco, si rende conto che tutto il resto è tenebra. Chi guarda Gesù, la luce del Padre, se ne lascia penetrare, invadere totalmente, in modo tale che, sottratto a tutto il resto, viene modellato – per così dire – dalla luce di Cristo» (A. Ballestrero, A immagine di Dio, p. 104). Un altro valido Maestro di vita spirituale, il card. A. Comastri, scrive: «Da più parti si avverte il bisogno di ritornare dalla “periferia” dell’azione alla “sorgente” dell’azione, cioè alla contemplazione: c’è stata, nel nostro tempo, un’esplosione dell’azione a scapito dell’interiorità. Già Charles de Foucauld osservava: “Se la vita interiore è nulla, per quanto si abbia zelo e buone intenzioni e tanto lavoro… i frutti sono nulli”». Inoltre, richiamando un pensiero di S. Giovanni Paolo II nell’enciclica Redemptoris missio, afferma: «La tentazione oggi è di ridurre il cristianesimo a una sapienza meramente umana, quasi scienza del buon vivere. In un mondo fortemente secolarizzato è avvenuta una “graduale secolarizzazione della salvezza”, per cui ci si batte, sì, per l’uomo, ma per un uomo dimezzato, ridotto alla sola dimensione orizzontale (RM, 11)».

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COSCIENZA Il termine “coscienza” può essere considerato sotto due aspetti: il primo esprime la consapevolezza del proprio agire, ossia. so quello che sto facendo; conosco il perché, il fine, le circostanze, i pericoli ecc. di quanto sto compiendo in questo momento. In questa riflessione non intendo parlare di “coscienza” con questo significato. “Coscienza” avrebbe un semplice valore “psicologico”. Qui uso questo termine nel significato “morale” di norma prossima del mio agire. Mi spiego e inizio con qualche domanda: Chi mi dice: è giusto, o è sbagliato quello che sto compiendo? La mia azione che compio in questo momento è un bene o è un male? La risposta è immediata: la mia coscienza. Esatto! Scrive il card. Martini: «Quando diciamo: “la mia coscienza”, mettiamo istintivamente la mano sul cuore. Evidentemente intendiamo esprimere qualcosa che sta dentro di noi, che è inalienabile, preziosissimo, a cui non rinunceremmo per nessun bene al mondo. La coscienza non è data, non è costruita una volta per tutte, quasi fosse una pietra preziosa che teniamo nel cuore e di cui è sufficiente cogliere i riflessi. La coscienza ha un divenire storico nei singoli e nell’umanità. Essa incomincia a formarsi fin dalla più tenera età, tra le braccia del papà e della mamma, comincia a formarsi nella scuola, nell’oratorio; sono i genitori e gli educatori a formare la coscienza… Essa è la nostra ragionevolezza, la nostra consapevolezza del bene e del male, che si educa via via nelle esperienze buone e positive, che si diseduca ogni volta che la calpestiamo o che facciamo volontariamente esperienze negative e fuorvianti» (C. M. Martini, Dizionario spirituale, PIEMME, pp. 38-39). A proposito della coscienza come norma del mio agire c’è normalmente la tentazione di considerare la mia coscienza in modo, si dice, “assoluto” cioè sciolta da ogni legame. In fondo vuol dire: siccome io la penso così, va bene così, e basta. Ma questo modo di pensare è pericoloso; a ben riflettere, ciò vorrebbe dire che il principio del bene e del male (ossia: di ciò che è morale, o no) è solo la mia coscienza, cioè il mio modo di pensare. E nessuno può “metterci il naso”. È vero che oggi, anche nella Chiesa, il valore della coscienza è stato molto rivalutato, però mi pare necessa27


rio approfondire il problema. Mi permetto di riferirmi su questo argomento fondamentale del vivere quotidiano responsabilmente, al mio Maestro di Teologia Morale, il card. G. Biffi, uomo intelligente e chiarissimo nell’esposizione della dottrina cattolica. Tralascio tanti aspetti e mi fermo solo su quello fondamentale: l’insegnamento della Chiesa. Per punti: – Siamo cattolici, quindi a noi interessa non un discorso generale sulla morale, ma quello che insegna la Chiesa. – Già il termine “coscienza” significa “conoscere insieme”. Ciò mi fa subito superare la tentazione di pensare che io, da solo, in base a quello che io penso o sento, sono in grado di stabilire ciò che è bene e ciò che è male. L’avverbio “insieme” mi suggerisce che c’è e ci deve essere un riferimento esterno a me. Sarà la comunità o qualcosa di diverso (Qualcuno superiore a me), a cui la mia coscienza (ripeto: il mio modo di pensare) è chiamato a fare riferimento. – La mia coscienza è il riferimento prossimo, cioè immediato del mio agire. Insomma, è ciò che in ogni caso concreto mi dice: il mio comportamento in questo caso è morale o no. – Però c’è un altro riferimento, più alto, esterno a me e superiore al mio modo individuale di pensare. Per noi cattolici è la Chiesa, più precisamente è la Parola di Dio, è Gesù Cristo (il Verbo, Dio-Parola) Ricorda che il Battesimo ci ha “innestati” in Cristo e ci ha resi sue membra: questa è la Chiesa! – Il mio stimato Maestro di Morale aggiungeva: la coscienza individuale, per essere valido metro di giudizio morale, deve essere retta e certa. Sono due aggettivi, che in realtà sono participi passati di due verbi latini. Mi spiego. RETTA – È il participio del verbo latino “rego”: era il verbo che esprimeva l’azione del nocchiero di una barca; il nocchiero aveva il compito di dirigere l’imbarcazione verso il porto, cioè verso un punto di riferimento. Questo mi insegna che la mia coscienza tende necessariamente a un punto esterno e oggettivo. Altrimenti, come la barca senza nocchiero è in balia del mare, la mia coscienza… si perde. È la Parola di Dio e della Chiesa che rende sicura la mia coscienza liberandola dai pericoli, dalle incertezze, dagli interessi personali. CERTA – Deriva dal verbo latino “cerno”, che significa: ana28


lizzare, scegliere per un fine positivo. Dunque, la mia coscienza, sempre per essere criterio valido di moralità, richiede analisi, approfondimento, riferimento a qualcosa di esterno a me, qualcosa di oggettivo, in base al quale io possa riconoscere ciò che è bene e ciò che non lo è. Il tutto mi insegna che, se è vero che è la mia coscienza che mi dà il giudizio di moralità sulle mie azioni, allo stesso tempo mi dice che la coscienza del singolo, da sola, non può essere l’unico valido principio di moralità. C’è anche una spiegazione filosofica, quindi puramente e saggiamente umana. Dicevano gli antichi che l’agire dipende dall’essere, da ciò che uno è (actio sequitur esse). Allora tutto è chiaro: ogni uomo – dice la Scrittura –è immagine di Dio, quindi ogni uomo è naturalmente ed inevitabilmente dipendente da Dio. È… ontologicamente (scusate il termine!) sempre dipendente da Dio. Pertanto il mio agire “da uomo”, ossia, come uomo, deve sempre riferirsi a Dio. Concludo con una parola della massima autorità: il Concilio Vaticano II. È scritto nella costituzione Gaudium et spes (la Chiesa nel mondo contemporaneo) al n. 16: «Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire e la cui voce, che lo chiama sempre, ad amare e a fare il bene e a fuggire il male, quando occorre, chiaramente dice alle orecchie del cuore: fa’ questo, fuggi quest’altro. L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al suo cuore: obbedire a questa legge è la dignità stessa dell’uomo, e secondo questa egli sarà giudicato. La coscienza è il nucleo più sicuro e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria. Tramite la coscienza si fa conoscere in modo mirabile quella legge, che trova il suo compimento nell’amore di Dio e del prossimo. (…) Quanto più prevale la coscienza retta, tanto più le persone e i gruppi sociali si allontanano dal cieco arbitrio e si sforzano di conformarsi alle norme oggettive della moralità. Tuttavia succede non di rado che la coscienza sia erronea per ignoranza invincibile, senza che per questo essa perda la sua dignità». Se uno ha una coscienza dubbiosa, incerta, non è in grado di dare un giudizio morale sul proprio agire. Lo stesso vale per chi non si impegna (o non vuole impegnarsi) a formarsi una coscienza retta e certa. 29


ECCOMI “Eccomi”. Sono qui, sono presente a te che mi chiami. È la risposta istintiva, spontanea a un invito o a un comando. Nello stesso tempo esprime la disponibilità ad agire come desidera chi mi chiama. “Eccomi” manifesta l’esistenza di un rapporto tra due persone: colui che chiama e colui che risponde; esprime sempre una risposta. Tutte le volte che dico “Eccomi”, è opportuno ricordare che c’è necessariamente qualcuno che mi precede con un invito o un comando. C’è solo un “Eccomi” che non è affatto, né può esserlo, una risposta. È quello di Dio al popolo di Israele; quindi, nel tempo, a tutta l’umanità. L’“Eccomi” di Dio a Israele è pura iniziativa Sua: non può essere causata da nessun invito e tanto meno da alcun comando; solo Dio è l’Essere: è Lui che dà origine a tutto e nulla Lo precede. Quello di Dio è un “Eccomi” frutto solo di amore per l’uomo! Dio è sempre e totalmente amore, mai opera per un interesse. È Lui che per amore, liberamente e prima che l’uomo glielo chieda, si rende presente all’uomo nelle sue necessità. Il Suo è un “Eccomi” operativo per il bene di Israele, ed è un “Eccomi” “storico”, cioè che si inserisce nella storia, nella problematica del popolo fino al punto di costatare (stando ai vari episodi della Bibbia) che è Dio stesso che opera nelle varie vicende del popolo. Nello stesso tempo è vero che Dio, perché agisce sempre per amore, talvolta risponde agli inviti (le domande, le preghiere, le suppliche…) dell’uomo, che si sente povero e davvero dipendente da Dio. A questo proposito scrive il biblista B. Maggioni: «L’eccomi è l’essenza della personalità di Abramo. La risposta è pronta e l’obbedienza è totale. Non si dimentichi, però, che anche Dio, quando è invocato dall’uomo, risponde allo stesso modo: “Eccomi”. Dio è vicino all’uomo e l’uomo è vicino a Dio. Possono parlarsi». Noi uomini “storici”, cioè viventi nei vari tempi della storia, nei confronti di Dio siamo “dipendenti”, sempre e in tutto dipendenti da Lui. Pertanto ogni nostro “Eccomi” è sempre una rispo30


sta a Dio, alla sua iniziativa, incominciando dal dono della vita, che è sempre – lo sappiamo bene – dono gratuito e libero di Dio. E la nostra nascita alla vita è il primo, fontale “Eccomi” come risposta al Suo amore, che ci invita alla felicità. E questo è vero anche se talvolta (o spesso) non capiamo, o addirittura non vogliamo accettare la Sua proposta; tanto meno la Sua presenza (forse ingombrante) nella nostra vita e ancor più nel nostro pensiero. L’“Eccomi”, frutto vero di fede, richiede talvolta di essere vissuto, anche se non lo capiamo. Scrive il teologo ebreo Paolo De Benedetti: «“Eccomi”, sono pronto, ci sono. E Mosè dice “Eccomi” di fronte a una voce che non gli ha ancora esposto le proprie intenzioni; dice “Eccomi” davanti a un roveto che arde, quindi è una disponibilità totale, senza condizioni, senza neanche sapere a che cosa sta dicendo “Eccomi”». La Bibbia è ricca di esempi di “Eccomi” molto importanti che hanno determinata la vita di numerosi personaggi e di conseguenza la storia del popolo eletto. Non è certo possibile citarne tanti; mi limito a citare l’esempio di Abramo, ovviamente dopo l’“Eccomi” di Maria SS., l’Eccomi che ha dato inizio alla storia vera, quella “nuova”; ma questo meriterebbe un ampio commento da solo. La conoscenza seria della storia di Abramo chiede la lettura attenta e religiosa di Genesi 12-25. È un succedersi di promesse esagerate da parte di Dio ad Abramo, e il suo ripetere fedelmente, anche se con tanta fatica e non poche tentazioni, da parte di Abramo, fino alla prova “assurda” (e non verificatasi) del sacrificio del figlio Isacco. L’episodio si conclude con la benedizione di Abramo per la sua fede quasi impossibile: «L’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: “Giuro per me stesso, oracolo del Signore, perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici. Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai ubbidito alla mia voce”» (Gen 22, 15-18). Abramo dove trova la forza per ripetere sempre con immutata generosità il suo “Eccomi” a Dio che gli chiede prove sempre più impegnative? Perché «custodisce nel cuore la promessa di Dio». 31


Per questa promessa si è messo in cammino verso una terra che non conosce, che certamente non riguarda soltanto quella che vede davanti a sé, pur bella e attraente. Egli è diretto altrove, oltre, secondo il disegno di Dio stesso. Proprio per questa sua fedeltà Dio gli rinnova la promessa: «Renderò la tua discendenza come la polvere della terra» (Gen 13, 16). Così commenta gli “Eccomi” di Abramo l’abbadessa Madre A. M. Canopi. Aggiungo una mia personale esperienza: normalmente vedo nell’“Eccomi” un esercizio della mia volontà, come se l’essere alla presenza di Dio dipendesse da me. Invece la mia parte, il mio compito consiste nel riconoscere e accettare (e vivere di conseguenza) il … “traboccamento di Gesù in me”. È una verità “ineffabile” – per dirla con Paolo VI. Mi chiedo con sincerità: nella mia vita quante volte finora ho detto generosamente i miei “Eccomi” ai ripetuti inviti di Dio per vivere ogni giorno con generosità il «Per me vivere è Cristo»?

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EUCARISTIA: SACRIFICIO Tutti sappiamo che l’Eucaristia può essere considerata sotto l’aspetto di sacrificio (la Messa), di nutrimento (la Comunione), di presenza (l’Adorazione). Qui prendiamo in considerazione solo il primo aspetto: la Messa. Chiediamoci: per chi, a vantaggio di chi la Chiesa celebra incessantemente la Messa? Considerando tutto il mondo, non esiste un minuto in nessun giorno senza una Messa. Vorrei chiederlo a voi che siete frequentatori abituali della Messa. Giustamente si dice che non c’è domenica senza la Messa. Perché? Chi ne trae vantaggio? Ripeto: per chi è la Messa? È opinione diffusa che la celebrazione eucaristica serve innanzitutto a noi: per chiedere aiuto al Signore per i nostri problemi, per le esigenze umane di vario genere; inoltre la Messa ci rende più fratelli e più attenti agli altri (penso allo scambio della pace). In fondo: nell’Eucaristia è l’uomo “povero” che intercede a proprio vantaggio presso Colui che tutto può. Allora, alla domanda: «Per chi è la Messa?» la risposta è facile, immediata: per noi uomini, perché bisognosi, oltre che peccatori. Chissà, però, se questo è il pensiero della Chiesa; se questo è il fine primario dell’azione liturgica. E si dà una motivazione che sembra plausibile: Dio – si pensa – non ha nessun bisogno (è perfetto!). L’Eucaristia serve a noi per creare “com-unione” tra di noi, e per trovare in Essa la forza per impegnarci di più perché siamo inevitabilmente deboli, poveri. È certamente vero che partecipiamo alla Messa per presentare a Dio tutte le nostre necessità. E sono tante. E Dio? È lì, pronto ad esaudire le nostre richieste; è – lo dico con enorme rispetto – quasi un nostro “pronto soccorso”. Allora la Messa è vista innanzitutto in una ottica umana, per i bisogni degli uomini. Questa, se riflettiamo, è una visione “modernista” molto diffusa oggi. Noi, qui, diciamo invece che la Messa è innanzitutto per Dio! Afferma il Concilio Vaticano II che l’Eucaristia è il “culmen”, il punto più alto e più comprensivo dei rapporti uomo-Dio. Cristo e 33


la Chiesa sono i soggetti della celebrazione eucaristica, ma Dio è il fine! Ciò comporta che ogni Messa è per la lode di Dio, per adorare Dio, per ringraziarLo. Eucaristia significa proprio “ringraziamento”. E quando celebriamo la Messa, proclamiamo ai quattro venti la gloria di Dio, ossia che Dio è Amore e Misericordia. La comunione fraterna e un maggior impegno nella vita di ogni giorno sono conseguenze della Messa. Se l’Eucaristia è culmen (come afferma il Concilio Vaticano II), significa che è il punto d’arrivo, il più alto, il compimento del rapporto uomo-Dio. È significativo che il sacerdozio è innanzitutto in vista della Messa. Alcuni decenni fa fu consacrato sacerdote a Torino un giovane di diciannove anni sul letto di morte e celebrò solo la Messa dell’ordinazione. Fu vero e completo sacerdote perché aveva celebrato una Messa! È significativo anche il fatto che Gesù parla delle condizioni per partecipare all’Eucaristia («Se un tuo fratello ha qualche cosa contro di te…»). Non dice che è illecita o addirittura invalida se poi non vivo da autentico cristiano. L’autenticità della vita è una conseguenza, augurabile, ma non inficia la validità della Messa. Da che cosa ricavo che la Messa è per Dio? Dall’immagine del banchetto, usata da Gesù stesso in Mt 22, 2-10 e in Lc 14,15-24. È opportuno mettere a confronto il banchetto di nozze di cui parla il Vangelo con la celebrazione eucaristica. Proviamo. BANCHETTO DI NOZZE È per l’onore degli sposi, non per l’utilità dei partecipanti Perché invitati dagli sposi Presuppone un rapporto con gli sposi Approfondisce il rapporto con gli sposi Si conoscono altre persone Conseguenze: amicizia, fraternità…

EUCARISTIA È per la gloria di Dio, non per l’utilità dei partecipanti Perché “vocati” da Gesù Presuppone la grazia, l’amicizia con Dio “Cristificazione”, ci rende… di Cristo La Chiesa si forma mediante l’Eucaristia Conseguenza: si vive la carità 34


Quindi viviamo con particolare devozione ogni Messa, in particolare la preghiera eucaristica. È l’invito del papa Benedetto XVI: «La Preghiera eucaristica richiede un momento di attenzione particolare per essere pronunciata in modo tale che coinvolga gli altri. Penso che dobbiamo anche trovare occasioni, sia nella catechesi, sia nelle omelie per spiegare bene al popolo di Dio la Preghiera eucaristica, perché possa seguirne i grandi momenti. Il racconto e le parole dell’istituzione, la preghiera per i vivi e per i morti, il ringraziamento al Signore, per coinvolgere realmente la comunità in questa preghiera» (Miei cari sacerdoti, Shalom, p. 195). Termino riportando un pensiero di mons. Primo Gasparini, un vero educatore di giovani e a me molto caro: «Questo rendimento di grazie, che può ben dirsi cosmico perché si riferisce a tutti i benefici elargiti da Dio nel tempo e nello spazio, non si esplica soltanto attraverso le parole e i canti: si attua in modo pieno e perfetto con l’offerta del corpo e del sangue di Gesù al Padre, che è precisamente il “sacrificio eucaristico”, cioè il solo gesto capace di esaurire il dovere di riconoscenza del mondo verso il suo creatore».

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FELICISSIMO Sono solito firmare così le lettere che invio: don Luigi, prete felicissimo. Alcuni ridono, altri fanno qualche commento; eppure dico la verità, non per apparire originale, o esagerato. È la verità. E vi dico i motivi. 1. Perché sperimento che Gesù agisce nella mia vita, specialmente dopo la celebrazione della Messa. In quei momenti so che Gesù vive dentro di me nonostante le mie infedeltà. In quegli istanti eucaristici condivido quello che disse (anzi, quello che gridò) S. Paolo: «Ora non sono più io che vive, ma Cristo vive in me» (Gal 2, 20). Dio è vita, amore, gioia…; quindi… sì, nonostante le mie infedeltà. Per questo motivo tante volte non oso dire: «Per me vivere “è” Cristo» (Fil 1, 21), come fosse vera la mia corrispondenza; preferisco dire: “sia”, cioè, cerco di essere fedele, ma faccio fatica. Però Gesù è certamente in me, vivo e operante! Condivido pienamente quanto scrive il card Martini: «Gesù afferma: “Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” Il Signore non parla di una gioia qualunque, di una letizia effimera, passeggera, legata a realtà che svaniscono. Egli la chiama la “sua” gioia, quindi si tratta di qualcosa che gli appartiene profondamente (…). Questa gioia di cui Gesù dice “Sia in voi” non è un elemento supererogatorio della vita cristiana. È la gioia della perla preziosa, del tesoro nascosto; la gioia che dà vitalità alla Chiesa, che ci sostiene nella fatica quotidiana. Gesù non si accontenta che la gioia ci sia, ma aggiunge: “Perché la vostra gioia sia piena”, abbondante, sovrabbondante, traboccante». 2. Perché il sacerdote, ogni sacerdote, è – come si usava dire – “alter Christus”, che significa. “è l’altro Cristo”, è il secondo dopo Gesù, non “un altro” generico: Gesù è il vero e unico sacerdote; tutti gli altri sacerdoti sono... “l’altro”, quasi la continuazione di Gesù sacerdote. 36


Che mistero ineffabile! Allora è vero che in me sacerdote è Gesù che agisce, che si offre al Padre, che amministra i sacramenti, che ama ogni fratello. Se è davvero così, come potrei non essere felice? 3. Perché ogni sacerdote è “l’uomo di Dio” – si usava dire un tempo. Oggi, forse, si preferisce considerare il sacerdote in azione, colui che… agisce, opera. È una visione piuttosto dinamica e, probabilmente, cerca di considerare il sacerdote soprattutto a servizio dei fratelli. L’espressione “uomo di Dio” vuol cogliere il sacerdote nel suo cuore, nel suo modo di essere, prima che nel suo operare. Vuol esprimere la vita interiore del sacerdote, non tanto considerarlo nelle varie forme del ministero proprie di ogni sacerdote. Il card. Martini affermò che Gesù, dopo aver scelto i Dodici, prima di inviarli ad annunciare il Regno di Dio, li chiamò a Sé e volle che «stessero con Lui». È necessario che il sacerdote viva una profonda, personale amicizia con Cristo. E aggiunge: «Chi può annunciare che Dio è amore se non colui che ha fatto una personale, ineffabile esperienza di amicizia con Cristo?». Ogni sacerdote è chiamato a vivere il desiderio della gloria di Dio. Questo significa provare un bisogno molto forte di far conoscere che Dio è amore. Così il ministero sacerdotale acquista una efficacia speciale. Scrive R. Voillaume, dei Piccoli Fratelli di Gesù: «Ricordo ciò che mi diceva un vescovo quando venne a visitare la fraternità della sua città. Dopo aver parlato del disorientamento di molti preti e del piccolo numero di vocazioni nel suo seminario, aggiunse: “Non meraviglia; i preti non danno l’impressione di essere uomini felici!”. Purtroppo è vero in molti casi! È impossibile essere profondamente felici se si segue Gesù a metà. Non vi è felicità possibile a mezza strada tra il mondo o se stessi e il Cristo a cui si è dato tutto» (R. Voillaume, Lettere ai nostri fratelli, Morcelliana, p. 145). Un altro spunto di riflessione: «Non vi è forza d’animo senza gioia, e la tristezza è sempre sintomo di un’anemia della vita secondo lo Spirito e la grazia. Possiate ottenere questa grazia della gioia interiore, che è veramente 37


una manifestazione della carità. Questa gioia è a vostra portata, ad ogni istante, qualunque siano le ragioni esterne di tristezza, come frutto istantaneo di uno sguardo di fede su Gesù accompagnato da uno sforzo di distacco che strappa dal nostro cuore le ardici della tristezza. Dio vuole la gioia nel cuore dell’uomo, ma solo quel tipo di gioia che la croce purifica senza distruggerla» (idem, p. 151). Anch’io, con un grande maestro spirituale, oso pregare così: Voglio gridarti, Signore, la mia felicità di trovarmi, malleabile, nelle tue mani e di essere tempio della tua gloria. Ricordo che “malleabile” significa: disponibile alla volontà di Dio, perché è Lui che dà “forma”, valore alla mia vita.

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FIDUCIA Almeno qualche volta anche noi, probabilmente, siamo sbottati dicendo: «Non ce la faccio più!». Penso a qualche sacerdote sotto il peso dell’impegno “per sempre”; oppure quando la fatica di alcune rinunce importanti fa perdere l’entusiasmo del ministero sacerdotale. Penso a non poche coppie di sposi che, di fronte a grossi (!) imprevisti della vita di coppia, al pensiero del “per sempre” non ce la fanno più, nonostante il sacramento e il giuramento di fedeltà in ogni situazione. Il “per sempre” mozza il fiato, con tutte le conseguenze che ne derivano. Non si ha più fiducia nel coniuge e neppure nell’aiuto sicuro di Dio. Penso che sia ancor più drammatica la situazione di un consacrato che a un certo punto della vita si sente “solo”, abbandonato anche da Dio, oltre che dalla fraternità sacerdotale. È la storia di Mosè! Quanti ripensamenti di un certo “Sì”, promesso a Dio e giurato una volta nel sacramento dell’Ordine. E che paura del domani, dei giorni che passano sempre uguali! Non c’è più olio per alimentare la lampada della propria vocazione. Mi affido ancora alla penna del card. Martini: «Dobbiamo sapere entrare nella turbolenza della paura; dobbiamo sapere che giunge il momento in cui guardo alle mie forze e capisco di non farcela. Il dire “non ce la faccio con le mie forze” è un atteggiamento molto più grave di quanto non sembri, tanto più grave in quanto sembra corretto. Se mi fermo e torno a casa, sono già caduto. Se dimentico la fiducia fatta a Gesù, se dimentico la misteriosa attrattiva che mi ha portato a scegliere un impegno, una persona, un’amicizia, che mi ha motivato per una promessa, se dimentico che la vita si gioca nel fidarsi, sono finito. Paura e fiducia non stanno insieme» (C. M. Martini, Aprirsi. Massime spirituali, Piero Gribaudi editore, p. 21). Ancora una volta mi si presenta l’esempio inequivocabile di Abramo. Dio gli fa ripetutamente delle promesse positive, ma nello stesso tempo gli chiede inesorabilmente un impegno faticoso e di volta in volta maggiore, sempre fidandosi di Dio. I risultati li conosciamo: contro ogni aspettativa “umana”, ogni promessa di Dio si realizza puntualmente. Così Abramo cresce progressivamente come vero uomo di Dio. Ed è felice! 39


Se poi penso all’“Eccomi” di Maria SS. nel momento dell’Annunciazione, rimango senza parole. Il “Sì” di Maria è il trionfo della fiducia in Dio. La fiducia in Dio richiede, almeno certe volte, il consegnarsi, innanzi tutto a Dio, ma anche a qualcun altro, capace e pronto ad aiutarti. Voglio riportare la testimonianza personale di un mio amico sacerdote che ha subito un grave intervento chirurgico. Scrive questo mio amico: «Entrare in ospedale per un intervento significa consegnarsi nelle mani di altre persone: i medici, gli infermieri. Non è facile questo gesto, tanto meno scontato: quel corpo che è tuo con la sua storia, la sua intimità, la sua vita devi consegnarlo ad altri. Impari pian piano a lasciarti pulire, lavare, vestire…, e inoltre devi sottoporti a tutti i vari trattamenti clinici… (…) Quando ricevi una notizia come quella di un carcinoma, tutto ti crolla addosso, ti senti destabilizzato. Sono un prete, cosa sarà di me? È finita! Progetti, sogni, programmi pastorali… Tutto finisce o sembra finire di fronte a quello che devi affrontare. Mi devo misurare con quella fede sulla quale ho fondato la mia vita fino ad ora. Ma quale fede? Quando splende il sole, è bello vivere di fede, ma quando c’è il temporale o la tempesta, la fede viene messa alla prova. Non ho detto a Dio: “Sia fatta la tua volontà”, non sono stato capace, non ho avuto la forza e il coraggio per dire queste parole forse ripetute tantissime volte con superficialità. Una preghiera però è emersa dal profondo del mio cuore: “Signore, se hai permesso tutto questo, stammi vicino, fammi sentire la tua presenza in questo momento particolare della mia vita”. La certezza di questa presenza mi ha dato forza per affrontare sia l’intervento sia la degenza postoperatoria. Al mattino presto veniva a trovarmi la carissima Suor Maurizia con la quale iniziavo la giornata pregando. Mi ricordo che una mattina ha voluto ripetermi quella frase di S. Paolo che dice: “Quello che manca alla passione di Cristo per il bene della Chiesa”. Questa parola mi ha fatto riflettere molto. Cosa può mancare alla passione di Cristo quando nel momento della morte Gesù grida: “Tutto è compiuto”? Il cristiano partecipa alla passione di Cristo in quanto discepolo e seguace del Crocifisso: per questo, oltre a partecipare alla sua missione partecipa anche ai suoi dolori. (…) Non mi sono sentito degno di offrire la mia sofferenza, ma ho pregato per la mia comunità pastorale perché attraverso il mio dolore essa sia capace di quella testimonianza di unità, segno della vittoria pasquale di Cristo» (A. Longoni, Di fronte al carcinoma, Mimep-Docete, p. 45 s). 40


FINALMENTE Qualcuno mi dirà: Finalmente è un semplice avverbio, non è proprio una parola luminosa. Invece nel nostro caso lo è. Normalmente usiamo questo avverbio per esprimere con soddisfazione (e con un po’ di stizza) la fine di qualcosa di fastidioso. Questa volta invece vuol esprimere la felice conclusione di un’azione assai positiva; addirittura si tratta di tutto il progetto, realizzato, dell’azione di Dio. Può sembrare un’assurdità, eppure oso riscontrare in tre affermazioni bibliche i momenti fondamentali del progetto eterno di Dio. In tutti e tre vediamo che il punto focale è la centralità di Gesù, il Cristo. Vedo utile esporre le tre citazioni nella lingua latina, che è più espressiva e precisa della nostra lingua italiana. PRIMA CITAZIONE Efesini 1, 10: «Instaurare omnia in Christo, sive quae in coelis, sive quae in terra sunt, in Ipso». Il verbo “instaurare” significa: far esistere… con sicurezza, senza tentennamenti. Quindi, il primo atto di Dio creatore è quello di far esistere tutte le realtà, sia quelle della terra, sia quelle che esistono fuori della terra, “in Cristo”: tutto riceve l’esistenza perché il Cristo le fa esistere. Qualche volta contempli il creato come opera di Cristo? Oppure hai una visione “atea” del creato? “In Ipso”: proprio in Lui e solo grazie a Lui. Quindi, tutto ciò che esiste è in rapporto stretto con Cristo. SECONDA CITAZIONE Colossesi 1, 20: «Per Eum reconciliare omnia in Ipsum, pacificans per sanguinem crucis Eius, sive quae in coelis, sive quae in terra sunt, in Ipsum». Il verbo “reconciliare” suppone il peccato, quindi la separazione dell’uomo da Dio. Occorreva riappacificare, rimettere in amicizia l’uomo peccatore con Dio, che è solo amore, comunione tra le tre 41


persone della Trinità. E la riappacificazione avviene ancora una volta per opera di Gesù Cristo. Come? Per mezzo del Suo sangue sparso sulla Croce. Quindi, è la morte in croce di Cristo che rimette in amicizia l’uomo con Dio. Ci insegna che il mistero della Redenzione è solo opera del Cristo e non delle nostre opere buone. TERZA CITAZIONE I Corinzi 15, 24-28: «Deinde finis, cum (Iesus Christus) tradiderit regnum Deo et Patri, cum evacuaverit omnem principatum et potestatem et virtutem». Mi limito solo all’inizio di questa citazione. “Finis”! Ecco perché ho dato il titolo “finalmente” a questa riflessione. È chiaro che qui la parola “fine” non esprime la conclusione di un peso, di una fatica. Qui significa “completamento”, felice conclusione; più precisamente esprime gioia e soddisfazione perché in quel momento si realizzerà pienamente tutto il piano di Dio. Quindi, “fine”, nel nostro caso, esprime compiutezza, piena realizzazione! Ora Dio è felice; si complimenta con Se stesso, perché il Suo piano eterno si è… finalmente realizzato tutto, proprio tutto, e per opera di Gesù Cristo. Il Cristo è l’unico realizzatore del progetto di Dio. Aveva ragione S. Ambrogio di affermare: «Cristo è il tutto per noi!». Prima della solenne realizzazione, il Cristo dovrà eliminare, rendere un nulla tutti i nemici che Gli si opporranno (evacuaverit), sia i poteri politici (la storia ce lo insegna con chiarezza!), sia tutto ciò che vuol contrastare Lui, il Cristo. Solo allora Gesù, vittorioso e glorioso, consegnerà tutto il cosmo (uomini compresi), pienamente riappacificato con Dio, a Colui che è Dio (ossia la causa di ogni realtà) e Padre, cioè l’Amore e Comunione. S. Paolo conclude la sua entusiastica riflessione con queste chiare parole: «Ultima ad essere sottomessa sarà la morte… e Dio sarà tutto in tutti!» (I Cor 15, 25-28). Allora sarà davvero, finalmente, la piena realizzazione, il “pleroma” dell’intero piano di Dio, voluto fin dall’inizio del tempo. E la gloria di Dio sarà, finalmente, realizzata per sempre! N.B. In tale ottica il tempo, dall’Incarnazione del Verbo al Suo ritorno glorioso alla fine dei tempi, è tutto “tempo di Cristo”. È la storica realizzazione del piano di Dio. Questo è il valore 42


“religioso” del tempo. E la storia è (con occhi profetici) storia della missione di Cristo: è il realizzarsi, doloroso, della Redenzione mediante la attualizzazione storica della Sua morte in croce. UNA AUTOREVOLE CONFERMA Quanto ho scritto in questa riflessione trova una conferma molto autorevole: riporto tre citazioni prese dal Concilio Vaticano II. Lumen gentium (Costituzione dogmatica sulla Chiesa), al n. 17, afferma: «Dio ha costituito Cristo principio di salvezza per il mondo intero». Apostolicam actuositatem (Apostolato dei laici), al n. 6, afferma: «Dio stesso intende ricapitolare in Cristo tutto il mondo per formare una nuova creatura, in modo iniziale su questa terra, in modo perfetto nell’ultimo giorno». E al n. 7: «…affinché l’ordine temporale venga instaurato in Cristo». Ad gentes (Attività missionaria), al n. 3, afferma: «Dio, al fine di stabilire la pace, cioè la comunicazione intima tra Sé e gli uomini e di realizzare tra gli uomini stessi un’unione fraterna, decise di entrare in maniera nuova e definitiva nella storia umana, inviando il suo Figlio a noi con un corpo simile al nostro, per sottrarre a suo mezzo gli uomini al potere delle tenebre e del demonio e in Lui riavvincere a Sé il mondo. Colui, dunque, per opera del quale aveva creato anche l’universo, Dio costituì erede di tutte quante le cose, per tutto in Lui riunire».

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GLORIA RECIPROCA «Quando fu uscito, Gesù disse: “Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito. Figlioli, ancora per poco sono con voi; voi mi cercherete ma, come ho detto ai Giudei ora dico anche a voi: dove vado io, voi non potete venire. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri”» (Gv 13, 31-35). Il brano si trova nel vangelo di Giovanni in una posizione particolare: è alla fine del cap. 13. È opportuno ricordare che l’evangelista Giovanni dedica ben cinque capitoli all’ultimo incontro di Gesù con i suoi amici alla sera del Giovedì santo: è davvero un commiato solenne e cordiale, in cui il Maestro desidera imprimere nel cuore degli amici un ricordo di Lui, che sia un “vademecum” per la loro vita. L’intensità emotiva ed affettuosa da parte di Gesù è palpabile; pertanto le parole che Gesù consegna agli amici, le ultime parole per loro, vanno centellinate e assaporate. Dicevo che sono ben cinque i capitoli che Giovanni dedica all’Ultima Cena di Gesù, dal cap. 13 al 17, e comprende la mistica preghiera al Padre. Il nostro brano è la conclusione del cap. 13. All’inizio Giovanni, unico tra gli evangelisti, presenta Gesù che prima della cena lava i piedi agli apostoli. Era un gesto quasi umiliante perché era riservato agli schiavi: in tal modo Gesù insegna con chiarezza che il compito è il servizio umile verso gli uomini. È l’atto con cui Gesù dà inizio al commiato dai suoi amici. Poi dà l’annuncio che è arrivata l’ora di compiere la sua missione, che è la passione e la morte per noi uomini. A questo punto Gesù ci dà il suo insegnamento fondamentale. Nei pochi versetti del brano, solo sei, colgo tre parole che costituiscono la base dell’insegnamento di Gesù: un verbo: glorificare; un aggettivo: nuovo; un avverbio: come. 44


GLORIFICARE Nei primi due versetti ben 5 volte viene usato il verbo “glorificare”, fino quasi a mancarci il fiato (si usa dire). È volontà di Gesù, mediante la penna dell’evangelista, stamparci nella mente e nel cuore (siamo nel primo dei 5 capitoli dell’Ultima Cena!) che il fine di tutta la vita di Gesù è la gloria di Dio! Tutto ha principio dal Padre: è Lui che dà gloria al Figlio, perché il Padre è il principio di tutto; il Figlio, perché è Figlio, “deve” dare gloria a Suo Padre! Inoltre, secondo lo stile di Giovanni, ripete, rovesciandoli, i termini della gloria. Chiediamoci adesso: che cosa significa “glorificare”, e come Gesù glorifica il Padre? La risposta è chiara e inequivocabile: “glorificare” significa: rendere chiaro, far sapere e conoscere, addirittura proclamare ad alta voce chi è e com’è Dio Padre. Ci chiediamo ancora: perché Dio Figlio si è incarnato e come rende gloria al Padre? Quindi si tratta di far sapere a tutti che Dio è amore, solo amore, totalmente amore; e dire che il Figlio si è incarnato solo per amore verso noi uomini peccatori. Inoltre, proclamare che Gesù, il Cristo, dà gloria al Padre, vivendo la sua “ora”, cioè morendo in croce; ma, per amore (!), non per qualche altro motivo. È proprio la morte in croce di Gesù, accettata e affrontata solo per amore, che proclama ai quattro venti che Dio è totalmente amore, esageratamente amore, quindi cerca sempre il bene degli uomini, nonostante siano peccatori. È proprio un mistero impossibile da capire da parte di noi uomini. NUOVO Mi piace leggere questo aggettivo sotto due aspetti: innanzi tutto significa “diverso”; diverso dalla situazione precedente, e diverso dall’interpretazione comune, quella più facile e immediata. La diversità dell’amore di Gesù sta nel fatto che l’amore che lui ci dona non è semplicemente “umano”, ma è “divino”, addirittura “trinitario”. In effetti Gesù parla subito di un amore diverso dall’amore puramente umano. E nello stesso tempo, l’aggettivo “nuovo” indica 45


un amore che va al di là del tempo, della storia; un amore che entra nientemeno che nell’eterno. Più chiaramente dice che si tratta di partecipazione alla felicità divina, e… per sempre! COME «Come io vi ho amato». L’amore non è mai un “boomerang”: l’amore vero, specialmente quello divino, può essere rappresentato da una semiretta. L’atto dell’amore parte da me e va al fratello, perché in lui vedo Gesù, Dio. E a Lui, solo a Lui tende il mio atto d’amore verso il fratello. N.B. Per un approfondimento sugli elementi del “come” rimando al mio opuscolo intitolato COME. Lo stile del cristiano.

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DI PIÙ «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro…?» (Gv 21, 15). Gesù è già risorto; anche il rinnegamento di Pietro non c’è più. Pietro ha riconosciuto il suo peccato e lo ha pianto abbondantemente. Gesù gli ha perdonato tutto, e il rapporto con Gesù è ritornato intatto e bello come prima, come se nulla fosse successo. In questo momento non lo chiama “Pietro”, roccia, fondamento sicuro e stabile. Lo chiama invece con il suo nome… di famiglia, come tutti gli uomini, perché anche Pietro era un uomo …comune. Stavo per dire: Gesù lo chiama con il suo nome di battesimo. In questo momento Gli interessa Pietro nella sua umanità più vera, più genuina, più umile, cioè terra, terra. Gesù si rivolge a questo Pietro-Giovanni, il semplice uomo, senza alcuna aggiunta, senza il più piccolo motivo di eventuale orgoglio. Penso a me sacerdote, ma penso a me prima di essere consacrato sacerdote, a me ragazzino o adolescente: penso a me… Luigino (così mi chiamavano a casa), con tutti i miei limiti, ed erano tanti. Risento l’invito di Gesù: «Fatti prete!» (allora lo sentii in dialetto brianzolo). Era un invito rivolto proprio a me, solo a me. Incredibile, eppure era vero. Ma, che cosa Gesù ha visto in me in quel momento? Proprio nulla, perché ero un ragazzino proprio normale, non eccellevo in niente. È stato solo un Suo atto di amore verso di me, un bambino troppo normale, troppo “comune”. Eppure… Gesù mi ha chiamato “liberamente” senza che io avessi fatto qualcosa di speciale. Ricordo che in quell’istante mi sentii “preso”, anche un po’ sconvolto, ma con qualcosa dentro di me che mi trascinò, mi “costrinse liberamente” a dirGli subito di sì. Ed è ancora oggi una certezza insopprimibile dentro di me. E mi rende ancora felice, anzi, felicissimo. «Mi ami più di costoro?». Di fronte a una proposta di amore non si può dire di no. Ma amare come vuole Gesù stravolge il modo comune di vivere. 47


Vuol dire non pensare più a se stesso, ai propri progetti e interessi, ma solo alla felicità dell’altro. Vuol dire mettere i progetti dell’altro al posto dei propri, anche a costo di rinunciare ai propri desideri; vuol dire “vedersi” nell’altra persona, ecc. Gesù va ancora più in là; dice: “più di costoro”! Chiede a Simone di Giovanni di esagerare nell’amore verso di Lui. Quindi l’amore per Gesù da parte di Pietro deve essere totalizzante, perfino: unico! Posso dire che questo è quello che ho provato in fondo al mio cuore. Adesso, una invocazione che mi sorge spesso nel mio cuore è: Gesù, aiutami ad essere tuo, solo tuo, totalmente tuo, per sempre tuo. Se poi penso che Gesù ha rivolto per ben tre volte una tale domanda a Simone di Giovanni, rimango senza parole, per lasciare spazio allo stupore. E chiede una risposta immediata per tre volte, subito, totale, senza dubbi né incertezze. Mi rendo conto che la stessa esperienza mozzafiato è richiesta a un vocato al sacerdozio. Allora, il “più di costoro” non esprime superiorità verso nessuno. È solo una esigenza, anzi, una condizione necessaria, affinché Gesù possa, osi, chiedere a Simone: «Pasci le mie pecore». L’invito ripetuto tre volte esprime, non solo una proposta, ma una necessità secondo il cuore di Gesù. Per un sacerdote, che cosa comporta il pascere le pecore di Gesù? Vuol dire semplicemente spendersi, totalmente, sempre, per il popolo di Dio, ricordando che non esiste uno schema fisso di disponibilità; ma ciascun sacerdote è chiamato a servire la Chiesa secondo la propria personalità, ossia, secondo quanto Gesù richiede a lui personalmente. È augurabile che un tale colloquio tra Gesù e Pietro si rinnovi nella vita dei singoli sacerdoti. Senz’altro la Chiesa avrebbe più sacerdoti autentici. Lo sperano anche tanti fedeli. Esprime adeguatamente questo desiderio un vero laico e pensatore profondo, Jean Guitton, il quale così si esprime in un colloquio con Paolo VI: «Se (voi sacerdoti) volete gareggiare con noi o se pretendete di guidarci sul nostro terreno di laici, voi perderete. Ma vincerete sempre se vi fortificate con gioia, con energia e semplicità in quello che è il vostro terreno incomunicabile: il sacerdozio. Noi vi chiediamo innanzi tutto e soprattutto di darci Dio, soprattutto coi poteri che voi soli possedete, con l’assoluzione e la consacrazione. Vi chiediamo di essere gli “uomini di Dio”, i portatori della Parola atemporale, i distributori del Pane della vita, i rappresentanti dell’Eterno tra noi, gli ambasciatori 48


dell’Assoluto. Perché noi viviamo nel relativo, ma ci muoviamo, respiriamo, siamo nell’Assoluto (J. Guitton, Dialoghi con Paolo VI, p. 259). Lo stesso S. Paolo VI afferma con convinzione e con particolare calore: «Il sacerdote è considerato come l’uomo di Dio. È un essere umano che fa sua vita dare culto a Dio, cercare Dio, inebriarsi di Dio, studiare Dio, parlare a Dio, parlare di Dio, servire Dio. È l’uomo religioso, è l’uomo sacro. È l’intermediario tra Dio e gli uomini, è il ponte; rappresenta Dio agli uomini e gli uomini a Dio» (P. Macchi, Paolo VI nella sua parola, p.48).

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SGUARDO Oggi prendo in considerazione tre parole: faccia – volto – sguardo. Che differenza di contenuto! FACCIA è l’aspetto fisico, è qualcosa di oggettivo, ricevuto dalla natura, o meglio, dai genitori. Non esprime un sentimento. VOLTO manifesta emozioni, anche senza volerlo. Solitamente esprime un atteggiamento interiore di approvazione o di critica. Talvolta non è nemmeno una espressione voluta: è istintiva. SGUARDO esprime sempre qualcosa di voluto; è una manifestazione di approvazione o di rimprovero o di disappunto. Talvolta esprime tenerezza o compartecipazione alla gioia o al dolore di un’altra persona. Lo sguardo è sempre personale: è un mezzo assai eloquente per comunicare. Esso parla mediante gli occhi e l’espressione del volto. Tante volte è più efficace ed immediata la comunicazione con un solo sguardo piuttosto che con le parole. Nello sguardo è sempre il cuore che parla. Tante volte i Vangeli ci presentano lo sguardo di Gesù verso qualche persona: è sempre uno sguardo di amore. Il primo esempio è, ovviamente, quello di Gesù verso sua Madre: durante la Via Crucis, alla IV stazione, penso che sia stato non solo uno sguardo di partecipazione al dolore della sua Mamma, ma ancor più di ringraziamento commosso perché la Madre era lì, con Lui, perché non lo ha abbandonato nemmeno in quel frangente assai tragico. Fa tenerezza indescrivibile lo sguardo di Gesù alla Madre quando ormai è appeso alla Croce. Ciascuno si sforzi di indovinare i sentimenti di Gesù nel Suo sguardo verso la Mamma che sta, impietrita, sotto la Croce. Penso allo sguardo fermo e tenerissimo, oltre che affascinante, con cui Gesù guarda Simon Pietro e gli altri primi discepoli, tanto che, subito, cioè senza incertezza alcuna, lasciano le reti e Lo se50


guono. Chissà quale forza di amore e di compassione esprimeva lo sguardo di Gesù quando incontrò Pietro, il rinnegatore, nel cortile del pretorio. Certo, quello sguardo ha stravolto Pietro! Penso alla tenerezza con cui Gesù guardava i bambini, anche quella che all’ingresso in Gerusalemme cantavano Osanna al Figlio di Davide; eppure sapeva che dopo qualche giorno anche loro si sarebbero accodati alle grida: «Crocifiggilo!». Una menzione speciale merita lo sguardo sulla lunga schiera di peccatori che Gesù incontra per le strade e a cui rivolge il suo sguardo di perdono, tanto che tutti, dicono i Vangeli, si sentivano… “liberamente costretti” a cambiare vita e a riconoscere in Gesù il vero Messia da tanto tempo atteso. Un posto specialissimo merita la Maddalena. Ci basti lo sguardo con cui Gesù Risorto la guardò e pronunciò il nome “Maria” vale la pena di fermarsi in silenzio a rivedere e a riudire quella scena, e a tentare di riprovare in noi l’intensità di tenerezza con cui Gesù pronuncia il nome di quella donna. Penso con intensità di cuore allo sguardo con cui Gesù fissò i suoi occhi negli occhi del giovane ricco, quando costui disse sinceramente e baldanzosamente, «Questo l’ho sempre fatto». Questo incontro richiede davvero una lunga e silenziosa contemplazione personale. Un capitolo a parte meriterebbe lo sguardo di Gesù verso Giuda al momento dell’arresto. Chissà con quale sguardo di bontà e di perdono promesso disse al traditore: “Amico!”. Chi riesce ad elencare i sentimenti di Gesù espressi con quello sguardo e quella parola? Gli esempi richiamati, e tutti gli altri, ci dicono che lo sguardo di Gesù è sempre e solo amore, perdono. Però ci dicono nello stesso tempo che, anche di fronte allo sguardo di amore di Gesù, l’uomo è sempre libero.

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SILENZIO Oggi in un momento di tranquillità ho aperto a caso l’Imitazione di Cristo. La prima frase che mi è capitata sotto gli occhi mi ha scioccato e mi ha stordito: mi ha costretto a lasciarmi penetrare il cuore e a guardarmi dentro. Ecco la frase incriminata: «Ama nesciri et pro nihilo reputari» (libro I, cap. II). “AMA” L’amore è la forza della vita, è il motore di ogni attività. È ciò che rende bella la vita, indipendentemente dalle circostanze. Allora oso tradurre questa voce verbale così: sforzati di…; datti da fare per…; ricordati che la tua felicità sta in quello che ora ti propongo… Coraggio, non fermarti! Non si tratta quindi solo di cosa del cuore! “NESCIRI” È un infinito passivo e significa: essere sconosciuto, dimenticato, “scartato”; vivi come se nessuno ti conoscesse e si interessasse di te. Prova a vivere così! Ti senti non solo inutile, insignificante agli occhi degli altri; addirittura ti senti già “colui che fu”! È inevitabile: in questi momenti ti chiedi: È giusto? Dio mi chiede questo? Che cosa vale allora nella mia vita? Scrive un certo Henri J. M. Nouwen, che ha voluto vivere per alcuni mesi l’esperienza di un monastero trappista: «Se corriamo alla cassetta delle lettere sperando che qualcuno… dall’altra parte ci ricordi; se ci chiediamo se e che cosa pensano di noi gli altri, se continuiamo a desiderare di nascosto di essere un tipo eccezionale nella comunità, se seguitiamo ad immaginare che gli ospiti facciano il nostro nome, se cerchiamo di ottenere attenzioni speciali da parte dell’Abate, o degli altri monaci, se seguitiamo a sperare di fare un lavoro più interessante o che accadano cose stimolanti – allora sappiamo di non avere neppure cominciato a creare nel cuore un piccolo spazio per Dio. Quando nessuno ci scrive più, quando quasi più nessuno ci pensa o si chiede come stiamo, quando siamo soltanto uno dei fratelli e facciamo quello che fanno gli altri, né meglio né peggio, quando la gente ci ha dimenticato – forse allora il cuore e la mente si sono svuotati abbastanza per concedere a 52


Dio una possibilità concreta di renderci nota la sua presenza» (H. J. M. Nouwen, Ho ascoltato il silenzio, Editrice Queriniana, p. 60). “ET PRO NIHILO REPUTARI” Tradotto in italiano mozza il fiato in gola! Significa letteralmente: essere ritenuto dagli altri un nulla, un incapace, un uomo insignificante, come se nemmeno esistessi… Umanamente è davvero troppo. E tutto questo in una società in cui vale solo l’apparire, l’essere invidiato e ammirato. Questo vuol dire proprio essere fuori dal tempo! Non è umano un vivere così – si pensa comunemente! Eppure… Scrive ancora il nostro trappista “a tempo determinato”: «Ho sempre nutrito lo strano desiderio di essere diverso dagli altri. Probabilmente è una cosa che accade a tutti. Ma se penso a questo desiderio e al modo in cui ha operato nella mia vita, capisco sempre meglio come, nel modo di vivere, io abbia partecipato all’ansia di “divismo” della nostra epoca. Voglio dire, scrivere o fare qualcosa di “diverso” e di “speciale” che fosse notato e di cui si parlasse. Per chi abbia un’immaginazione fertile ciò non è difficile e conduce agevolmente al “successo” desiderato. Si può insegnare in maniera diversa da quella tradizionale ed essere notati; si possono scrivere frasi, pagine e anche libri, considerati nuovi e originali; si può perfino predicare il Vangelo in modo tale da far credere alla gente che nessuno ci avrebbe mai pensato prima. Tutte queste esibizioni finiscono con l’applauso, perché si è fatto qualcosa di sensazionale, perché si è “diversi” (idem, p. 60). (…) So troppo bene quanto sia difficile vivere senza essere necessari, desiderati, richiesti, conosciuti, ammirati, encomiati. Solo pochi anni fa, in Olanda, avevo abbandonato l’insegnamento per un anno, andando a vivere in città, come studente, in una stanza d’affitto. Pensavo che sarei stato finalmente libero di studiare e di fare molte cose che non potevo fare quando ero tanto occupato e richiesto. Ma che cosa era accaduto? Senza lavoro, ero stato presto dimenticato. Le persone che credevo sarebbero venute a farmi visita non si erano fatte vive; gli amici che immaginavo mi avrebbero invitato erano rimasti zitti, i sacerdoti che credevo mi avrebbero chiesto di assisterli nella liturgia domenicale o di fare qualche predica non avevano avuto bisogno di me. L’ambiente circostante aveva reagito proprio come se io non esistessi più. Era grottesco che avevo sempre desiderato la solitudine per lavorare e proprio quando l’avevo ottenuta non vi riuscissi, diventando tetro, iracondo, acido, pieno di odio, amaro e lagnoso. (…) Adesso, a tre anni di distanza, 53


mi trovo nelle stesse condizioni. Ogni volta che vado alla cassetta delle lettere e la trovo vuota, alcuni degli stati d’animo sperimentati in Olanda minacciano di riaffiorare. Anche in questo luogo protettivo, circondato da persone buone, temo di essere dimenticato, abbandonato» (idem, p. 63-64). La mia riflessione ha toccato il fondo quando ho considerato queste proposte in senso riflessivo; ossia quando io stesso mi impegno a non cercare la mia soddisfazione compiaciuta e il bisogno di farmi valere di fronte agli altri perché ho costatato che ciò non mi dà felicità. Io stesso non mi ritengo riuscito e non cerco, anzi, non voglio la notorietà. Ti assicuro che un tale comportamento non vuol dire annullarmi, tanto meno vuol dire uccidermi come uomo. Credimi: quanto più ti liberi da te stesso, dal bisogno di apparire e di essere apprezzato secondo i tuoi desideri e amato passionalmente, tanto più ti sentirai libero dalle tue “scorie”, ed emergerà finalmente il valore autentico e inconfondibile della tua persona, unica, irripetibile, creata per amore da Dio e chiamata “per nome” (!) da Dio stesso. E godrai in te una gioia e pace nel contemplare la tua bellezza, perché ti vedrai come Dio ti ha pensato e creato. È impegnativo, talvolta difficile vivere così: eppure è la strada maestra della libertà da ogni impaccio e proverai la gioia di “volare alto”. Occorre però vivere quotidianamente il SILENZIO da se stesso, quello che io chiamo: silenzio dalla (sì, “dalla”, non “della”) mia “carnalità”. È chiaro: non parlo del silenzio fisico, ma di un silenzio dalla agitazione e delle pretese del mio io passionale. Finalmente il mio “io” sarà libero di vivere autenticamente, come Dio mi ha amato e creato. Ascoltami: se desideri riflettere in particolare sul valore del silenzio della parola, ti propongo un’altra riflessione del nostro “monaco a tempo determinato”. «Silenzio. Il silenzio per me è proprio importantissimo. La settimana scorsa, con il viaggio a New Haven, fitto di discussioni e di scambi verbali, di telefonate apparentemente necessarie e di discorsi con i monaci, il silenzio è stato sempre meno presente nella mia vita. Con il diminuire del silenzio è nato un senso interiore di contaminazione. In principio non sapevo perché mi sentissi come sporco, impolverato, impuro, ma poi mi è venuta l’idea che la 54


mancanza di silenzio potesse essere la causa principale. Mi rendo sempre più conto che insieme alle parole entrano nella mia vita dei sentimenti ambigui. Sembra quasi impossibile parlare e non peccare. Anche nelle discussioni più elevate entra qualcosa che pare contamini l’atmosfera. Stranamente, il parlare mi rende meno agile, meno aperto, più accentrato in me stesso. Domenica scorsa, dopo aver parlato con i miei allievi, non solo ero stanco e teso, ma mi sembrava anche di aver toccato qualcosa che non avrei dovuto, come se, solo parlando avessi distorto qualcosa, come se avessi cercato di afferrare una goccia di rugiada. Poi sono rimasto inquieto e non ho potuto dormire. (…) Quando tornerò alla scuola, il silenzio dovrà diventare una parte vera della mia esistenza. “Nel molto parlare non manca la colpa” (Prv 10, 19). Molti mi chiedono di parlare, ma nessuno mi ha mai invitato a tacere. Eppure sono sicuro che più parlerò, più avrò bisogno di silenzio, per rimanere fedele a ciò che dico. La gente si aspetta troppe parole e troppo poco silenzio. (…) Se le parole debbono nascere dal silenzio, avrò bisogno di molto silenzio per impedire alle parole di uscire piatte e superficiali» (idem, p. 131 s). Può sembrare strano, eppure è vero: c’è qualcuno che ha paura del silenzio, perché nel silenzio normalmente emergono alcuni stati d’animo che vorremmo tener nascosti dentro di noi, e non permettere a nessuno di scrutare nel profondo del cuore. Scrive il card. Martini: «L’uomo che ha estromesso dai suoi pensieri, secondo i dettami della cultura dominante, il Dio vivo che di sé riempie ogni spazio, non può sopportare il silenzio. Per lui, che ritiene di vivere ai margini del nulla, il silenzio è il segno terrificante del vuoto. Ogni rumore, per quanto tormentoso e ossessivo, gli riesce più gradito; ogni parola, anche la più insipida, è liberatrice da un incubo; tutto è preferibile all’essere posti implacabilmente, quando ogni cosa tace, davanti all’orrore del niente» (C. M. Martini, Aprirsi, Piero Gribaudi editore, p. 32). Chi vuol continuare a riflettere sul valore del silenzio, legga anche quanto scrive Sergio Deison: «Il silenzio – il silenzio che pensa, ascolta, accoglie, si lascia animare – è condizione indispensabile perché la parola possa non solo nascere e risuonare, ma essere davvero evocativa, autorevole, incontrare e scendere in profondità. È il silenzio che dà pienezza, intensità, luce, calore alla parola. Se la parola non è carica di silenzio, risulta vuota, anzi è un rumore, un suono disarticolato e superficiale, che ha perduto il suo contatto con la profondità dell’essere. È il silenzio che rende bella la parola. 55


La rende viva, toccante, penetrante, capace di comunicare la vita, di far sì che due persone si incontrino a una tale profondità da sentirsi uno» (S. Deison, Il canto del silenzio, Paoline, p. 77). Per chi vuol… vivere un po’ di silenzio aggiungo qualche spunto “sussurrato”. «Il silenzio/ è un filtro/ attraverso cui/ ogni suono/ ogni parola/ ogni rumore di cose,/ ogni grido di uomo/ viene accolto, purificato, immerso/ nell’infinità di Dio:/ diventa preghiera» (Sr. Emanuela). «Il silenzio/ non è un’evasione,/ ma il raccogliersi/ di noi stessi/ Nelle mani di Dio» (M. Delbrel). «Darsi, consegnarsi, affidarsi/ totalmente al silenzio/ di un vasto paesaggio/ di boschi e colline,/ o mare o deserto./ star fermi, mentre il sole/ sale sulla terra e ne colma di luce i silenzi…/ Pochi sono disposti a immergersi/ completamente in tale silenzio,/ a lasciare che se ne impregnino/ le loro ossa, a respirare il loro silenzio,/ a nutrirsi di silenzio e a mutare/ la sostanza della loro vita/ in un silenzio vivo e vigile» (T. Merton). «I monasteri,/ dove il silenzio ha il ritmo dell’eterno,/ sono una vera capitale/ di umanità./ Il monaco/ è una benedizione per tutti./ Provatevi ad avvicinarlo:/ vi troverete più ricchi/ più veri,/ più autentici,/ perché avete incontrato/ chi vive in dimestichezza/ con le realtà più alte/ che si assimilano solo/ nel grande silenzio della cella» (G. Pellegrino). «Il silenzio di se stessi,/ del proprio essere / che approda in Dio:/ questo è preghiera!/ nel deserto si incontra/ il Dio silente/ che parla con quella/ che noi chiamiamo assenza./ È presente in questo modo/ perché così l’uomo diventa/ un’attesa, una capacità di Dio,/ uno spazio libero/ in cui si può compiere/ l’evento della salvezza./ Il silenzio non è per un vuoto,/ per una chiusura,/ ma per un fluire del Verbo,/ un aprirsi all’eterno,/ un fare spazio all’ascolto/ di Colui che ci abita». (S. Deison, Il canto del silenzio, Paoline, p.146-152-158-170-174)

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STUPORE È una emozione istintiva, prima di essere un atto razionale, di fronte a qualcosa, un fatto, un avvenimento, normalmente positivo. Ciò dà gioia e anche un piacere sensibile. È qualcosa di improvviso e imprevisto… Dà la sensazione di essere quasi sospesi in aria, non più ben piantati sulla terra. Si rimane con gli occhi sbarrati e a bocca aperta, senza parole. Credo che lo stupore si possa provare anche di fronte alla Eucaristia, quando si è in adorazione. A proposito di stupore vedo istintivamente la Maddalena davanti a Gesù Risorto nell’istante in cui sente pronunciare il suo nome da Gesù, tangibile e vivo, che le sta di fronte, e… con quel tono di voce che le aveva conquistato il cuore. Povera Maddalena, probabilmente è riuscita solo a esclamare un “Oh…” lungo, lungo, senza poter biascicare alcuna parola. Ma in quell’ “oh” lungo c’era tutta lei, viva! Eppure viveva in un’altra vita. Fino a questo punto ci trasforma lo stupore: ci fa vivere una esperienza surreale, ma verissima. Penso allo stupore che hanno provato gli apostoli all’apparire impensato, e impossibile, di Gesù risorto; in particolare vedo trasognato l’apostolo Tommaso trovandosi davvero alla presenza del Risorto e vivendo l’esperienza fisica delle Sue piaghe. Penso certamente ai due discepoli di Emmaus allo spezzare il pane da parte di Gesù, vivo, alla loro presenza. Provate ad osservare i volti, gli occhi dei cari apostoli all’apparire di Gesù risorto, in carne ed ossa. Forse anche loro si sono limitati a un “Oh…”, incapaci di pronunciare una sola parola. Chissà quanti sentimenti, anche contrastanti erano contenuti in quell’“Oh…” silenzioso, ma ricco di sentimenti. Penso allo stupore ineffabile della donna Samaritana per l’affermazione di Gesù: «Sono io che parlo con te!», il Messia atteso. Un biblista di valore intitola “La brocca dimenticata” il commento a questo episodio. La Samaritana, dopo l’incotro drammatico con Gesù, è scappata via senza nemmeno preoccuparsi di attingere acqua; o forse… non aveva più sete! 57


Un esempio particolare è quello del cieco nato, a cui Gesù dona la vista: in lui lo stupore si traduce istintivamente in atto di fede e di adorazione: «Credo, Signore» e si prostrò in adorazione – conclude l’evangelista Giovanni. In quel frangente il cieco guarito era perfino incapace di ragionare, di esaminare la situazione. Lo stupore gioioso lo ha portato immediatamente a consegnarsi a Gesù, il Cristo visto e conosciuto personalmente. Ancora, penso a certi fatti miracolosi che accadono ancora oggi. Perfino alcune persone ‘normali e semplici’, con il loro modo di comportarsi, ci stupiscono davvero positivamente. Vale la pena di ammirarle! Aggiungo che talvolta viviamo certi momenti, anche solo qualche istante, di intimità con Gesù, che suscitano in noi un vero stupore. Dovremmo sperimentare un vero e profondo stupore dopo aver ricevuta la Comunione: è un augurio! In quel momento “mistico” non dobbiamo pronunciare parole, nemmeno di domande. Una cosa sola è augurabile in quell’istante: prendere atto di una realtà “nuova” come grida S. Paolo: «Adesso non sono più io che vivo: è Cristo che vive in me!» (Galati 2, 20). E rimanere, anzi “stare” in silenzio! Trovo differenza tra “stupore” e “meraviglia”. La meraviglia la vedo come qualcosa di esterno a me: significa ammirare una bellezza esterna a me, e si riferisce a qualcosa di oggettivo; lo stupore invece è solo qualcosa di interiore a me, è dentro di me, tocca il cuore e la mia sensibilità e mi coinvolge nel profondo di me stesso. Il card. Martini osa affermare che la lode a Dio, se è genuina, è una forma dello stupore: «Ogni uomo è fatto per lodare Dio: anche tutti quelli che in questo momento non ci pensano, anche tutte le persone che sembrano così lontane da una situazione di lode, sono in realtà fatte per questo. La lode è lo stupore di non essere noi il centro dell’universo, è la gioia che ci sia Qualcuno più grande di noi, che ci ama senza limiti, Qualcuno che ama ogni uomo». Su questa scia penso che dovremmo imparare a vivere lo stupore per la nostra bellezza, specie quella morale e spirituale: ogni persona è davvero un’opera d’arte (!) perché creata da Dio, così! Dio crea ogni uomo e lo chiama “per nome”. Proprio per un tale motivo ogni uomo è bello, perché creato da Dio così com’è! 58


Un vescovo che viveva e addirittura respirava in Cristo affermava che un uomo, quanto più è mosso dallo Spirito Santo, tanto più è preso dallo stupore di fronte alle creature, perché tutte sono opera di Dio. E, inebriato da questo stupore, ci lasciò una preghiera, una elevazione da vero innamorato di Dio. La intitolò “Saziarmi di Dio”: «Forse è finita, Signore, la stagione dello stupore, quando gli uomini davanti a te restavano sopraffatti dalla meraviglia, dall’entusiasmo. Non abbiamo più il senso della tua gloria, non siamo più capaci di andare oltre le umane novità e non ci lasciamo segnare dalla sconfinata bellezza e dalla tremenda esperienza della tua forza, della tua onnipotenza, della tua trascendente grandezza. Come vorrei trovare la capacità dell’uomo biblico che si esalta dinanzi a te: Dio grande, Dio sublime, Dio munifico! Riprendo in mano i Salmi per lasciarmene intridere: voglio lasciarmi prendere dalla lode, dalla esultanza nel benedirti, nel glorificarti, o Padre. Mio Dio, quanto sei grande! E quanto sono piccolo, quanto è piccolo l’uomo al tuo cospetto! Signore, che io ti conosca. Che io sappia spalancare gli occhi sulla bellezza delle tue opere, con profondità, con intensità, con entusiasmo. Lo splendore della tua gloria non mi lasci indifferente: i nostri occhi tu li hai aperti perché li saziassimo di te. Sarà questa la piena beatitudine della vita eterna, ma comincia già qui, nella fede. A misura che la mia fede cresce, lo stupore aumenta e la conoscenza di te diventa inesauribile novità che mai potrà illanguidirsi nella noia, perché tu la ricolmi di beatificanti scoperte, di entusiasmanti certezze, ogni giorno di più. Signore, mio Dio! Io ti ringrazio per quello che tu sei e per quello che di te stesso ogni giorno mi doni, lasciando traboccare luce e gloria» (A. Ballestrero, Preghiere, Piemme, p. 22).

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VERGINE E MADRE Suppongo che molti conoscano già questa poesia-preghiera, che è una delle più alte di tutta la letteratura italiana. Apprezzata, forse, di più per il contenuto. Dante termina la sua Divina Commedia (siamo al XXXIII canto, l’ultimo del Paradiso) con una straordinaria preghiera alla Madonna, quasi per affidare alla Madre di Dio la sua opera monumentale. Dante non osa rivolgere personalmente una tale preghiera a Maria SS. La affida a S. Bernardo, considerato dalla cristianità il “cantore di Maria”. Riporto il testo della poesia-preghiera, perché è un testo che non si presta a una spiegazione troppo razionale: va vissuta interiormente, va contemplata interiormente nel cuore; bisogna fermarsi in silenzio a “sentirla” in uno stupore esultante. Ecco il testo: Vergine madre, figlia del tuo figlio, umile e alta più che creatura, termine fisso d’eterno consiglio, tu se’ colei che l’umana natura nobilitasti sì, che ’l suo fattore non disdegnò di farsi sua fattura. Nel ventre tuo si raccese l’amore, per lo cui caldo ne l’eterna pace Così è germinato questo fiore. Qui se’ a noi meridiana face di caritate, e giuso, intra i mortali, se’ di speranza fontana vivace. Donna, se’ tanto grande e tanto vali, che qual vuol grazia ed a te non ricorre, sua disianza vuol volare sanz’ali. 60


La tua benignità non pur soccorre a chi domanda, ma molte fiate liberamente al dimandar precorre. In te misericordia, in te pietate, in te magnificenza, in te s’aduna quantnque in creatura è di bontate. (Dante, Divina Commedia. Paradiso, Canto XXXIII, versi 1-21) Non oso (e non so) “spiegarla”. Mi limito a qualche suggerimento, affinché ciascuno la viva in se stesso, nel profondo del suo cuore. E ne resti avvolto in una vera contemplazione. Proverà una gioia ineffabile, e scaturirà spontaneamente dal suo profondo “io” una vera preghiera mistica. Più che una poesia, vedo una elevazione spirituale, che vorrei chiamare “teologica-geometrica”. Non vi spaventi questa terminologia. Qui ciascuno è invitato a vedere e a godere il contenuto che è vera e profonda teologia. La struttura è molto schematica e… geometrica: usa nella successione delle terzine una vera decrescenza geometrica. La parte che prendiamo in considerazione comprende 21 versetti, precisamente sono 7 terzine. È risaputo che i numeri 3 e 7 erano considerati i numeri indicanti perfezione, e talvolta perfino “perfezione religiosa”. Come non vedere in questa scelta la volontà di Dante di esprimere la somma perfezione in Maria? Anche la suddivisione delle terzine parla chiaro: Dante dedica le prime 4 terzine per cantare Maria in rapporto con la Trinità. Poi dedica 2 terzine (è vera decrescenza geometrica) per cantare il rapporto tra Maria SS. e noi uomini. Da ultimo dedica una sola terzina per cantare le bellezze spirituali e morali della Madonna. Dante non si limita a contemplare le bellezze come fossero delle semplici qualità morali, sia pure molto belle e preziose. Egli le vede come realtà, che riguardano l’essere di Maria, delle realtà concrete. Dante dice: «quantunque in creatura è di bontate», non parla solo di bellezza. Noi, probabilmente, ci saremmo aspettati molto più spazio al canto delle sue virtù, incominciando dalla fede. Noi vediamo Maria con occhi umani, così come lei ci appare e sempre in rapporto 61


a noi. E In fondo pensiamo che la bellezza di Maria sia opera sua, un suo merito. Invece Dante vede che la grandezza di Maria SS. è opera di Dio; Dante sa che la sua straordinaria bellezza consiste nel suo speciale, unico, divino rapporto con la Trinità SS. Tutto il resto (il rapporto di aiuto con gli uomini e anche il suo personale splendore) sono solo conseguenze della sua vita beata in rapporto con la Trinità. Questa è teologia vera, cattolicissima. Non lascia spazio al sentimento personale, che è sempre mutevole. QUALCHE SUGGERIMENTO per la nostra personale riflessione Le prime quattro terzine dicono, anzi, fanno brillare lo splendore di Maria nella mente di Dio. Dante usa delle espressioni opposte in se stesse, che umanamente si escludono a vicenda (vergine e madre, figlia del tuo figlio), impossibili da connettere tra loro, da mettere insieme. Espressioni perfino innaturali secondo l’esperienza umana. Nemmeno permettono di ragionarci sopra. L’esperienza nostra, saggia e inequivocabile, dice che la verginità di una donna esclude “per natura” la maternità in quella donna. E viceversa. Eppure Dante inizia la sua preghiera affermando la verità di questa assurdità… umana! Ma, se accogliamo quanto afferma Dante, rimaniamo “afatici”, incapaci di parlare; eppure il cuore gioisce per uno stupore ineffabile ma reale. Ed è felice! Nella natura non si è mai visto che questi duplici opposti si possano realizzare contemporaneamente nella stessa donna. Eppure Dio rende reali anche queste due impossibilità, per la gloria di Dio e per cantare che a Dio nulla è impossibile. Un tale inizio rende impossibile ogni spiegazione e ogni commento razionale. Si è invitati solo a vivere un silenzio contemplativo, senza ragionarci sopra; solo si è chiamati a godere spiritualmente e a glorificare Dio per queste due impossibilità umane, che Dio ha realizzato in Maria. Tutto il resto è secondario, perché tutto è quasi una naturale conseguenza di un particolarissimo capolavoro della Grazia in Maria SS. “Vergine madre”: “vergine” esprime la libera decisione di Maria di essere tutta e sola di Dio; “madre” esprime l’amore infinito di Dio. Quindi in questo contrasto si incontrano e si realizza62


no reciprocamente le due libertà: quella di Dio e nello stesso tempo quella della donna, Maria. Se la verginità esprime tutta la spiritualità di Maria, la maternità non annulla la libera scelta, di amore, della verginità, ma la completa con l’atto supremo di una donna. Tutto questo, ovviamente, è opera-dono di Dio! Ripeto: qui ci vuole solo il silenzio contemplativo e beatificante. Lo stesso vale per l’altra affermazione dantesca: “figlia del tuo figlio”. Qui non oso fare alcun commento: mi piacerebbe ascoltare un commento adeguato da parte di qualche mamma. Vera! Una verità ci insegna Dante anche con questa affermazione: Dio non è sottoposto alla natura; Dio è divinamente libero dalla stessa natura e la usa liberamente secondo il Suo volere. “Umile e alta più che creatura”. Dante osa vedere Maria SS. come la prima, la più “simile” a Dio tra tutti gli uomini, di sempre. Nello stesso tempo vede in Lei la più consapevole della propria nullità (addirittura, non esistenza!) al di fuori di un vero rapporto con Dio. La vede e la contempla nella luce della Trinità, quasi ammessa alla comunione intima con la Trinità. Per questo motivo, dice Dante, è da sempre il punto terminale, forse il fine, del pensiero-volontà di Dio. “Termine fisso d’eterno consiglio” è il fine sicuro, inequivocabile, certissimo di “eterno consiglio” esprime proprio il pensiero e la volontà di Dio stesso. Maria SS. è una tale, unica creatura perché Dio l’ha pensata e creata così. Per tale fatto Maria è “alta più che creatura”. È semplice: perché Dio l’ha voluta così. Quasi esagerando, Dante dice: “termine fisso d’eterno consiglio”. Sì, esagerando: Dante osa cantare che Maria è diventata, pertanto, il fine della volontà di tutte e tre le Divine Persone verso l’umanità. Le successive tre terzine, seconda, terza e quarta, sono uno sviluppo della prima. Non penso che valga la pena di commentarle: si rischierebbe di umanizzarle troppo. Ritengo buona cosa rileggere più volte, da solo, nel silenzio, e molto lentamente queste prime terzine, fino a quando il cuore si sentirà beatificato e colmo di stupore. Le terzine cinque e sei le sento più… “razionali” È inutile: se vogliamo chiedere qualche aiuto a Dio, afferma seraficamente Dante, dobbiamo necessariamente rivolgerci a Maria SS. Allora 63


Gesù, sarà “costretto”, per amore alla Sua Mamma, ad accontentarci (pensa alle nozze di Cana). Addirittura Ella sa intuire in anticipo i nostri bisogni. La settima terzina (solo la settima!) è un vero Magnificat che canta tutte le bellezze di Maria, che non sono soltanto delle belle qualità splendenti, ma sono semplicemente la realtà di Maria, per volontà di Dio. Noi avremmo certamente richiesto più spazio per cantare le sue bellezze, ma giustamente Dante pensa che queste sono solo conseguenze del rapporto unico di Maria con la Trinità. Ed è questo che la rende unica, al di sopra di ogni donna di sempre. Per ulteriori spiegazioni e commenti ciascuno si rivolga ai suoi autori spirituali preferiti. Di fronte a una tale preghiera-poesia di Dante, l’unica cosa utile è stare in silenzio e lasciar cantare nel cuore un tale capolavoro, anche di teologia e di autentica spiritualità.

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VIVERE Era uno splendido mattino di sole, un mattino della mia iniziale adolescenza. In un incontro casuale con due Suore di passaggio da casa mia per vendere libri, senza che mi accorgessi, una luce, una voce, un grido (forse tutto questo insieme), mi fece vivere un attimo di stupore, mi illuminò il cuore e la mente: «Per me vivere è Cristo!». È il grido di S. Paolo ai Filippesi (Fil 1, 21). Se mi credete, da allora a tutt’oggi (sono ormai oltre la terza età!) è diventato ed è tuttora il motto della mia vita. Anzi, per risentirlo con maggior forza in me, preferisco ripetermelo in latino: «Mihi vivere Christus est». Solo da alcuni anni, consapevole della mia infedeltà, mi vedo… costretto a cambiare il verbo; non oso più affermare: “est” (ossia: è, è proprio vero!); ora lo leggo come un modesto desiderio e niente più, e dico: “sit!” (cioè: sia, spero che sia proprio vero; vorrei che fosse proprio così, ma…!) Alla mia attuale età mi auguro che a un certo punto della mia vita possa in modo autentico e sincero dire: “EST”!): davvero «per me, finalmente, vivere è proprio Cristo!»: adesso per me il vivere è conoscere e testimoniare Lui, il Cristo. Sono stato “costretto” a passare dall’“è” al “sia” il giorno in cui mi sono impegnato a fare un serio esame di coscienza, applicando ogni parola di quel programma alla mia vita vera, quotidiana, quella che io chiamo “feriale”. La vita, la gioia di vivere è nel più profondo della mia coscienza: si sappia che sono figlio postumo di padre di ben otto mesi! Sì, ci sono e sono ancora vivo (con buona pace degli abortisti!) E sono felicissimo di vivere, anche come sacerdote. Vorrei proclamare al mondo intero la bellezza della vita umana, sempre! Ecco qualche briciola di quell’onesto esame di coscienza. VIVERE È una voce verbale generica (è un infinito presente!), ma ha un significato, direi, omnicomprensivo. Che significato do al verbo vivere? Penso ai tanti elementi che entrano in questo verbo? Entrano senz’altro: la mente, il cuore, gli affetti, i sentimenti, ecc. È 65


compreso anche il corpo (la carne!). fanno parte del vivere anche la volontà, i progetti, le scelte concrete quotidiane, le motivazioni e le finalità delle mie scelte. Non posso escludere l’impiego del tempo, perfino delle singole ore; le necessarie precedenze degli impegni per una vita ordinata e razionale. Ovviamente entra anche lo stile del comportamento. Non posso nemmeno fare delle pause nella mia vita quotidiana, nel respirare di continuo. Ovviamente vivo sempre, ogni momento. Vivo nei momenti belli, positivi, ma anche in quelli negativi, dolorosi… Mi chiedo: in tutta questa congerie di elementi di vita reale è presente Cristo? oppure mi comporto come se Cristo fosse un… fantasma? Incide, dà significato e valore alla mia vita vera, feriale? PER ME In questa riflessione sto parlando di me, della mia vita, quella che sto vivendo, io, personalmente; quindi non voglio misurarmi con nessuno! Oggi mi interessa la mia identità, che è qualcosa di oggettivo, che ho ricevuto dai miei genitori (sarebbe più giusto dire: da Dio!), e che non mi sono costruito io. Nello stesso tempo riguarda la mia personalità, che è lo sviluppo della mia identità mediante l’esercizio della mia volontà. Inoltre, non sto facendo un discorso di principio, un discorso astratto. Quando dico “per me”, intendo riferirmi alla mia vita di oggi, parlo di “ora e qui”, come oggi mi trovo e come sto vivendo. UNA TENTAZIONE Mi è facile considerare il «Per me vivere è Cristo» come iniziativa mia, opera mia. In fondo penso: sono io a voler vivere così. È un affare mio! E tutto dipende dalla mia volontà. Anche S. Pietro proclama: «Maestro, ti seguirò dovunque andrai». È una lettura egocentrica, dove Gesù sta a vedere e basta, dove Gesù deve solo accettare le mie decisioni senza possibilità di intervenire. Invece è Lui che vive in me e che vuol vivere in me! Allora è certamente vero il verbo “est”, non “sit”. Mio compito è rendermi conto che le cose stanno così e impegnarmi a corrispondere alla Sua azione. Pertanto, l’augurio che mi faccio è di vivere ogni giorno il pro66


gramma di tutta la mia vita sacerdotale, perché vedo che la mia felicità sta proprio in questo: «Per me vivere è Cristo». In una parola si tratta di vivere IN CRISTO… Che splendore è l’uomo! Dice il salmo 8: «… che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi,/ il figlio dell’uomo, perché te ne curi?/ Davvero l’hai fatto poco meno di un dio,/ di gloria e di onore lo hai coronato./ Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani,/ tutto hai posto sotto i suoi piedi:/ tutte le greggi e gli armenti/ e anche le bestie della campagna,/ gli uccelli del cielo e i pesci del mare,/ ogni essere che percorre le vie del mare» (Salmo 8, 5-9). Così commenta il card. Martini: «Davvero grande è il mistero dell’uomo creato da Dio, e dobbiamo, anzitutto in noi stessi e poi negli altri, promuovere lo spirito contemplativo, la riverenza profonda verso l’indicibile mistero di Dio che si manifesta fin dal concepimento di ogni vita umana». Per vivere da cristiani, cioè IN Cristo, è necessario imitare Cristo. A questo proposito scrive il card. Ballestrero: «L’imitazione di Cristo è l’attuazione concreta della fede e della contemplazione; è il momento storico, terreno del nostro credere. (…) L’imitazione di Cristo l’abbiamo strumentalizzata e anche moralizzata, facendone una specie di sistema convenzionale, mentre è un valore teologale, una realtà di comunione, di identificazione, è un mistero di traboccamento di Gesù in noi e di assunzione di noi in Gesù» (A. Ballestrero, A immagine di Dio, p. 106).

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VOCAZIONE Oggi è un termine molto usato, perfino abusato. È vero: c’è una vocazione fondamentale derivante dal battesimo. Essere cristiano è una vocazione universale, perché il battesimo è uno solo, uguale per tutti. Pare che ci sia timore a usare la parola vocazione nel significato di speciale consacrazione a Dio. Io, qui, lo uso con questo significato specifico. Nel battesimo, ricevuto di solito da piccolini, il bambino non compie nessuna scelta, nessun atto di volontà e non ha ancora sperimentato la molla dell’amore. Nella vocazione, nel significato tradizionale, entrano sempre due attori… liberi: Gesù e il chiamato, o la ragazza chiamata. L’iniziativa è sempre di Gesù, è un atto liberissimo suo! Egli non obbliga mai: invita, trascina, talvolta infiamma il cuore, ma l’uomo (o la donna) rimane sempre libero. la vocazione è sempre questione di amore! È uno speciale atto di amore, libero, proprio perché si tratta di amore. Inoltre è sempre per la gloria di Dio; non è mai una scelta a proprio vantaggio. Da parte del chiamato è indispensabile l’attenzione a Dio! Talvolta non c’è all’inizio, ma quando uno si accorge che Gesù lo invita, allora, sì! L’attenzione a Dio richiede la piena libertà da sé e dai vari attaccamenti come la fonte della propria felicità. Inoltre, dall’attenzione a Dio nasce un vero dialogo con Lui, un dialogo vivo, coinvolgente, che possiamo riassumere in due parole: Eccomi, vengo. Con chiarezza scrive il card. Ballestrero: «(Gesù dice): “Chi vuol venire dietro di me”: subentra qui il senso della nostra responsabilità. L’abnegazione subìta non fa il cristiano, bensì quella voluta, quella rinuncia cioè che è la reciproca di una scelta... Chi rinuncia a un amore senza sceglierne un altro non è un uomo, è un mostro; ma chi sceglie un amore rinuncia a tutti gli altri. Così è l’uomo. (…) Scelgo Cristo rinunciando a me stesso, perché mi voglio bene, e il mio miglior bene, Signore, sei Tu. (…) La sequela totale di Cristo è l’abbandono di tutto. Gesù su questo punto è intransigente: chi non abbandona tutto non è degno di me. Non fa commenti, non dà spiegazioni. Egli non accetta di essere in concorrenza con nessuno. O Lui o gli altri. Un giorno ha detto: “Nessuno può servire a due padroni” (Mt 6, 24). 68


La vita, Gesù la vuole tutta; non vuole le cose dell’uomo, ma l’uomo; e sa che non può prenderlo a pezzi, perché la persona umana è indivisibile: o la prende tutta o non prende niente; o la creatura si dà tutta o non si dà per niente» (A. Ballestrero, A immagine di Dio, p. 135 s). Nei vari esempi di vocazioni presenti nei Vangeli mi fa riflettere sempre l’avverbio subito. Penso all’invito di Gesù rivolto ai primi discepoli; penso a Zaccheo, e a tanti altri. Quel subito dice: senza ripensamenti, senza condizionamenti di nessun genere. In una parola dice: libertà! È facile a dirsi, ma quanto costa! Quando un/a giovane afferma. “vengo, Gesù”, fisicamente comporta lo staccarsi dalla propria… sedia, dalle proprie comodità, dalle proprie idee fisse e spostarsi continuamente (nel cuore, nella mente e nella volontà), anche nella vita verso Gesù in persona. Questo significa di fatto staccarsi da se stessi e dai vari… orpelli. Vocazione non è aderire a un ideale, ma è solo percepire un fascino irresistibile verso Gesù, incontrato di persona, e seguirLo: questo comporta stare con Lui. Mi pare opportuno riportare due testimonianze, l’una di una adolescente, l’altra di una giovane. La adolescente scrive a proposito della vocazione: «La vocazione è innanzitutto scoperta del mistero di Gesù. Incontro, “dimora” con Lui. L’adolescenza è forse il momento più felice per questo incontro. Di colpo, intuisci che lui è – può essere – tutto per te. E lo cerchi in maniera appassionata. E cogli in questa amicizia con lui vivo la pienezza delle tue possibilità di espansione. E lui prende posto nella tua vita. Tutto il posto. Incontrare Gesù vuol dire fare una scelta di vita precisa, vuol dire giocare su di lui tutta la tua esistenza. Vuol dire deciderti per lui. Non si diventa “chiamati”, se non si fa questo primo passo. All’origine di ogni vocazione ci sta una parola dura, sferzante: “Lascia lì, abbi il coraggio di venir fuori, abbandona, deciditi per questo, e solo per questo, perché tutto il resto è secondario, è periferico, lo puoi anche perdere”…. Se si dovesse definire la vocazione con delle preposizioni, forse si potrebbero usare queste tre: in, da, per. La vocazione è: rimanere in Gesù, distacco da, disponibilità per…. Dio, quando interviene, provoca sempre una partenza, una “missione”…. L’incontro tra noi due – lui e me – non si ferma lì: noi due e basta. Ma si allarga, si spalanca. Sento il bisogno di andare dagli altri e di dire loro: “Ho trovato! Vieni 69


anche tu! Prova anche tu! Non posso rinunciare a spendermi, a disfarmi per loro”» (Prigionieri della speranza, Editrice Ancora, p. 30 s) La seconda testimonianza è quella di una donna vissuta nel secolo XX, nel mondo – diremmo noi – tra i “disperati” della vita, ma amati da lei con totalità d’animo, perché a un certo punto della vita e per un caso particolare ha incontrato Dio. Parlo di Madeleine Delbrèl (1904-1964). Scrive p. Antonio Sicari (Ritratti di Santi, vol. 6) in un breve profilo di questa donna tutta d’un pezzo, tutta o bianco o nero! Per lei non esistono altri colori: «Madeleine Delbrèl era una adolescente molto inquieta; non solo atea convinta, ma addirittura atea “arrabbiata” contro preti e Chiesa. Viveva una partecipazione interiore e pratica con gli operai, sfruttati, mal trattati, e sempre anticlericali. Naturalmente finì per accogliere il loro pensiero ateo senza discussione, forse senza un esame critico. E si buttò a condividere i loro disagi. A un certo punto, a 18 anni, incontrò un giovane molto dotato, oltre che bello. Se ne innamorò e ammirava totalmente questo giovane: rappresentava, incarnava secondo lei il suo ideale. Improvvisamente il ragazzo (Jean) scompare: sconvolta, Madeleine viene a sapere che Jean è entrato nel noviziato dei domenicani, ed è una separazione assoluta, cioè totale e definitiva. Non capisce. Il suo anticlericalismo si riaccende violento. “In quel momento, confessa, avrei dato tutto l’universo, pur di sapere che cosa ci facevo dentro!”. A questo punto le si pone il problema della fede, ma non come consolazione. A perseguitarla è il ricordo della bella umanità di Jean e di altri suoi amici conosciuti in quel momento felice. Queste frequentazioni la… costringono a pensare e a capovolgere la domanda di quand’era adolescente; allora si chiedeva. “Come si conferma l’inesistenza di Dio?”. Adesso si domanda: “Dio potrebbe forse esistere?”. Da ultimo ricorda che un giorno, in occasione di un incontro in cui vi era un baccano notevole era stata ricordata Teresa d’Avila che consigliava di pensare in silenzio a Dio cinque minuti al giorno. Da quel giorno divenne credente, praticante (attirata dall’Eucaristia) e missionaria. Arrivò fino al punto, senza abbandonare gli operai, di fondare una comunità femminile di persone consacrate e viventi nel mondo a condividere la sorte dei più trascurati». Invito a leggere per intero il profilo che traccia di lei p. Antonio Sicari. N.B. È proprio ineffabile lo stile che usa Gesù per invitare qualcuno a seguirlo totalmente. E non si ripete mai! 70


COLLANA GOCCE EUCARISTIA – Memoriale e segno (2012)

QUARESIMA AMBROSIANA – Vangeli delle domeniche (2012)

SEGUIMI – Spunti di vita cristiana (2013)

PASQUA – Memoriale della Redenzione (2014)

COME – Lo stile del cristiano (2014)

CHI SEI? – L’uomo nella Bibbia (2015)

FELICI SE… (2016)

La Sua e la mia VIA CRUCIS (2017)

PAROLE PARLANTI (2018)

PARTECIPIAMO! (2019)

IO, O NOI? (2020)

PAROLE LUMINOSE (2021)

Puoi trovarli anche su www.issuu.com


Pro manuscripto

Finito di stampare nell’ottobre 2021



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VIVERE ..................................................................................... pag

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