Al di là della montagna

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La Cultura 768



Norman Manea

Al di lĂ della montagna Paul Celan e Benjamin Fondane, dialoghi postumi Traduzione e cura di Marco Cugno


www.saggiatore.it (sito & eStore) Twitter @ilSaggiatoreEd Facebook il Saggiatore editore © Norman Manea, 2010 All rights reserved © il Saggiatore S.p.A., Milano 2012 Titolo originale: Dincolo de munți


Al di lĂ della montagna



Sommario

Al di lĂ della montagna (ascensione preliminare nella posteritĂ Celan-Fondane) Riferimenti montani

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Un dialogo tra Norman Manea e Ilana Shmueli

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Desiderare ed essere desiderato

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Parlando alla pietra

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Note

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Al di là della montagna (ascensione preliminare nella posterità CelanFondane)

Eines Abends, die Sonne, und nicht nur sie, war untergegangen, da ging, trat aus seinem Häusel und ging der Jud, der Jud und Sohn eines Juden, und mit ihm ging sein Name, der unaussprechliche, ging und kam, kam dahergezockelt, ließ sich hören, kam am Stock, kam über den Stein, hörst du mich, du hörst mich, ich bins, ich, ich und der, den du hörst, zu hören vermeinst, ich und der andre, – er ging also, das war zu hören, ging eines Abends, da einiges untergegangen war, ging unterm Gewölk, ging im Schatten, dem eignen und dem fremdem – denn der Jud, du weißts, was hat er schon, das ihm auch wirklich gehört, das nicht geborgt war, ausgeliehen und nicht zurückgegeben –, da ging er also und kam, kam daher auf der Straße, der schönen, der unvergleichlichen, ging, wie Lenz, durchs Gebirg, er, den man hatte wohnen lassen unten, wo er hingehört, in den Niederungen, er, der Jud, kam und kam. Kam, ja, auf der Straße daher, der schönen. Und wer, denkst du, kam ihm entgegen? Entgegen kam ihm sein Vetter, sein Vetter und Geschwisterkind, der um ein Viertel


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Judenleben ältre, groß kam er daher, kam, auch er, in dem Schatten, dem geborgten – denn welcher, so frag und frag ich, kommt, da Gott ihn hat einen Juden sein lassen, daher mit Eignem? –, kam, kam groß, kam dem andern entgegen, Groß kam auf Klein zu, und Klein, der Jude, hieß seinen Stock schweigen vor dem Stock des Juden Groß. So schwieg auch der Stein, und es war still im Gebirg, wo sie gingen, der und jener. Una sera che il sole, e non soltanto lui, era tramontato, si mise in cammino, uscì dalla sua casupola e si mise in cammino l’ebreo, l’ebreo e figlio di un ebreo, e con lui camminava il suo nome, l’impronunciabile, camminava e venne, venne strascicando il passo, facendosi sentire, venne col suo bastone, venne camminando sulla pietra, mi senti? tu mi senti, sono io, io, io e quello che tu senti, che credi di sentire, io e quell’altro –, egli dunque camminava, lo si poteva sentire, camminava una sera che più d’una cosa era tramontata, camminava sotto la nuvolaglia, camminava nell’ombra, la propria e quella di quell’altro – perché l’ebreo, tu lo sai, che cos’ha che gli appartenga veramente, che non sia in prestito, preso a prestito e non più restituito –, egli dunque camminava, e venne, se ne venne sulla strada, quella bella, incomparabile, camminava come Lenz, attraverso la montagna, lui che avevano costretto ad abitare di sotto, dov’è il suo posto, nelle bassure, lui, l’ebreo, se ne venne, venne. Se ne venne, sì, sulla strada, la strada bella. E chi mai, pensi tu, che gli venisse incontro? Incontro gli venne suo cugino, suo cugino e figlio di fratelli, più vecchio di lui di un quarto di vita d’ebreo, se ne venne grande, venne, anche


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lui, nell’ombra, presa a prestito – perché, così io domando e domando, quale ebreo, dato che Dio l’ha fatto tale, può venirsene con un’ombra tutta sua? – venne, venne grande, venne incontro all’altro, Grande venne verso Piccolo, e Piccolo, l’ebreo, ordinò al suo bastone di tacere davanti al bastone dell’ebreo Grande. Così tacque anche la pietra, ed era silenzio nella montagna, dove essi andavano, l’uno e l’altro.1 Il solo testo in prosa di Paul Celan, «Gespräch im Gebirg» («Conversazione nella montagna»), intitolato inizialmente nel manoscritto «Gespräch im Graubünden» («Conversazione nei Grigioni»), di cui ho citato l’inizio, è stato scritto, a quanto risulta, dopo il mancato incontro con Theodor W. Adorno, nell’estate del 1959. Celan, sua moglie Gisèle e il loro figlioletto Eric, di quattro anni, erano andati nel luglio del 1959 a Sils-Maria, località di villeggiatura delle Alpi svizzere, per una vacanza durante la quale doveva aver luogo anche l’incontro tra il poeta e il filosofo. Celan, tuttavia, anticipò il suo rientro a Parigi, mancando, «non casualmente», come avrebbe detto, il confronto. Si era sbagliato credendo che «il professor Adorno» fosse ebreo; in realtà, Theodor Wiesengrund aveva adottato la religione e il cognome della madre cattolica. La «Conversazione nella montagna» tra l’ebreo famoso (Grande) e quello timido e solitario (Piccolo) concepita da Celan dopo la partenza da Sils-Maria sarebbe dunque, secondo l’opinione invalsa, la conseguenza dell’incontro che non avvenne.2 Il bastone del «Piccolo» alpinista (Klein) tace, come gli viene ordinato, di fronte al «Grande» interlocutore (Groß), non necessariamente per rispetto, come si potrebbe supporre, ma,


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probabilmente (come notava Jean-Pierre Lefebvre, nel suo importante studio «Parler dans la zone de combat. Sur le Dialogue dans la montagne»),3 per insolenza. Non proprio inspiegabile… Adorno aveva rinunciato al cognome del padre a favore del cognome e della religione della madre, ma aveva anche avuto rapporti non proprio ammirevoli con i nazisti, negli anni trenta, come aveva affermato Golo Mann, ed era adesso uno di quei «Niebelungen de gauche» che si guardavano bene dal difendere il poeta nell’orribile «affare Goll» del plagio. Nel 1949, Adorno pronuncerà la celebre sentenza: «Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie»,4 che il poeta considerò un’incriminazione personale, benché il filosofo non conoscesse, a quella data, la celebre Todesfuge. Paradossalmente, ma non del tutto, l’intera opera poetica di Celan successiva al poema pubblicato a Bucarest nel 1947 diventa la prova più eloquente e rivelatrice del fatto che dopo Auschwitz si poteva scrivere poesia, ma non «allo stesso modo» di prima. Il filosofo in seguito modificherà la sua posizione, divenendo un ammiratore e un esegeta di Paul Celan, a cui rimprovererà di aver lasciato Sils-Maria in anticipo, nell’estate del 1959, perdendo l’occasione di incontrare l’ebreo davvero «grande», il dotto Gershom Scholem, studioso del misticismo ebraico, presente anche lui nella stazione alpina, che Celan leggeva e ammirava, iniziando a risentire della sua influenza. Nell’ampia monografia Paul Celan. Poet, Survivor, Jew,5 John Felstiner vede in «Conversazione nella montagna» un originale intersecarsi spirituale, alla maniera Celan, di Ingmar Bergman e Samuel Beckett. Egli suggerisce come fonti di ispirazione per il testo di Celan il racconto Lenz di Büchner in cui l’eroe


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impazzisce, gridando, nel suo vagare sulle montagne: «Sono l’Ebreo errante!»,6 oppure Così parlò Zarathustra, che Nietzsche ideò proprio a Sils-Maria (Celan annoterà su un esemplare della «Conversazione»: «In memoria di Sils-Maria e di Friedrich Nietzsche che – come sai – voleva uccidere tutti gli antisemiti») o «La gita in montagna» di Kafka (tradotto da Celan in romeno) o «Dialogo in montagna», il testo del 1913 di Martin Buber7 o, ancora, il saggio «Dell’interlocutore» di Osip Mandel’štam8 che Celan aveva tradotto in tedesco. «Quale che fosse la fonte – l’incontro mancato con Adorno, i riferimenti a Büchner, Buber, Kafka, alla traduzione di Mandel’štam – la narrazione dà voce» osserva Felstiner «alle prolungate meditazioni sulla lingua, sul discorso, sul nominare, in un contesto di oralità.» Il critico americano si sofferma, nel suo commento, sul nome «impronunciabile» sotto i nazisti (e non solo), come pure sull’abitare «di sotto», «nelle bassure», dell’ebreo separato dalla natura che Dio ha creato, «non per te e non per me», sulla lingua senza quell’«Io e Tu» giudaico commentato da Buber, sull’appello di Piccolo a Nessuno, sul grido «mi senti» ispirato, evidentemente, dal comandamento di Dio al Suo popolo (Shema’ Yisra’el, «Ascolta, Israele»). Nella Valle di Lacrime in cui transita l’errante da sempre e della cui desolazione sono stati vittime sia l’uno che l’altro interlocutore, il Supremo è divenuto un Nessuno ammutolito. Felstiner si riferisce, inoltre, alla denominazione «Jud», nella tradizione di quel «Yid» del ghetto e dell’esilio, usata da Celan invece di «Jude» («ovrei» invece di «evreu», in romeno?),9 alla «stella» che annuncia lo Shabbat e alla sostituzione del termine «Gespräch» (conversazione) con «Geschwätz», conversazione


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che diventa dopo Auschwitz chiacchiericcio, ciarla, che disturba il funebre silenzio post mortem. Felstiner segnala, parimenti, il prestito di ripetizioni, contrazioni, inversioni, diminutivi, interrogative e idiomi, che lo yiddish fornisce al tedesco «austriaco» dell’autore. Il critico nel testo del 1959 sente anche un «addio al silenzio», in un tedescoyiddish ferito, la lingua «che prende voce», come dice Celan: «io qui e io lì, munito forse – adesso! – dell’amore dei non-amati, io in cammino verso di me, in alto». Parlando a se stesso, mediante l’alternanza dei due erranti che si incontrano «una sera che il sole, e non soltanto lui, era tramontato», Celan mantiene il ruolo e il luogo dell’errante, ramingo nella perpetua attesa dell’incontro. Ilana Shmueli, sua straordinaria amica e corrispondente (paragonabile, credo, alla Milena di Kafka), affermava, a ragione, che Celan aveva bisogno di questo «l’altro» (un «tu») – destinatario ed eco del messaggio gettato nel mare delle incertezze: «Sapevo fin da prima che nelle sue poesie Celan aveva bisogno ogni volta di un Tu, di solito un Tu femminile, un Tu versatile, a cui si rivolgeva e dal quale voleva essere ascoltato». Siccome i poeti sono androgini, questo Tu avrebbe potuto essere, di certo, non solo la sua «Milena» cernautziana e israeliana, ma anche il tedesco Adorno «presunto ebreo», o il predecessore praghese Kafka o il maestro Buber o il confratello Osip, sacrificato al Gulag, e potevano esserlo, inoltre, altri sopravvissuti-scribi degli orrori bruni, verdi o rossi. Più di ogni altro, l’ipotetico interlocutore avrebbe potuto e può ancora essere, nella posterità di entrambi, il poeta Fundoianu-Fondane.


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* B. Fundoianu nacque lo stesso mese (novembre) di Celan, ventidue anni prima (un po’ meno del «quarto di vita» dei 120 anni dell’ebreo biblico), nella stessa Romania, a Iași, la capitale piena di ebrei della Moldavia, non lontana dalla «piccola Vienna» di Celan, Cernăuți, la capitale piena di ebrei della Bucovina. L’ex provincia dell’Impero asburgico vicina alla Galizia era stata restituita alla Romania nel 1918 (Czernowitz diventa Cernăuți); parzialmente occupata dai sovietici nel 1940, rioccupata dall’armata romena e tedesca, rimane divisa, dopo la guerra, tra Romania e Unione Sovietica, e Czernowitz (Cernăuți) diventa Černovtsy (Černivci), città ucraina. Il nome difficile da pronunciare, se non addirittura «impronunciabile», come una maledizione, il nome Pessach Antschel, divenuto Paul Antschel e poi Paul Celan, potrebbe trovare una naturale fratellanza con quello di Benjamin Wechsler, divenuto Barbu o B. Fundoianu, e poi Benjamin Fondane. Nomi tatuati, infine, sulla pelle della pagina, dal destino del martirio. Quando Fondane scompariva ad Auschwitz, nel 1944, Celan aveva ventiquattro anni. Aveva perso i genitori in Trans-Tristia (Transnistria) e sognava Parigi, «l’endroit idéal pour rater sa vie», come mi scriverà Cioran.10 Sulla parete della sua camera parigina c’era una riproduzione della maschera mortuaria, divenuta celebre, di una bella sconosciuta, dal volto di una misteriosa serenità, evocata da Nabokov, Rilke, Aragon. Il cadavere della suicida era stato recuperato dalla Senna e la maschera conservata alla morgue parigina.


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Nella Parigi da dove Fondane era stato mandato al rogo dei forni crematori la Senna spegnerà l’inquietudine e il verso di Celan. Scomparsi nel fuoco e nelle acque della catastrofe, i due poeti si incontrano solo nel martirio così diverso e tuttavia comune, e nel dialogo postumo tra l’Io lirico di ciascuno, incontro molto ambito del simile dissimile Tu, nel e attraverso il «grande tema» che li ha folgorati, ispirati, distrutti e immortalati. * «Celan scrive come se vivesse dopo la sua morte» affermava Dennis J. Schmidt. Finale ripreso ancora e sempre, nella pulsazione funesta della Memoria mai pacificata. «Il nero latte» Celan continua a berlo «al mattino, a mezzogiorno, al tramonto» e nelle notti dopo la notte incompiuta dell’incubo. Il linguaggio della poesia si contrae, la morte frantuma e restringe a poco a poco e fatalmente l’esistenza in non-esistenza. La poesia, cioè la vita, persiste come differimento. Inconfondibile e irrevocabile. Brevi scintillii di luce e illusione sotto la tutela tenebrosa dell’Inevitabile, vegliata dall’oracolo maledetto. Ripetendo la sentenza incastrata nella Memoria che non si lascia tradire, ingannare, prendere in giro, la Morte non si concede frivolezze, opera implacabilmente, come un maestro tedesco di orologi morbosi e precisi, il cui funebre rintocco prolunga una infinita tortura dell’eco. Eco prolungata nella posterità e rianimata dalla poesia.


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Celan non è passato personalmente attraverso il crematorio di Fondane, ma è divenuto un testimone per l’eternità della «combustione totale» e, soprattutto, il testimone senza eguali della morte dopo la sopravvivenza. Da cui nasce, di nuovo, la Poesia. Il percorso biografico e spirituale di Fundoianu-Fondane precede e prefigura quello di Celan. L’esilio prima dell’esilio degli esuli che erano entrambi segnava la premessa dell’esilio propriamente detto. «E una sera verrà che partirò di qui»11 aveva mormorato, ciascuno di loro, nei successivi differimenti dell’inevitabile. L’estraneazione operava, tenace, in ciascuno di loro. Il suolo era stato, a poco a poco, sostituito dalla lettera, come diceva Lévinas, la spiritualità restava il solo reale domicilio, la poesia si confermava come enclave essenziale, fatale e insostituibile. La valle nella quale era stata loro concessa l’effimera sosta non era altro che questo, caducità, una tregua, la metamorfosi dell’infinità in lettera. * L’ebreo Piccolo, e forse anche il suo interlocutore Grande, vive nelle bassure, a valle, dove gli è stato concesso di esistere dall’oggi al domani, com’è la vita, dall’oggi al domani, ma la conversazione non avviene nella Valle di Lacrime, cioè della vita, bensì nella montagna e al di là della montagna, dove vagano gli erranti, gli esuli, col bastone che sa tante cose, alla ricerca del destinatario, dell’interlocutore con cui si può ancora dialogare, anche dopo la morte, nella posterità della parola.


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Si rivolgono l’uno all’altro, sono Celan e Fondane, e non possono più rivolgersi al Supremo divenuto, dopo la devastazione suprema, un Nessuno ammutolito? Se il Supremo è in ciascuno di noi, allora è passato anche Lui, il Supremo, attraverso i forni nei quali ha bruciato i suoi figli e le sue figlie, combustione totale di cui solo la cenere conserva la memoria, bruciata anch’essa, per sempre. È morto con ciascuno di loro e in ciascuno di loro oppure è sopravvissuto, in rovina, con ciascuno di noi, in ciascuno di noi? Dunque, anche nell’Io (Piccolo) e nel Tu (Grande). I due parlano l’uno all’altro e a volte al bastone che li conosce da tempo e li accompagna anche nell’ascensione post mortem. Che il bastone sia un libro? I due erranti sono poeti e anche se fossero profeti o preti, il libro sarebbe pur sempre un bastone di speranza. Il libro, come il bastone, è d’aiuto in ogni ascensione e non solo ascolta, come il bastone, ma dialoga. Non sappiamo se i due erranti della posterità portino con sé, nelle serpentine che li conducono l’uno verso l’altro, un qualche libro, come saremmo tentati di supporre. Non lo sappiamo, perché non ci viene detto, ma sappiamo, comunque, che non ci viene detto tutto. Non è affatto escluso, anzi è addirittura probabile, che abbiano, entrambi, un libro, visibile o nascosto. Con certezza, portano in sé un libro, e più libri. Scritti da loro stessi e dall’altro e dagli altri. Hanno in sé, senza dubbio, anche il libro Io e tu, l’opera di Buber, nota a entrambi, che ha le dimensioni di un volume tascabile.12 Sarebbe, non solo per questo motivo, adatta. In definitiva, era anche questo l’incontro e la conversazione nella


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montagna: tra Io e Tu. Per nulla casuale, addirittura un emblema del pensiero e della sensibilità giudaici. «Shema’ Yisra’el!», la sacra preghiera ebraica è un appello: «Ascolta, Israele!». Un appello tra Io e Tu, prima di esserlo tra Io e Voi. «Shema’ Yisra’el, ’Adonay ’Eloheynu, ’Adonay ’Eh.ad!», «Ascolta, Israele, il Signore nostro Dio è l’unico Signore!» Il ritornello spesso ripreso in «Conversazione nella montagna» («mi senti? tu mi senti, sono io…») sembra un’eco della sacra invocazione, svuotata, dopo il rogo, di sacralità. Il Supremo destinatario, ammutolito nel tempo e per le conseguenze della combustione totale, sopravvive, tuttavia, dal momento che sostiene di essere simile a noi, e che noi siamo simili a lui. Sopravvive, anche lui, dopo la morte. Dio è morto ad Auschwitz? Non esistendo istanza «più suprema» del Supremo, Dio non può morire che per decisione e azione propria, per autonegazione, autodistruzione e abbandono. Per suicidio. Espropriatosi da sé dell’immortalità, ed espropriato, per le sue impotenze, della sacralità. Egli, che aveva vissuto tutto e per tutto il tempo, doveva vivere anche questo, a immagine e somiglianza dei mortali, come uno di loro. Impotente a fermare il male, si è suicidato in ciascuno degli uccisi? È anche risorto in ciascuno dei sopravvissuti, divenuto mortale, in ogni nuova generazione, nel ciclo dell’effimero di cui non ci ha ancora donato la soluzione finale. «Certo, il concetto di personalità deve essere dichiarato totalmente estraneo» ci avverte Buber «all’essenza di Dio», «ma è permesso ed è necessario dire che Dio è anche persona.»13 Dunque, «L’Altro» è anche lui un «l’altro».


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Il bisogno di rivolgersi contiene anche l’aspirazione a rivolgersi alla divinità irrappresentabile, non soggetta a personificazione, esistente, tuttavia, nell’Io e Tu, come pure nella potenzialità del simile assente e in tutto ciò che ci circonda, visibile e invisibile. L’autorità implacabile ha perso la sua autorità ad Auschwitz e in tante altre sinistre celebrazioni della morte, morendo con ciascuno dei martiri, ed è risorta con ciascuno dei sopravvissuti, divenendo in tal modo, come loro, il mortale indegno di immortalità, solidale, infine, con tutti quelli come lui e come loro, errando, con loro, a valle e sulla montagna, e al di là della valle e della montagna. Il dialogo nella montagna e al di là della montagna aspira a una risonanza più vasta della sola risposta dell’alterità. I poeti parlano l’uno all’altro, il morto recente e il morto da tempo, allo stesso modo in cui parlano Piccolo e Grande, quelli ancora vivi, che non sono certi di sentirsi l’un l’altro, ma che si rivolgono anche, se non forse innanzitutto, al sacro Tu, divenuto – dopo il rogo – profano. «Gli uomini hanno chiamato il loro Tu eterno con molti nomi. […] Ma tutti i nomi di Dio furono salvi. Perché in loro non solo di Dio, ma anche a Dio si parlava» scrive Buber.14 «Come può» così si domanda «il Tu eterno essere nella relazione contemporaneamente esclusivo e inclusivo? Come può il rapporto dell’uomo con Dio come Tu, che richiede il rivolgersi a lui incondizionato, che non si lascia deviare da nulla, ricomprendere anche tutte le altre relazioni Io-Tu di quest’uomo, e contemporaneamente portarle a Dio?»15 Non è Dio che viene messo in discussione, risponde Buber, ma il rapporto con Dio; per questo motivo non possiamo


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evitare di dire che «Dio è il “totalmente Altro”, ma è anche il “totalmente Medesimo”». È «il mysterium tremendum», che ci soverchia, ma anche «il mistero di ciò che è ovvio, che mi è più vicino del mio io».16 L’altro è Dio che è nell’altro, come in me. La trascendenza del mistero tremendum non abita più nel cielo che si trova al di là del cielo della fede, ma nella parola diurna e notturna della Poesia, dove si è rifugiato l’ignoto, l’incompiuto e l’ineffabile terrestre. Il bisogno di rivolgersi all’altro è il bisogno di rivolgermi a me stesso e attraverso di me, in me, anche all’altro, forse anche a un’invisibile Autorità eterna che un tempo risiedeva nell’altro e forse ancora perdura. Dobbiamo interpretare in tal senso il democratico «I» della lingua inglese, che comprende l’alto e il basso sociale e tutte le sue coordinate, in un imperiale uguagliamento dell’effimero e della, pur orgogliosa, affermazione di sé? Terrestre, questo «I», imperiale e imperioso, ma non sacro. «Ma l’Io socratico, così vivo, così espressivo, come suona bello e legittimo!» scrive Buber. «È l’Io del dialogo senza fine, l’aria del dialogo lo avvolge per tutte le sue vie, persino davanti ai giudici, persino nell’ultima ora di prigionia.» E Buber lo ripete, nel caso di Gesù: «Com’è potente, fino a soggiogare, il dir Io di Gesù, e come è legittimo, fino a diventare ovvio! Poiché è l’Io della relazione assoluta, in cui l’uomo chiama padre il suo Tu in modo tale da essere egli stesso solo figlio e nient’altro che figlio».17 Nelle nebbie della posterità al di là della montagna, il mormorio post mortem dei due poeti erranti non cessa, neppure


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dopo la morte, di cercare il destinatario, l’interlocutore, la conferma di sé: «Divento Io nel Tu» insegna Buber ai suoi erranti. «Diventando Io, dico Tu. Ogni vita reale è incontro.»18 Anche la vita della posterità, naturalmente. La conversazione nella montagna segue l’incontro nella montagna. Il rivolgersi del sé mediante l’alterità – è tutto ciò che è ancora rimasto al mortale abbandonato dalla Divinità che ha abbandonato se stessa, rifugiata, come lui, nell’imperfezione, nell’effimero umano troppo umano di ciò che è proprio dell’uomo – per invocare, in tal modo, la vita futura e finale della parola, che il poeta ha bramato e ancora brama. La posterità non esiste al di fuori dell’incontro del simile dissimile. Del rivolgersi. Io divenuto Tu. Neppure la vita esiste, neppure la Poesia, al di fuori dell’incontro. * Il bisogno di rivolgersi, così visibile perfino nelle poesie più codificate di Celan e divenuto il ritornello dell’associarsi che non si associa in «Conversazione nella montagna», non è diretto solo ai vivi, ma, come sottolinea, con la sua ben nota perspicacia, il professor Geoffrey Hartman, autore di alcune pagine essenziali su L’ombra più lunga e la sua estetica, «perfino agli uccisi». Forse soprattutto a costoro… «Pronuncia la verità chi dà voce all’ombra.» La precarietà di ogni tentativo di dialogo dopo la catastrofe sollecita, potremmo dire impone, l’autenticità e la profondità. Si tratta dell’ammutolire del linguaggio non solo «corrotto» dal reale, come dice


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Adorno, ma addirittura bruciato nel buio del reale. Le anime ammutolite di coloro che sono stati bruciati si aggirano nel vuoto morboso che il poeta attraversa. «L’archeologia di Celan è per noi più esemplare di quella di Schliemann» dice Hartman. Questo «approfondimento» funesto e fecondo crea, infine, quel «tu» atteso, quel «semblable», che, dopo l’Olocausto, può essere, soltanto… fantomatico. Essenziale com’è, l’appello verso l’altro, l’invocazione dell’altra parte, che si trova in effetti dall’«altra parte», è la sua stessa legittimazione. Il fantomatico Celan parla al fantasma Fondane che gli sta accanto, vivo, in prossimità della sosta nella montagna al di là della montagna, sa che può parlare solo a lui, anche se i mormorii esitano, storditi, balbettati, barbugliati, «chiacchierati», ferendo il silenzio alpino di quel mondo fantomatico, eppure così vivo. Il bastone e la pietra parlano anche loro, il giglio selvatico tenta chi può essere ancora tentato. Sono interlocutori infranti e infine ammutoliti nel silenzio da cui ciascuno è venuto. Celan e Fondane sono, ciascuno, il destinatario dell’altro. Se l’apocalittico rogo ha distrutto la possibilità di una lingua che esprima il crematorio moderno proprio perché ha perso l’innocenza della voce di un tempo, come crede Blanchot, e la stessa «volontà di parlare» viene messa in pericolo, il dovere di parlare persiste, come aveva affermato, subito dopo la guerra, perfino un taciturno come Samuel Beckett. In questo lamento barbugliato e sbalordito del «dopo», la rivelazione è «tradita da un inconsolabile» (Hartman), e potremmo dire non più udibile, «monologo». «Mi senti? tu mi senti, sono io, io, io e quello che tu senti, che


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credi di sentire…» Il Logos non produce più evento, dice Hartman. Vecchi figli del Logos, Celan e Fondane lo sanno. Il silenzio esteso e pesante, gremito di parole non nate, li affratella, come nessun altro. * Nato in una famiglia di uomini del libro e attratto precocemente dalla letteratura romena, yiddish e francese, prolifico e insaziabile, Fundoianu trae il suo pseudonimo dalla tenuta Fundoaia (distretto di Dorohoi), dove il nonno paterno era stato fittavolo. Esordisce e si impone rapidamente nella letteratura del suo paese che abbandona nel 1923, a soli venticinque anni, oppresso non solo, come sosteneva, dal provincialismo di una colonia della cultura francese, ma anche dai non pochi incontri con l’antisemitismo locale, nelle sue forme primitive e huliganiche o in quelle codificate ed elitarie. Solo dopo l’espatrio esce nel suo paese lo straordinario volume Priveliști [Vedute] (1930), che lo impone come uno dei grandi poeti della sua generazione. Il paesaggio non guarisce, in Fundoianu, ma esacerba la sensibilità sofferente e la premonizione degli sconvolgimenti successivi. Il volume segna «una fase avanzata in un processo di demistificazione della natura, che la poesia romena non ha conosciuto fino a lui» osservava il suo esegeta, Mircea Martin.19 È «un’esperienza della solitudine, non della comunione… la retorica è discendente, non ascendente… la spoetizzazione del paesaggio costituisce l’iniziativa estetica fondamentale, e l’“an-


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tipastello”, la sua forma specifica di realizzazione». Emblematica risulta anche la memoria lirica di quello «shtetl» moldavo («Nel borgo c’è odore di pioggia, d’autunno e di fieno») nel poema da antologia Herța, inseparabile dal nome del poeta. Rispetto al «grido», che caratterizzerà, in seguito, in modo sempre più incalzante e più intenso la scrittura di Fondane, significativo appare qui «il silenzio» statico della natura assopita nei luoghi nativi. Mircea Martin rileva la sua «opacità» («qui il silenzio significa opacità assoluta, impossibilità di ogni dialogo») e contro tale «indifferenza» urta il «fremito interiore». La montagna e il bosco sono muti, gli uomini sono sordi, lo stesso i buoi, nelle donne «urlano i bambini sordi», «il silenzio è lungo e grigio», il poeta lo percepisce come «di vetro», vede il suo «becco» e aspetta che lo «innevi su una panca» nel vuoto sul quale si abbatterà, ben presto, la sfrenatezza del crimine. Fundoianu aveva sperimentato, naturalmente, come tanti confratelli della patria e della patria adottiva, le tentazioni iconoclaste dell’avanguardia, aveva consumato passioni e devozioni in una espansione frenetica dell’io, ma capisce in fretta, come pochi tra i suoi sodali, i tranelli della Rivoluzione rossa e i pericoli della Croce uncinata preparati dai codici moderni del «nazionalismo». La dolorosa e disperata premonizione dell’Olocausto, visibile, tra l’altro, nel poema L’Exode, impone al verso una dimensione planetaria, estendendo l’appello alla ribellione e alla resistenza all’intera umanità apatica e complice e intensificando il lamento millenario del popolo dei perseguitati. La poesia divenuta «grido» nel deserto è la solitudine che non accetta di essere sconfitta. Versi come i seguenti, tratti dal poema citato: «Voi non sie-


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te nati per le strade, / nessuno ha gettato i vostri figli in una fogna, / gattini con gli occhi ancora chiusi, / voi non avete errato da una città all’altra / braccati dalle polizie, / voi non avete conosciuto massacri all’alba, / i carri bestiame, / e il pianto amaro dell’umiliazione, / accusati di un delitto che non avete commesso, / del delitto di esistere, / cambiando nome e volto, / per non portare un nome schernito, / un volto che era servito a tutti / da sputacchiera!»20 hanno una risonanza sorprendentemente simile a quella dell’epigrafe posta da Primo Levi alle sue memorie di Auschwitz («Voi che vivete sicuri / Nelle vostre tiepide case, / Voi che trovate tornando a sera / Il cibo caldo e visi amici…»). Coloro che hanno una casa sono invitati a chiedersi se colui che viene sacrificato è ancora «un uomo». Voler sfuggire al nome Wechsler o Antschel, pronunciato con ripugnanza e sputacchiato, significa la stessa questione e la stessa mise en abîme dell’uomo non più uomo. L’esilio parigino nell’esistenzialismo e nella frenesia del momento spasmodico prima della bufera aveva approfondito il drammatico ritrovamento e la ricollocazione giudaica: l’«Ulisse ebreo», come il poeta vedeva se stesso,21 finalizza alla maniera di Šestov, l’antica ossessione Atene-Gerusalemme, come pure la patetica fratellanza con gli erranti e gli emarginati del mondo. «Io non posso chiudere gli occhi, / io devo gridare sempre fino alla fine del mondo: / “Non bisogna dormire fino alla fine del mondo – io non sono altro che un testimone”.»22 La morte di Fondane può essere considerata anch’essa un suicidio, se teniamo presente la sua decisione di rifiutare la salvezza che gli era stata offerta e di seguire la sorte della sorella Lina e degli altri martiri.


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Tra questi, si annovererà dopo due soli decenni anche il confratello annegato nella Senna. * Se Iași fu il luogo da cui presero le mosse il teatro yiddish di Goldfaden e gli antisemiti di A.C. Cuza, Cernăuţi fu il luogo dove si era tenuto il Congresso internazionale ebraico del 1908, che proclamò la vittoria dello yiddish ­– apparentemente definitiva, in realtà solo temporanea – nella lunga guerra fratricida con l’ebraico e il luogo dove, nonostante la rinascita del nazionalismo romeno successiva alla nuova unione della Bucovina con la madrepatria, nel 1918, il carattere cosmopolita e la tradizione asburgica di cooperazione multinazionale avrebbero conservato l’atmosfera di intensa vitalità culturale. Nell’«ultima Alessandria d’Europa», come Zbigniew Herbert chiamerà la capitale della Bucovina, enclave orientale della lingua e della cultura germanico-austriaca, questa vitalità culturale si irradiava nella cultura romena, ebraica (yiddish ed ebraica), ucraina, polacca, risentendo a sua volta, inevitabilmente, della loro influenza. A Iași, l’ebraicità si incontrava con una ricca cultura romena (la mamma di Fundoianu frequentava in gioventù «Junimea», Creangă era un ospite della famiglia, Gala Galaction avrebbe voluto introdurre il giovane poeta nella cerchia di Viața Românească)23 e con una marcata influenza francese; a Cernăuți gli sguardi erano rivolti verso Vienna e Berlino. «Die Landschaft aus der ich zu Ihnen komme, dürfte den meisten von Inhen unbekannt sein» – «il paesaggio dal quale io giun-


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