La Cultura 746
Franco Fabbri
Album bianco Diari musicali 1965-2011
www.saggiatore.it (sito & eStore) Twitter @ilSaggiatoreEd Facebook il Saggiatore editore Š il Saggiatore S.p.A., Milano 2011
Sommario
Introduzione
9
Capitolo 1
13
Capitolo 2
21
Capitolo 3
31
Capitolo 4
38
Capitolo 5
49
Capitolo 6
59
Capitolo 7
68
Capitolo 8
76
Capitolo 9
86
Capitolo 10
95
Capitolo 11
105
Capitolo 12
116
Capitolo 13
127
Capitolo 14
138
Capitolo 15
145
Capitolo 16
156
Capitolo 17
167
Capitolo 18
177
Capitolo 19
185
Capitolo 20
195
Capitolo 21
203
Capitolo 22
216
Capitolo 23
229
Capitolo 24
240
Capitolo 25
254
I concerti degli Stormy Six, 1972-2011
273
Indice dei nomi
297
Indice delle opere
313
Album bianco
Introduzione
Un album di fotografie, scattate con e senza flash, col grandangolo, col teleobiettivo, con la macchinetta da dilettante e con la Leica: ma senza le fotografie.
Questo libro iniziava così. Dieci anni dopo la prima edizione, arrivato alla terza, l’Album (col suo autore) si smentisce: qui le fotografie ci sono: tante, in bianco e nero e a colori. Cosa è cambiato da allora? Si potrebbe dire semplicemente che c’è di mezzo la generosità di un editore come Luca Formenton, amante della musica, dei Beatles e magari un po’ anche degli Stormy Six, al punto da voler ripubblicare Album bianco nel formato di una serie di libri sulla musica illustrati, di grande successo. La vicenda editoriale di questo libro merita comunque un accenno. La prima edizione del 2001 suscitò una certa curiosità, al punto che l’editore (non quello attuale) decise di pubblicarne una seconda meno di un anno dopo. Colsi l’occasione per aggiornare la narrazione e per aggiungere qualche documento interessante: quella seconda edizione, con in quarta di copertina i giudizi lusinghieri di lettori diversi come Giuseppe Pontiggia, Gianni Vattimo e Ivano Fossati, fu ancora più diffusa della prima. Non sono la persona più adatta per dire se Album bianco abbia dato inizio a un genere, o anche solo a un flusso crescente di memorialistica musicale (che è comunque sotto gli occhi di tutti), ma la mia esperienza mi dice che non pochi scrittori di professione, giornalisti e musicisti abbiano letto il mio Album, e in varie occasioni mi abbiano riferito che era loro
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piaciuto. Anche se forse si tratta di una pura coincidenza, o della prova della tipicità di alcune delle storie che avevo raccontato, non posso nascondere la soddisfazione e il senso di gratitudine che mi procurò trovare l’episodio del viaggio a Capo Nord nella Meglio gioventù di Marco Tullio Giordana (che fu così gentile da presentare la prima edizione del mio libro quando stava lavorando alla scrittura del suo film). Era un momento felice: collaboravo da qualche anno con Radio Tre, e ripensandoci posso dire che la serenità e il rapporto quotidiano col pubblico che mi dava la radio avevano avuto un’influenza non trascurabile sullo stile dei miei diari musicali. Insomma, non potrei essere altro che soddisfatto del successo di Album bianco, che tra l’altro ebbe l’effetto di procurare la riedizione di un mio libro di saggi, Il suono in cui viviamo, al quale tenevo moltissimo, e a farmene commissionare uno nuovo (L’ascolto tabù) soltanto pochi mesi dopo. Salvo che, quando l’Album e Il suono erano ancora ben visibili nei caotici reparti-musica delle librerie, la casa editrice cambiò proprietà. Per ragioni che tuttora mi sfuggono, il nuovo proprietario mi fece sapere che il nuovo libro non gli interessava, e dopo poco cessò del tutto i contatti. Nonostante Il suono in cui viviamo fosse il testo che usavo per i miei corsi all’università, e che molti continuassero a chiedermi come trovare Album bianco, l’editore lasciò che andassero esauriti e non rispose mai alle mie richieste di ristamparli. Mi fece un certo effetto quella cancellazione quasi improvvisa. Ma non era un sentimento nuovo: in quegli stessi mesi, per le posizioni che avevo espresso sul «nuovo corso» di Radio Tre, non solo la mia collaborazione era cessata, ma la nuova direzione (anche lì) aveva fatto in modo che la mia voce sparisse dalla radio, evitando che fossero rimandate in onda le trasmissioni registrate. Pensai inevitabilmente a quelle foto dell’epoca staliniana, quando i funzionari caduti in disgrazia venivano eliminati anche in camera oscura. Cancellata la mia voce, cancellati i miei libri (e forse soprattutto quello nuovo, dove avrei raccontato in dettaglio, in un’ottantina di pagine, le vicende di Radio Tre). Strano, no? C’è voluto un po’ di tempo perché mi riprendessi. Prima il Saggiatore ha pubblicato L’ascolto tabù. Poi ho recuperato i diritti del Suono in cui viviamo, che è uscito nel 2008 in una nuova edizione, sempre col Saggiatore. E adesso è il momento di Album bianco, arricchito da quattro capitoli, per coprire i nove anni mancanti dall’edizione precedente, e da
Introduzione 11
molte immagini, scattate nell’intero arco dei miei diari musicali, dal 1965 al 2011. Chissà, può anche essere che quel periodo di damnatio memoriae mi abbia fatto sentire il bisogno di provare con documenti certi che le cose che avevo raccontato erano vere, che ho davvero suonato su una nave sovietica, che sono andato in cerca di piatti della batteria a Istanbul, che ho visto Capo Nord, e che quel complessino fondato nel 1965 e non si sa bene quando sciolto, gli Stormy Six, è esistito per davvero. Non posso far altro che cedere di nuovo la parola all’introduzione originale: Un disco con la copertina che si apre, e dentro si vede e si legge. Il White Album dei Beatles, raccolta eclettica di canzoni estesa nello spazio (dal frammento di «Why Don’t We Do It in the Road?» al flusso interminabile di «Revolution 9»), nel tempo (dalla nostalgia di «Honey Pie» alla profezia metallica di «Helter Skelter»), nell’intensità (dalle sonorità esili di «Blackbird» all’orchestra hollywoodiana di «Good Night»). Queste storie andavano raccontate, prima che scomparissero dalla memoria, cancellate dalla versione ufficiale. Assicuro che sono vere, anche nei particolari, e controllate con tutte le fonti disponibili. Ma volevo raccontarle nella forma più vicina al mio ricordo, senza note a piè di pagina né bibliografia. Spero che leggendo riusciate a sentire la musica.
Capitolo 1
Krennikov. Un nome di quelli che incutono soggezione. Non so quanto debba questo sentimento al poco che so della persona seduta a pochi passi da me, o al ricordo inevitabile legato all’assonanza con Strel’nikov, un personaggio del Dottor Zivago. Nel film qualcuno grida: «Strel’nikov!» ed ecco un treno blindato e pavesato di bandiere rosse. E nell’inquadratura successiva quello che un tempo era il giovane marito di Lara è un generale dei bolscevichi, gelido e implacabile, lanciato a nuove vittorie per la Rivoluzione. La grande forza del cinema: una volta nella vita ti fa ascoltare il suono di un nome, e per sempre lo associ a un’azione, a un sentimento. «Ad Aqaba!» (il regista è lo stesso, David Lean): e un punto su una carta geografica diventa il luogo di tutte le riscosse, di tutte le liberazioni, di tutte le imprese impossibili. E Lawrence d’Arabia un eroe antiimperialista… Qui, invece, siamo a Mosca. E Tichon Nikolaevic Krennikov è un altro tipo di eroe. È ancora a capo, nel 1983, dell’Unione dei Compositori Sovietici, molto probabilmente l’unico in tutta l’Urss ad aver mantenuto un incarico di questa importanza avendo attraversato senza scosse l’epoca di Ždanov, il Ventesimo Congresso, l’era di Brežnev e – ora – quella di Andropov. Compositore, autore di canzoni popolari, custode arcigno della tradizione. Avversario della musica contemporanea; il jazz, il rock, la popular music non esistono, e se esistessero non lo scalfirebbero minimamente. Il suo aspetto massiccio e il colorito granitico sono perfettamente intonati a quello che so di lui: definirlo un convitato di pietra, a questa
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cena offerta dall’Unione dei Compositori alla delegazione italiana, non è una metafora, è una constatazione. Al suo fianco, poco discosto dal centro della U della tavolata, siede Luigi Pestalozza, il capo della nostra delegazione. L’incontro tra musicisti, musicologi e critici italiani e sovietici è alla sua conclusione formale, dopo qualche giornata di discussioni, relazioni, tentativi di approfondimento. Luigi (direbbe un cronista sportivo) è visibilmente provato, ma soddisfatto: è riuscito a mantenere viva la comunicazione con i musicisti sovietici più aperti e sensibili, sopportando (come tutti noi) gli interventi soporiferi di qualche gerontocrate di troppo, e ha governato fino all’ultimo, portandola fin qui, la sua eterogenea (per quanto autorevole) pattuglia di italiani all’estero. C’è perfino Aldo Clementi, che questa sera non si è perso nei corridoi sterminati dell’Hotel Rossija («Dov’è Clementi?» «S’è perso!» è stato il tormentone di questo viaggio). Insomma, è fatta, è andato tutto bene. Ci rilassiamo tutti (tranne Krennikov, ma questa è una questione che riguarda, per così dire, la fisica dei materiali) e ci guardiamo intorno, attraverso la tavola imbandita, con le bottiglie di vodka e di quella strana essenza caramellosa che qui sostituisce l’acqua minerale, e con quei fiori e quelle verzure che adornano la tovaglia, da vecchio ristorante di albergo termale, che gli snob adoreranno tra quindici anni, quando li vedranno in un film di Kaurismaki ambientato a Helsinki, ma che oggi – in pieno reaganismo – troverebbero così rappresentativi dell’arretratezza provinciale dell’Urss. Eterni invece, quei centrotavola. Me li ricordo identici quasi vent’anni prima. Era il 1965, ed è curioso ricordarlo ora, perché è da lì che inizia il percorso che mi ha portato qui a Mosca, a parlare di popular music con musicisti e compositori sovietici. Quello era stato il mio primo impegno professionale con la musica. Insomma, professionale: era pagato. Col mio gruppo ero stato ingaggiato per allietare le serate di una crociera di dipendenti della Rai, e la nave era una nave sovietica. Noi dicevamo «russa», a dire la verità: eravamo una banda di sedicenni, tre anni prima del ’68, e avevamo in repertorio molte canzoni dei Beatles e dei Rolling Stones, ma anche il letkiss (ballo finlandese, di moda quell’anno). E «Mr. Tambourine Man», di Bob Dylan. Ci aveva colpito il fatto che – come «artisti» – ci fosse stata assegnata la suite più bella della nave, e uno dei tavoli migliori del ristorante, adorna-
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to sempre da fiori freschi e curiose verzure, come nel ristorante di un albergo termale. La troupe degli intrattenitori italiani era completata da Nunzio Filogamo, il primo presentatore del Festival di Sanremo («Cari amici vicini e lontani…»), mentre fra i crocieristi c’era un noto direttore di orchestre di musica leggera, che non si asteneva dal notare con una certa frequenza come fossimo dei «cani», e il nostro batterista un «pestone». Vera forse la prima affermazione (gli Stregoni non sono passati alla storia), falsa la seconda: come batterista rock Toto Zanuso era molto delicato e musicale (ascoltare la sua parte in «Stalingrado», o in «Nuvole a Vinca»). Conoscevamo, comunque, i nostri limiti, anche perché sulla nave c’era un altro complesso, un trio russo, del quale ammiravamo la straordinaria, quasi funambolica musicalità. Non ricordo quasi nulla del repertorio di quel gruppo, ma ricordo che avevamo fatto amicizia (loro ci sembravano vecchissimi: avranno avuto trent’anni) e che avremmo potuto farli felici se avessimo avuto con noi degli spartiti dei Beatles. Il 1965: in seguito i critici rock americani l’avrebbero definito come l’anno della British Invasion. Ma evidentemente, per altre vie, la musica dei Beatles aveva viaggiato anche verso est. Chissà se Krennikov se n’era accorto? Adesso sembra sonnecchiare, ma restando sveglio, come solo chi ha una lunga esperienza politica alle spalle è capace di fare. Volge un semisguardo a un altro emerito esponente dell’Unione dei Compositori, che si alza per indirizzare un brindisi ai colleghi italiani (la traduttrice ci riferisce), esprimendo la sua soddisfazione per l’esito del nostro convegno (come ci dice la traduttrice), che ha ampliato la nostra conoscenza reciproca (prosegue la traduttrice), e delle grandi tradizioni musicali dei nostri popoli (la traduttrice enuncia ammiccando), fornendo un’ulteriore occasione (pausa: la traduttrice si aspettava una frase più lunga, fa segno al compatriota di proseguire) per consolidare l’amicizia fra l’Unione Sovietica e l’Italia (la traduttrice conclude; applauso). Apprezzo la formalità, sinceramente. Mi sento a disagio ad appartenere a un paese che ha perso il senso della forma e della pertinenza nelle relazioni sociali: gente che applaude ai funerali, o quando un banalissimo volo di linea atterra regolarmente, ma che non sa prendere la parola in una riunione di lavoro o alla festa di fine anno alla scuola elementare, non sa ringraziare, confonde la disinvoltura (che le manca) con la trasandatezza. Quindi alzo volentie-
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ri il mio bicchiere di vodka (non il primo) rispondendo al saluto del collega sovietico. E ricordo l’occasione, solo due anni prima, del mio primo incontro con un musicologo dell’Unione dei Compositori. Era ad Amsterdam, per la prima conferenza internazionale di studi che si sarebbe conclusa con la fondazione della Iaspm (la International Association for the Study of Popular Music). Io c’ero arrivato per una serie di coincidenze. Nel 1980 a Berlino, dove partecipavo con gli Stormy Six a un festival, si erano tenute delle discussioni sul rock, coordinate da un professore di estetica dell’Università Humboldt, Günter Mayer. La questione era piuttosto delicata, allora, nella Repubblica Democratica Tedesca: da un lato c’era l’invasione inarrestabile del rock occidentale, attraverso le televisioni di Berlino Ovest, dall’altro c’era l’opposizione dei conservatori, che ne temevano la contaminazione ideologica, e contemporaneamente c’erano gruppi di musicisti e di intellettuali che si battevano per includere il rock tra i loro linguaggi, tra i loro studi. Noi degli Stormy Six eravamo finiti al centro di questi dibattiti, considerati come un esempio di rock «sostenibile»; per di più, eravamo alternativi alla retorica della canzone politica «di Stato», e sotto questa insegna, Alternative, sarebbe stato pubblicato con grande successo un nostro disco antologico. La sinistra intellettuale, insomma, ci aveva adottato, e senza nessun imbarazzo da parte nostra: credo che chiunque avrebbe pensato, incontrando quelle persone, che se nella Rdt ci fosse stato un cambiamento in meglio, loro ne sarebbero stati i protagonisti. Ma i dibattiti erano difficili, faticosi, carichi di tutte le incrostazioni che (anche a est) l’adornismo aveva incollato a qualsiasi discorso sulla musica, e soprattutto su quella popular. Ricordo di essermene uscito polemicamente dicendo che non si sarebbero fatti passi avanti senza fondare una musicologia popular, con basi semiotiche, capace di articolare le differenze tra generi nel campo musicale. Qualche mese dopo ricevevo una lettera dalla Svezia. Un certo professor Tagg mi scriveva di aver avuto il mio indirizzo dal professor Mayer di Berlino, e mi chiedeva se sarei stato interessato a partecipare a una conferenza che stava organizzando. Gli spedii un abstract, domandandomi se mai questo serio professore di Göteborg avrebbe potuto prendere in considerazione uno studio un po’ pedante sulle differenze tra le musiche, con riferimenti alla linguistica, alle prove di commutazione, a ma-
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trici che permettono di distinguere i significati attribuiti alle musiche da comunità di ascoltatori. Ad Amsterdam ci si scoprì fratelli. Anche con Richard Middleton, David Horn, Charles Hamm, Simon Frith e tanti altri. E fra tutti c’era anche un rappresentante dell’Unione dei Compositori. Fino all’ultimo, venni a sapere, era stato in dubbio se venire o no. Gli organizzatori ci tenevano moltissimo che in questa prima conferenza internazionale ci fosse un rappresentante sovietico, ma c’era voluta tutta la tenacia di Tagg e i buoni uffici (e la fermezza prussiana) dei compagni della Rdt perché l’Unione dei Compositori si fidasse, e si smuovesse. Arrivò Israel Nestiev, un musicologo anziano, che non sembrava aver mai avuto molto a che fare con le musiche popolari. Ci offrì un panorama a vasto raggio di vari livelli di produzione popular delle Repubbliche Sovietiche, all’interno del quale ricordo solo un gruppo del Turkmenistan che assomigliava moltissimo agli Area. Una strana coincidenza (solo qualche anno dopo Luca Marconi mi avrebbe fatto ascoltare un disco Nonesuch di folklore dell’est europeo, con una canzone degli Area, identica nota per nota). Nestiev se ne andò con il suo nastro, lasciandoci con il dubbio se a tanta varietà musicale corrispondesse anche un rigoglio di studi e riflessioni. Quella stessa sera nacque la Iaspm, e nel giro di qualche mese ci si preparava a organizzare la successiva conferenza. Azzardai il suggerimento che si potesse fare in Italia, e grazie all’adesione entusiasta di Luigi e di Musica/Realtà confermai: si sarebbe fatta a Reggio Emilia, nel settembre dell’83. E tra i vari obiettivi che ci ponevamo c’era anche questo: a Reggio la rappresentanza internazionale avrebbe dovuto essere ancora più vasta, e avremmo trovato anche qualche studioso sovietico che si occupasse davvero di popular music, a costo di andarlo a cercare a Mosca. Eccomi qua. Davanti alla mia vodka. Pasteggiare a vodka non è così drammatico, mi hanno insegnato, se si prepara lo stomaco con uno strato adeguato di grassi (pane e burro, blinis e panna acida) che permetterà un assorbimento graduale dell’alcol. Confermo, è piacevolissimo. Rispondo sollevando il mio bicchiere a un altro brindisi di un collega sovietico. Questa volta, ci spiega la traduttrice, il riferimento è verdiano. Mi chiedo se qualcuno dei nostri ospiti vorrà fare un accenno alla musica contemporanea, o agli studi per i quali siamo venuti qui. Ma continuo ad apprezzare la cortesia. Di fronte a me Frederic Rzewski, che con la sua nazionalità
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statunitense e la residenza italobelga aggiunge un fremito di internazionalità a questa cena, sembra apprezzare almeno quanto me. Invece Luigi sembra a disagio. Si guarda intorno lanciando occhiate che non riesco a decifrare. Si sarà perso un’altra volta Clementi? E dire che Mosca non manca di punti di riferimento. Almeno quella parte di Mosca che siamo riusciti a vedere, in questi pochi giorni. È un maggio straordinariamente caldo, già piena estate; la sera, dopo gli impegni di studio o dopo qualche concerto, si passeggia volentieri. Dopo questa cena, correrò al Palazzo dei congressi: danno Il principe Igor. Ieri, camminando tra la Piazza Rossa e il nostro hotel, sono passato sei volte (tra andata e ritorno) davanti a un locale notturno: dall’interno – tutte e sei le volte – usciva sempre la stessa canzone, «Felicità», di Al Bano e Romina. Ricordo di essermi detto: «Troverò qualcuno, all’Unione dei Compositori, che sa cosa succede in questo locale?». E già mi figuravo un intervento alla conferenza Iaspm di Reggio: «Giro di Do: la ricezione di Celentano, dei Ricchi e Poveri, di Al Bano e Romina in Urss. Riflessioni musicali e sociopolitiche». Di Grigor Grigorovic, Unione dei Compositori Sovietici, Mosca. Del resto, la relazione di Charles Hamm alla conferenza di Amsterdam spiegava come un’analisi delle classifiche di vendita e delle playlists delle radio americane avrebbe permesso di prevedere con almeno un anno di anticipo la vittoria di Reagan alle elezioni presidenziali. Cosa avrebbe previsto l’ipotetico Grigorovic? E c’era qualcuno che mi potesse spiegare cosa ci facevano quelle teste rapate con orecchino e skateboard, mentre Andropov era a letto col raffreddore, sulla piccola discesa davanti al ristorante georgiano dove avevamo cenato qualche sera fa? E cosa ci faceva la scritta punk, intagliata nella corteccia di un albero, a Mosca nel 1983? Insomma, pensavo a queste evidenze concrete, ai mascheramenti dell’ideologia che impedivano di vederle, a quanti intellettuali di valore in tutto il mondo, e certamente russi, bielorussi, georgiani, turkmeni, lettoni eccetera, avrebbero voluto essere lì a puntare il dito, a dire: «Cerchiamo di capire. Smascheriamo la falsa coscienza. Studiamo la realtà». Ma è il momento di un altro brindisi. Più che dalla formalità del collega sovietico, sono colpito dallo straordinario aplomb della traduttrice, che tuttavia sembra mandarci – attraverso i suoi ammiccamenti – qualche messaggio importante. Mi volto verso Luigi, e lo vedo sempre più a disagio. Krennikov, al suo fianco, è tuttora granitico, ma porta scolpita una
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smorfia di disapprovazione, vagamente percepibile. Luigi si agita sulla sedia, sgrana gli occhi, si schiarisce la voce. Finalmente, da dietro la mole del suo importante vicino, riesce a indirizzarci un messaggio labiale; sulla sua bocca vedo disegnarsi le sillabe «Brin-di-si». E capisco. Siamo al terzo brindisi sovietico, e noi italiani – soliti cafoni – non abbiamo ancora risposto. Per ragioni gerarchico-protocollari non può essere Luigi ad alzarsi per primo. Ci vuole uno di noi. Chi? È come quando la Gengaro interrogava in storia dell’arte e diceva: «Oggi vorrei un volontario». Nessuno si offriva. Aveva la stessa erre di Luigi. Vedo insigni critici musicali di quotidiani nazionali, illustri storici della musica e semiologi, compositori e interpreti di grande fama farsi piccoli piccoli, rannicchiandosi dietro i centrotavola di fiori e verzure come facevamo coi nostri banchi e i vocabolari di greco al liceo Beccaria. Guardo Rzewski, che da buon americano mi fa capire: «Questi sono fatti vostri». E allora, già rinfrancato dal bicchierino che i nostri poveri alpini tracannavano prima di lanciarsi dalle trincee del Sabotino, mi alzo. «Brindo a un uomo.» La traduttrice svolge il suo compito. Ho deciso di servirmi dei tempi della traduzione per cercare di concentrarmi su quello che voglio dire. Come le famose pause di Craxi. Ho il vantaggio che mentre la traduttrice parla in russo non si sente il clic-clic dei miei pensieri. Un uomo? Non si brinda a un uomo, che idea è mai questa? Sento che Luigi è già passato dal sollievo alla preoccupazione, una preoccupazione più grande. Forse era meglio stare zitti? «Un uomo che avrebbe dovuto essere nei nostri pensieri, in questi giorni.» Va, la traduttrice. Intuisco che traduce con attenzione, rispettando le sfumature. È mia complice. Se ce la farò è merito suo. E a chi avremmo dovuto pensare in questi giorni? Ad Andropov, che ha il raffreddore? Luigi è perplesso. Sa che non può essere Andropov. Krennikov accenna a muovere un sopracciglio. Apprezza che noi cafoni italiani ci siamo decisi a rispondere al brindisi, e poi Andropov gli andrebbe bene. Non dico che sia incuriosito (la curiosità non rientra nei suoi orizzonti), ma pare disposto ad ascoltare. «Ma che invece, con una certa mia sorpresa, non abbiamo mai nominato.» La traduttrice è straordinaria. È calato un silenzio teso. Gli italiani, e massimamente Luigi, si domandano in quale pasticcio io mi stia cacciando, inguaiando tutta la delegazione. I sovietici, tranne Krennikov, si do-
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mandano chi sia quest’uomo che avremmo dovuto nominare, e forse si chiedono se il fatto di non averlo nominato porterà qualche conseguenza alle loro carriere. Krennikov sembra convinto trattarsi di Andropov. «Un uomo che non è italiano.» La traduttrice sta perfettamente al gioco. Luigi sembra aspettarsi il tradimento di qui a poco. «Né russo.» Eccoci. C’è un fremito nel sopracciglio di Krennikov e nello sguardo di Luigi, ma ancora qualche speranza. «Né di alcuna delle altre nazionalità dell’Unione Sovietica.» La traduttrice ha capito. Sa che non posso aver fatto questo sforzo di correttezza linguistica per dire qualcosa di offensivo. Ma gli altri sono desolati. Luigi si prepara al peggio. Anche Rzewski è meno impassibile. Chi sarà mai quest’innominato: Elvis Presley? Bob Dylan? Ronald Reagan? «Un uomo senza il quale noi non ci saremmo trovati qui, in questi giorni, a parlare di musica.» Si diffonde in qualche modo la percezione che si tratti di un gioco. Non si sente più il clic-clic dei miei pensieri, ma certamente quello di molti altri cervelli che – malgrado la vodka – cercano di risolvere l’indovinello. Potrebbe anche essere Beethoven. Luigi coglie il cambiamento di atmosfera, mi fa un sorriso di incoraggiamento; Krennikov è immobile, la traduttrice è pronta. «A cent’anni dalla sua morte, brindo alla memoria di Karl Marx.» Le ultime parole della traduttrice sono coperte dall’ovazione. Il centenario di Marx, come avevamo fatto a dimenticarlo? Perfino Krennikov ondeggia sulla sedia approvando, Luigi riprende colorito e la sua espressione da furetto, i colleghi sovietici si consolano: non aver nominato Marx non gli costerà nulla, è un bel pezzo che non lo fanno. Ormai il ghiaccio è rotto, altri italiani brindano, i sovietici rispondono con altri brindisi-suspense: ho inventato un genere. Quando le acque (e la vodka) si saranno calmate, sgattaiolerò fuori per correre a sentire Il principe Igor. Chissà se passando davanti a quel locale sentirò ancora «Felicità»?
Capitolo 2
Che sarebbe stata russa l’avevamo saputo poco tempo prima di partire. Forse la cosa ci aveva fatto impressione, ma non più dell’enormità di imbarcarci a sedici anni per suonare su una nave da crociera. Anche la nave era enorme, e nuovissima: la più grande della flotta commerciale sovietica, varata l’anno prima nei cantieri di Wismar, Repubblica Democratica Tedesca (quando si dice il destino). Non è difficile immaginare attraverso quali canali i circoli ricreativi aziendali della Montedison e della Rai avessero ricevuto l’offerta – certamente vantaggiosa – di portare i propri associati in giro per il Mediterraneo, alla fine dell’estate del 1965, proprio sulla Ivan Franko. E non è del tutto implausibile, in quegli anni di trionfo della «musica beat», che un funzionario della Rai si rivolgesse a una dipendente chiedendo: «Ma tuo figlio non ha un complessino?». Il «complessino» (parola che detestavamo con tutto il cuore) eravamo noi, gli Stregoni. Non il nome migliore che si potesse trovare, ma così si usava. C’era il filone epico-mistico (da The Shadows a le Ombre, le Anime, gli Apostoli, i Fuggiaschi, i Giganti, i Nuovi Angeli, i Nomadi, i Profeti, i Ribelli, i Templari, i Trolls) e quello animalesco (da The Beatles agli Alligatori, i Camaleonti, i Corvi, i Delfini, i Dik-Dik – prima noti come gli Squali – i Gatti Rossi, le Pecore Nere, gli Scorpioni). Alcuni gruppi sceglievano di avere un nome inglese, cosa che trovavamo pacchiana, speculare nel suo cattivo gusto all’uso del termine «complessino»: certi amici di uno di noi avevano deciso di chiamarsi Stormy Six (tempestosi cosa? Ma certo: c’erano anche Johnny & The Hurricanes e i Tornadoes!).
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Stregoni ci sembrava dignitoso (non perfetto). Per un po’ avremmo cercato di imitare la grafica dei fumetti di The Wizard of Id (letti avidamente su Linus, varato lo stesso anno della nostra nave) per la scritta sulla cassa della batteria. L’ingaggio era più che accettabile, anche perché, come minorenni, non avremmo potuto ottenere altro: un rimborso spese che ci avrebbe permesso di pagare l’impianto-voce e l’affitto della sala prove, e naturalmente la crociera gratis. Genova, Napoli, Atene, Istanbul, Dubrovnik, Venezia. Un bel supplemento alle solite vacanze estive, alle quali nessuno di noi avrebbe comunque rinunciato: ci eravamo dati i compiti, portandoci al mare o in montagna gli spartiti, e scrivendoci su quali canzoni avremmo voluto aggiungere al repertorio fino ad allora piuttosto magro. Tutti avevamo imparato a suonare esercitandoci sui brani strumentali e sulle poche canzoni degli Shadows: i chitarristi dovevano ricreare il «pulitissimo sound» – così era descritto nelle note di copertina di The Fantastic Shadows – di Hank Marvin e Chris Welch in «Shazam», «Geronimo», «Shindig», o in lenti come «Little Princess» («Apache» era ormai vecchia e scontata); non c’era bassista che potesse dirsi tale se non sapeva rifare l’assolo di «Nivram», mentre l’assolo di batteria – senza scampo – doveva essere quello di «Little “B”». D’altra parte, era impensabile che potessimo reggere una serata da ballo senza avere un organista, e quello che si era unito a noi era molto bravo: ovvio che sapesse ripetere nota per nota l’assolo di «The House of The Rising Sun» degli Animals. Una musica di assoli. Uno entrava alle Messaggerie Musicali, scendeva nel reparto degli strumenti, e sentiva in un angolo un Farfisa che disperatamente rincorreva gli arpeggi di Alan Price, mentre dall’altra parte il walking bass di «Nivram» faceva vibrare le cordiere di tutti i rullanti in mostra. Sotto lo sguardo di superiorità del chitarrista elettrico (che si domandava quale chitarra e quali corde fossero il segreto per ottenere il suono di Duane Eddy in «Guitar Man»), il principiante impacciato abbozzava su una chitarra classica la melodia di «Maria Elena». O l’assolo di «And I Love Her», già abbastanza legnosetto e incerto nell’originale di George Harrison. Come si intuisce, sui Beatles avevamo ereditato tutte le perplessità dei fan degli Shadows, a lungo convinti che si trattasse di usurpatori che non sapevano suonare (specialmente il batterista, con tutti quegli anelli) e che avevano un suono sporco, buono per ragazzette incompetenti. Ma all’inizio
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dell’estate del ’65 eravamo ampiamente convertiti: uno che sa inventare il passaggio minore-maggiore fra strofa e ritornello in «Things We Said Today», o l’inciso di «No Reply» («If I were you…»), o il finale di «You Can’t Do That» (con la scaletta cromatica ascendente di basso e chitarra, all’ottava, legata martellando), per non dire di quel suono di chitarra assurdo, da violino, in «Yes It Is», è degno di eclissare gli Shadows. Forse lo pensavamo con malinconia: era la prima volta nella vita che qualcosa che avevamo amato passava di moda. Comunque, il 24 giugno c’eravamo andati anche noi, a sentire i Beatles al Vigorelli. «Sentire» è un po’ un’esagerazione, almeno per me e Alberto Bianchi, il bassista, dato che eravamo finiti sulle tribune e da lì non si sentiva quasi niente e – tra un grande sventolare di magliette, golfini e sciarpe – si vedeva ancora di meno. Ma questo ci aveva sicuramente incoraggiati a tendere le orecchie nell’ascolto dei dischi, e a cercare i segreti di quel suono negli spartiti, per quanto imprecisi e rudimentali, nelle tonalità sbagliate e con gli accordi facilitati. Avevo praticamente costretto Alberto, compagno di scuola fin dalle elementari, a imparare il basso per poter formare il gruppo. Mi sembrava impensabile che non si facesse anche questa cosa insieme; lui ci si era messo con grande impegno. Siamo andati avanti per tutta l’adolescenza con questa ricerca di compagnia e di emulazione, anche di rivalità, a scuola e fuori, come in ogni grande amicizia: lo studio, lo sci, la roccia, la musica. Poi le cose sono cambiate: io non l’avrei mai seguito sul Gasherbrum, sul McKinley o in Antartide, e lui si sarebbe risparmiato le tournée in Svezia. Ma la crociera, quella l’avrebbe fatta. Se Alberto era ancora un po’ impacciato sul basso, si poteva prendere un secondo bassista. Non che fossimo a conoscenza delle tecniche con cui Phil Spector creava in sala d’incisione il famoso Wall of Sound, utilizzando anche due bassi e due batterie. Nessuno le conosceva, quelle tecniche, nemmeno in Inghilterra. E, tentando di imitare con altri strumenti quel suono esagerato, stava nascendo una musica nuova. No, gli Stregoni si esercitavano in quell’altra arte fondamentale per la sopravvivenza e il progresso dei gruppi che è la politica, il compromesso. Si cerca di stare insieme, con il meglio che si riesce a ottenere, discutendo, aggiustandosi, unendo le forze (anche imperfette, non ugualmente distribuite) per raggiungere un obiettivo. Erano i miti di quel tempo: I magnifici sette (1960), i plotoni di commandos del Giorno più lungo (1962), per non dire del titolo ridicolo che in Italia fu dato a A
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Hard Day’s Night: Tutti per uno (1963). Del resto la cosa che si notava di più della «scena» dei Beatles, dopo lo scuotimento dei capelli, era il modo con cui due – guardandosi – si avvicinavano allo stesso microfono, per sostenere il solista di turno. Nel giro di pochi anni questo spirito gregario e combattivo sarebbe sfociato nella politica «vera», ma già da tempo faceva parte del nostro senso comune. Così avremmo avuto due bassisti: uno asciutto ed essenziale, con un basso normale a quattro corde, e un altro virtuoso, capace di suonare l’assolo di «Nivram» col suo basso a sei corde (una chitarra-tenore, una rarità). E all’inizio di «Mr. Tambourine Man» (il disco dei Byrds era uscito durante l’estate, non potevamo non metterlo in scaletta), il breve riff di chitarra elettrica sarebbe stato sottolineato da ben due glissandi sovrapposti di basso! Anche il repertorio era un compromesso. Tra Shadows e Beatles, tra Rolling Stones e Animals, tra lo pseudo-folk-western americano e il Dylan dei Byrds, tra cantautori (ottimi per arricchire la serata di lenti) e ballabili più o meno standard. C’era la bella «Mary Anne», uno dei pochi brani vocali degli Shadows, con la sua successione di accordi insolita (primo grado maggiore, secondo grado maggiore: ma l’avevano messa anche i Beatles in «Eight Days a Week», che pure suonavamo), e c’era «Ticket to Ride», il massimo di virtuosismo che ci potessimo permettere (il ritmo spezzato della batteria di Ringo Starr, che stava inventando qualcosa; il piccolo inciso di chitarra che Paul McCartney suonava alla fine di ogni middle-eight). Naturalmente c’era «The House of the Rising Sun» (con l’assolo canonico di organo, anche se era escluso che io potessi cantare dalla metà della prima strofa in poi sull’ottava alta, come Eric Burdon), mentre sono incerto se «The Last Time», col suo magnifico riff, sia entrata nel repertorio in tempo per la crociera. C’erano cose come «Red River Valley» (cantata anche da Bing Crosby, ma dovevamo averla presa da qualche versione strumentale recente, come quella di Johnny & The Hurricanes) e «Greenfields» (dei Brothers Four), penso che non potesse mancare «Aria di neve» (di Endrigo), e per inevitabile rispetto alla moda del letkiss c’era «Cuckoo Jenka», una «contaminazione» (si deve dire così?) fra il suono degli Shadows e il folk finlandese che trentacinque anni dopo avrebbe mandato in sollucchero i critici, ma che gli Stregoni suonavano – per così dire – per obblighi contrattuali. Oddio: se avessimo previsto l’età media dei crocieristi e la loro fisiologica indisponibilità a
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sbaciucchiarsi facendo saltelli sulla pista, avremmo potuto farne a meno. Ma le ultime settimane di prova, nello scantinato di una villetta di viale Lombardia che una signora affittava ai «complessini», arrivarono alla fine senza che ci potessimo permettere quella o altre previsioni. Quasi tutto, quindi, fu una sorpresa. La grandezza della nave, un vero transatlantico. La grandezza della nostra cabina: se mai avevamo sospettato che – come «personale di servizio» – saremmo finiti in qualche buco dei ponti inferiori, ci ricredemmo nel breve percorso necessario per farci accompagnare alla suite più bella della nave: due cabine comunicanti con in mezzo il bagno, a poppa, sul ponte della piscina. Come tutti gli italiani – e con l’aggravante dell’età e dell’anno – eravamo ferratissimi sui luoghi comuni a proposito dell’Urss. Quindi la spiegazione fu istantanea quasi quanto la sorpresa: godevamo del trattamento di favore riservato in quel paese agli «artisti». Nessun dubbio che lo fossimo. Ce n’erano anche altri, sulla Ivan Franko. Maestro di cerimonie era Nunzio Filogamo, quello di «cari amici vicini e lontani…», il presentatore dei primi Festival di Sanremo. Il gay più allegramente conclamato in un’epoca in cui le ballerine della Rai portavano calzamaglie spesse come pigiami invernali, in cui era proibito pronunciare in televisione la parola «coscia», e in cui i futuri sostenitori del politically correct erano probabilmente appena nati. Vi risparmio il repertorio di battute e di allusioni che la banda di sedicenni allestì nel giro di pochi minuti. Operazione sottoveste (1959) di Blake Edwards, con Cary Grant e Tony Curtis, ci aveva deliziosamente ammaestrato sull’imbarazzo degli incontri negli stretti corridoi di un sottomarino. Potete immaginare le nostre elaborazioni sul tema. Tra i crocieristi, poi, c’era quel famoso direttore dell’orchestra di musica leggera della Rai. Da lui sarebbero venuti i giudizi meno generosi sulle nostre esibizioni, riferitici con una certa crudeltà da chi li aveva ascoltati. Non avremmo potuto chiedere di meglio: detestavamo le orchestre di musica leggera, ci appariva leziosa e inutile la tecnica di quei musicisti, trovavamo goffi, patetici i loro ammiccamenti alla «nostra» musica, quando li facevano. Anni (decenni) dopo avremmo capito e apprezzato quel modo di suonare (a me capitò anche di lavorarci, nell’orchestra della Rai di Milano). Ma allora la «musica leggera» era ciò che noi non eravamo: era, con estrema chiarezza e senza sfumature, la musica contro la quale si stava costruendo quella che noi ascoltavamo e suonavamo. Sapevamo
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benissimo di non essere un granché, ma non riconoscevamo a quel famoso direttore alcun titolo per giudicarci: le sue regole non erano le nostre. Se devo pensare a un inizio per una vita di discussioni sulla musica e sui generi, probabilmente si colloca attorno a un tavolo nella sala delle feste della Ivan Franko, nel settembre del 1965. Comunque, ce l’avevamo messa tutta per essere presentabili: una foto ritrae gli Stregoni in grande uniforme, pantaloni di panno blu alti in vita e camicia azzurra con jabots (e bottoni scuri). Da sinistra: Antonio Zanuso (batteria), Peppo Mazzantini (chitarra tenore), Franco Lombroso (chitarra a 12 corde), Alberto Bianchi (basso), Franco Fabbri (chitarra elettrica), Franco Arena (organo). Altre foto furono scattate a Pompei (prima di quelli là) e sull’Acropoli di Atene. Ma stavo dimenticando gli altri artisti, quelli veri: un trio sovietico (si deve dire così: con la patente di musicisti professionisti, dopo aver superato gli esami necessari) che si alternava con noi sul piccolo palco della sala delle feste. Chissà che repertorio avevano. Probabilmente molti standard, che nella nostra in parte deliberata ignoranza – era pur sempre la musica dei nostri genitori – non eravamo in grado di riconoscere. Confesso, per inciso, le mie grosse difficoltà a riconoscere gli standard tuttora, e provo ammirazione e tormentosa invidia per i jazzofili che riconoscono – annuendo vistosamente – «I Got Rhythm» fin dalle primissime note del verse: uno psicanalista mi saprebbe dire perché? Il trio, comunque, era fantastico, e a differenza del maestro italiano ci aveva preso in simpatia. I Beatles li facevano impazzire, o almeno così ci era sembrato di capire, dato che loro parlavano solo in russo, e noi solo italiano (con l’eccezione delle parole balscioi e malinski, che venivano applicate a me e Alberto, e poi karasciò, spassiba, dasvidania, e qualche frase stentata nell’inglese delle canzoni dei Beatles, tipo «I don’t want to spoil the party, so I’ll go»). Non mi sembra di ricordare che rovinassimo la festa a nessuno. Ci furono proteste per il volume troppo alto, naturalmente. La potenza del nostro impianto di amplificazione era circa un decimo di quella che oggi è normale in qualunque impianto di una sala da ballo a bordo di una nave (per le discoteche a terra bisogna applicare un altro fattore cento, almeno), ma per il paesaggio sonoro sembrano valere le leggi dell’inflazione. Se si pensa a un cinquantenne del duemila si immagina uno che a vent’anni ascoltava in cuffia i Pink Floyd (Atom Heart Mother), con il volume al
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massimo; un cinquantenne del ’65 era uno per il quale a vent’anni l’esperienza acustica più coinvolgente era stata il cinema sonoro, o il fonografo meccanico, o la radio a galena, ma che prima dei trenta avrebbe sentito i bombardamenti. I nostri ascoltatori sulla Ivan Franko erano in gran parte ventenni del ’35. Forse non avevano tutti i torti. Nel giro di due-tre serate, comunque, tutto si era aggiustato in una gioiosa routine: gli Stregoni sparavano «I Should Have Known Better» a tutto volume, pensando a quando – poco dopo – avrebbero rincorso sui ponti quel paio di ragazze che avevano seguito i genitori in crociera; i passeggeri subivano sorridendo, accennando qualche passo sulla pista, sorseggiando una bibita, e pensando a quando – poco dopo – sarebbe arrivato finalmente il trio russo. Così il tempo, e il paesaggio, scorreva: Napoli, con la visita a Pompei; l’avvistamento di Stromboli, lo stretto di Messina; il Pireo, Atene, Capo Sounion; e poi la meta più attesa, Istanbul. Molti la chiamavano ancora Costantinopoli, anche se una canzone del 1953 aveva avvisato che «se dai appuntamento a una ragazza a Costantinopoli, ti aspetterà a Istanbul». A proposito del cambio di nome diceva: «Perché hanno fatto questo bel servizio a Costantinopoli? Sono affari dei turchi!» Ne esisteva una versione italiana, che i miei genitori canticchiavano con aria furbetta ogni volta che sentivano il nome della città sul Bosforo: infatti, eccomi qui a fare la stessa cosa. Ma non conoscevo solo «Istanbul (Not Constantinople)», e il suo verso conclusivo («… that’s nobody’s business but the Turks’»), un po’ cinico. Avevo appena visto Topkapi (1964), il film di Jules Dassin con Melina Mercouri, Peter Ustinov e Maximilian Schell entrato nell’empireo dei topoi cinematografici con la calata acrobatica per rubare un pugnale tempestato di pietre preziose, evitando i sistemi di allarme. Per tutti quelli che avevano visto il film, compresi molti dei crocieristi, Istanbul era l’avventura, le moschee, il suk, i combattimenti di giganteschi lottatori unti d’olio; era – ovviamente – anche l’ex capitale dell’Impero romano d’Oriente, caduta nelle mani dei Turchi di Maometto ii nel 1453 perché qualcuno aveva dimenticato aperta una porticina. La seconda Roma, il luogo dove si era codificato e conservato il diritto giustinianeo, finché gli studiosi delle prime università non lo riscoprirono e lo diffusero nei regni dell’Europa occidentale (i cui cittadini, genericamente chiamati Franchi da queste parti, avevano una concezione talmente sofisticata della giustizia da non trovare eccessivo cuocersi
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allo spiedo qualche neonato musulmano, durante le Crociate, come parte dei diritti dei vincitori). Centro della Chiesa ortodossa. Punto d’incontro di grandi civiltà e delle religioni monoteiste. Teatro di gloria e di nefandezze per genovesi e veneziani. Cuore di un impero che era giunto fino alle porte di Vienna, e il cui disfacimento aveva segnato (e l’avrebbe fatto ancora) la storia d’Europa nel Novecento. Insomma, se ne avessi avuto il tempo durante la visita a Santa Sofia, bella e grande da togliere il fiato, o alla meravigliosa Moschea Azzurra, forse mi sarei chiesto come mai quella parte della storia, della nostra storia, fosse così trascurata nella scuola che frequentavo, e chi avesse deciso che dovessimo appartenere solo all’Occidente, quando in tutto il Mediterraneo orientale, e anche più in là, c’erano tracce delle nostre stesse radici. Ma non ne avevo il tempo, né l’età. Perché dal momento in cui avevamo posto piede a Istanbul io e gli altri Stregoni pensavamo a una sola cosa: ai piatti Zildjian. Non so da chi Toto (Antonio Zanuso) avesse avuto per la prima volta questa informazione, ma da mesi era patrimonio comune, come fra tutti i professionisti (quali indiscutibilmente ci sentivamo). I migliori piatti per la batteria sono turchi. La marca più prestigiosa è la Avedis Zildjian, che naturalmente oggi ha la propria base negli Usa: ma le sue origini sono in Turchia, è da quasi tre secoli e mezzo che fabbrica piatti (evidentemente non per la batteria, nei primi tre: per le bande dei giannizzeri, quelle che ispirarono a Lully, a Mozart e ad altri musicisti europei le famose «turcherie») e di sicuro quelli ancora fatti artigianalmente in Turchia e non nelle fabbriche americane suonano meglio. Lo statuto di verità di quest’ultima affermazione non doveva essere lontano da quello delle notizie sui coccodrilli albini nelle fogne di New York, ma dato che decine, centinaia di milioni di consumatori intelligenti e maturi sono sempre più alla ricerca di un’autenticità che molto raramente risulta fabbricata con criteri diversi dal prodotto seriale che quegli stessi consumatori aborriscono, gli Stregoni meritano indulgenza. La caccia ai piatti Zildjian veramente turchi, come direbbe una Guida Michelin, «valeva il viaggio». Abbandonata la comitiva dei crocieristi, eccoci lanciati alla ricerca del favoloso artigiano. Non ricordo per quale motivo fosse stata scartata la soluzione che sembrerebbe naturale a chiunque, cioè quella di rintracciare il più grosso negozio di strumenti musicali della città; è possibile che un negozio così non esistesse, nel 1965, o che avesse in magazzino
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solo meravigliosi piatti Zildjian, di quelli made in Usa. Non escludo che la soluzione venisse scartata proprio perché troppo facile: «Figurati se lì avranno gli Zildjian turchi: cerchiamo nella città vecchia». Una parola. Dove? Che il turco sia una lingua incomprensibile lo dicono varie frasi fatte. Ma anche farsi capire dai turchi non è semplice. Noi potevamo ricorrere al tedesco, lingua che Alberto e io avevamo studiato a scuola e privatamente, con Frau Ermelinda von Fellermeyer, in un salotto dominato dal severo ritratto di un ufficiale della Wehrmacht: «Das ist mein Bruder, tot in Russland». Anche un mio zio era morto in Russia (divisione Julia, battaglione Cervino: «… gli alpini che muoiono traditi lungo il Don»). Che c’entrasse il fratello di Frau Ermelinda? Comunque le impeccabili costruzioni inverse che avevamo imparato erano fortemente messe alla prova dalla richiesta di tradurre: «Scusi, stiamo cercando un negozio di strumenti musicali che venda piatti per batteria Zildjian, ma non quelli fabbricati in America, quelli turchi. Sa dirci dov’è?». Tra l’altro, anche l’indicazione eventualmente ottenuta andava tradotta, interpretata in modo da essere riproducibile, per poter raggiungere il negozio dell’ineffabile commerciante, senza (mi raccomando!) essere in possesso di una mappa della città. Man mano ci addentravamo nel proverbiale dedalo di viuzze, in salita, lasciando ogni traccia di civiltà extraturca alle nostre spalle (come qualsiasi cartello o insegna privo di dieresi sulle vocali o e u). Questo, naturalmente, era una garanzia sulla genuinità dei piatti. Passanti interrogati sulla base delle informazioni raccolte strada facendo ci indicavano sempre di proseguire, e questo non si può dire che fosse un cattivo segno. Decine di turchi presi a caso sembravano perfettamente a conoscenza del business dei piatti Zildjian, e facevano gesti eloquenti verso nordest (dovevamo essere, ora me ne rendo conto, dalle parti della Torre di Galata, in direzione del quartiere di Pera e della Istiklal Caddesi, all’inizio della quale ancora oggi si trovano vari negozi di musica). Intanto eravamo quasi arrivati a quel punto per raggiungere il quale si è impiegato più o meno lo stesso tempo che si sa di avere a disposizione per il ritorno, anche facendo la tara della maggior velocità, e la sicurezza dei turchi cominciava a diventare sospetta. Capivano quello che chiedevamo? Cosa ci stavano indicando? Cosa vuol dire, veramente, Zildjian? Nessuno osava rendere esplicite le sue preoccupazioni, ma cominciavamo a dirci: «Certo che ’sto negozio è proprio lontano…» «Ma-
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gari arriviamo ed è chiuso…» «Se non lo troviamo entro cinque minuti ci conviene tornare: la nave riparte alle otto…». Eccola, la nostra Mecca. Era lì. Aperto. Piccolo. Genuino. Sì, ce li ha, quelli turchi. Mentre gli altri, ormai liberi dalla funzione di guide o di scorta, cominciano a ciondolare davanti alle vetrinette (ancora ansimanti per la camminata), Toto, trionfante inizia la trattativa. Sospende ogni piatto sull’indice della mano sinistra, lo fa ruotare, lo percuote. Alla fine approva, tira sul prezzo, compra. Ci rilanciamo nei vicoli, arriviamo al porto con largo anticipo: missione compiuta. Adesso siamo un gruppo il cui batterista ha i piatti turchi: un piatto turco, ma quello più importante. Avevamo ancora tre serate, ma ormai il ritorno a casa era in discesa: come in quel dipinto a Palazzo Ducale, dove Venezia è in basso, la Palestina in alto, a destra c’è tutta la costa adriatica, poi la Calabria, la Sicilia, la Libia e il delta del Nilo, e a sinistra la Dalmazia, la Grecia, l’Anatolia con Bisanzio, e le isole dell’Egeo, e Cipro. Il Golfo di Venezia, come si chiamava ai tempi della Serenissima il tratto di mare fra la laguna e il canale di Otranto. Noi l’avremmo disceso fieri delle merci preziose acquistate in Oriente, forti dell’esperienza guadagnata sul campo: col nostro nuovo sound, che cosa avrebbe potuto fermarci?