Alessandro Marzo Magno
Atene 1687 Venezia, i turchi e la distruzione del Partenone
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www.saggiatore.it (sito & eStore) Twitter @ilSaggiatoreEd Facebook il Saggiatore editore www.alessandromarzomagno.it alessandro.marzomagno@gmail.com Š il Saggiatore S.p.A., Milano 2011
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Atene 1687 A Mirjam, Marco e Peter
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Ăˆ ben nota la pretesa di avere un posto al sole. Meno noto è che il sole tramonta non appena il posto è raggiunto. Karl Kraus
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Sommario
1. All’armi
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2. Il Peloponnesiaco
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3. Il Partenone
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4. La bomba
79
5. L’abbiamo fatta grossa
111
6. Addio sogni di gloria
133
7. Souvenir di Morea
147
Ringraziamenti
167
Note
169
Glossario dei luoghi geografici
189
Fonti archivistiche e manoscritte
191
Bibliografia
193
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1. All’armi
«La sera di 26 con fortunoso colpo, mentre acceso un deposito di buona quantità di polvere non potè più estinguersi la fiamma, ore andò serpendo, e per due intieri giorni diroccando l’habitato coll’apportarle notabili danni, e crucciose mestizie.»1 Così, con un linguaggio che definire sottotono è un eufemismo, il comandante generale delle forze armate veneziane in Grecia diffonde la notizia di uno dei peggiori danni che mai nella storia siano stati inferti al patrimonio culturale mondiale: la distruzione del Partenone. Siamo in Grecia alla fine del settembre 1687 e Francesco Morosini, capitano generale da mar della Serenissima, dopo aver conquistato la Morea (Peloponneso)2 ed esser stato per questo onorato del titolo di Peloponnesiaco, sbarca al Pireo. Penetra come un coltello nel burro nel borgo di Atene e ne assedia la rocca – spesso chiamata anche fortezza – ovvero l’Acropoli. I turchi vi si sono rinchiusi con le loro famiglie e hanno immagazzinato beni, polvere da sparo e materiali infiammabili nella costruzione che appare loro più sicura, per-
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ché di solido marmo e protetta da un tetto pur esso in pietra: il tempio di Minerva che nei secoli successivi il mondo conoscerà come Partenone. Un colpo fortunato (per gli assedianti) – e non fortuito – fa saltare in aria il deposito di polvere, distrugge l’edificio giunto sostanzialmente intatto, almeno nella struttura, dall’antichità classica, ammazza una quantità di persone (due o trecento) e provoca un incendio che dura due giorni. Questo scempio immane, una delle più nefaste «tra le date funeste della storia dell’archeologia»,3 già pochi mesi dopo si rivelerà del tutto inutile: i veneziani abbandoneranno Atene per l’impossibilità di difenderla (come peraltro ampiamente previsto da Morosini) e la città verrà subito rioccupata dai turchi. Nel 1716 gli ottomani si riprenderanno pure l’intero Peloponneso che rimarrà nelle loro mani fino all’indipendenza della Grecia, nel 1821. Ma come si è giunti a questo piccolo passo avanti per la condotta della guerra e grosso passo indietro per l’umanità? Che cosa ci sono andati a fare i veneziani ad Atene? Per capire ciò che stava succedendo in quello scorcio finale del xvii secolo bisogna fare un balzo all’indietro. La Serenissima Repubblica di Venezia e la Sublime Porta intrattengono ormai da due secoli e mezzo un rapporto di amore-odio: si ammirano, si rispettano, si combattono. Hanno bisogno l’una dell’altra per commerciare, Venezia è la porta d’Oriente, in laguna già si diffondono profumi e fragranze levantini, mentre a Costantinopoli vive una colonia stabile di mercanti «marcheschi» (il leone di San Marco è il simbolo della Serenissima). Ma se c’è l’occasione di darsele, nessuno si tira indietro. Per la verità sono più che altro i turchi, il pe-
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1. All’armi 13
sce grande, a prendersela con Venezia, il pesce piccolo, ma se quest’ultima può riuscire a infastidire i suoi amici-avversari non ci pensa due volte. Si dice che i veneziani levassero i calici e brindassero augurandosi Copèmo un turco («ammazziamo un turco»), e l’espressione «maritare Venezia al turco» per indicare una cosa impossibile da realizzarsi divenne così proverbiale da essere ripresa da Molière nell’Avaro («Per i matrimoni poi ho un vero bernoccolo […] e credo che se me lo mettessi in testa potrei combinare le nozze del Gran Turco con la Repubblica di Venezia» dice Frosina ad Arpagone; atto ii, scena vi). Se si fan un paio di conti, comunque, salta all’occhio che i periodi d’amore superano di gran lunga quelli d’odio: nei 495 anni che intercorrono tra la nascita dell’impero ottomano (1302) e la caduta della Repubblica (1797), agli 86 anni di guerra se ne contrappongono ben 410 di pace,4 e tra il 1348, anno della prima missione diplomatica turca, e il 1762, quando viene mandata l’ultima, Costantinopoli invia a Venezia 178 missioni, con una media di una ogni poco più di due anni, periodi di guerra inclusi.5 Venezia teneva invece a Costantinopoli un ambasciatore residente, detto «bàilo», in una delle più antiche sedi permanenti della storia della diplomazia (la più antica, ovvero la prima ambasciata mai stabilita al mondo, è pur essa opera della Serenissima: fu istituita a Roma nel 1431 in occasione dell’elezione a papa con il nome di Eugenio iv del veneziano Gabriele Condulmer, mentre l’ex casa bailaggia – ambasciata – veneziana è oggi sede del consolato italiano a Istanbul). Alla fine, veneziani e turchi a forza di frequentarsi finiscono per assomigliarsi e si specchiano gli uni negli altri.
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Per esempio, in campo sessuale: i veneziani accusano i turchi di smodata libertà, di trasgressioni che li avvicinano ai selvaggi, senza rendersi conto che proprio nella loro città alla fine del Seicento «le devianze sociali erano diffuse e la letteratura erotica finiva per teorizzare le pratiche omosessuali».6 I veneziani ai tempi della quarta crociata, guidata dal novantacinquenne doge Enrico Dandolo, invece di andare a Gerusalemme a liberare il Santo Sepolcro avevano fatto una deviazione per occupare Costantinopoli – troppo acquiescente con Genova – e impossessarsi così di immani ricchezze e della «quarta parte e mezzo dell’impero romano» (intendendo con ciò l’impero d’Oriente). Era il 1204. I veneti avevano voluto per sé le isole dell’Egeo e la grande isola di Candia (Creta), lasciando stare i feudi terragni, buoni per gli spiantati cavalieri franchi, ma puntando piuttosto a solide basi da utilizzare per fruttuosi commerci marittimi. Nel 1489, poi, avevano aggiunto ai loro dominî da mar l’altra grande isola del Mediterraneo orientale: Cipro, convenientemente scambiata con una collina e un castello, in quel di Asolo, nel Trevigiano. Quando infatti la veneziana Caterina Corner, divenuta regina di Cipro per aver sposato l’ultimo re dell’isola, Giacomo ii Lusignano, rimane vedova, Venezia vede bene di convincere (e neanche tanto con le buone) la sua ex suddita a rinunciare ai diritti sulla corona cipriota – strategicamente importante per contenere l’espansione ottomana – in cambio della signoria asolana. Lì Caterina darà vita a una delle più feconde corti del Rinascimento italiano, dove Pietro Bembo comporrà gli Asolani e le Prose della volgar lingua, e dove un giovane pittore della vicina Castelfranco – tal Zorzi – comincerà a dar pro-
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va della sua maestria prima di diventare più noto con il nome di Giorgione (in definitiva, se vogliamo prenderla molto alla larga, la letteratura e l’arte italiane parecchio devono alle pressioni turche sui possedimenti veneziani). Nel frattempo – siamo nel 1453 – i turchi di Mehmed ii conquistano Costantinopoli sottraendola al restaurato impero bizantino di Costantino xi Paleologo. Gli ottomani non possono non guardare in cagnesco quella «quarta parte e mezzo dell’impero romano» che costituisce una minaccia proprio nel loro giardino di casa. Venezia è una potenza marittima, i turchi combattono con i piedi ben piantati a terra, ma capiscono subito che per spuntare gli artigli del leone marciano devono scendere in acqua. E così fanno. L’incontro in mare tra le due flotte nel 1466, a Patrasso (Pàtra), è per i veneziani una batosta micidiale. I sopracòmiti (comandanti) delle galee col vessillo di San Marco riferiscono atterriti che «el mar pareva un bosco» per il gran numero degli alberi delle galee con la mezzaluna che lo solcavano. I veneziani ne prendono talmente tante che ancor oggi, a cinque secoli e mezzo di distanza, dire di qualcuno el xe ’nda a Patrasso co tuto significa che quel poveraccio non se la passa affatto bene. Quindi gli ottomani si mettono a spennare le ali del leone: a uno a uno sottraggono a Venezia i territori d’oltremare. Cominciano quattro anni più tardi, nel 1470, mandando trecento galee a conquistare l’isola di Negroponte (Eubea), così vicina alla terraferma – una settantina di metri – che basta gettare un ponticello sul canale di Egripos per farla diventare una penisola. È il sultano in persona, ovvero lo stesso Mehmed ii che aveva conquistato Costantinopoli, a guidare le operazione di terra. Vuole
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mettere subito le cose in chiaro e dimostrare che non ce n’è per nessuno: la strage è tremenda. Veneziani e greci vengono massacrati senza pietà; al comandante Paolo Erizzo viene riservata una sorte beffarda: gli promettono salva la testa e così lo segano a metà. Da vivo, naturalmente. Secondo altre fonti (questa versione appare la più probabile) è il sultano a sgozzarlo personalmente e a lavarsi poi mani e viso col suo sangue. Appresa la notizia in Maggior consiglio, i patrizi (Paolo Erizzo era uno di loro) si riversano in piazza San Marco piangendo di rabbia e stupore. I veneziani si vendicano due anni dopo, nel 1472, attaccando Smirne (Izmir). Il comandante veneto, Piero Mocenigo, destinato a essere eletto doge, rende pan per focaccia agli ottomani ammazzando tutti gli abitanti, donne e bambini compresi. Poi dà fuoco alla città, anticipando quanto accadrà nello stesso luogo esattamente quattrocentocinquant’anni dopo, nel settembre 1922, quando i turchi massacreranno gli armeni e i greci rifugiati a Smirne e la incendieranno, con le navi britanniche e francesi che assisteranno ormeggiate in rada senza intervenire. Corone (Koroni) e Modone (Methoni), «gli occhi del Peloponneso», cadono in mani turche nel 1500. È chiaro che gli ottomani azzannano qua e là i domini veneziani, ma mirano a papparsi il boccone grosso: l’isola di Cipro. Un contributo determinante a scatenare la guerra lo darà un personaggio singolarissimo e originale, un ricchissimo mercante e banchiere ebreo di origine portoghese, Joseph – o Yousef – Nasi. Fuggito da Lisbona, transitato per Anversa, si ferma a Venezia assieme alla zia Gracia Nasi. La Sere-
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nissima signoria lo accusa di aver trasformato la sede della sua compagnia commerciale in una centrale di spionaggio a favore dei turchi. Già allora Nasi manifesta l’intenzione di scatenare la guerra tra la Signoria e la Porta: fornisce false informazioni che sottostimano il munizionamento conservato all’Arsenale, in modo da indurre gli ottomani ad attaccare. Venezia lo bandisce, ma la condanna non ha effetto perché nel frattempo Nasi si è già rifugiato a Costantinopoli dove diventerà consigliere del sultano Selim il Magnifico. Sfrutta questa posizione per far prevalere il partito della guerra, oscurando il gran visir Sokollu Mehmet (un bosniaco il cui vero nome è Sokolić, che nel 1557 ricrea il patriarcato ortodosso di Peć – oggi in Kosovo – e lo affida a suo fratello Macario).7 Gli ottomani mobilitano contro Cipro tutta la loro enorme potenza, la resistenza opposta dai veneziani è epica, ma inutile. Il comandante veneziano, Marcantonio Bragadin, si arrende a Famagosta (Ammochostos) il 9 settembre 1570, dopo che il suo avversario turco, Lala Mustafà, aveva promessa salva la vita a lui e ai suoi uomini. Invece fa massacrare i soldati e scuoiare vivo Bragadin. La pelle del comandante veneziano, riempita di paglia a formare un manichino, viene mandata in giro per Famagosta a dorso d’asino e poi spedita al sultano Selim come trofeo. Nessuno si sorprenderà quando un anno dopo, a Lepanto, i veneziani non faranno prigionieri. La più grande e sanguinosa battaglia navale combattuta nel Mediterraneo fino alle guerre napoleoniche, Lepanto appunto, avrebbe dovuto sbaragliare la flotta ottomana e salvare Cipro. Il 7 ottobre 1571 nelle acque dell’arcipelago delle Curzolari, in Grecia, la coalizione cristiana sconfigge i turchi, ma
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la vittoria si rivela infruttuosa: Cipro sarà ugualmente persa e il sultano in breve tempo rimetterà in mare una potente flotta. C’è un quadro a Venezia, nella sala dello Scrutinio del Palazzo ducale, dipinto da Andrea Vicentino, che rappresenta quell’epica battaglia navale. Vi si vede una parte della flotta cristiana che si apre per far fuggire alcune galee turche: erano i genovesi di Gianandrea Doria, preoccupati che Venezia non avesse più nemici a Oriente e potesse rivolgere altrove la sua forza militare. I membri della coalizione saranno anche stati accomunati dalla fede cristiana, ma quanto a comunità d’intenti erano ben lontani fra loro. La Francia, intanto, se ne sta a guardare: in funzione antiasburgica schiaccia l’occhio al sultano (e continuerà a farlo per tutto il Seicento, tanto che – durante la guerra di Morea – la folla a Venezia non troverà nessun musulmano da malmenare per cui se la prenderà con i francesi: quanto di più vicino ai turchi fosse disponibile su piazza). Gli Asburgo sono formalmente alleati di Venezia (il comandante della flotta a Lepanto è don Giovanni d’Austria, figlio naturale di Carlo v, il suo vice Sebastiano Venier, futuro doge di Venezia), ma in realtà l’aquila bicipite e il leone alato hanno interessi divergenti. Non a caso si combattono per secoli interi: nella regione nota come Litorale austriaco, ovvero quella che nel 1863 Graziadio Isaia Ascoli battezzerà Venezia Giulia (gli austriaci si ripigliano Trieste dai veneziani nel 1382 per tenerla fino al 1918); in Tirolo (nel 1508 gli Asburgo sottraggono ai veneziani Rovereto, che rimarrà anch’essa austriaca fino al 1918); in Cadore (1509, vittoria veneziana) e in Friuli, a Gradisca (1615-17, vittoria veneziana). Venezia e l’Austria sono separate da un lunghissimo confine co-
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mune: dalle Alpi orobie alla Dalmazia, con numerose zone di frizione. Solo una cosa unisce le due potenze europee: il contenimento dell’espansione ottomana, gli austriaci per terra, i veneziani per mare. E infatti dopo la pace seguita a Lepanto le cose cambiano: «Tra il 1573 e il 1718 la Serenissima si trova impegnata tre volte in conflitti di grandi proporzioni con il colosso ottomano, ma in tutti e tre i casi mai riesce a suscitare intorno a sé uno spirito di crociata capace di unire in una guerra a oltranza di tipo “ideologico” tutte le nazioni cristiane».8 Venezia e Vienna si ritroveranno sempre più sole a contrastare la potenza turca. Negli anni successivi alla guerra di Cipro, la Serenissima e la Sublime Porta riprendono tuttavia i commerci. Le due potenze vivono un lungo periodo di pace invidiato dagli altri regnanti italiani, facendo in tal modo diventare la Repubblica di San Marco bersaglio di un sempre più intenso «non ragionevol odio», tanto che a qualcuno viene in mente di prenderne le difese.9 A Venezia la presenza di mercanti in turbante è un punto fisso e infatti l’11 marzo 1621 viene loro assegnato il palazzo, in precedenza appartenuto al duca d’Este, che la Repubblica utilizzava per alloggiare ospiti illustri a spese dello stato. L’edificio diventa il Fondaco dei turchi (in veneziano fondaco significa «magazzino»), dove i sudditi del sultano possono abitare e conservare le loro merci. Il fondaco può ospitare fino a trecento persone in una cinquantina di stanze e i mercanti si suddividono in base alla provenienza («bossinesi e albanesi» sono i più numerosi, poi si trovano gli «asiatici e costantinopolitani»).10 All’interno dell’edificio vengono costruiti un hammam e una sala da preghiera. «L’ultimo abitante del
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fondaco fu Sa’dullah Idrisi (Saddo Drisdi nelle carte veneziane), che fu costretto ad andarsene nel 1838. Egli rifiutò fino all’ultimo di lasciarlo, difendendo il diritto della nazione turca ad abitare in quel luogo, invocò l’autorità del sultano, si rivolse all’ambasciatore turco a Vienna, ricorse agli uffici e ai tribunali: a chi cercava di spiegargli che i turchi erano stati solo affittuari soleva rispondere in veneziano che “il fontego esser stato prima de Pesaro, po’ de duca de Ferrara, po’ de Priuli, po’ de Pesaro, po’ de Manin. Ma San Marco aver dato fontego per casa de’ Turchi, e mi voler star in fontego”. Arrivò a puntare due pistole contro il commissario di polizia incaricato di persuaderlo; un giorno però sparì improvvisamente, dopo aver detto ad alcuni conoscenti che partiva perché non voleva patire quell’enorme ingiustizia; di lui a Venezia non si seppe più nulla e con lui cessò la presenza turca nel palazzo che fu per due secoli la casa dei sudditi del sultano.»11 L’edificio sul Canal Grande viene acquistato e restaurato dal Comune e nel 1924 diventa sede del Museo di Storia naturale. Ma torniamo ai tempi del sultano che non intende rinunciare al progetto di fare del Mediterraneo orientale un lago turco e quindi non si accontenta di tarpare le ali al leone: vuole cacciarlo via. Per farlo deve sottrargli l’altra grande isola: Candia, con le sue basi navali e le ricche coltivazioni di vite e canna da zucchero. La guerra comincia nel 1645 e durerà ben ventiquattro anni, fino al 1669, quando le ultime galee veneziane lasceranno le acque cretesi trasportando beni e persone, tra cui vari artisti della cosiddetta «scuola veneto-cretese» (il più celebre dei pittori candioti di scuola veneta, Dominikos Theotokopou-
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los – che in ogni caso aveva lasciato la sua patria ben prima, nel 1560 – è meglio conosciuto con il nome che gli hanno dato gli spagnoli: El Greco). Sarà una guerra lunga, dolorosa e costosissima, Venezia a un certo punto non sa più a che santo votarsi per raccattare il denaro necessario alle operazioni belliche e decide così di riaprire i ranghi del Maggior consiglio (serrati nel 1297 dal doge Pietro Gradenigo). Centomila ducati e il gioco è fatto: si diventa patrizi, ovvero si entra a far parte dell’organo di governo della Serenissima. Sono ben ottanta le famiglie a beneficiare di questa procedura straordinaria, ma le «case fatte per soldo» saranno sempre guardate con un certo sussiego dal resto del patriziato e ancor più quelle – saranno ventotto – che compreranno l’accesso al Maggior consiglio durante la guerra di Morea, come vedremo. A Candia incontriamo già uno dei protagonisti della nostra storia: Francesco Morosini, capitano generale da mar (carica che potrebbe esser definita come comandante supremo delle forze armate: il patriziato riservava a sé i comandi della flotta, mentre quelli delle truppe di terra erano assegnati a ufficiali stranieri, in modo che nessun veneziano potesse disporre di soldati da usare in modo improprio; dei marinai ci si fidava di più, evidentemente). È lui, nel settembre 1669, a firmare la pace e consegnare Candia ai turchi che gli rendono l’onore delle armi. Qualcuno parlerà di tradimento, ma è semplice realismo: Morosini si rende conto che non può più resistere, invece continuare a combattere sarebbe soltanto un inutile spreco di vite e di risorse. Non sono tempi pacifici quelli. Quattordici anni dopo aver
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completato lo scacchiere del dominio marittimo, il sultano decide che è ora di allargare anche i confini terrestri. Mobilita un esercito sterminato, lo mette al comando del gran visir Kara Mustafà e lo manda ad assediare Vienna. È il luglio 1683 e come sia andata lo sappiamo: il tentennante Leopoldo d’Asburgo fugge a Linz, mentre la capitale austriaca resiste grazie alla caparbietà dei suoi abitanti, alle abbondanti riserve di viveri e polvere da sparo, e al coraggio del suo comandante militare, Ernst Rüdiger von Starhemberg. Nella notte tra il 7 e l’8 settembre gli stremati viennesi vedono alcuni razzi illuminare il cielo sopra la cima del Kahlemberg, «un primo ed emozionante segno dell’avvicinarsi di un esercito di liberazione dalle alture del Wiener Wald».12 Le truppe comandate da Carlo v, duca di Lorena, e da Giovanni iii Sobieski, re di Polonia, ci mettono alcuni giorni a riunirsi. Il frate cappuccino Marco d’Aviano (al secolo Carlo Domenico Cristofori), legato papale, «con una fervente predica mista di italiano, latino e tedesco, cioè incomprensibile»13 si dà da fare per galvanizzare gli animi dei combattenti. È ormai «giunta l’ora in cui l’esercito cristiano, per usare il linguaggio enfatico di uno scrittore turco contemporaneo, divenne un fiume di pece nera che colava dalle montagne consumando tutto quel che toccava».14 Vale assolutamente la pena, a Vienna, di fare una gita sulle alture del Kahlemberg: si gode di uno dei paesaggi più belli che si possano immaginare. Lasciata la chiesetta dove si dice che Giovanni Sobieski abbia pregato prima della battaglia (e ben frequentata da gruppi organizzati di pellegrini polacchi), si scorgono sulla sinistra il corso del Danubio e in basso, a perdita d’occhio, gli edifici della capitale austriaca. Giusto
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poco più sotto i piedi, si allungano i pendii ricoperti di verdeggianti vigneti che producono i profumati vini per cui Vienna va famosa: il Grüner Veltliner oppure l’Eiswein, un passito ricavato da acini d’uva vendemmiati soltanto dopo esser stati gelati dal primo freddo. Quello che si vede laggiù è il campo di battaglia del 12 settembre 1683. Il Danubio non era irregimentato e al posto del Donau Kanal c’erano innumerevoli rami minori e vaste zone paludose, Vienna era racchiusa da mura e non appariva l’estesa metropoli che è divenuta ai nostri giorni; nell’area tra la città e il fiume era sistemato il campo di Kara Mustafà, mentre i combattimenti si svolgevano dove ai nostri giorni corre il Ring, la larga strada ottenuta abbattendo le mura, a partire dal 1857. Ma l’impressione che si ha oggi della discesa dal Kahlemberg al fondovalle è esattamente quella che ebbero i soldati di Lorena e Sobieski: sembra uno scherzo gettarsi a capofitto tra i vigneti e arrivare di sotto, alla fine ci sono solo otto chilometri in linea d’aria dalla cima del monte a Stephansplatz. Invece non è così: oggi come allora i tratti di terreno che sembrano lisci sono interrotti da crepacci, burroni, muri di contenimento dei vigneti. Gli assediati guardavano con ansia dai punti sopraelevati della città «le file compatte di fanti che scendevano dalla cresta, scomparendo e ricomparendo man mano che il terreno sprofondava oppure si livellava. I cannoni venivano spinti avanti e fatti sparare a intervalli; poi le truppe si raccoglievano attorno a essi, spostandosi in avanti di trenta-quaranta passi, in una tattica ripetuta innumerevoli volte. Almeno al centro, la velocità dell’avanzata era determinata più dalle caratteristiche del terreno che dall’opposizio-
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ne turca».15 Faceva un caldo torrido quel giorno di settembre, tanto che a mezzogiorno i combattimenti si erano interrotti per consentire ai soldati di ritemprarsi almeno un po’. L’offensiva finale inizia «alle tre e venti, nella canicola più feroce del pomeriggio. […] Per breve tempo l’esito parve in dubbio; poi la spinta delle truppe bavaresi […] e di altre truppe provenienti dai settori più settentrionali indebolì sul fianco la posizione turca; e i polacchi infine si lanciarono con la loro cavalleria in direzione sud. […] Cominciò il crollo totale dei turchi e, quando ricevettero l’ordine di lanciarsi in soccorso delle truppe dell’accampamento, i soldati ancora nelle gallerie e nelle trincee di fronte alla Hofburg fuggirono. Lo stesso Kara Mustafà si ritirò con una fretta disordinata e pericolosa».16 Fugge, il numero due dell’impero ottomano, e arriverà fino a Belgrado dove, il 25 dicembre, incontrerà alcuni messi del sultano. «“Devo dunque morire?” “Così deve essere” gli risposero. “Come piace a dio” rispose il gran visir. Poi il carnefice si fece avanti con la sua corda. Il gran visir Kara Mustafà era morto, ma per il mondo cristiano era Natale.»17 Torniamo però a quel torrido pomeriggio di settembre. «Alle cinque e mezzo la battaglia era finita. Vienna era salva. Cominciava il saccheggio.»18 In effetti un ufficiale irlandese al servizio degli Asburgo riporta nel suo diario una sensazione in qualche modo profetica: «Ci hanno lasciato tutto il loro campo con tende, bagagli e salmerie, e il tempo ci dirà cos’altro».19 Già, di tempo non ne passa davvero molto quando ci si rende conto che quei chicchi scuri e profumati che i turchi hanno abbandonato a sacchi, se ridotti in polvere e mescolati con acqua calda, danno una bevanda deliziosa. «Sappiamo che po-
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co dopo l’assedio alcuni greci e serbi aprirono dei caffè in città»,20 una sorta di mediatori culturali: cristiani già sudditi della mezzaluna, sono in grado di trattare quegli strani chicchi che in altre mani rimarrebbero sostanza inerte. Il caffè si diffonde subito per Vienna, assieme a un dolcetto a forma di mezzaluna che gli austriaci azzannano con voluttà pensando così di mordere la mezzaluna turca (la leggenda racconta che i rumori di scavo provocati dai genieri turchi furono sentiti dagli unici lavoratori svegli di notte: i panettieri, che diedero l’allarme e i celebrarono lo scampato pericolo inventandosi quel dolcetto). Il kipferl, chiamato croissant dai francesi, si accompagna superbamente al caffè, meglio se con un po’ di latte, fino ad assumere il colore della tonaca di quel frate esaltato, Marco d’Aviano: il cappuccino, appunto (il livore antiottomano del religioso era forse accentuato dal fatto che una sua antenata era stata catturata durante le incursioni turche in Friuli del 1499 e portata nell’harem del sultano).21 La notizia si irraggia come una scarica elettrica per l’Europa intera e anche a Venezia si celebra la vittoria: si mettono a suonare a distesa «tutte le campane della città e si vide la medesima piena di fuochi e di gioia, e il giorno seguente la Marzaria, Spadaria e le altre botteghe principali della città furono tenute serrate per impiegar quel tempo per render grazia alla bontà divina».22 Si rinuncia a un giorno di guadagni per correre in chiesa a ringraziare il cielo: un sacrificio grande per i bottegai veneziani. Ma sono in buona compagnia: «Dal Fontego dei tedeschi hanno quei mercanti non solo con fuochi e dispensa di pane e vino per due sere solennizzato la vittoria, ma con messa solenne e te deum cantato nella chiesa di San
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Bortolomio».23 Si stampano poemi d’occasione, come quello di Pietro Zini intitolato La volpe ha lassà el pelo sotto Vienna che inneggia ai cristiani risvegliati dal «tarapatan de tamburi, de timpani e trombette».24 Comunque la ritirata sotto le mura di Vienna del settembre 1683 (la seconda, perché gli ottomani ci avevano già provato senza successo nel 1529) non è solo una sconfitta militare, è l’inizio di un generale riflusso verso l’Anatolia che finirà soltanto all’indomani della Prima guerra mondiale. L’anno successivo, nel 1684, i nemici dei turchi si coalizzano: il 5 marzo Venezia aderisce all’alleanza polacco-austriaca che, con l’aggiunta della benedizione di papa Innocenzo xi, il 24 maggio diventa Sacra Lega, una specie di resurrezione della Lega Santa che aveva vinto a Lepanto, o anche la «quattordicesima crociata».25 Non dimentichiamoci che padre Marco viene da Aviano, Friuli, e quindi è pur sempre un suddito di San Marco, seppur prestato agli Asburgo. «Giova più una guerra che ci conserva che una pace che ci distrugge» afferma il veneziano Pietro Valier, savio del Consiglio.26 «A soli quindici anni dalla fine della guerra di Candia, Venezia tornava in campo nei mari del Levante nella speranza di recuperare quanto le era stato tolto.»27 L’Europa si mobilita: negli stati tedeschi, pur non direttamente coinvolti nel conflitto, vengono intrapresi ampi reclutamenti e le truppe affittate a chi ne ha bisogno, un modo come un altro per far cassa. «La crisi del 1683 in effetti costrinse il governo di Dresda a ricorrere a una tattica piuttosto popolare nella storia dei primi eserciti permanenti tedeschi. Nei pochi anni seguenti i reggimenti sassoni, brandeburghesi e hanno-
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veriani, di cui si poteva fare a meno in patria, sarebbero stati mandati in guerra, a pagamento, per conto degli Asburgo in Ungheria, o di Venezia in Morea.»28 I risultati arrivano: nell’estate 1686 giunge la conquista più desiderata, le truppe asburgiche si impadroniscono di Buda. Gli europei sembrano inebriarsi delle vittorie contro i turchi. Nelle strade non si parla d’altro, le popolazioni appaiono in preda a una specie di esaltazione collettiva. A Venezia una mano anonima scolpisce una scritta nell’erta in pietra d’Istria di una porta: 1686 adì 18 zugno buda fu asediata et adì 2 settembre fu presa. Quell’iscrizione è ancor oggi perfettamente leggibile sulla colonna al civico 1854 di San Polo, ai piedi del ponte de la Chiesa, in campo San Cassiano, dalle parti di Rialto. Nel contempo vengono assaliti i ghetti di Venezia e Padova, perché gli ebrei sono accusati di essere spie al servizio dei turchi.29 Anche la Serenissima interviene direttamente nel conflitto: la ferita della perdita di Candia è soltanto di quindici anni prima, e sanguina ancora. Una parte dei patrizi proprio lì vorrebbe mandare la flotta, a riprendersi quell’isola che è stata veneziana per ben quattro secoli e mezzo. Ma non è cosa: troppo impegnativa l’impresa, troppo complicata la logistica, troppo allungate le linee di rifornimento. Meglio ripiegare su mete più facili e più vicine. La Morea appare l’obiettivo ideale: scarsamente popolata, la penisola non sembra un boccone troppo indigesto da buttar giù e vanta un’antica presenza veneziana da restaurare, nelle piazze di Corone e Modone o nella contermine isola di Negroponte. Inoltre non è troppo lontana dalla Dalmazia e dall’Albania veneta, da alcuni secoli territorio veneziano.
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La verità però è che nel Peloponneso la Repubblica – ormai rivolta verso la terraferma – non ha interessi vitali, né militari, né economici. Cosa pensa di trovare in un «territorio povero, arretrato, scarsamente popolato che non valeva le colossali spese che la guerra comportava?». 30 Si tratta di «una provincia agricola, povera e dissanguata, all’estremo confine dei suoi possedimenti, da sempre fertile serbatoio di truppe e di navi. Offriva certo alcuni sicuri porti intermedi sulle rotte per l’Egitto, la Siria e Istanbul. Ma il commercio orientale occupava un posto sempre più ristretto nell’economia di Venezia».31 «La conquista della Morea (1684-1699) fu l’ultima avventura coloniale veneziana e si inserì nel grande conflitto che incendiò i Balcani e il Levante mediterraneo, segnando la fine dell’avanzata turca verso Occidente.»32 Dei sette conflitti veneto-turchi questo è il secondo in cui la Serenissima ha «la veste di aggressore»33 (l’altro era stato nel 1463-79) e il primo in cui viene consegnata una formale dichiarazione di guerra. «Il 16 giugno 1684 il segretario di delegazione Giovanni Cappello, che fungeva da bàilo (ambasciatore) a Costantinopoli, consegnò la dichiarazione di guerra al kaimakam (il gran visir era in guerra, il padiscià a Adrianopoli). […] Subito dopo l’udienza dal kaimakam, Cappello si rase barba e capelli e si travestì da marinaio riuscendo così a fuggire a Smirne (secondo altri a Chios), dove lo attendeva un mercantile veneziano partito poco prima dalla capitale ottomana. Cinque giorni dopo Morosini approdò a Leucade, il porto fortificato dell’isola di Santa Maura [Lefkada], tenuto dai barbareschi, che dopo un breve assedio cedettero. Tale conquista assicurava a Venezia il possesso delle isole Jonie»34
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che rimarranno territorio della Serenissima fino alla caduta della Repubblica, nel 1797. In una di queste tre isole, Zante (Zakynthos), nel 1778 nasce il poeta Ugo Foscolo. La Serenissima si ritrova così a combattere su due fronti. Oltre che in Morea, le operazioni militari prendono il via anche in Dalmazia: lì repubblica e impero confinano direttamente. Anzi, il conflitto si apre proprio sulle coste dell’Adriatico orientale, dove i morlacchi (popolazioni slave di fede ortodossa) iniziano la guerriglia impossessandosi «di una serie di località fino a Makarska, costringendo in tal modo Venezia a prendere apertamente posizione».35 Vedremo in un capitolo successivo come si sviluppa il conflitto che porta a distruggere una delle più belle sopravvivenze architettoniche dell’antichità classica. Qui aggiungiamo che purtroppo i beni culturali in guerra non sono mai tabù. «Per colpire con sicurezza una stazione si dovrebbe mirare su un Tiepolo»36 scrisse il viennese Karl Kraus dopoché gli aerei austroungarici nel 1915 avevano distrutto il soffitto affrescato da Giambattista Tiepolo della chiesa degli Scalzi, a Venezia, nel tentativo di colpire la vicina stazione ferroviaria. In questo caso non c’era intenzionalità, ma senza scomodare la distruzione della «Firenze dell’Elba» (Dresda) rasa al suolo dai bombardieri angloamericani, basti ricordare – in tempi a noi molto più vicini – la deliberata distruzione del cinquecentesco ponte ottomano di Mostar, il 9 novembre 1993, per opera delle artiglierie croate. Il ponte collegava Mostar Est, zona musulmano-bosniaca, con un’enclave musulmana a Mostar Ovest, area croato-bosniaca. I croati, quindi, decisero di demolire lo Stari Most a cannonate. «Il dito mignolo di un mio soldato non vale
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tutti i ponti del mondo» commentò l’ufficiale che diede l’ordine. Il tutto avvenne in zone geograficamente molto prossime a quelle dove veneziani e ottomani si erano combattuti tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento. Mostar dista una ventina di chilometri da Medjugorje dove a metà anni novanta era acquartierato il contingente di carabinieri in Bosnia. I militari italiani avevano in un certo qual modo adottato l’orfanotrofio della vicina Čitluk (otto chilometri in direzione Mostar), luogo che ritroviamo come sede di combattimenti tra le truppe della Serenissima e quelle del «bassà della Bossina», mentre la non lontana Imotski (oggi subito al di là del confine croato) verrà conquistata dai veneti nel 1714-15 e rimarrà un avamposto del leone di San Marco in territorio ottomano fino alla fine della Repubblica. Negli ultimi due decenni del Seicento, la guerra tra la Lega Santa e i turchi divampa nell’Europa centrale, nei Balcani e in Grecia. Ma non sono certo questi ultimi i teatri principali, né Venezia è il primo attore: «Le vittorie furono conseguite su un palcoscenico secondario, le decisioni avvennero nel bacino del Danubio».37 Paradossalmente questa che appare come una delle più fulgide imprese militari della millenaria Repubblica contribuisce a marginalizzarla definitivamente. Tra le vittorie in Grecia e la vergogna napoleonica, centodieci anni dopo, quando la Serenissima s’illude di contrastare il generale corso assetato di gloria e vittorie contrapponendogli boccette d’inchiostro, sigilli di ceralacca, penne e fogli di carta, c’è in mezzo soltanto il canto del cigno di Angelo Emo che nel 1785-86 bombarda le posizioni dei barbareschi sulle coste tunisine con batterie di cannoni galleggianti di sua invenzione.
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Questa storia di guerre, di uomini coraggiosi e di templi distrutti, che ci accingiamo a raccontare ha due protagonisti indiscussi, uno di carne e uno di pietra: Francesco Morosini, uno dei più abili ammiragli e condottieri della storia della Repubblica, e il Partenone, una delle più belle testimonianze della storia dell’arte mondiale.
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