Mario Maffi, Cinzia Scarpino, Cinzia Schiavini, Sostene Massimo Zangari
Americana Storie e culture degli Stati Uniti dalla A alla Z
La casa editrice, esperite le pratiche per acquisire i diritti di riproduzione delle immagini, rimane a disposizione di quanti avessero a vantare ragioni in proposito. www.ilsaggiatore.com (sito & eStore) Twitter @ilSaggiatoreEd Facebook il Saggiatore editore Š il Saggiatore S.p.A., Milano 2012 Pubblicato in accordo con Grandi & Associati, Milano
Americana
Sommario
Introduzione 13 A Acri (160) Actors Studio Adamo americano Alamo Alien Almanacchi Amistad (e altri ammutinamenti) Appalachia Apple pie Appomattox (e Ricostruzione) Aquile solitarie Architetture Armi Atlantico nero
21 22 23 24 26 27 31 32 35 38 39 40 43 47 51
B-B-Q Back of the bus (o dei diritti civili) Banane Barataria Barbie Baseball Basketball Battelli a vapore Bayou Bebop Bidoni della spazzatura Big Apple
54 55 59 61 64 66 68 71 72 73 75 78
Big One e altre catastrofi Bisbee e Butte Boardwalk (Atlantic City) Bordertowns Bowery (New York) Bowie Knife Braceros Broadway-I (o del teatro) Broadway-II (o del musical) Bronx (New York) Caccia alle streghe Cajun Camelot Campbell Campi di detenzione Cappucci bianchi Carpetbaggers Casa Simpson Case stregate Casi celebri Castro (San Francisco) Cataloghi Central Park (New York) Chewing-gum Chicanos Chinatown Cinture
79 82 84 85 87 90 91 93 96 98 101 103 105 108 110 112 113 115 118 119 124 126 129 132 133 135 138
Città nude 139 Città sulla collina 141 Cittadine fantasma 142 Cittadine modello 145 Cittadine museo 147 Clam chowder (e altre zuppe) 149 Coca-Cola 151 Codice Hays 154 Colt & Winchester 155 Comics (Yellow Kid, Krazy Kat e gli altri) 157 Company town 160 Conestoga e prairie schooner 163 Coney Island (New York) 164 Congo Square (New Orleans) 166 Covenant 170 Cowboy 172 Crocevia 176 Dallas Ddt (e primavere silenziose) Department stores Deserti Destino manifesto Dime novels Diner Disastri Disneyland Disordini Dixie Dollaro Downtown Drive-in Dust Bowl
178 180 181 183 185 186 189 191 194 196 200 200 202 204 206
E.R. (o della sanità) Eccezionalismo Echo Park (Los Angeles) Economia domestica Edge cities Enola Gay Espatriati ed esuli Esplorazioni Esposizioni universali Etnicità
209 212 213 215 217 218 220 223 227 229
Famiglie Ad(d)ams Flamingo Hotel (Las Vegas)
233 234
Flappers Football americano Forte gelato (e altri -glish) Frontiera Fsa (o Fotografie della Grande depressione) Furori (o Scritture della Grande depressione)
236 238 240 242
Gang Gated communities Gateway Arch (St. Louis) Generazioni Gentrification Geremiade Gettysburg Gibson Girls Gilded Age Golden Gate Bridge (San Francisco) Gotico americano Graceland & Neverland Grand Canyon Grand Hotels Grande depressione Grandi pianure Grandi tele Grand Ole Opry (o della country music) Grattacieli Greenwich Village Grunge (Seattle) Guerra civile Guerre indiane Guide per emigranti Gumbo e jambalaya
251 253 254 257 261 263 265 266 267 272 274 276 279 281 283 287 290
Halloween Hamburger & fast food Hardboiled Harlem (New York) Harley Davidson Harpers Ferry Hawaii Haymarket Square (Chicago) High School Hollywood/land (Los Angeles) Hoover (aspirapolveri, ma non solo)
315 316 319 322 325 327 329 332 334 337 339
245 248
292 295 298 300 302 305 310 312
Indian Mounds Isole Ivy League
343 343 345
Jazz Age Jeans Jim Crow (o della segregazione)
350 352 353
Kelvinator (frigoriferi e altro ancora) Kfc (Kentucky Fried Chicken) Kkk (Ku Klux Klan) Kleenex e Tampax K.O. Kodak Kosher Kwanza
355 356 357 361 362 366 367 370
Levees Liberty Bells Linea del colore Little Bighorn (1876) Lobby & caucus Louisiana Purchase (Acquisto della Louisiana) Lower East Side (New York)
372 373 374 376 377
Maccartismo Main Street Mall Marshmallows Mason-Dixon Line Melting pot Menlo Park Minstrel show Miscegenation Mississippi Delta Model T Molly Maguires Motel Movement Muckrakers
385 388 390 392 393 395 397 398 401 403 405 408 410 411 415
Nerds Newport Folk Festival (o della musica folk) Niagara Nuovo mondo
418
381 382
419 422 424
Nuyorican Nylon
428 430
Occhi indiscreti (o della fotografia sociale) Oil! O.K. Okies Olimpo americano Ombre gialle Ombre rosse Oro! Oz
433 436 439 440 441 445 447 450 454
Pageants Passing Peanuts Pesci gatto (e altri animali mitici) Phi Beta Kappa Piccole cittĂ Piccole donne Piccole donne crescono Piccoli uomini Pinkerton Detective Agency Piste e sentieri Plymouth Rock Pony Express Popcorn Porch Porkopolis Posse e vigilantes Potlatch e Pow Wow Progetto Manhattan Proibizionismo Promontory Point (o delle ferrovie) Pueblos (Santa Fe e Taos)
456 458 461 463 467 469 471 474 477 479 480 485 486 487 489 490 493 495 496 498 501 504
Quakers, Shakers, Mormons (e altre denominations) Quilt
507 512
Radio Rags to riches Ragtime & Honky Tonk Rap Red Scare Redneck
515 518 520 522 524 526
Ringraziamento Rivolte di schiavi Rivoluzione americana Robber barons Robot (e SF) Rodeo Roswell (e Area 51) Route 66 e Highway 61 Rushmore
528 529 533 536 539 543 544 546 549
Three Mile Island (o del nucleare) Tin Pan Alley Tombstone, Abilene, Dodge City Tranquillanti Triangle Shirtwaist Company (New York 1911) Trickster e con-men Trout fishing (o della pesca) Tuskegee
630 632 634 636
Sachem e sagamore Salem Saloon Sand Creek (1864) e Wounded Knee (1890) Sandwich e hot dog Sbarre Scimmie alla sbarra Sciopero! Sciroppo d’acero Seneca Falls (o del femminismo) Serie tv Silicon Valley Skeleton Canyon Skid Row Southern belle e (Steel) magnolia Splendide guerricciole Spoon River (o dei cimiteri) Stagecoach Stampede Stelle e strisce Stonewall Storyville Strani frutti Strip Suburbs Supereroi Surf (& skate)
551 553 555
Uncle Sam Underground Railroad Union Station (Kansas City) U.S.A.
648 649 651 653
Vagabondi Vampiri Vaudeville Veterani Vicksburg Vie d’acqua Vietnam
656 658 660 662 665 666 669
Waco, Columbine e dintorni Wall Street Wanted!-I Wanted!-II Wasp Watergate Watts Towers (Los Angeles) Wells Fargo «Which Side Are You On?» Whiskey White City (Chicago) Wild West Show Wilderness Wobblies World Trade Center (New York)
674 679 681 687 691 692 694 696 696 699 701 705 708 711 714
Tacchino Tall tale Tea Party Teatri viventi Teddy Bear Televangelisti Tendoni da circo Teoria del complotto
616 617 620 622 623 624 626 628
Xerox & Apple
717
Yankee Yoghi (Yellowstone, Yosemite e altri parchi)
720
Ziegfeld Follies Ziti, zeppole e capocollo
725 726
557 558 560 564 565 573 574 576 582 585 586 586 589 591 595 595 596 598 601 602 605 607 610 613
639 640 644 646
721
Zoot suit Zucche e cocomeri
728 730
Zydeco (o dei fagiolini) Zzv
731 732
I testi 733 La musica 749 I film 755
Introduzione
Si fa presto a dire «America». Tutti sembrano conoscerla, molti l’hanno vista dal vero, i più in immagine (e come non vederla? i film, le fotografie, le pubblicità, la televisione), oppure l’hanno sentita in musica e canzoni (e come non sentirla? il blues, il jazz, il rock, e l’enorme resto). Molti l’immaginano o la ricordano, oppure ne conoscono – a tasselli – la geografia fisica, sociale, culturale: forse sanno dirvi dov’è Los Angeles e dov’è Mineola, dove corre la faglia di Sant’Andrea e dove nasce il Colorado River, che cosa vollero dire la Ricostruzione e il Proibizionismo, la «guerra della Contea di Johnson» e la carica di San Juan Hill, che cosa scrissero Henry James e David Foster Wallace e Charlotte Perkins Gilman e Phillis Wheatley, che cosa fu «Camelot» e chi furono i «baroni predatori», che cos’è un saguaro e che cosa un bayou, che cosa un marshmallow e che cosa un Kelvinator. Oppure no: l’ignorano, e non gl’importa gran che di saperlo, al di là dell’eco che risuona quando si pronuncia questo o quel nome o fatto. Molti l’amano di un amore infantile, senza confini, che non accetta contestazioni o critiche (c’è pur sempre un «ma» da contrapporvi, e dopo quello un altro, e un altro ancora); altrettanti la odiano di un odio intenso e totalizzante, senza remissioni (e la realtà di ieri e di oggi, in parecchi suoi aspetti, non fa che complicare le cose). Poi, però: che cos’è l’«America»? dove sta l’«America»? è proprio questa l’«America», quella che si crede di conoscere o che si vorrebbe, amandola e odiandola, «coabitandola» per scelta o di necessità? sta proprio là dove si crede e s’immagina? O forse sta altrove, un «altrove» difficile da collocare, arduo da riconoscere? In fondo, che cosa capitò a Cristoforo Colombo, che ci s’imbatté mentre cercava altro («È stato bellissimo scoprire l’America. Ancor più bello sarebbe stato mancarla», Mark Twain)? E che cosa capita all’immigrato clandestino che guada di notte il Rio Bravo rischiando la vita in cerca di qualcosa di piccolo ed enorme («So che amore e fortuna saranno miei / da qualche parte oltre il confine», Bruce Springsteen)? Ebbe a scrivere Waldo Frank, scrittore e critico, in un’epoca – fra gli anni venti e gli anni trenta del Novecento – in cui l’identità del paese era soggetta a continue, brusche trasformazioni: «Andiamo tutti in cerca dell’America, e nel cercarla la creiamo». Si fa presto a dire «America». Come ogni altro paese (ma forse con una nettezza più evidente, con contorni più taglienti, per il fatto di essere, o di essere stata per più d’un secolo, nel bene come nel male, un punto di riferimento obbligato), l’«America» non è quel blocco unico che vorrebbe tanta parte di un’ostinata falsa coscienza corrente, incapace di vedere la complessità
14 Americana e la fluidità, le fratture e le contraddizioni, le spaccature profonde sotto la superficie. Che invece ci sono e sempre si fanno sentire e vedere: affiorano di colpo, si allargano e si ricompongono, per correre di nuovo, a lungo, là sotto, e poi riaffiorare (davvero impreviste?), facendo saltare la crosta, la corazza. E allora per qualche tempo ci s’interroga: «Ma come? da dove vengono queste strane tensioni? queste incomprensioni? questi moti subitanei? questi individui e questi gruppi? queste ombre lunghe? È davvero questa l’America?». Per quasi quarant’anni, ho cercato di insegnare che cos’è l’«America», da quando nacque nell’immaginario europeo per trasformarsi in territorio di conquista, a quando divenne Stati Uniti d’America – fino a un oggi che la vede in declino. Non so se ci sono riuscito: proprio l’invadenza della sua cultura, riflesso della potenza d’un secolo e più, la rende a volte inafferrabile, indicibile, ostica al contatto che afferra – una sorta di grande Moby Dick in perpetua navigazione sulle rotte oceaniche, la cui cattura può voler dire, al contempo, un drammatico naufragio… Eppure, la frequente, rinnovata sorpresa, colta negli occhi degli studenti nell’arco di quei quasi quarant’anni, mi ha detto che, forse, sì, una percezione più articolata di questa storia, società, cultura, è passata attraverso le parole pronunciate – come credo sia passata attraverso le parole scritte nei libri con cui ho cercato di sentire, afferrare e trasmettere ciò che andavo scoprendo dell’«America». E allora, a un certo punto, c’è stato il bisogno di un contenitore in cui versare i numerosi ingredienti diversi, isolandoli prima a uno a uno, per meglio fissarli, definirli, inquadrarli, e farli poi interagire tra loro: non con l’impossibile e tracotante obiettivo di «dire l’“America”», di «dir tutto sull’“America”», ma di cogliere, sulla base anche di suggestioni, orientamenti, manie e interessi personali, almeno una parte di quella complessità – che è in sé affascinante ed eloquente, si tratti di questo o di qualunque altro paese (storia, società, cultura, ecc.). Un tentativo in cui ho coinvolto (un po’ capitano Achab) tre giovani e brillanti studiosi (Cinzia Scarpino, Cinzia Schiavini, Sostene Massimo Zangari), che nell’ultimo decennio hanno collaborato con me, nelle aule e nei corridoi di un’Accademia che li ha conosciuti e riconosciuti solo in maniera precaria, troppo precaria, nonostante i vigorosi contributi che hanno offerto alla materia. E insieme ci siamo imbarcati. In un testo famoso quanto controverso (Classici americani, del 1924), l’inglese D.H. Lawrence, che conosceva l’«America» da par suo e a modo suo, con malcelata ironia individuava nel «lavoro dell’idraulico» e nella «salvezza del mondo» le «due grandi specialità americane». Come dire: la disposizione pragmatica, fattuale, quotidiana e comune, e l’afflato progettuale, spesso retoricamente ambiguo o ambiguamente missionario: i due estremi, i due ossimori, i due poli in opposizione dialettica, della società e cultura di quel paese. Con le voci che seguono, abbiamo cercato di rilevare e disegnare il territorio intermedio, accidentato, variegato, traboccante di grandi slanci e fascinosi paesaggi a volte e, altre volte, di oscure tragedie e odiosi risvolti – senza dimenticare, senza trascurare quei due estremi, ma scavando anche in essi, a nervi scoperti. Lo abbiamo fatto, non nell’illusione di distendere sull’intero territorio le pagine di questo dizionario un po’ così, perché sarebbe stato impossibile e anche inutile: lo abbiamo fatto piuttosto sulla base di quanto ciascuno di noi e noi quattro insieme abbiamo sentito come essenziale, utile, rivelatore, o anche solo urgente perché poco noto, o sconcertante, o emozionante per noi stessi (una sfida, se volete) – stimolati da una frase di Henry Miller («ricordati di ricordare») e da un verso di Leslie Marmon Silko, scrittrice di origini pueblo («senza le storie non possediamo niente»), che andrebbero sempre tenuti a mente. Lo abbiamo fatto in base alle nostre passioni (o, viceversa, antipatie), che come sempre risultano selettive: ci troverete molto Mark Twain, per esempio, per quel suo sguardo rivelatore – in quanto lucido e polemico – delle contraddizioni del paese e della sua cultura; ci troverete molta geografia
Introduzione 15 (non quanto avremmo voluto, a dir il vero!), perché, come ebbe a scrivere il poeta Charles Olson nel 1947, «il fatto centrale per l’uomo nato in America» è lo «spazio» (scritto maiuscolo), «una terra maledettamente vasta fin dagli inizi»; ci troverete la cultura popolare e di massa, la cultura materiale, nel loro dinamico interagire, nel loro continuo ribollire e traboccare, nel loro alimentare e ossigenare ciò che ancora ci si ostina a chiamare «cultura alta» (whatever that means); parecchi episodi e movimenti collettivi, e pochi individui (e quei pochi «sottomessi» a scenari più ampi), perché così ci è parso necessario, anche per rovesciare il luogo comune sull’«individualismo americano»; e gli sconosciuti e i dimenticati (fatti e persone) piuttosto che i noti; e così via, di passione in passione (di antipatia in antipatia). Ci siamo dati fin dagli inizi un limite temporale (grosso modo, la metà degli anni settanta del Novecento, con inevitabili e ovvi sforamenti), per non caricare troppo di attualità e contemporaneità un’esplorazione che richiede sempre e comunque un certo distacco prospettico: per meglio cogliere la topografia che ci sta davanti. Abbiamo cercato di fondere l’«America» (tra virgolette: la dimensione mitica, retorica, con cui, volenti o nolenti, abbiamo a che fare) e gli Stati Uniti d’America (senza virgolette: l’oggettività, la concretezza, senza escludere la lettura e l’interpretazione personale). Abbiamo discusso ogni singola voce fra di noi, e poi insieme le abbiamo riviste a una a una (con il prezioso contributo di una lettrice attenta come Laura Grandi e grazie all’entusiastica pazienza di Luca Formenton e alla cura di Chiara Girolami), prendendoci per ciascuna d’esse la responsabilità individuale di ciò che s’è cercato, trovato e proposto. E abbiamo lavorato nella consapevolezza che tanto sarebbe rimasto – anche così – fuori dei nostri percorsi e discorsi: cose piccole e cose grandi, certo. Com’è inevitabile, come avviene in ogni viaggio alla ricerca di qualcosa. Ne è venuto fuori non una storia degli Stati Uniti e nemmeno una storia della cultura o della letteratura americane; non un dizionario biografico; non un repertorio: è venuto fuori un insieme di voci che è in realtà un succedersi di storie – di racconti lunghi e corti, ridenti e dolenti, legati gli uni agli altri pur nella loro individualità (di soggetti, come pure di scrittura e di approccio). È venuto fuori… quel che scoprirete nelle pagine che seguono. È stato entusiasmante, è stato divertente, è stato difficilissimo. Com’è giusto. E speriamo che così sia anche per chi ci leggerà: che si appassioni, che si diverta, che si esalti e s’infuri, che si lasci afferrare dalle complessità, dalle difficoltà, dalle contraddizioni, dalle bellezze come dalle brutture. Ora, la caccia è aperta, alle omissioni, agli errori e alle imprecisioni: per esse, in anticipo ci cospargiamo il capo di cenere. P.S.: Due parole sul titolo, non semplice da trovare. Lo sappiamo: è già stato usato (da Elio Vittorini per la sua celebre antologia del 1942); ma in altri tempi e contesti, e con altri contenuti. Abbiamo pensato che fosse il più adatto ad «abbracciare» questo nostro libro – e crediamo che Vittorini sarebbe stato d’accordo.
Mario Maffi novembre 2011 – ottobre 2012
A A
Nell’alfabeto culturale statunitense, la lettera «A» contempla tanti e diversi volti: è l’iniziale di America, di Adamo americano (➝), di Arte… Eppure la lettera A più famosa della letteratura del Nuovo mondo è probabilmente il brandello di stoffa rossa ornato d’oro e cucito sul petto di Hester Prynne, nel romanzo di Nathaniel Hawthorne La lettera scarlatta (1850). In una grande stanza al secondo piano della vecchia dogana di Salem, un narratore che somiglia molto allo stesso Hawthorne racconta di essersi imbattuto in un’antica pergamena, fra le cui pagine trova un pezzo di tessuto rosso a forma di A. I fogli in cui è avvolta la stoffa raccontano la storia di Hester che, giunta dall’Europa nella Salem puritana della fine del XVII secolo precedendo l’anziano marito (il luciferino Roger Chillingworth), commetterà adulterio con il pastore locale Arthur Dimmesdale e avrà da questi una figlia, Pearl. La punizione inflitta dalla comunità a Hester è l’obbligo di indossare sempre una A scarlatta cucita sul petto, sia per il peccato commesso, sia per non aver mai voluto rivelare l’identità del suo amante. Dopo la morte di Dimmesdale, ucciso da un attacco di cuore subito dopo aver chiamato a sé Hester e Pearl e aver confessato la propria colpa dinanzi all’intera comunità, Hester lascerà
Salem con la figlia. Vi farà ritorno da sola anni dopo, e qui si dedicherà a opere di carità, divenendo un punto di riferimento per emarginati e bisognosi. Alla sua morte, Hester verrà seppellita accanto a Dimmesdale: la lapide comune a ricordo delle loro vite recherà incisa a sua volta quella A che la coppia aveva reso simbolo delle loro travagliate esistenze. La lettera scarlatta racchiude in sé molteplici significati: nelle intenzioni dei ministri che hanno condannato Hester indica ovviamente l’Adulterio, il tradimento – e non solo nei confronti del marito, ma soprattutto dell’intera comunità, delle sue ferree regole e delle sue rigide gerarchie di genere. Agli occhi del lettore tuttavia, la A diverrà anche il simbolo della forza della protagonista, capace (Able) e ammirevole (Admirable) nella sua ferma e coraggiosa accettazione del ruolo di Altro. Attraverso la sua condotta esemplare e le opere di beneficienza, l’Adultera Hester si trasfigura nel racconto quasi in un Angelo: per questo forse è l’unica a non venir bruciata dal fuoco che la lettera scarlatta sembra sprigionare – quel fuoco che anche il narratore avverte al contatto con la stoffa quando, nella soffitta, accosta il brandello di tessuto al corpo. Il rosso, il fuoco, le colpe reali e presunte, la condanna, la punizione e l’espiazione: co-
22 Acri (160) me non vedere nella parabola di Hester una storia che va ben oltre la fiction? A cominciare ovviamente dalle fiamme su cui, nell’isteria collettiva di fine Seicento, vennero portati al rogo proprio in quel di Salem eretici (e ancor più eretiche) accusati di stregoneria. E più in generale, come non vedere dietro a quella lettera la violenza nei confronti di tutti coloro che, fin dagli albori della storia americana, erano considerati Altro (➝ Alien) – Native Americans, schiavi, donne, dissidenti religiosi
e politici – e per cui le fiamme, reali e metaforiche, erano sempre in agguato? Forse allora, a dispetto delle intenzioni della comunità, la A che Hawthorne cuce sul petto di Hester non è lo stigma di un peccato individuale, ma l’emblema delle colpe della società: non la A di Adulterio, ma la A di un’America repressiva fino alla violenza, in grado di marchiare e recidere i corpi e le vite degli Altri, dentro e fuori dalle pagine di un libro.
Bibliografia Sacvan Bercovitch, The Office of the Scarlet Letter, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1991. Nathaniel Hawthorne, La lettera scarlatta (1850), Einaudi, Torino 1995. C. SCHIA.
Acri (160) Allo sguardo europeo, una mappa geopolitica degli Stati Uniti appare come una sorta di piano geometrico: al di là dei monti Appalachi (➝ Appalachia), le linee di confine tra i diversi stati disegnano le forme squadrate dei cassetti di un archivio. Per non dire delle piante delle città americane, carte millimetrate fatte di blocchi perfettamente regolari in cui sembra impossibile perdersi. Tanta precisione catastale deriva dal famoso «reticolo» (grid) proposto da Thomas Jefferson e approvato dal Congresso Continentale con il nome di Land Ordinance (alla base del Public Land Survey System) nel 1785. Si tratta di una razionalizzazione territoriale senza precedenti e consiste nell’organizzazione amministrativa del paese in rettangoli di 6 miglia quadrate, a loro volta suddivisi in unità di 160 acri, l’equivalente di 64 ettari, e in appezzamenti via via più piccoli, misurati sul quadrato (i 160 acri sono ¼ di ¼ di una sezione). Il tutto sorvolando sulla configurazione naturale di un paese che, scorporato in tante scatole, potrà essere più facilmente messo in vendita e comprato. Se l’intera espansione verso ovest sarà scandita dal «reticolo» grazie allo Homestead Act, la legge del 1862 che garantisce 160 acri a chiunque voglia coltivarli al prezzo di un
dollaro e venticinque ad acro, ancora più popolari nella storia del paese saranno i 40 acri dei lotti di terreno appaltati alle ferrovie (➝ Promontory Point) e dei «40 acri e un mulo» destinati, sulla carta, agli ex schiavi neri resi liberi a Guerra civile (➝) conclusa (1865) e ricordati oggi, provocatoriamente, dalla casa di produzione cinematografica 40 Acres and a Mule Filmworks del regista afroamericano Spike Lee. Di fronte all’enorme varietà climatica e geologica nordamericana – i 160 acri nella mediterranea California non sono certo equiparabili a quelli dell’arido Wyoming –, le rigide partiture dello Homestead Act mostreranno presto i loro limiti sulla pelle dei tanti contadini trasformati in coloni indipendenti. Alle prese con siccità cicliche, terreni poco irrigui e altri flagelli naturali, gli «homesteaders» falliranno economicamente e saranno spesso costretti a migrare altrove, secondo un copione che si ripeterà, su scala ancora più vasta, durante la Dust Bowl (➝), negli anni trenta del Novecento. Paradigmatica, in questo senso, è la vicenda dei fattori del Kansas a cui, nel 1874, complice una biblica invasione di cavallette, non resta che abbandonare le proprie terre al motto di: «Di Dio ci siam fidati, nel Kansas siam scoppiati».
Actors Studio 23
Bibliografia Andro Linklater, Misurare l’America. Come gli Stati Uniti d’America sono stati misurati, venduti e colonizzati, Garzanti, Milano 2004. Ted Steinberg, Down to Earth. Nature’s Role in American History, Oxford University Press, New York 2002. C. SCAR.
Actors Studio L’intensa fragilità di Marlon Brando in Un tram che si chiama desiderio (1951) e Fronte del porto (1954), l’aristocratico distacco di Ann Bancroft ne Il laureato (1967), la versatilità di Al Pacino, capace di dare corpo ai freddi gangster calcolatori de Il padrino (1972) o Scarface (1983) ma anche allo sconfitto protagonista di Paura d’amare (1991), il pathos tragico di Kim Stanley ne La divina (1958): sono solo alcune delle performance che hanno reso popolari gli attori passati attraverso il laboratorio teatrale dell’Actors Studio, fondato nel 1947 a New York dal regista Elia Kazan (➝ Caccia alle streghe), dall’attore Robert Lewis e dalla regista e produttrice teatrale Cheryl Crawford. I tre avevano preso parte, negli anni trenta, al collettivo teatrale del Group Theatre (➝ Teatri viventi) e, con il nuovo laboratorio, intendevano riproporre quanto di prezioso era nato in quell’esperimento, evitando al contempo di ripetere gli errori che avevano portato alla sua dissoluzione. L’Actors Studio, che, dopo alcuni trasferimenti, fissò la sede definitiva in una ex chiesa presbiteriana nella 44ª Strada Ovest, si propose come laboratorio dedicato al perfezionamento tecnico per attori, i quali sarebbero stati liberi di seguire le rispettive carriere. L’obiettivo principale era poi quello di evitare di avventurarsi in produzioni dispendiose che difficilmente avrebbero generato un ritorno economico soddisfacente. La continuità tra le due esperienze fu cementata quando, a causa dei numerosi impegni a Broadway (➝) e in seguito a Hollywood, Kazan si avvide di non poter garantire continuità all’insegnamento e chiese la collaborazione di Lee Strasberg, uno dei fondatori, insieme alla Crawford e a Harold Clurman, del
Group Theatre nel 1931. Entrambi di origine ebraica e cresciuti nel Lower East Side (➝), dove erano rimasti affascinati dal teatro yiddish (➝ Kosher), Strasberg e Clurman avevano seguito i corsi tenuti nel 1925 da Richard Boleslavskij, un allievo di Konstantin Stanislavskij, il direttore del Teatro d’Arte di Mosca famoso per il metodo di recitazione che aveva rivoluzionato il palcoscenico. Ed erano convinti che il solco tracciato dalla scuola russa fosse la direzione da seguire: nonostante i buoni riscontri commerciali, infatti, il teatro statunitense soffriva ancora per la scarsa professionalità degli attori, i quali spesso, a causa dei ritmi serrati del cartellone stagionale, avevano pochissimo tempo per imparare una parte e sviluppare un’intesa tra di loro. Selezionato un gruppo di attori a cui prospettarono poca fama e pochi soldi, ma in compenso un’esperienza professionale ricca e appagante, il gruppo andò in ritiro per tutta l’estate in una fattoria del Connecticut, dove iniziò a lavorare e a vivere come in una sorta di comune. Nella reclusione bucolica, la compagnia si concesse il lusso di provare a lungo, esplorando nuove strade per affrontare le parti e prescindendo dai trucchi del mestiere a cui ricorreva la maggior parte dei professionisti. Sulla spinta di Strasberg, agli attori venne chiesto di lavorare sulla memoria affettiva, ovvero di rintracciare il coacervo di emozioni causate da determinate situazioni e usarlo per creare il personaggio. Un altro punto importante era l’improvvisazione, che aveva lo scopo di liberare l’attore dalla tirannia del testo scritto, stimolarne la creatività e dare corpo ai sentimenti come componente determinante dell’azione fisica sul palcoscenico. La prima messa in scena, nell’autunno se-
24 Adamo americano guente, fu The House of Connelly, dramma in stile cechoviano di Paul Green. La notorietà arrivò qualche anno dopo, quando la stretta collaborazione con il drammaturgo Clifford Odets partorì i successi Aspettando Lefty (1935) e Svegliati e canta! (1935), opere dal forte contenuto sociale che sfruttavano le risorse del gruppo per dare forma ad affreschi di vita collettiva. Le ristrettezze finanziarie, la scarsità di buoni copioni e alcune polemiche sul reale insegnamento del maestro Stanislavkij (l’attrice Stella Adler aveva incontrato di persona il regista a Mosca, e questi le aveva rivelato di ritenere la memoria affettiva ormai superata), insieme alle offerte di Hollywood, contribuirono a dissolvere il gruppo sul finire del decennio. Messe da parte le vecchie ruggini, Strasberg si calò con foga nella nuova avventura, impostando i corsi non sull’insegnamento di tecniche, ma sulla risoluzione di problemi concreti, lavorando su parti e ruoli specifici. Oltre alla memoria affettiva e all’improvvisazione, Strasberg puntò sul lato sensoriale e «animale» della performance, invitando gli attori a tenere conto delle condizioni at-
mosferiche e ambientali precisate nella sceneggiatura e sui momenti privati – quegli istanti in cui il personaggio si trovava da solo in scena. Ai corsi di recitazione si affiancarono lezioni di scherma, dizione, movimento e anche un laboratorio di scrittura al cui interno si sperimentò la stesura di opere a partire dalla collaborazione tra drammaturghi e attori: Hatful of Rain (1955) di Michael Gazzo, Zoo Story (1958) di Edward Albee e Notte dell’Iguana (1961) di Tennessee Williams furono sviluppate durante le sessioni del laboratorio. Lunga è la lista degli alunni passati sotto la tutela di Strasberg, e non sempre l’esperienza fu positiva. Basti per tutti il caso di Marylin Monroe: l’attrice frequentò per un anno (1955) l’Actors Studio, dove si sottopose con diligenza alle cure del maestro. Secondo il regista Billy Wilder, ciò le fu fatale: «Prima Marylin era come un’equilibrista inconsapevole del vuoto che le stava sotto. Dopo l’Actors Studio si è resa conto del vuoto». Così, tutt’altro che «svampita» come invece la si volle dipingere anche fuori della finzione, perse per sempre la spontaneità e la freschezza. E forse qualcosa di più.
Bibliografia Mel Gordon, Il sistema di Stanislavskij: dagli esperimenti del Teatro d’Arte alle tecniche dell’Actors Studio, Marsilio, Venezia 1992. Foster Hirsch, A Method To Their Madness: the History of the Actors Studio, W.W. Norton, New York 1984. S.M.Z.
Adamo americano Se fin dagli inizi l’America si pone come terra promessa, paradiso ritrovato, giardino dell’Eden, allora lì ci sarà anche un Adamo (quanto a Eva, le cose sono più complesse). Escluso che possa essere un indiano (che semmai diviene presto incarnazione del demonio), quell’Adamo – specie a partire dagli inizi dell’Ottocento, quando ormai si può parlare di nazione americana – si svilupperà, sul piano culturale, attraverso un processo di aggregazione di caratteri, reali e fantastici, in
cui la letteratura giocherà un ruolo primario. Istintivo, coraggioso, incorrotto, ingegnoso, semplice e generoso, nemico delle false complessità del vivere civile e urbano, amico della natura di cui conosce ogni segreto, capace di parlare la lingua di piante, animali e indigeni, amante degli spazi aperti, in rapporto contraddittorio con i Native Americans (e con le donne: dunque, per lo più scapolo), ribelle e insofferente di perbenismo, autorità costituite, normative calate dall’alto, diffidente nei
Adamo americano 25 confronti di costruzioni ideologiche, un po’ spaccone e un po’ burlone – sono questi alcuni dei tratti distintivi dell’Adamo americano. Li ritroviamo in Rip Van Winkle, il personaggio del racconto omonimo di Washington Irving (1818), che rifugge la costrizione del lavoro domestico e la «regola» che vorrebbe imporgli la moglie, ama la caccia e la pesca solitarie, si addentra nei boschi – e qui vive la rara esperienza di addormentarsi per vent’anni, risvegliandosi in un mondo affatto diverso (dal pre-rivoluzione al post-rivoluzione) alla cui nascita traumatica non ha contribuito (➝ Rivoluzione americana). Li ritroviamo, quei tratti, nel personaggio di Calza di Cuoio, guida e trappolatore, creato da James Fenimore Cooper nei cinque romanzi pubblicati tra il 1823 e il 1841, che depositano ancor più nell’immaginario americano un autentico archetipo: solo sulla Frontiera (➝), alle spalle una civiltà di cui rifiuta gli aspetti deteriori, di fronte a sé una wilderness (➝) che lo affascina e lo turba, e di cui non potrà comunque mai essere parte, amico-nemico degli indigeni, condannato, anche dalle convenzioni del genere romanzesco d’allora, a una solitudine d’affetti. E li ritroviamo, anni dopo, in quell’altra e forse definitiva (e prolifica) sistemazione dell’archetipo che è lo Huckleberry Finn di Mark Twain (1884), significativo ritorno indietro all’adolescenza, con un cuore solido, positivo, disinteressato e audace, capace di resistere alle pressioni del mondo adulto e alle sue falsità e brutalità, non riconciliato con la società e pronto a «Dire No! con voce di tuono», pronto di battuta e d’invenzione, ma sincero fino in fondo. Da allora, da quel monello in viaggio con uno schiavo nero fuggiasco, le reincarnazioni dell’Adamo americano non si conteranno (lo stesso Henry James, il più europeo dei letterati d’America, vi si dedicherà: per esempio, chiamando il protagonista del suo terzo romanzo, L’Americano, del 1877, Christopher Newman – «uomo nuovo»). E abiteranno sia la letteratura popolare (Horatio Alger, il ragazzino che divora la strada che conduce «dalle stalle alle stelle» ➝
Rags to riches) sia il canone letterario di tanta parte del Novecento (il George Willard dei «racconti dell’Ohio» di Sherwood Anderson, il Nick Adams dei molti racconti hemingwayani, il Nick Carraway e in fondo anche il Jay Gatsby del più celebre romanzo di Francis S. Fitzgerald, tanti altri «piccoli uomini» [➝] che si confrontano con le complessità del vivere moderno, fino a quell’autentica rivisitazione che è Holden Caulfield creato da J.D. Salinger nel romanzo che in italiano prende il nome dal protagonista – Il giovane Holden – e che, nella lingua, nel punto di vista, nella vicenda di un’ennesima lotta contro la falsità sembra voler rinnovare in modo consapevole la ricerca di Huck Finn) sia la «letteratura degli immigrati» (che, nella scoperta stupita e dolorosa del «Nuovomondo», replica modalità e stati d’animo di primo Ottocento, a contatto con altri scenari, con un’altra wilderness: il piccolo David Schearl di Chiamalo sonno di Henry Roth diventerà, in maniera affranta e traumatica, un altro tipo di Adamo americano). Nel corso del tempo, l’archetipo assume ulteriori connotati, ancor più significativi. Se infatti l’Adamo americano è in fuga dalla società che incalza, da un certo momento in avanti il suo orizzonte tende a restringersi sempre più: lo spazio libero davanti si riduce e si comprime, e alla fine scompare. Dietro, alle spalle, non c’è nulla, se non la minaccia d’essere riacciuffati. Già è difficile essere un Adamo americano nei tempi durissimi della Grande depressione (➝) (e così la «fuga» di Tom Joad in Furore di John Steinbeck è insieme tensione verso un impegno sociale più ampio): figurarsi dopo la Seconda guerra mondiale. Non a caso, il giovane Holden terminerà il suo percorso in una clinica e da una clinica Patrick McMurphy uscirà ridotto a uno stadio vegetativo, nel tremendo Qualcuno volò sul nido del cuculo, romanzo di Ken Kesey e film di Milos Forman. Allora, l’Adamo americano abiterà gli interstizi della società, eternamente «sulla strada» come gli eroi di Jack Kerouac o in fuga senza
26 Alamo fine come tanti personaggi afroamericani di Richard Wright e James Baldwin. Oppure, si reincarnerà in personaggi di altra, diversa marginalità, lontani dai solitari ardimenti iniziali, quasi rattrappiti su se stessi, amaramente comici seppur simpatici: sarà lo zotico Li’l Abner, il ragazzone tutto muscoli ed emotività, innocenza e genuinità, degli omonimi cartoons disegnati da Al Capp fra il 1934 e il 1977; sarà il buffo Toby Kwinker, nel gustoso romanzo di Richard Powell Vacanze matte (del 1959), la cui spontanea ingenuità finisce per produrre incessanti cortocircuiti nella società bene organizzata con cui la sua famiglia è in lotta perenne; sarà
l’altrettanto buffo Homer Simpson, nell’omonima serie di cartoons televisivi (➝ Casa Simpson), graffiante rivisitazione dei luoghi comuni e non comuni della società e cultura americana attraverso il mondo a testa in giù di un Adamo americano sui generis. E sarà infine il cannocchiale rovesciato attraverso cui guarda l’universo (di affetti, di convenzioni, di commedie e tragedie, di quotidianità ed eccezionalità) il non meno noto Forrest Gump dell’omonimo film di Robert Zemeckis – per il quale la piccola mela morsicata a destra non è il logo della più potente azienda informatica del mondo, ma di «una specie di società di frutta».
Bibliografia Ihab Hassan, Radical Innocence: Studies in the Contemporary American Novel, Princeton University Press, Princeton 1961. R.W.B. Lewis, The American Adam. Innocence, Tragedy, and Tradition in the Nineteenth Century, University of Chicago Press, Chicago 1955. M.M.
Alamo Nella fantasia collettiva americana, la battaglia di Alamo (23 febbraio-6 marzo 1836) è spesso associata al berretto di pelo di un morente Davy Crockett (➝ Olimpo americano) e al cosiddetto Bowie Knife (➝), il coltello da caccia usato da James Bowie, il soldatopioniere destinato anch’egli a soccombere sotto i colpi dei soldati messicani guidati dal colonnello Santa Anna. A plasmare questa mitologia di frontiera ha contribuito, nel corso dell’Ottocento e poi del Novecento, una copiosa produzione di massa: dalle prime cronache contemporanee degli eventi a un romanzo storico del 1888 di Amelia Barr, dal film della Disney Davy Crockett: King of the Wild Frontier (1955) a quello di John WayneDavy Crockett del 1960 (La battaglia di Alamo), fino ad arrivare al flop del suo remake del 2004, con Billy Bob Thornton e Dennis Quaid (Alamo. Gli ultimi eroi). Se dall’immaginario passiamo alla storia, la battaglia di Alamo si iscrive nella «questione del Texas», la parte più settentrionale del
Messico in cui, in seguito all’indipendenza messicana contro la Spagna del 1821, si erano insediati molti pionieri americani. L’assedio di Alamo, una missione spagnola abbandonata, rappresentò il momento in cui i texani, attaccati dall’esercito di Santa Anna, riuscirono a resistere per tredici giorni prima di capitolare. In quel frangente di tempo, il Texas si staccò ufficialmente dal Messico per diventare la «Repubblica della stella solitaria» ed essere poi annesso all’Unione nel 1845, alla vigilia della guerra messico-americana, che si sarebbe conclusa tre anni più tardi con il Trattato di Guadalupe Hidalgo: il Messico, sconfitto, avrebbe rinunciato all’enorme regione del Texas e agli attuali California, Nevada, Utah e Arizona. Cristallizzata nel grido di battaglia «Remember the Alamo» che accompagnò la resistenza del drappello di texani, la vicenda del 1836 si prestò fin da subito a entrare nella retorica nazionale come scontro tra gli americani portatori di libertà e i messicani – considerati
Alien 27 una razza meticcia e quindi bastarda – retrivi e oscurantisti. D’altronde, da lì a pochi anni, proprio a giustificazione ideologica della guerra messico-americana, John O’ Sullivan avrebbe coniato l’espressione «destino manifesto» (➝), misurando il futuro degli Stati Uniti sul loro espansionismo continentale. A questa retorica dell’«impero della libertà» di jeffersoniana memoria, sembra non sottrarsi nemmeno la canzone popolare di Jane Bowers, «Remember the Alamo», resa celebre, negli anni sessanta del Novecen-
to, dal timbro inconfondibile di Johnny Cash: «Grieve not little darlin’ my dyin’, if Texas is sovereign and free, / We’ll never surrender and ever with liberty be». Non sorprende, quindi, che Alamo (da non confondere con Los Alamos ➝ Progetto Manhattan) sia oggi la più grande attrazione turistica del Texas, con tanto di Crockett Hotel e sito online interattivo completo di giochi di parole per bambini: «esercito», «baionette», «fortino», «libertà», «milizia», «fucili», «assedio», «massacro», «vittoria o morte».
Bibliografia Oliviero Bergamini, Storia degli Stati Uniti, Laterza, Roma-Bari 2002. Sam W. Haynes, Cary D. Wintz (eds.), Major Problems in Texas History. Documents and Essays, Houghton Mifflin, Boston-New York 2002. C. SCAR.
Alien La parola evoca, con ogni probabilità, il film di fantascienza di Ridley Scott interpretato da un’allora poco nota Sigourney Weaver e incentrato sull’assalto di creature extraterrestri (gli «aliens» appunto) all’astronave Nostromo. Eppure, in inglese, lo stesso termine ha un’altra accezione, significando anche «straniero» o, meglio, «immigrato». Quanto all’uscita di Alien, anno di grazia 1979, tale è il suo successo di pubblico che l’industria cinematografica americana non mancherà di sfornare, nell’arco di poco meno di trent’anni, una lunga serie di sequel (Aliens, 1986; Alien 3, 1992; Alien Resurrection, 1997) e prequel (Alien vs. Predator, 2004; Aliens vs. Predator: Requiem, 2007). Di impatto emotivo altrettanto notevole – sebbene di segno contrario – rispetto alla rappresentazione degli alieni nell’opera di Ridley Scott è il campione di incassi del 1982 che, diretto da Steven Spielberg, entrerà nella storia del cinema come una delle pellicole più popolari di sempre: E.T. L’extraterrestre. Tanto Alien quanto E.T. sono preceduti dall’uscita nelle sale americane di Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977), dello stesso Spielberg, e del primo episodio della fortunatissima trilogia di Guerre stellari
(1977, 1980, 1983), creazione a metà tra fantasy e fantascienza di George Lucas (anch’essa destinata, a un ventennio di distanza, agli immancabili prequel: 1999, 2002, 2005, 2008). Se è vero che sono gli anni settanta e ottanta del secolo scorso a trasformare le raffigurazioni filmiche di extraterrestri e nuove galassie in un fenomeno culturale di massa, va inoltre ricordata la centralità degli anni sessanta nel lanciare la serie televisiva apripista Star Trek (➝ Serie tv) – a sua volta preceduta da Ai confini della realtà (Twilight Zone) in onda sulla Cbs dal 1959 al 1964 –, la cui prima stagione, The Original Series, è trasmessa dalla Nbc tra il 1966 e il 1969, per proseguire, con nomi, personaggi e sceneggiatori diversi, fino al 2005. Sarà l’incontro – spesso costruttivo – con gli «alieni» a costituire l’aspetto più peculiare della saga di Star Trek: la missione dell’astronave Enterprise – microcosmo statunitense – è infatti quella di cercare nuove «civiltà» attraverso il contatto con razze aliene (la cui lista è infinita: dagli androidi ai benziti e betazoidi, dai borg ai cardassiani, dagli ologrammi ai klingon, dai medusiani ai q, dai romulani ai razionalissimi vulcaniani con le orecchie a punta, come Spock).
28 Alien A voler essere più precisi, che il topos dell’invasione aliena o marziana eserciti un’attrazione magnetica sulla fantasia collettiva americana moderna deve intuirlo già nel 1938 il genio istrionico di Orson Welles. In una delle burle più strepitose della storia del paese, il 30 ottobre – il giorno di Halloween (➝) – di quell’anno, sulle onde medie della Cbs, Orson Welles trasmette il suo adattamento radiofonico (➝ Radio) della Guerra dei mondi di H.G. Wells, seminando il panico tra i newyorkesi: «Le notizie riportano che alle 8.50 di sera un gigantesco oggetto in fiamme, che si crede essere un meteorite, è caduto su una fattoria nei pressi di Grover’s Mills, in New Jersey… le campane stanno suonando per avvertire la gente di evacuare la città mentre arrivano i marziani…». L’isteria scatenata dalle parole di Welles – file e file di auto che si riversano sui ponti di New York per abbandonare l’isola di Manhattan – riemerge con forza nel secondo dopoguerra, quando la fantasia collettiva americana sembra accogliere ed esaltare la presenza di Ufo e alieni sulla scorta dei racconti pubblicati sui cosiddetti pulp magazines, le riviste commerciali dedicate quasi esclusivamente a sottogeneri letterari come la fantascienza. A partire dal Ciclo di Barsoom (1912-1943) di Edgar Rice Burroughs (il creatore di Tarzan), in cui l’ambientazione marziana pare ritrarre un mondo selvaggio e fiero modellato sulla Frontiera (➝), negli anni della Guerra fredda si arriva alle più raffinate e complesse Cronache marziane (1950) di Ray Bradbury (una raccolta di racconti in cui è rappresentata la colonizzazione di Marte da parte di umani in fuga da una terra devastata dall’atomica), e alla Foundation Trilogy (1951-53) di Isaac Asimov (dove si narra del crollo e della rinascita di un impero interstellare). Anche il cinema dei «Silent Fifties» riflette l’interesse crescente per il tema dell’invasione aliena, sublimando così paure e curiosità suscitate e dalle potenzialità distruttive dell’era nucleare e dalla minaccia del «pericolo sovietico»: Il giorno in cui la Terra si fer-
mò (1951), Gli invasori spaziali (1953), Piano 9 da un altro spazio (1959) e il celebre L’invasione degli Ultracorpi (1956) in cui, per la prima volta, il grande schermo ospita la fobia di androidi camuffati da umani. Sul finire del secolo scorso, arriva poi Blade Runner (1982), diretto da Ridley Scott e ispirato al romanzo Ma gli androidi sognano pecore elettriche? (del 1968, lo stesso anno di 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, pietra miliare nel genere) dello «Shakespeare della fantascienza» Philip K. Dick, con il monologo del replicante interpretato da Rutger Hauer a imprimersi nella memoria di un paio di generazioni: «Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi». Il resto è, per così dire, storia recente: dalle ombre dei dischi volanti che si allungano sulla Casa Bianca in Independence Day (1996) al colossal in 3D Avatar (2009). Verrebbe facile, a questo punto, pensare che l’incontro con l’«alieno» come altro da sé sia un fenomeno interamente novecentesco, portato alla ribalta dal cinema e dalla televisione. Non è così. Prenda esso le forme dello psicodramma puritano delle origini nei confronti degli indiani e delle «streghe» (➝ Caccia alle streghe) o dell’accanimento dei servizi segreti (commissioni governative, Cia e Fbi) contro presunti sovversivi comunisti e anarchici (➝ Caccia alle streghe), il rapporto con ciò che è considerato «alien» da una prospettiva normativa incarnata da un establishment istituzionale è un motivo fondante dell’intera cultura americana. Oltre alla breve stagione di Alien Nation (1989-1990), il telefilm di fantascienza in cui gli extraterrestri dispersi nel deserto del Mojave (➝ Deserti) e trattati dalla polizia di Los Angeles alla stregua di immigrati messicani o di minoranze altrimenti oppresse, due serie televisive del nuovo millennio come Alias (stessa etimologia di «Alien») e Lost ruotano infatti intorno all’incontro con gli altri, con la presenza di società segrete e il diffondersi di personalità multiple a riaffermare quanto il tema dell’alterità – e il suo necessario corollario di tensioni e psicosi culturali – continui a es-
Alien 29 sere un aspetto nevralgico della vita del paese, intrecciando e sovrapponendo figurazioni fantastiche e realtà materiale. D’altro canto, la prima volta che la parola «alien» compare negli annali di storia americana con il significato di «straniero» è nel 1798, con il Congresso di George Washington che promulga gli Alien and Sedition Acts: quattro leggi di sicurezza interna mirate a limitare la presenza degli stranieri e a mettere un freno agli eccessi di una stampa troppo libera, in previsione di una guerra contro la Francia. Al di là dell’effettiva ricaduta di questi provvedimenti legislativi – un solo straniero sarà deportato –, è interessante notare come già agli albori della Repubblica la presenza di stranieri e immigrati sia legata culturalmente a un pericolo sovversivo (di sedizione, appunto). Le cose si complicano poi con l’arrivo delle ondate migratorie di metà Ottocento – i flussi dalla Cina e dall’Europa del Nord (irlandesi, scozzesi, tedeschi e scandinavi) – e con quelle a cavallo tra i due secoli, provenienti dalle regioni più povere del Vecchio mondo (i paesi dell’Europa sudorientale). L’approdo di bastimenti brulicanti di italiani, greci, slavi e russi (spesso ebreorussi) alla stazione d’entrata di Ellis Island (➝ Isole), al largo di New York City, ridisegna la mappatura etnica e linguistica della città e del paese intero, suscitando le reazioni allarmate e razziste di coloro i quali, americani da più generazioni, si ritengono depositari dei valori nazionali. Così, nel 1892, Thomas Bailey Aldrich (il «bramino di Boston», appartenente cioè all’aristocrazia economica e culturale della nuova Atene americana) scrive la poesia Unguarded Gates (Cancelli indifesi) che ben compendia i sentimenti diffusi nella roccaforte Wasp (➝) del New England: «Spalancati e indifesi sono i nostri cancelli, / attraversati dall’accozzaglia pressante e selvaggia delle masse – / uomini dal Volga e dalle steppe tartare, / figure anonime dell’Hoang Ho / malayani, sciziani, teutoni, celti, e slavi/ che rifuggono la povertà e il disprezzo del Vecchio mondo / portando con sé divinità e
riti sconosciuti / […] / nelle strade e nei vicoli risuonano le loro chiassose favelle straniere / accenti minacciosi estranei [alien] alla nostra aria / voci conosciute un tempo nella Torre di Babele!». Di tutt’altra sensibilità saranno invece le riflessioni sociologiche firmate dallo scrittore Henry James nel primo decennio del Novecento, quando, ormai inglese di adozione, tornerà nel suo paese di origine – e nella sua New York – per un breve periodo. Anch’egli promotore di una visione «esclusiva», ovvero «alta» e rigorosamente (neo) inglese, della cultura, della letteratura e della lingua americane, James non mancherà di mettere in luce l’ambiguità irriducibile del concetto stesso di «alien» in un paese in cui la «dividing line» tra il nativo e lo straniero è, per necessità storica, da sempre mossa: «Chi è americano […] e chi non è straniero?… e dove si può puntare il dito sulla linea di confine?». Nel 1907 (l’anno in cui James pubblica le sue impressioni sui cambiamenti conosciuti dagli Stati Uniti in La scena americana) è da tempo in vigore il Chinese Exclusion Act – la legge del 1882 che interrompe i flussi migratori dalla Cina (➝ Chinatown) – e, con esso, i nuovi provvedimenti restrittivi modellati sul sistema delle «quote» e giustificati dalle teorie eugenetiche in voga a inizio Novecento sono alle porte. Sarà infatti il Johnson-Reed Immigration Act del 1924 a sancire per la prima volta in maniera così sistematica il tetto numerico dei flussi, secondo una classificazione razziale che favorirà il ceppo caucasico (l’Europa nordoccidentale) su tutti gli altri (in primo luogo l’Asia). In altre parole, pur usando la categoria giuridica della nazionalità (la quota degli immigrati dall’Italia, dalla Cina, dalla Grecia ecc.), il sistema avallato dalla legge del 1924 si basa su criteri etnici che stabiliscono una scala di minore o maggiore assimilabilità degli immigrati agli americani bianchi: tanto più diversi per colore di pelle e per appartenenza continentale, quanto più «alien». Spartiacque della storia dell’immigrazio-
30 Alien ne americana, il Johnson-Reed Immigration Act contribuirà inoltre alla formazione della categoria degli «illegal aliens», gli immigrati clandestini che, impossibilitati a chiedere la cittadinanza se non al termine di percorsi lunghi e impervi e privati di ogni diritto ma utili all’economia del paese, diventeranno una delle contraddizioni più evidenti della democrazia americana del Novecento (➝ Braceros). Negli ultimi cinquant’anni, vale a dire grosso modo dal 1960 a oggi, la paura del diverso, dell’alieno e dello straniero come immigrato clandestino è spesso sfociata nella proliferazione di comunità, sette, corporazioni militanti o milizie, variamente ispirate a teorie millenaristiche, apocalittiche, xenofobe e del complotto (➝ Teoria del complotto). Molte dottrine paranoiche del complotto sulle quali proliferano queste confraternite risalgono agli anni cinquanta, quando il segreto di stato prende a coprire gran parte dell’ecatombe ambientale cui sono sottoposte zone sacrificali (come il Nevada e il New Mexico, dove vengono condotti test nucleari) e segmenti della popolazione ritenuti marginali (i mormoni, per esempio). Nel corso della seconda metà del secolo, l’idea che le istituzioni nazionali siano alla mercé di un manipolo di cospiratori sarà riaccesa dall’assassinio di John Fitzgerald Kennedy (1963; ➝ Camelot), dallo scandalo del Watergate (1972-1974; ➝), e poi da quello Iran-Contra, nonché dal ravvivarsi, sul finire degli anni settanta, del mai sopito interesse per l’«incidente» di Roswell (➝) del 1947, quando, nei pressi di questa cittadina del New Mexico, le autorità aeronautiche rinvengono frammenti di un oggetto volante che, pur identificato come parte di un radar militare, sarà subito al centro di una lunga controversia circa una sua presunta provenienza extraterrestre (ancor oggi, molti americani credono che il governo nasconda prove dell’esistenza degli alieni nei grandi deserti [➝] del New Mexico e del Nevada). Sarà poi a partire dagli anni settanta del secolo scorso che, alimentate da una sfiducia crescente nei confronti dell’autorità del go-
verno federale e delle agenzie come Cia e Fbi, queste associazioni spontanee – i cui orientamenti vanno dall’utopia visionaria alle teorie massoniche e ufologiche, al fanatismo religioso e all’esercizio delle armi – cominciano a essere protagoniste di una serie di eventi tragici che continueranno fino ai giorni nostri: il suicidio collettivo di Jonestown (➝ Castro) del 1978 e quello di Heaven’s Gate del 1997; l’assedio di Ruby Ridge nel 1992 e quello di Waco nel 1993; l’esplosione di Oklahoma City nel 1995; i «serial killings» di Unabomber (➝ Waco, Columbine e dintorni). «Trust no one, the truth is out there» («Non ti fidare di nessuno, la verità è la fuori») non è la parola d’ordine di una setta segreta, ma il motto di una delle serie tv più cult di fine millennio, X-Files. Lo slogan degli investigatori Mulder e Scully può riassumere per più di un verso l’atteggiamento paranoico da cui muovono i gesti violenti e tragici di chi, tra gli americani, si sente «accerchiato» da forze esterne o interne, comunque «altre» rispetto a sé, ed è pronto a sostenere l’esistenza di un «New World Order», un’élite del potere mondiale in procinto di fagocitare il genere umano. Venate di suggestioni massoniche e di fanatismo, e sempre contraddistinte da una paura incontrollata per l’altro e il diverso, le teorie del complotto si prestano spesso a essere adottate dalle cosiddette «milizie» dei suprematisti bianchi, gruppi estremisti che fanno dell’uso delle armi (➝) in chiave xenofoba e neonazista la propria bandiera. Assai forti negli stati del Sudovest (Arizona e Texas), le milizie convogliano gran parte della loro propaganda – e delle loro azioni – sugli immigrati clandestini provenienti dal Messico (➝ Braceros) che attraversano il confine con gli Stati Uniti. Affiancandosi spontaneamente alla «Migra», la polizia americana di frontiera, i cecchini delle milizie pattugliano i «cancelli spalancati e indifesi» di quella regione del paese contro chi, poco più di centocinquanta anni fa, la abitava. «Which is the American? […] Which is not the alien?»