G. Willow Wilson Alif l’invisibile
Traduzione di Luca Fusari
Sito & eStore – www.ilsaggiatore.com Twitter – twitter.com/ilSaggiatoreED Facebook – www.facebook.com/ilSaggiatore © G. Willow Wilson, 2012 © il Saggiatore S.p.A., Milano 2013 Titolo originale: Alif the Unseen
Alif l’invisibile
a mia figlia Maryam, nata durante la Primavera araba
Iram i Qui c
sono
Il Quartiere Vuoto
i Jinn
Prigione di Stato di massima sicurezza (Zona Classificata) TransAtlas Co. impianti petroliferi
Palmeto da datteri
Distretto di Baqara
Il Suk
La Piazza
Quartiere Nuovo Il porto
Spiagge
Strade non segnate Pozzi petroliferi
La Città N
Quartieri dei lavoratori
Quartiere Vecchio
Il Posto dei Rifiuti
Università di Al Basheera Moschea di Al Basheera
G o l f o
o c i s P e r
Il devoto riconosce in ogni Nome divino la totalità dei Nomi. Muhammad ibn al-‘Arabī, La sapienza dei profeti (Fuṣūṣ al-ḥikam) Con l’immaginazione il derviscio ha concepito i fatti narrati in queste storie, ma è con il buon senso che ha dato loro la parvenza di verità, e da ciò che è reale ha ricavato le sue immagini. François Petis de la Croix, I mille e un giorno
Capitolo zero Persia, tanto tempo fa
La creatura appariva sempre nell’ora tra il crepuscolo e il calare del buio. Nelle ore del pomeriggio in cui la luce scemava e disegnava ombre grigie e violacee intorno alle stalle ai piedi della sua torre, Reza si lasciava prendere da ondate tremende di ansia e impazienza. Al calare della sera la memoria finiva sempre per riportarlo indietro di sessant’anni, tra le braccia della balia. L’ora del crepuscolo è l’ora in cui i jinn sono più inquieti, gli raccontava. Era turca, e non gettava mai l’acqua sporca del bagno dalla finestra senza prima chiedere scusa al popolo nascosto che viveva giù, sottoterra. Se dimenticava di avvisarle rischiava che, sdegnate, quelle creature si accanissero sul bambino che accudiva e lo affliggessero con la cecità o con la malattia delle macchie. Quand’era un giovane studente, ancora lontano dalla saggezza, Reza aveva disprezzato le paure della donna liquidandole come semplici superstizioni.
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Adesso era un vecchio sdentato. Mentre il sole avvampava e sfiorava la cupola del palazzo dello Scià all’altro capo della piazza, un terrore ben noto gli scosse le viscere. Il suo apprendista oziava in un angolo del laboratorio e piluccava gli avanzi del padrone. Reza sentì addosso lo sguardo sprezzante del giovane imberbe mentre, alla finestra, seguiva la traiettoria del sole che andava a morire. «Portami il manoscritto» gli disse senza voltarsi. «Tira fuori l’inchiostro e i calami. Prepara tutto.» «Sì, padrone.» Il ragazzo rispose sgarbato. Era il terzo figlio di un nobile di second’ordine, non coltivava particolari aspirazioni accademiche o spirituali. Una volta – soltanto una – Reza gli aveva concesso di assistere alla visita della creatura nella speranza che il giovane vedesse, capisse e confermasse che il suo maestro non era impazzito. Non fu così. La creatura arrivò e prese forma nel cerchio di invocazione disegnato da Reza con gesso e cenere al centro del laboratorio. Ma l’apprendista non si accorse di nulla. Irritato e imperturbabile, guardava il suo padrone mentre l’ombra nel cerchio si dispiegava e le spuntavano braccia e gambe, la caricatura di una sagoma umana. Quando Reza si rivolse all’apparizione, il ragazzo reagì con una risata squillante, un misto di scherno e incredulità. «Perché?» domandò Reza, disperato, alla creatura. «Perché non gli permetti di vederti?» Per tutta risposta, la creatura si fece spuntare i denti: file e file, ammassate in un sorriso ripugnante. Egli ha scelto di non vedere, disse la creatura.
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Reza aveva temuto che il ragazzo ne parlasse con il padre, e che questi mettesse in guardia i funzionari ortodossi di palazzo, pronti a imprigionarlo per atti di stregoneria. Invece l’apprendista non disse nulla e, giorno dopo giorno, tornò sempre a seguire le lezioni. Soltanto la letargia con cui eseguiva gli ordini e il tono sprezzante con cui gli si rivolgeva erano il chiaro segno che il rispetto del ragazzo nei confronti di Reza era ormai svanito. «Sulle pagine che ho scritto ieri l’inchiostro si è asciugato» disse Reza quando l’apprendista tornò con pennini e inchiostro. «Sono pronte per essere fissate. Hai fabbricato lo smalto?» Il ragazzo lo guardò e impallidì. «Non posso» disse, e il disprezzo si dissolse. «Vi prego, è troppo disgustoso. Non voglio.» «Benissimo» sospirò Reza. «Ci penso io. Puoi andare.» Il ragazzo filò dritto alla porta. Reza si sedette al tavolo e avvicinò a sé una grossa ciotola di pietra. Il lavoro lo avrebbe distratto, almeno fino al crepuscolo. Versò nella ciotola una porzione della preziosa resina di mastice che aveva messo a bollire quel mattino sopra un braciere a carbone. Aggiunse qualche goccia d’olio nero di semi di nigella e rimescolò il liquido per non farlo solidificare. Quando fu soddisfatto della consistenza della miscela, sollevò con cautela il velo di lino che copriva una modesta pentola di ferro all’altro capo del tavolo. La stanza fu invasa da un odore acre, allarmante, di una femminilità viscerale. Reza pensò a sua moglie viva,
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in fiore, gonfia del figlio che era morto con lei. Questo era l’odore che ne intrideva il letto prima che Reza ordinasse ai servi di portare via le lenzuola e bruciarle. Per un momento si sentì smarrito. Si costrinse all’impassibilità, staccò la porzione di massa viscida che gli occorreva e, maneggiandola con pinze di metallo, la gettò senza troppe cerimonie nella ciotola di smalto messo a raffreddare. Contò qualche minuto sulle nocche, poi tornò a controllarla. Lo smalto era diventato trasparente e luccicante come miele. Reza stese con cura le pagine vergate durante l’ultima visita della creatura. Scriveva in arabo, non in persiano, con la speranza di impedire all’ignorante o al profano che ne fosse venuto in possesso di fare cattivo uso della sua opera. Perciò il manoscritto era una doppia traduzione: prima in persiano dalla lingua senza voce della creatura, una lingua che risuonava nelle orecchie di Reza come gli echi notturni dell’infanzia, quando a precedere il sonno era il viaggio solitario e timoroso dalla veglia ai sogni. Poi dal persiano verso l’arabo, la lingua dei suoi studi, tanto matematica ed efficiente quanto la creatura era verbosa. Il risultato lo sconcertava. Reza trascriveva le storie come meglio poteva, ma qualcosa andava perso. Quando la creatura parlava Reza crollava quasi in trance, vedeva forme dai contorni strani amplificarsi all’infinito e assumere i tratti di montagne, linee costiere, disegni del gelo sul vetro. In quei momenti sapeva con certezza di aver realizzato il proprio desiderio, e che tutta la conoscenza era a portata di mano. Messe per iscritto, tuttavia, le storie
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cambiavano. Come se i loro stessi personaggi – la principessa, la balia, il re uccello e tutti gli altri – si facessero più scaltri e gli sfuggissero mentre cercava di tratteggiarli dando loro proporzioni umane. Reza intinse un pennello di crine nella ciotola di pietra e cominciò a spalmare sulle pagine nuove uno strato sottile di smalto. L’olio di nigella impediva alla carta pesante di deformarsi. L’altro ingrediente, quello che tanto aveva turbato l’apprendista, era indispensabile perché il manoscritto sopravvivesse a lungo, allo stesso Reza, e resistesse al disfacimento. Se non fosse riuscito a scoprire il vero significato nascosto nelle parole della creatura, forse un giorno l’avrebbe fatto qualcun altro. Reza era così concentrato sul lavoro da non badare al sole che scivolava dietro la cupola del palazzo e spariva all’orizzonte, tra le vette aride dei monti Zagros. Il fresco nella stanza annunciava il crepuscolo. Il cuore di Reza cominciò a battere contro il torace. Con cautela, prima che la paura lo sopraffacesse, mise le pagine smaltate ad asciugare sopra un paravento. Su una mensola c’erano le loro compagne, una grossa risma che attendeva il completamento dell’ultima storia. Al termine dell’opera, Reza avrebbe cucito insieme le pagine con filo di seta e le avrebbe racchiuse tra due fogli più spessi, ricoperti di lino. E poi? La voce, come sempre, nasceva dalla sua mente. Reza si drizzò, le articolazioni rigide schioccavano a ogni movimento. Controllò il respiro per mantenere la calma.
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«E poi studierò» disse calmo. «Leggerò e rileggerò ogni storia finché non le avrò imparate tutte a memoria, e finalmente il loro potere mi si svelerà.» La creatura sembrava divertita. Era apparsa in silenzio, sedeva tranquilla al centro della stanza dentro la prigione di cenere e gesso, guardava Reza con i suoi occhi gialli. Reza trattenne un sussulto. La vista della creatura lo riempiva ancora di un misto dissonante di orrore e trionfo. La prima volta che l’aveva invocata, quasi non aveva creduto di poter domare un’entità così potente scrivendo per terra poche parole ben scelte, parole che la sua domestica analfabeta rischiava di spazzare via come se niente fosse. Invece ci era riuscito; a riprova, così sperava, della sua profonda erudizione. Era riuscito a soggiogare la creatura costringendola a tornare, giorno dopo giorno, finché non avesse terminato di narrare le sue storie. «Studierò» dice. La voce della cosa era sdegnosa. Ma cosa spera di ottenere? Gli Alf Yeom vanno al di là della sua comprensione. Reza si strinse nella veste e drizzò le spalle in una posa che voleva essere fiera. «Così affermi, ma la sincerità non è mai stata fra le doti della tua razza.» Perlomeno siamo sinceri con noi stessi, e non bramiamo quel che non ci appartiene. L’uomo fu esiliato dal Giardino per aver mangiato un solo frutto, e adesso tu vorresti sradicare l’albero intero senza che gli angeli se ne accorgano. Sei un vecchio pazzo, ed è l’Ingannatore a consigliarti. «Sono un vecchio pazzo.» Con fatica Reza andò a se-
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dersi alla postazione di lavoro. «Ma ormai è tardi per essere altro. L’unica via è quella che va fino in fondo. Fammi completare l’opera, e ti libererò.» La creatura ululò di dolore e andò a schiantarsi contro il bordo del cerchio. Rimbalzò immediatamente indietro, respinta dalla barriera che Reza aveva creato ma non riusciva a vedere. Che cosa vuoi? protestò la creatura. Perché mi costringi a dirti ciò che non dovrei? Queste storie non vi appartengono. Sono nostre. «Sono vostre, ma non le comprendete» sbottò Reza. «Soltanto Adamo ebbe in dono il vero intelletto, e soltanto i banu Adam hanno il potere di dare il giusto nome alle cose. Ciò che tu chiami il re uccello, la cerbiatta e il cervo sono soltanto simboli che celano un messaggio nascosto, come il poeta che nel suo ghazal narra di un leone sdentato per criticare un re debole. Nelle tue storie si nasconde il potere segreto di ciò che è invisibile.» Il messaggio è la storia stessa, disse la cosa, con una specie di sospiro. Ecco il segreto. «Assegnerò un numero a ogni elemento delle storie» disse Reza ignorando quel monito allarmante. «E così facendo formulerò un codice che stabilisca la relazione quantitativa di ognuno rispetto agli altri. Saranno in mio potere.» Lasciò cadere la frase. La brezza entrata dalla finestra aperta gli aveva riportato l’odore dello smalto messo a seccare. Reza pensò di nuovo a sua moglie. Hai perso qualcosa, insinuò la creatura. «Questo non ti riguarda.»
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Al mondo non c’è storia, codice o segreto che possa ridare vita ai morti. «Non voglio ridare vita ai morti. Voglio soltanto sapere… voglio…» La creatura ascoltava con gli occhi gialli immobili, fissi. Reza ricordò le erbe medicinali, i salassi, l’incenso per pulire l’aria, i dialoghi brevi e sommessi fra le levatrici che accerchiavano il letto zuppo di sangue e si coprivano la bocca con il velo per parlare con lui che assisteva, inerme e disperato. «Il controllo» disse infine. La creatura tornò a sedersi, strinse le sue non-ginocchia tra le non-braccia e lo scrutò. Prendi carta e calamo, disse. Ti racconto l’ultima storia. Ma prima ti devo mettere in guardia. «In che senso?» Quando l’avrai ascoltata, diventerai un altro. «Sciocchezze.» La creatura sorrise. Prendi il calamo.
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Capitolo primo Golfo Persico, oggi
Alif sedeva sul davanzale di cemento della sua finestra e si godeva il sole di un settembre caldo. La luce si rifrangeva tra le ciglia. Quando socchiudeva gli occhi, il mondo diventava un fregio di pixel azzurri e bianchi. Alla lunga, guardarlo senza mettere a fuoco nulla gli provocava una fitta alla fronte e lo costringeva ad abbassare gli occhi, a fissare le ombre che sbocciavano dietro le palpebre. Vicino al piede aveva uno smartphone sottile, cromato: era piratato, ma neanche Alif sapeva bene se fosse venuto a occidente dalla Cina o a oriente dall’America. Lui non trafficava con i telefoni. Questo gliel’aveva sistemato un amico, cancellando le protezioni installate dal gigante delle telecomunicazioni che aveva l’esclusiva su quel modello. Sul display c’erano i quattordici sms spediti da Alif a Intisar nelle due settimane precedenti, al ritmo autodisciplinato di uno al giorno. Tutti rimasti senza risposta. Fissò il telefono con gli occhi ancora semichiusi. C’era da scommetterlo: se si fosse addormentato lei lo avrebbe
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chiamato. Si sarebbe risvegliato di scatto mentre il telefono squillava, l’apparecchio gli sarebbe sfuggito di mano cadendo dal davanzale nel cortiletto, e lui avrebbe dovuto correre giù a cercarlo tra i cespugli di gelsomino. Piccole disgrazie sopportabili, pur di scongiurarne una più grande: la possibilità che Intisar non chiamasse affatto. «La legge dell’entropia» disse al telefono. L’apparecchio scintillava al sole. Sotto di lui, la gatta nera e arancione che cacciava scarafaggi in cortile praticamente da sempre passò di corsa sulla terra riarsa, zampettando svelta per non scottare i cuscinetti rosa. Alif la chiamò, lei rispose con un gorgoglio irritato e strisciò furtiva dietro un gelsomino. «Troppo caldo per i gatti e gli uomini» disse Alif. Sbadigliò e sentì il sapore del ferro. L’aria era densa e unta, come il gas di scarico di un grosso macchinario. Non dava sollievo ai polmoni, li invadeva e, insieme al caldo, scatenava il panico nella testa. Una volta Intisar gli aveva detto che la città odia i suoi abitanti e cerca di soffocarli. Lei ricorda – perché la città, secondo Intisar, era femmina – l’epoca in cui pensieri più puri generavano aria più pura: il regno dello sceicco Abdel Sabbour, che tanto valorosamente cercò di tenere alla larga gli usurpatori europei; l’alba di Jamat Al Basheera, la grande università; e prima ancora, le corti estive di Pari-Nef, Onieri, Bes. Lei aveva nomi più gentili di quelli che porta oggi. Islamizzata da un jinn-santo, così si narra, giace al crocevia tra il mondo degli uomini e il Quartiere Vuoto, dominio degli spiriti maligni e degli ‘ifrīt che prendono le sembianze di bestie. Se non fosse per la benedizione del jinn-santo sepolto
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sotto la moschea di Al Basheera, colui che udì il messaggio del Profeta e pianse, la Città rischierebbe di vedersi invasa dal popolo nascosto come già lo è dai turisti e dagli uomini del petrolio. Sembra quasi che tu ci creda, aveva detto Alif a Intisar. Certo che ci credo, aveva risposto Intisar. La tomba c’è, esiste. È aperta al pubblico il venerdì. Sopra c’è ancora il turbante del jinn-santo. A occidente, al di là della striscia di deserto alle spalle del Quartiere Nuovo, il sole cominciava a spegnersi. Alif mise in tasca il telefono e tornò in camera sua scivolando dal davanzale. Magari, sceso il buio, avrebbe provato a richiamarla. Intisar preferiva sempre vederlo di notte. La società non badava troppo a chi infrangeva le regole; l’importante era sapere che c’erano e che andavano rispettate. Per una coppia, vedersi dopo il calare della sera era sintomo di lucidità e buon senso. Lo faceva chi sapeva di sfidare le consuetudini ma prendeva le precauzioni del caso per non farsi scoprire. Intisar, nobile e conturbante, con i suoi capelli neri e la voce bassa, da tortora, era degna di tanto riserbo. Era logico che lo desiderasse, il riserbo. Anche Alif, dopo tutto il tempo passato a nascondersi dietro un nickname, una semplice lettera dell’alfabeto, quando pensava a se stesso non immaginava nient’altro che una alif: una linea diritta, un muro. Il suo vero nome non gli diceva più niente. L’atto di nascondere era ormai più potente di ciò che nascondeva. Forte di questa certezza, Alif aveva assecondato Intisar e il suo bisogno di mantenere il se-
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greto sulla loro relazione, anche se tutte quelle manovre lo avevano stancato quasi subito. Pazienza, andava bene così, se un incontro clandestino bastava a riaccendere in lei la vampa dell’amore. Valeva la pena di aspettare un’ora o due. Dalla finestra aperta entrò il profumo aspro di rasam e riso. Sarebbe sceso in cucina per mangiare; non aveva più mangiato niente, dopo la colazione. Un colpo dall’altra parte del muro, dietro il poster di Robert Smith, lo fermò sulla soglia. Sbuffò, irritato. Forse poteva farla franca. Ma il colpo fu seguito da una precisa serie di rintocchi: .
Lo aveva sentito scendere dalla finestra. Alif sospirò e bussò due volte sul ginocchio sgranato, in bianco e nero, di Robert Smith. Quando arrivò sul tetto, ad aspettarlo trovò Dina. Era rivolta al mare o, meglio, al punto dell’orizzonte dove si sarebbe visto il mare se verso oriente non ci fosse stato l’intrico di condomini che ostruiva il panorama. «Cosa vuoi?» chiese Alif. Lei lo guardò di sbieco, con le sopracciglia basse dietro la fessura sottile del velo che nascondeva la faccia. «Restituirti il libro» disse lei. «È successo qualcosa?» «No, niente» rispose Alif irritato, gesticolando. «Allora dammi il libro.» Dina sfilò da sotto la veste una copia malconcia della Bussola d’oro. «Non mi chiedi se mi è piaciuto?» domandò. «Non mi importa. Probabilmente l’inglese era troppo difficile per te.» «Invece no. Ho capito tutto. Questo libro…» e lo sven-
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tolò nell’aria «… è pieno di immagini pagane. È pericoloso.» «Non fare l’ignorante. Sono metafore. Te l’avevo detto che alla fine non l’avresti capito.» «Le metafore sono pericolose. Dare un nome falso a una cosa la cambia, e la metafora è soltanto un modo complicato di dare nomi falsi alle cose.» Alif le strappò di mano il libro. Un fruscio di tessuto, e Dina abbassò la testa, gli occhi sparirono sotto le ciglia. Alif non la vedeva in faccia da quasi dieci anni, ma capì che aveva il broncio. «Scusa» le disse, e si strinse il libro al petto. «Oggi non sto bene.» Dina taceva. Alif guardò impaziente dietro di lei: vedeva una parte del Quartiere Vecchio scintillare su un’altura, oltre la schiera di caseggiati scadenti che li circondava. Intisar era là, da qualche parte, come la perla inglobata in uno degli antichi molluschi che i ghataseen cercavano sulle spiagge che lambivano le mura del quartiere. Forse trafficava con la tesi, studiava i suoi testi di letteratura islamica antica; forse nuotava in una piscina d’arenaria, nel giardino della villa di suo padre. Forse pensava a lui. «Non volevo parlarne» disse Dina. Alif non capiva. «Parlare di cosa?» chiese. «Ieri la nostra domestica ha sentito i vicini che ne discutevano, al suk. Dicono che in segreto tua madre è ancora indù. Pare che l’abbiano vista comprare candele puja in quel negozio che c’è a Nasser Street.»
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Alif la guardò, la mascella contratta. All’improvviso si voltò e attraversò il tetto polveroso, passò davanti alle antenne paraboliche e alle piante in vaso, e non si fermò quando Dina lo chiamò con il suo vero nome. * In cucina, sua madre tagliava le cipolle verdi fianco a fianco con la domestica. Il sudore luccicava sulla pelle lasciata scoperta dal salwar kameez all’altezza delle prime vertebre della schiena. «Mamma.» Alif le toccò la spalla. «Cosa c’è, makan?» Il coltello non si fermò mentre parlava. «Serve qualcosa?» «Che domanda. Hai mangiato?» Alif si sedette al tavolino della cucina e guardò la domestica che, senza aprire bocca, gli serviva un piatto di cibo. «Parlavi con Dina, sul tetto?» chiese sua madre mentre rovesciava il mucchietto di cipolle dal tagliere alla pentola. «E allora?» «Non dovresti. Tra poco i suoi genitori andranno a cercarle un marito. Non so se è il caso che le famiglie buone sappiano che frequenta un ragazzo strambo.» Alif restò perplesso. «E chi sarebbe strambo? Abitiamo nella stessa ridicola bifamiliare da quando eravamo piccoli. Veniva a giocare in camera mia.» «Quando avevi cinque anni! Ormai è una donna.» «Avrà lo stesso nasone di una volta.»
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«Non essere cattivo, makan-jan. Non sei attraente, così.» Alif giocherellò con il cibo nel piatto. «Anche se avessi la faccia di Amr Diab non cambierebbe niente» brontolò. Sua madre si voltò a guardarlo, un’espressione torva a offuscare il viso rotondo. «Davvero infantile, come atteggiamento. Se soltanto ti trovassi un lavoro serio e mettessi da parte qualche soldo, ci sono migliaia di ragazze indiane carine per cui sarebbe un onore.» «Ragazze arabe invece no.» La domestica lo guardò perplessa. «Cos’hanno di tanto speciale le arabe?» chiese la madre di Alif. «Si danno un sacco di arie e si truccano come ballerine di cabaret, ma senza soldi non sono niente. Né belle né intelligenti, e non ce n’è una che sappia cucinare…» «Non voglio una cuoca!» Alif spinse indietro la sedia. «Vado di sopra!» «Bene! Portati il piatto.» Alif prese il piatto con un gesto brusco e fece volare la forchetta sul pavimento. Passò davanti alla domestica che si era chinata a raccoglierla. Tornato in camera, si guardò allo specchio. Sul suo viso, almeno lì, il sangue indiano e quello arabo si erano mescolati in proporzioni gradevoli. Il colorito della pelle era uniforme, bronzeo. Gli occhi venivano dal ramo beduino della sua famiglia, la bocca da quello dravidico; il mento grosso, tutto sommato, non era un problema. Sì, carino, ma non lo si poteva certo scambiare per un arabo purosangue. E al proprio, Intisar non avrebbe mai e poi
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mai mescolato un sangue che non fosse puro, eredità millenaria di un popolo di sceicchi ed emiri. «Un lavoro serio» disse Alif alla propria immagine riflessa, ripetendo le parole della madre. Nello specchio vide anche il monitor del computer che riprendeva vita. Guardò perplesso i dati che scorrevano sullo schermo e segnalavano l’indirizzo ip e le statistiche di utilizzo dell’utente che proprio in quel momento stava cercando di crackare il suo software di crittografia. «Chi viene a ficcare il naso in casa mia? Cattivello.» Andò a sedersi alla scrivania e studiò lo schermo piatto – quasi nuovo, immacolato, a parte una minuscola crepa che aveva riparato lui stesso; comprato per due soldi da Radio Sheikh, il negozio di Abdullah. L’ip dell’intruso veniva da un server di Winnipeg, era il suo primo tentativo di intrufolarsi nel sistema operativo di Alif. Un curioso, quindi. Con tutta probabilità il furfante era un grey hat come lui. Rinunciò all’impresa dopo due minuti di test sulle difese di Alif, ma non prima di scaricare ed eseguire sul proprio terminale Pony Express, un trojan nascosto da Alif dietro l’apparenza di un errore di codice. Se l’intruso ci sapeva fare almeno un po’ e faceva girare regolarmente i programmi anti-malware lo avrebbe scovato, ma con un briciolo di fortuna Alif poteva concedersi qualche ora per spiare le abitudini di navigazione su Internet del malcapitato. Alif accese il piccolo ventilatore elettrico vicino al suo piede e lo puntò verso il computer. La Cpu si era scaldata; la settimana prima aveva rischiato di fondere la scheda madre. Non poteva permettersi di abbassare la guardia.
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Un giorno offline poteva mettere in pericolo i suoi clienti più famosi. I sauditi cercavano Jahil69 da anni, erano infuriati perché non riuscivano a bloccare in nessun modo il suo sito erotico amatoriale, che faceva più visitatori al giorno di qualunque altra pagina web del Regno. In Turchia, TrueMartyr e Umar_Online fomentavano la rivoluzione islamica da un luogo che le autorità di Ankara avevano grosse difficoltà a identificare. Alif non era fedele a nessuna ideologia; per quanto lo riguardava, chiunque potesse pagare la sua protezione era degno di averla. Soltanto i censori gli facevano digrignare i denti nel sonno, i censori che spegnevano qualunque spirito di iniziativa, santo o cinico che fosse. La loro nuvola digitale fatta di uno e zero oscurava metà del mondo e lo privava del libero accesso all’economia dell’informazione. Alif e i suoi amici leggevano le lamentele delle loro viziate controparti americane e britanniche – attivisti tutti chiacchiere, irritati da questo o quell’altro disegno di legge sul monitoraggio del traffico digitale – e ridevano. Ignorant monoglots, li chiamava Abdullah quando gli andava di parlare inglese. Non potevano immaginare quanto fosse complicato operare dalla Città, da qualunque città non preconfezionata, non regolata da codici postali asettici e leggi chiare. Non potevano immaginare la vita in un posto che vantava uno dei più sofisticati sistemi di polizia digitale al mondo, ma dove non esisteva neanche una vera e propria rete postale. Emirati con principi che viaggiavano a bordo di auto placcate argento e quartieri senza acqua corrente. Una rete in cui ogni blog, ogni chat, ogni forum
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era costantemente passato al setaccio, alla ricerca di espressioni illegali di disagio e insoddisfazione. Verrà il momento anche per loro, gli aveva detto una volta Abdullah. Avevano fumato un narghilè bello carico sotto il portico dietro Radio Sheikh mentre guardavano due gatti randagi che si accoppiavano sopra un mucchio di rifiuti. Un giorno si sveglieranno e scopriranno che gli hanno sfilato la civiltà da sotto i piedi, un centimetro alla volta, un dollaro alla volta, come è successo a noi. Capiranno cosa vuol dire essersi addormentati durante il secolo più importante della loro storia. Questo non ci aiuta, aveva detto Alif. No, aveva risposto Abdullah, ma di sicuro mi fa stare meglio. Nel frattempo, a tenerli occupati c’erano i loro incubi quotidiani. All’università, frustrato dalle lacune del programma di informatica compilato e insegnato dagli stessi funzionari statali che vigilavano sul panorama digitale, Alif si era svezzato da solo, per ripicca. Avrebbe imparato da sé quello che non gli insegnavano. Avrebbe contribuito a inondare i loro server di video porno, oppure a mandare a gambe all’aria i soldati di Dio. Non necessariamente in quest’ordine. Meglio il caos che lasciarsi soffocare poco a poco. Fino a soli cinque anni prima – anche meno – i censori erano pigri, lasciavano l’incombenza di scovare le prede sospette agli amministratori dei social network e alle indagini vecchio stile. Poi, un po’ alla volta, avevano accumulato informazioni e conoscenze spaventose. In un’in-
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finità di mainframe cominciarono a diffondersi le voci più disparate: chi li aveva addestrati? La Cia? Più probabilmente il Mossad; la Cia non era così sveglia da scegliere un modo tanto sofisticato per demoralizzare i bifolchi digitali. Non erano uniti da una fede, questi censori; erano Ba’th in Siria, laici in Tunisia, salafiti in Arabia Saudita. Eppure miravano a obiettivi diversissimi sfruttando metodi sempre uguali. Scoprire, smantellare, sottomettere. In Città, l’aumento della sorveglianza su Internet era sembrata una stranezza, una bizzarria. Aveva investito i blog e i forum degli scontenti come una nebbia, a volte assumeva l’aspetto di un errore di codice o di un guasto al server, a volte di un brusco calo nella velocità di connessione. Alif e gli altri grey hats della Città impiegarono mesi per trovare il nesso che legava episodi apparentemente normali. Nel frattempo, gli account di web hosting di alcuni tra i più brillanti critici della Città furono scoperti, crackati – dal governo, presumibilmente – e resi inutilizzabili dai loro stessi proprietari. Prima di andarsene per sempre dall’ecosistema digitale, NewQuarter01, il primo blogger della Città, aveva dato un nome a quello strano evento: la Mano di Dio. Il dibattito riguardo alla sua identità infuriava ancora: era un programma, una persona, tante persone? Qualcuno supponeva che la Mano fosse l’emiro – non si diceva da sempre che Sua Altezza fosse andato a studiare la sicurezza nazionale dai cinesi che avevano creato lo Scudo Dorato? Qualunque fosse la sua origine, comunque, nella nuova ondata di vigilanza Alif vedeva chiaro l’inizio della catastrofe. Gli
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account erano soltanto il primo passo. Prima o poi i censori sarebbero penetrati nelle vite delle persone. Come tutte le cose, come la civiltà stessa, gli arresti erano cominciati in Egitto. Nelle settimane prima della Rivoluzione, la stratosfera digitale si era trasformata in un teatro di guerra. I blogger che usavano le piattaforme di software gratuite erano i più vulnerabili; Alif non fu sorpreso né stupito di vederli scoperti e imprigionati. Poi cominciarono a sparire gli smanettoni più intraprendenti, quelli che scrivevano da sé il codice dei loro siti. Quando la violenza si rovesciò da Internet alle strade e trasformò i viali ariosi di piazza Tahrir in un luogo di sterminio, Alif mollò senza troppi complimenti i suoi clienti egiziani. Era chiaro che la sua capacità di occultare digitalmente i dissidenti non stava al passo con il regime del Cairo. Amputare il braccio per salvare il corpo, si disse Alif. Se il suo nome fosse giunto a un qualsiasi alto funzionario statale particolarmente ambizioso, un bel gruppo di blogger, pornografi, islamisti e attivisti sparsi tra la Palestina e il Pakistan sarebbe stato in pericolo. No, Alif non era preoccupato per la propria pelle, anche se nei giorni della Rivoluzione, per una settimana intera, se la fece letteralmente nelle mutande. Non era lui che rischiava di rimetterci la pelle, figuriamoci. Poi, su Al Jazeera vide arrestati amici che conosceva soltanto per pseudonimo, vittime degli ultimi spasmi del regime. Avevano facce sempre diverse da come le immaginava, erano più vecchi o più giovani, oppure sorprendentemente pallidi, barbuti, rugosi. Uno era persino una
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ragazza. Probabilmente stava per finire violentata da qualcuno in cella. Probabilmente era vergine. Amputare il braccio. Le dita di Alif scivolavano sulla tastiera. «Metafore» disse. Lo digitò in inglese. Dina aveva ragione, come sempre. Ecco spiegato perché Alif non si entusiasmò affatto dopo il successo della Rivoluzione egiziana, né sull’onda delle sollevazioni che la seguirono. I trionfi dei suoi colleghi senza volto che avevano mandato in tilt un sistema dopo l’altro, governo dopo governo, non facevano che ricordargli quant’era stato vigliacco. La Città, che un tempo era solo uno tra i tanti emirati dispotici, cominciò a sembrargli fuori dal tempo: il ricordo di un ordine antico, un sogno abitato da gente che non era riuscita a svegliarsi. Alif e i suoi amici continuavano a combattere, prendevano a scalpellate la fortezza digitale eretta dalla Mano per proteggere il governo marcio dell’emiro. Ma attorno ai loro sforzi incombeva un’aura di fallimento. La storia si era dimenticata di loro. Un lampo verde appena intravisto: Intisar era connessa. Alif fece un respiro e si sentì rimestare dentro. A1if: Perché non hai risposto alle mie mail? Bab_elDunya: Per favore lasciami stare Si sentì sudare le mani. A1if: Ti ho insultata? Bab_elDunya: No A1if: E allora che c’è?
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Bab_elDunya: Alif, Alif A1if: Sto impazzendo, dimmi cosa c’è A1if: Vediamoci A1if: Per favore Per un minuto pesantissimo Intisar non scrisse niente. Alif appoggiò la fronte al bordo della scrivania, in attesa del segnale acustico della risposta. Bab_elDunya: Al posto tra venti minuti Alif uscì incespicando. * Prese un taxi fino al tratto di mura più lontano del Quartiere Vecchio, poi fece la strada a piedi. Le mura erano affollate di turisti. Il tramonto donava una sfumatura rosa acceso alla pietra traslucida, un fenomeno luminoso che tutti cercavano invano di catturare con i telefoni cellulari e le macchine fotografiche digitali. I venditori ambulanti di souvenir e i chioschi del tè affollavano la strada che correva lungo le mura. Alif si fece largo in mezzo a un gruppo di donne giapponesi tutte con la stessa maglietta. Qualcuno, poco lontano, puzzava di birra. Trattenne un urlo di irritazione quando si vide sbarrare la strada da una guida desi,* un tipo alto che reggeva una bandierina. *
In gergo, sta a definire un individuo originario del subcontinente indiano. [N.d.T.]
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«Prego guardare a sinistra, signori! Cento anni fa, questo muro circondava tutta città. I turisti non venivano con aereo ma su cammello! Pensate di attraversare il deserto e all’improvviso… il mare! E sul mare, città circondata da mura di quarzo, come miraggio. Credevano che era miraggio!» «Scusa, fratello» disse Alif in urdu «ma io non sono un miraggio. Fammi passare.» La guida lo fissò. «Siamo venuti qui tutti a guadagnarci da vivere, fratello» disse, offeso. «Non spaventare i soldi.» «Io qui non ci sono venuto. Qui ci sono nato.» «Masha’Allah! Scusami tanto.» E allargò le gambe. D’istinto, come gallinelle con la chioccia, il gruppo di turisti gli si radunò alle spalle. Alif guardò oltre la comitiva, in fondo alla via. Quasi riusciva a vedere il tetto di lamiera del chiosco dove lo aspettava Intisar. «Non importa a nessuno se qualche ciccione vittoriano ha attraversato il deserto per guardare un muro» sbottò. «Ormai sono morti. Abbiamo un sacco di europei vivi, giù ai pozzi di petrolio e negli impianti della TransAtlas. Portali a vedere quelli.» La guida tagliò corto: «Sei pazzo, bhai.» E si fece da parte, trattenendo il gregge con un cenno della mano. Alif aveva invocato un legame di classe più forte del commercio. Si portò una mano al cuore per ringraziarlo e ripartì in fretta. Il chiosco del tè non era nulla di attraente né memorabile. A decorarlo c’era un murale in acrilico ormai sbiadito con il celebre profilo del Quartiere Nuovo, e il proprie-
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tario – un malese che non sapeva una parola di arabo – serviva bevande all’ibisco «autentiche», fuori moda da decenni. Nessun indigeno avrebbe mai messo piede in un simulacro del genere. Per questo motivo Alif e Intisar l’avevano scelto come luogo d’incontro. Alif trovò la ragazza ad aspettarlo nell’angolo, con le spalle rivolte alla stanza, china su un mazzetto di cartoline impolverate. Alif sentì il sangue andargli alla testa. «As-salām ‘alaykum» disse. Lei si voltò, e le perline nere brillanti sull’orlo del velo tintinnarono appena. Due grandi occhi neri lo guardarono. «Scusa» sussurrò lei. Alif attraversò la stanza in tre passi e le strinse la mano guantata. Il malese era indaffarato al lavandino, all’altro capo del locale, a testa bassa; chissà se Intisar gli aveva dato dei soldi. «Per l’amor di Dio» disse lui, con il fiatone. «Cos’è successo?» Lei abbassò lo sguardo. Con il pollice Alif le sfiorò il palmo di seta e la sentì rabbrividire. Avrebbe voluto strapparle il velo e leggere la sua espressione, imperscrutabile dietro quel muro nero e crespo. Ricordava ancora il profumo del suo collo; non era passato poi così tanto tempo. Restare divisi da tutto quel tessuto era insopportabile. «Non ho potuto farci niente» disse lei. «Hanno deciso senza di me. Ci ho provato, Alif, ti giuro che le ho provate tutte… ho detto a mio padre che prima vorrei finire l’università, o viaggiare, ma lui mi ha guardata come se fossi pazza. È un suo amico. Deluderlo sarebbe un insulto.»
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Alif restò senza fiato. Strinse un polso a Intisar e cominciò a sfilarle il guanto senza badare al suo accenno di protesta. Scoprì le dita pallide: un anello di fidanzamento brillava come una pietra caduta su un terreno scabro. Alif riprese a respirare. «No» disse. «No. Non puoi. Non può. Ce ne andiamo… andiamo in Turchia. Per sposarci laggiù non c’è bisogno del consenso di tuo padre. Intisar…» La ragazza scuoteva la testa. «Mio padre troverebbe il modo di distruggerti.» Alif aveva le lacrime agli occhi. Che orrore. «Non puoi sposare questo chode» disse con voce roca. «Sei mia moglie agli occhi di Dio, prima che di chiunque altro.» Intisar rise. «Abbiamo firmato un foglio di carta stampato dal tuo computer» disse. «È stata una sciocchezza. Nessuno Stato la riconoscerebbe.» «Gli shayuk sì. La religione sì!» Il malese, curioso, si voltò. Senza parlare, Intisar trascinò Alif nel retrobottega e chiuse la porta. «Non urlare» ringhiò. «O scoppia uno scandalo.» «È già uno scandalo.» «Non esagerare.» «Non farmi la lezione» la sfidò Alif. «Quanto lo paghi, il malese? Lo vedo molto compiacente.» «Piantala.» Intisar si alzò il velo. «Non voglio litigare con te.» Una ciocca di capelli le rimase attaccata al mento; Alif la scostò prima di chinarsi a baciarla. Assaggiò le labbra, i denti, la lingua; lei indietreggiò. «È troppo tardi» mormorò Intisar.
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«No che non lo è. Ti proteggo io. Vieni da me e ti proteggerò.» Un labbro tremava. «Che ragazzino sei» disse Intisar. «Non è un gioco. Qualcuno potrebbe farsi male.» Alif diede un pugno alla parete e Intisar strillò. Per un momento restarono a guardarsi. Dall’altra parte del muro, il malese cominciò a bussare. «Dimmi come si chiama» chiese Alif. «No.» «Per la fica di tua madre! Dimmi come si chiama.» Il colorito delle guance di Intisar svanì. «Abbas» rispose «Abbas Al Shehab.» «Abbas la meteora? Che nome stupido, stupidissimo. Lo ammazzo… fabbrico una spada con le sue ossa e lo affetto.» «Non parlare come un eroe dei fumetti. Non sai quello che dici.» Intisar gli passò davanti e aprì la porta. Il malese cominciò a urlare in un dialetto incomprensibile. Alif lo ignorò e seguì Intisar all’altro capo del chiosco. La ragazza piangeva. «Vai a casa, Alif» disse con voce tremula mentre si riallacciava il velo. «Fai che io non veda mai più il tuo nome. Per favore, Dio, per favore… non lo sopporto.» Alif infilò le gambe tra un tavolo e una sedia e inciampò. Intisar sparì nel crepuscolo, un presagio nero nell’aria che scolorava.
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