Bloody Cow

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Helena Janeczek

Bloody Cow


Bloody Cow è stato pubblicato con il sottotitolo «Quasi un epilogo morale» come appendice a Cibo (Mondadori, 2002).

www.ilsaggiatore.com (sito & eStore) Twitter @ilSaggiatoreEd Facebook il Saggiatore editore © il Saggiatore S.p.A., Milano 2012


BLOODY COW



L’OPERA – Carne. Carne appesa a ganci e stesa sul marmo.

Bestie al macello. Bestie che crollano, animali incerti sulle zampe, i cui occhi si rovesciano all’indietro. Mucche sane, mucche in pascoli verdi ritoccati con Photoshop e mucche inscatolate vive tra le griglie degli stabilimenti illuminati al neon. Sono venute a noi, hanno riempito i nostri schermi e noi ce le aspettavamo, come dopo essersi strafogati ci si aspetta di dormire male. Ma quella volta abbiamo avuto paura. Abbiamo tremato perché era giunta l’ora della grande punizione perché mangiamo carne o perché mangiamo troppo o semplicemente perché mangiamo: non c’è dieta mediterranea o dieta iperproteica, non c’è pastone macrobiotico o pasto sostitutivo che possa farci niente. Noi continuiamo a mangiare perché continuiamo a vivere. Ma quella volta abbiamo tremato perché l’undicesima piaga biblica si stava abbattendo sul nostro Egitto: a cadere prima sulle gambe, poi con la testa all’indietro, a tremare e a morire – sì, perché alla fine è morta – è stata Clare, ventiquattro anni, vegetariana da quando ne aveva undici, uccisa dal morbo della Mucca Pazza. Vegetariana da quando ne aveva undici. La carne impura irrompe nella carnale e impura storia degli uomini. L’ombra dell’antropofagismo, la società del rischio e la putrefazione in vita, l’autoseppellimento e il sisma psichico. Tutto, davvero tutto, viene macinato dall’idrovora di una scrittura commovente e spietata: così si fa la Storia, così si fanno le storie, così è scritto Bloody Cow, il reportage sulla malattia di Creutzfeldt-Jacob. Corifea 9


dolcissima, profetessa veterotestamentaria, scrutatrice spietata e raggelante del mondo, accordatrice di ritmi e visioni, Helena Janeczek ricostruisce la storia di Clare Tomkins, la disperazione della sua famiglia e il delirio mediatico, dirigendo il flusso inesausto delle immagini, a volte dinamicissimo, altre lutulento, altre ancora maestoso, con salti e rapide improvvisi, composto di allegorie verticali e orizzontali aneddoti, di vite e non-vite che variano dalla fotografia iperrealista all’allucinazione in stile lynchiano. E noi restiamo esausti, sazi, incantati e pur sempre immensamente disincarnati, proprio al centro della carne, nell’atto più solitario e comunitario che sia dato all’umanità: mangiare. L’AUTRICE –Helena Janeczek, nata a Monaco di Baviera da genitori ebrei di origine polacca e venuta a vivere in Italia all’età di diciotto anni, scrive in italiano con l’abilità funambolica di chi ha imparato a usare uno strumento alla perfezione: duttile, purissimo, affilato. Poetessa e scrittrice, ha esordito con la raccolta di poesie in lingua tedesca Ins Freie (Suhrkamp, 1989), mentre ha scritto in italiano il suo primo romanzo, Lezioni di tenebra, che ha vinto il Bagutta Opera Prima come miglior opera prima. Si tratta del resoconto del viaggio compiuto ad Auschwitz insieme alla madre, che lì era stata prigioniera con il marito. Le rondini di Montecassino è stato vincitore nel 2010 del Premio Napoli. È redattrice di Nuovi Argomenti e di Nazione Indiana.

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Adesso stanno già cercando che cosa c’è dietro, adesso che le hanno trovate, trovate dodici o tredici, trovate e confermate dodici mucche pazze in questo paese. Però non lo sanno, non sanno, probabilmente, che sono state trovate pazze, trovate e confermate dodici mucche, perché la prima sì, la seconda forse, la terza ancora e magari la quarta, queste sono apparse in tv, televisione di Stato e televisioni private, e sono andate sulle prime pagine dei quotidiani, mentre ogni altra, ogni nuova mucca finiva più in là, più in dentro, più a lato, più in basso, in righe sempre minori e, da un certo numero in poi, saranno sparite. Quelle mucche scompariranno e, mentre stanno per scomparire, di nuovo si allargheranno le fettine e i carpacci sui banchi dei supermercati, confezione per confezione ruberanno lo spazio al cavallo e faranno stare più stretti il pollo il tacchino il coniglio e il maiale, fino a quando scomparirà il cavallo, e il maiale tornerà a essere o troppo grasso o troppo secco o comunque a far male. Adesso alcuni cominciano a chiedersi, a chiedersi fra di loro e ancora più dalle pagine dei giornali, pagine interne ma piene, a chiedere chi ci sta dietro, perché dev’esserci qualcuno dietro a quella dozzina di vecchie vacche 11


da latte che nessuno si è mai sognato di farci mangiare: le multinazionali della soia transgenica, le lobby degli allevatori di pollo o, contro l’Europa e la sua moneta in rialzo, la solita mano imperiale, gli americani? È certo che l’industria dei polli è forte in questo paese, copre tutto il mercato interno e produce pure per l’esportazione. È vero, lo posso testimoniare anch’io da quella volta in cui ho cercato un petto di pollo per farne un brodino e forse anche un piccolo polpettone leggero leggero per mia mamma malata a Monaco di Baviera che non doveva masticare. Ma non c’era, non avevano in quell’enorme, lussuoso reparto di gastronomia dove trovi banane verdi africane grandi come un dito e ostriche e champagne francesi in degustazione, non avevano un petto di pollo che non fosse italiano. Qui no, mi aveva detto la commessa dietro al banco, qui abbiamo solo manzo e maiale di Baviera, ma laggiù potrà trovare i prodotti della ditta, e produceva un suono che sembrava il raglio dell’asino, a‑i‑a, indicandomi un cartellone con la scritta GUTES AUS ITALIEN, «Cose buone dall’Italia». All’estero dall’Italia arrivano sempre cose buone, da mangiare si intende, da mangiare o comunque da comprare, non la mafia, si intende, non più la manodopera come quella di un tempo, manodopera che un tempo lì a Monaco chiamavano Kitzelmacher, «accoppa‑e‑mangia‑gatti»; no, quanto arriva di certamente buono dall’Italia sono sempre solo cose. In quella circostanza, sotto al cartello, le cose buone erano polli, tacchini e conigli, i conigli che un tempo a Monaco avrebbero scambiato per i gatti degli italiani mangiagatti. Invece adesso venivano reclamizzati come buoni conigli italiani, ed erano gli stessi polli, tacchini e conigli dei nostri supermercati, gli stessi che nei nostri supermercati, già molto prima che 12


saltasse fuori la prima mucca confermata, continuavano ad avere sempre lo stesso sapore di prodotto che copre il mercato interno e si espande oltre frontiera, ma con il prezzo quasi raddoppiato. Adesso dicono che ce n’erano in giro troppi, e lo capisco, è chiaro che non basta piazzare un cartello con scritto «Cose buone dall’Italia» sopra un banco frigorifero a Monaco di Baviera e neanche un altro in un’altra filiale degli stessi magazzini e nemmeno in qualche altro paese dell’Unione Europea per risolvere il problema dell’offerta superiore alla domanda, questo elementare problema di mercato, così che sarebbe senz’altro meglio immaginare l’intervento di tredici mucche sacrificate per la salvaguardia del pollame nazionale o, meglio ancora, nessuna, non una sola mucca pazza che produce un crollo di più del cinquanta per cento, e solleva, gonfia e glorifica il mercato del pollo, del tacchino, del coniglio e del maiale, così come, in effetti, si è verificato. Complimenti!, mi viene allora da dire, complimenti ai signori delle lobby del pollame nazionale, o alle multinazionali del nostro pollo, se è vero che il nostro pollo a volte è italiano quanto sono americane le scarpe da tennis Nike, complimenti vivissimi comunque, se è vero che siete stati voialtri a compiere questa azione con le vostre manovre e con i vostri mezzi di pressione, voi a orientare l’informazione e quindi l’opinione pubblica, voi a farla prima entrare nel panico e poi entrare compatta nei supermercati in preda a quello stato. Capitava, allora, di vederla ferma e fissa davanti al banco macelleria, l’opinione pubblica in preda al panico e nella veste di consumatori, capitava che quelli stessero lì a guardare smarriti, su e giù dal pollo al maiale, ogni volta glissando sulla striscia più scura e più rossa nel mezzo, e capitava che in quel movimento di ac13


celerazione e di fuga si incontrassero gli occhi, gli occhi, per esempio, di una robusta casalinga meridionale con gli occhi di una sottile signora da boutique e che allora una, non sempre era la prima, di colpo sbottasse, signora, ma che cosa facciamo adesso che non possiamo più fare la carne? La carne, dicevano casalinghe, signore, amici e colleghi, la carne, noi non mangiamo più la carne, e qualcuno diceva pure, diceva ad alta voce alla cassiera mentre quella batteva e dunque sollevava la confezione di «polpa famiglia», il che significa che forse lo dichiarava a quelli in fila dietro, noi non abbiamo paura della carne, noi la carne l’abbiamo sempre mangiata. Sempre mangiata? La carne? La carne senza nome fatta a fettine chiamate fettine? Certo, l’avranno già mangiata molto prima dell’hamburger, la bistecca arrivata insieme al ròsbif sulle tavole degli italiani suppongo dalle isole della Gran Bretagna, ma dopo aver perso quasi tutto il sangue e gran parte del volume. No, in Italia non sono mai arrivati in massa quei tranci alti, grondanti, grandi da coprire il piatto, e nessuno ha mai osato tagliare davanti ai commensali un arrosto caldo e crudo, ci pensava il salumiere a fare delle belle fette rosee e regolari, fredde e sottili come il prosciutto; no, in Italia si è mangiato per quarant’anni il ròsbif da salumiere e soprattutto la bistecca senza gusto e senza sangue, veloce per chi lavora, ricca di proteine, magra per chi vuole restare in linea, nutriente per i ragazzi e i bambini, e quella suola dura e grigia, quella italica bistecchina copiata malamente e forse un po’ schifiltosamente agli inglesi e americani, ora, dopo quarant’anni, adesso che non si può più mangiare, scopriamo che cos’era, che cos’è, che cosa è diventata. È diventata la carne. 14


E adesso chi si ricorda più di prima, quando un pezzo attaccato a un osso finiva nel brodo per il pranzo di Natale e poi nel ripieno dei tortellini e magari, per abbondanza o per risparmio, in polpette gonfie di pane o quando, da altre parti, c’erano quei bocconi filamentosi da far frollare per cinque ore nel pomodoro del ragù perché qualche volta almeno i maschi avessero un po’ di carne, ma quella carne poteva anche capitare di maiale o di montone, mentre la carne, la carne e basta, era un’altra cosa. Era il desiderio della carne, la carne debole o sangue del mio sangue, carne della mia carne, comunque la nostra carne, carne umana. Oggi è sparita. Oggi, se dentro una rivista trovi una cassetta con il titolo Conoscenza carnale, è una vecchia sòla, una stronzata, una porcheria che ti rifilano come «i classici dell’erotismo», ma per piacere! Niente più classici, niente più carne e basta, solo bocche, tette e culi, specialità! Le vacche sono le altre, finalmente, vacche da latte o carne da macello, mucche vere. Sarà anche per questo che è certo esatto, giusto parlare di psicosi collettiva, come hanno fatto i giornali ancora prima che venisse trovata la prima mucca infetta italiana, guardate gli italiani che in massa non comprano più la carne, quella rossa, quella bovina, anche se nel nostro paese non è stato segnalato nessun caso di contagio, anche se il governo dice di stare tranquilli, guardate gli italiani, che quando il governo dice «state tranquilli», fanno esattamente il contrario. Adesso che aumentano le mucche pazze e gli italiani probabilmente non lo sanno più né probabilmente lo vogliono sapere, sembra invece che comincino a stare tranquilli. Sì, una psicosi collettiva, ma non solo italiana, non solo tipicamente italiana, no, una psicosi europea, anzi una crisi di tutto il mondo mangia15


bistecche e mangiahamburger, e dunque una crisi isterica mondiale. Stiamo calmi, allora, c’è pure chi sostiene che i morti sarebbero soltanto sette, ma anche se fossero un centinaio, vogliamo mettere con le vittime della strada, della droga, dell’alcol e del fumo, vogliamo fare bene i conti, i confronti con cancro, infarto e Aids? Stiamo calmi, magari andiamo pure a una grigliata offerta dall’associazione macellai, poveracci anche loro, o guardiamo i funerali dell’unica gloriosa bistecca veramente nostrana e sanguinante, seguiamo l’asta in cui l’artistico macellaio che conta fra i suoi clienti anche Bruce Springsteen e sega le coste recitando a memoria versi del padre Dante, in cui il poeta della fiorentina batte il primo pezzo per un centinaio di milioni, una gigantesca, perfetta, vermiglia bistecca con l’osso di pura razza chianina aggiudicata da un businessman di Mosca, mentre la seconda va a Tokyo, la terza chi se lo ricorda più. Ammetto di non ricordarmi bene, né la somma esatta che avevano ricavato per quella carne, né le facce o le parole di chi in ogni parte del paese ne aveva fatto incetta, riempito il freezer di bistecche, parole certo di sfida, di orgoglio e sfida, la fiorentina non si disossa, non si tocca la fiorentina come non si tocca la Nazionale, la Nazionale di calcio che è più intoccabile del Presidente, e quindi per il momento lo è pure la bistecca. Ma sono cose risapute, cose prevedibili almeno, così come è prevedibile che mentre esce il divieto rientra il panico, e mentre il panico diminuisce si espande un mercato nero di tagli non disossati, un traffico però tutto diverso da quello in America ai tempi di Al Capone, niente speakeasy, niente grill nascosti mettiamo, nel retrobottega di una gelateria, pochi tavoli, lume di candela e una musica soffusa che copre il rumore di potenti aspiratori, 16


no, solo il tuo macellaio di fiducia, la trattoria sotto casa quando serve i clienti più affezionati, e magari anche gli altri dopo che hanno guardato nel piatto dei vicini. Poi c’è pure il traffico di carne abusiva, carne macellata e smerciata clandestinamente, ed è sempre prevedibile che se ne venda la stessa quantità sfacciatamente fuorilegge con tanto di osso, quanta se ne spaccia per carne controllata, tutto a seconda del cliente, il cliente ha sempre ragione per il mercato nero; ed è quindi probabile che, se fra molti o pochi anni qualcuno ci lascerà le penne, potrà trovarsi fra i clienti di quella carne, fra quelli che sanno o quelli che non sanno o quelli che fanno finta di non sapere. Attenzione, ci hanno detto, nel nostro paese circola una quantità imprecisata di carne clandestina proveniente da macelli clandestini di cui un numero ignoto si trova in Campania, ma mentre abbiamo visto i funerali della fiorentina, quei macelli non ce li hanno mai mostrati, neanche quelli legali, a dire il vero, e forse uno crede solo a ciò che vede. È difficile figurarsi un macello clandestino, non il macello dentro, il macello non lo voglio neanche immaginare, il macello fuori, la sua clandestinità, le bestie che non si vedono, i gridi che non si sentono, la puzza di sangue e scarti che non ristagna, lo sporco e il marcio che non attira i topi, i randagi, le mosche, i parassiti, i germi. Nessuno, d’accordo, vedendo un quarto di bue pensa che possa essere illegale, e tanto meno ti viene in mente che le mucche sul camion appena superato siano di contrabbando, né che un odore mefitico non abbia una ragione, è pieno di puzze e di vapori velenosi perfettamente regolari, ma è difficile pensare a quei macelli con la gente che ci abita intorno e fa finta di niente. Almeno 17


immagino che ci abiti intorno della gente, perché di solito le cose più segrete si trovano in mezzo alle cose più comuni, si nascondono nel pieno della vita o nel casino, e quindi cucine invase dalle mosche, acqua dai rubinetti che è meglio far bollire, finestre chiuse in piena estate, chiuse e poi riaperte perché manca l’aria per respirare e la puzza tanto non rimane fuori. E immagino una madre che da quasi un’ora sta facendo su e giù nella sala d’aspetto dell’ambulatorio con in braccio un bambino che da quasi un’ora sta strillando dopo aver pianto tutta la notte, perché per l’ennesima volta gli è venuta la febbre alta, e allora per l’ennesima volta il pediatra prescriverà antipiretici e antibiotici e chiederà, signora come mai questo bambino è di nuovo malato?, e ripeterà le sue raccomandazioni alla madre che di nuovo scrollerà le spalle con tutta la sua stanchezza rispondendo, dottore, non lo so. Poi mentre torna a casa forse se la prenderà con quello stronzo di dottore che la tratta come una sciamannata, e magari si metterà a urlare, e perché no la droga, tagliassero pure l’eroina sotto a casa nostra, chi se ne fotte, cazzi loro, ma a noi doveva capitare questa porcheria, questo schifo, questo macello. Allora forse il marito, la madre, la sorella, la vicina di casa o qualcun altro le dirà, calma, cosa te la prendi, poteva anche toccarci una discarica e non ci tornava niente. Tutto questo non è altro che un volo della mia fantasia, un film che mi sono fatta nella testa, ma io immagino che chi abita nei pressi di un macello clandestino per il disturbo riceva un po’ di carne, e so anche perché mi figuro questa cosa, perché ho letto, ho sentito che la mafia dà lavoro, la camorra, d’accordo, però ci dà da mangiare, allora immagino che sia così, letteralmente, la camorra dà da mangiare, e non posso fare a meno di immaginar18


mi una specie di campagna pubblicitaria intitolata «Mangia carne camorrista! La camorra ti dà da mangiare!» con uno spot che ha per testimonial il mitico camorrista Pasquale Barra «’o animale», detto appunto «’o animale» anche perché si nutriva solo di carne, sempre bistecche al sangue, quasi crude. È morto, credo. Se ammazzato o meno, come e quando, non lo so. Niente spot, allora, a meno di non imitare quello dei tortellini Rana con Marilyn Monroe o finta o morta. Poi al marketing ci pensano già loro, non hanno bisogno della creatività sgorgata da pregiudizi e film di mafia visti da un abitante di Gallarate; mentre, passandovi davanti più volte alla settimana con un treno che rallenta se per una volta va veloce, forse per non provocare esplosioni, comunque sotto un cielo più grigio dei cilindri di cemento e un’aria che entra acida dai finestrini, mi permetto di additare la camorra come esempio per la Esso, per la Agip, per la Shell, o non so a quali società appartengano le raffinerie di Rho, perché non mi risulta che abbiano mai pensato di regalare qualche litro di benzina agli abitanti della città che secondo alcuni dati risulta la più inquinata dell’Europa intera. E i macelli veri? Quelli pubblici, ufficiali, i macelli legali dove sono? Scusi, sa dov’è il macello, mi sento chiedere nel centro di Milano ai passanti che scrollano la testa o rispondono no, soltanto no, perplessi, allarmati. Scusi dov’è il macello, scusi, ma quale trasmissione l’ha mandata, c’è la telecamera nascosta, posso salutare il fidanzato? Fuori, sarà fuori, penso, e me lo vedo, così come mi immagino in via Torino, mentre in via Torino non ci metto piede, lo penso perché penso che nessuno come me sappia dove si trova questo macello e subito mi viene in 19


mente un amico che invece lo sa di certo, e infatti mi dice subito, a Calvairate. Il macello di Milano sta a Calvairate, vicino a una rimessa dell’Atm, accanto al mercato dell’ortofrutta, e in faccia ci sono blocchi di case popolari dove abita un suo amico, al quale i muggiti e l’odore del sangue secco entrano fievoli dalla finestra. Hai visto, penso io, mentre l’amico ancora sta parlando: sì, ho visto, mi è bastato il nome, Calvairate, la rimessa, il mercato e soprattutto le case popolari, perché vedessi questo tale arrivare, mettiamo, da San Giovanni a Teduccio, arriva, trova un lavoro, un lavoro non da assunto ma legale, e finalmente può far venire la famiglia perché finalmente gli hanno assegnato una casa, una casa popolare. Allora da San Giovanni a Teduccio si trasferiscono tutti a Calvairate, da un macello clandestino a un macello ufficiale, solo che adesso, per favore, anche se adesso sono in culo al mondo, la smettano di rompere le palle, perché ci sarà pure un po’ di puzza, un po’ di sottofondo musicale, le bestie, i camion delle bestie, i camion dell’ortofrutta, i tram o gli autobus della rimessa, e poi la carne devono andarsela a comprare, in macchina, fuori, all’unico super‑ o ipermercato della zona, ma il macello è del comune, le case sono del comune, tutto è regolare. E mentre già mi vedo lei, la moglie, che scoppia a urlare, allora era meglio che rimanessimo a casa nostra, comincio a percepire che nella mia sceneggiata fanno resistenza certe frasi. L’amico aveva detto che lì dentro al macello avrebbero girato un film, un film italiano cupo e spettacolare, perché già allora di quell’area enorme usavano solo una minima parte e adesso, figurati, con la crisi della mucca pazza, ancora meno, sempre di meno, così che forse, fra non molto, smantelleranno tutto. Il macello 20


di Milano è quasi pronto per chiudere i battenti, trasformarsi in spazi da concerto, boutique, loft e locali come è avvenuto a Roma e come forse avverrà ovunque, in tutte le città, a poco a poco. Il macello di Milano sta morendo, ed è per questo che ho capito che non poteva essere come l’avevo pensato, una prigione sconfinata di cemento, e non poteva essere dove io l’avevo piazzato, fra svincoli e capannoni, nell’hinterland estremo. Il macello di Milano sta a destra dell’incrocio con la strada che da ormai sei o sette anni percorro tutte le settimane con il mezzo di trasporto aziendale. Dieci minuti con l’autobus da San Babila, scendere all’angolo dove conosco ogni insegna di negozio e a volte anche il contenuto delle vetrine. Due minuti a piedi attraversando un ponte su cui non cammina quasi nessuno. Poi da un lato comincia il macello. Dall’altro riprende la città, bar negozi filobus case. Sono basse e solide, ad averle in faccia dalla parte del macello, le case popolari, non le distinguerei da quelle accanto se non vedessi la targa VIA CALVAIRATE. Non è un paese, dunque, forse nemmeno un quartiere. Quartiere o meno, non sembra degradato, non trasmette quel formicolio alle estremità che ti assale, a volte, come avvertimento che stai calpestando territori estranei, forse pericolosi. Non sembra niente. Sarebbe anonimo, se non ci fossero ad abbellirlo quelle casette basse in pura art déco, i loro piccoli fregi di ceramica resi opachi dal traffico continuo sulla circonvallazione. Quella è la facciata del macello. Gente che riceve la posta nelle cassette delle lettere visibili attraverso il vetro d’entrata, che ci abita davanti, che mette fuori vasi di geranio. Per questo il macello è invisibile nella sua grazia scolorita, per questo bisogna camminarci accanto per scorgerne i segni: la targa dell’Associazione macel21


lai, della Usl veterinaria, dei tanti uffici sfitti, i camion frigo abbandonati a lato, le persiane verdi chiuse, la scritta a lettere slanciate su una porta laterale in legno, l’unica semiaperta di un corpo centrale innalzato da una rampa di gradini: INGRESSO BORSAI. Sembra essere rimasta così da molto, dimenticata da quando ci è entrato e uscito l’ultimo borsaio, dal dopoguerra, da prima della guerra. Immagino, allora, tutte le porte aperte, di qua i borsai, di là i calzolai, i conciatori, non so chi altro, macellai, trippai, signori veterinari, saponificatori. Ora non passa nessun macellaio, neanche dal cancello spalancato, non l’ombra di una bestia. È una bella giornata primaverile, le poche automobili parcheggiate dentro, accanto ai tigli, quasi tutte colorate come sono di solito le utilitarie, danno un senso di allegria: così tanto spazio per lasciare la macchina, per giunta al fresco e al riparo. Sì, dal cancello aperto si scorgono in fondo i grandi hangar per i camion frigorifero, la struttura in cemento, ma la forma è quella di un tetto che spiove a balze geometriche, grandiose. Dietro dev’esserci il macello vero, però svoltando l’angolo di via Cesare Lombroso continua solo a estendersi, alto sopra il muro di recinzione, il muro bianco della sua fiancata. Per questo comincio a contare le targhe delle guide gastronomiche sulla porta chiusa della Trattoria del Nuovo Macello, concludendo che mezzo secolo fa sarà venuto il Duce a inaugurare questo fiore di bellezza, igiene e prosperità moderna e che oggi in quella trattoria si mangia bene. Non si vede nessuno, invece, neanche il gestore, guardando dentro al bar più avanti sullo stesso marciapiede. Poi, dal fondo della via deserta, dall’altro lato, rasente il muro del macello avanza, curvo sotto il peso di un enorme involto bruno portato in spalla, un uomo piccolo, scuro, un pakistano, sì, dev’essere per for22


za pakistano perché è carico di una coscia destinata a tutti i pakistani che frequenta, un pezzo di bue, finalmente, ma mentre ci incrociamo dalla carta da pacchi spunta qualcos’altro: sembrano fiori, rose. E allora, da lontano ne vedo arrivare altri, soli o in coppia, però sempre in fila come le formiche, sempre lungo lo stesso muro, indiani, cingalesi, pakistani, vallo a sapere, tutti piegati sotto quei giganteschi mazzi di rose che poi venderanno a una a una nei locali, ma che ora devono portarsi in spalla da non so quale parte dell’ortomercato sino alla fermata del filobus di viale Molise, e quindi camminano all’ombra del macello. Fissata nel cemento della recinzione, appare sospesa in cielo una bruna alpina, enorme la mucca, minuscola e fiabesca accanto a lei una contadina, e sullo stesso pascolo sfumato, ancora più piccola, una spiegazione: «Omaggio a Henri Rousseau». La vedo per la prima volta, quella pubblicità che vanta «Stalle aperte: un progetto di trasparenza» come un cartello elettorale piazzato in ritardo nel punto più sbagliato. Non sanno dove finiscono i loro manifesti o non gliene importa niente o sanno che nessuno, in questo caso, si accorge che il loro progetto di trasparenza, piazzato a mezz’aria lì davanti, rende ancora più invisibile il macello. Quindi gli bastano un muro basso e un cancello vecchio – qualsiasi condominio ne ha uno più impenetrabile anche solo alla vista – questo cancello che ritrovo perfettamente spalancato proprio davanti alla fermata dove approdo con i venditori di rose e insieme a loro aspetto. Aspetto il filobus e aspetto un segno, un suono o odore che arrivi di là da quell’unica corsia. Potrei attraversarla ed entrarci dentro, fare un giro sotto gli alberi o non so cosa, ma riesco a leggere un cartello che dice VIETATO L’INGRESSO AI MINORI DI SEDICI ANNI E ALLE PERSONE NON AUTORIZZATE. Non 23


so da dove saltano fuori i sedici anni, chi avrà mai stabilito che è lecito avvicinarsi a un macello alla stessa età in cui si può guidare il motorino e non la macchina, ma tanto vale, neanche io posso entrare per quanto nulla me lo impedisca, non posso entrare se non per chiedere l’autorizzazione e con l’autorizzazione venire un’altra volta. Così salgo sul filobus e cedo il posto agli indiani, tanto devo scendere alla prossima fermata, tanto non ci vado a chiedere il permesso, non vado a visitare il macello come mi aveva suggerito un amico, sì, hai ragione, ma io non ci vado a visitare il macello, gli avevo detto come avrei detto ad altri, un mio amico mi ha invitato a visitare il macello, sarebbe giusto, certo, ma io non me la sento, non ci vado, dicevo ripetendomi fino a quando non mi sono sentita dire, io al macello non ci vado. Vigliacca! Non vuoi andare al macello? Allora ti meriti la mucca con lo slogan copiato al presidente, meriti che al semaforo dove aspetti il tuo trasporto aziendale ti si fermi davanti al naso questo bel furgoncino con scritto PET FUNERAL, «cremazioni e sepolture di animali domestici in città e dintorni», meriti tutti gli sbeffeggiamenti della vita, mangiatrice di bistecche, mangiatrice di bistecche che ci ha rinunciato per vigliaccheria, amica ipocrita delle mucche e dei vitelli, e questo da sempre, da quando in un albergo tirolese hai scoperto che il tuo piatto preferito, il Wiener Schnitzel, era fatto del tuo animale preferito. Quante volte tua madre ha tirato fuori questa storia, quante volte ha raccontato che di colpo ti eri fatta scura, poi eri rimasta con la faccia torva, torva di pensieri fino a quando non sei scoppiata a piangere a dirotto, la sua bambina, la sua piccola mangiona che singhiozzava, il vitellino, il vitellino, ma alla fine, dopo essersi calmata, dopo aver guardato su e giù dal piatto chissà quan24


te volte, ha ripreso in mano le posate e la sua cotoletta se l’è mangiata. Rideva tua madre e tu ti vergognavi, ancora ti vergogni quando lo racconta e ti chiedi quanti anni avevi, quanto tempo era passato fra il tuo pianto e il riprendere a mangiare, il tempo di capire che quel vitello era morto, restava morto anche se lo lasciavi nel tuo piatto sminuzzato, e così sarebbe finito nella pattumiera. Doveva capitare proprio lì, fuori la neve, dentro il caldo, il legno, le tovaglie a quadri bianchi e rossi, in quell’albergo dove andavamo già da anni e per anni ancora saremmo andati, dove veniva a prendere le ordinazioni la giovane padrona dai lunghi capelli neri, capelli lunghi, tinti e leggermente cotonati perché quella era la moda anche in Tirolo, ma io non lo sapevo e la chiamavo Biancaneve. Doveva essere lei a portarmi il Wiener Schnitzel mit Pommes Frites con l’aggeggio per spremerci il limone conosciuto solo in Austria che aspettavo di ritrovare di anno in anno, così come aspettavo di rivedere la Biancaneve tirolese dai pantaloni a zampa d’elefante, dovevo avere le gote rosse e l’appetito di una bambina che era stata tutto il giorno all’aria aperta, e proprio allora, non so in che anno, ma in quel luogo, in quello spazio di tempo fra un boccone e l’altro avvenne, avvenne che avessi mangiato non importa se una mela, se avvelenata o colta da un albero proibito, o una cotoletta impanata, comunque l’avevo mandata giù e avevo perso l’innocenza. Tanto è l’ultima volta che la mangio, tanto ne ho già mangiata la metà, tanto è morto, tanto è morto il vitello, e allora meglio morto nella mia pancia che morto nella spazzatura, avrò pensato, almeno non è sprecato, almeno nella mia pancia finisce al caldo, è protetto, una parte di me, che vado matta per la cotoletta e amo i vitellini. Una cosa del genere non l’avevo mai pensata prima. 25


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