Cool war anteprima

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Noah Feldman

Cool war Stati Uniti e Cina Il futuro della competizione globale Traduzione di Matteo Vegetti


Sito & eStore – www.ilsaggiatore.com Twitter – twitter.com/ilSaggiatoreEd Facebook – www.facebook.com/ilSaggiatore © Noah Feldman, 2013 All rights reserved © il Saggiatore S.r.l., Milano 2014 Titolo originale: Cool War


Cool war a Penny e Roy Feldman



Sommario

Introduzione PRIMA PARTE Cool

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war

1. Indissolubilmente legati

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Interdipendenza 17; Cooperazione competitiva 19; Ascesa e ragione 22; La questione della storia 24

2. Destinati al conflitto

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Realismo e inevitabilità del conflitto 28; L’opzione di Taiwan 30; I vantaggi di un graduale rafforzamento militare 33; Interessi divergenti 36; Le prove 39; Nazionalismo e interesse nazionale 41

3. Una guerra di idee unilaterale

45

La pace e il problema dell’ideologia 46; Valori occidentali 49; La democrazia e i suoi limiti 52; Diritti umani 55

Conclusioni alla prima parte. Le contraddizioni della Cool war SECONDA PARTE Le

57

origini della condotta cinese

4. Uno sguardo sulla nuova Cina

63 L’ascesa di Bo Xilai 65; Le cose si mettono male 68; La morale della favola 72


5. L’élite permeabile della Cina

77

Transizioni 78; Vita e morte di un’élite 80; Verso un’élite permeabile 82; Il Partito comunista come élite permeabile 83; Partiti nel partito 86; Rotazione delle élite: ovvero come risolvere il problema delle transizioni 88

6. Legittimità senza democrazia

91

La vita breve e felice di un weibo 93; La stretta 95; Corruzione e stato di diritto 97

Conclusioni alla seconda parte. Governance e conflitto TERZA PARTE Competizione

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globale

7. La corsa alle alleanze

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Il potere Pacifico 106; La corsa alle risorse 110; Cattivi soggetti 112; Una lega democratica? 114; Interessi democratici 117

8. Gestire la guerra, costruire la pace

121

Ritorno al futuro 123; Ordine e commercio: il Wto in azione 125; Il punto di vista giuridico 128; Cercare la pace e prepararsi alla guerra 131

9. Cool war aziendale

135

Fare affari in tempi di Cool war 136; Nuovi rischi 140; Troppo grande per avere successo 141; Commercio: i ferri del mestiere 143; Il partito come azienda 145; Le multinazionali della Cool war 148

10. Il futuro dei diritti umani

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Diritti «freddi» 151; La Cina può cambiare? 155; I diritti dei consumatori 158; La legge aiuta? 160

Conclusione. Come andrà a finire?

163

Finali alternativi 165

Ringraziamenti

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Note

169

Indice analitico

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Introduzione

Siamo sull’orlo di una nuova Guerra fredda? Gli Stati Uniti sono l’unica superpotenza imperante, ma oggi sono sfidati dalla potenza in ascesa della Cina, proprio come l’antica Roma fu sfidata da Cartagine e la Gran Bretagna lo fu dalla Germania negli anni precedenti la Prima guerra mondiale. Dovremmo quindi pensare a Stati Uniti e Cina come un tempo pensavamo a Stati Uniti e Unione Sovietica, due gladiatori destinati a un combattimento sempre più globalizzato finché uno dei due non soccomberà? Oppure stiamo entrando in un nuovo periodo di cooperazione economica globale diversificata, in cui l’idea stessa di una datata, imperialistica politica di potenza è ormai obsoleta? Dovremmo considerare gli Stati Uniti e la Cina più simili alla Francia e alla Germania dopo la Seconda guerra mondiale, due avversari sufficientemente assennati da avvicinarsi in un ciclo di cooperazione sempre più stretto, che incorpori gli stati vicini e sostituisca lo scambio economico allo scontro geopolitico? Questo è il fondamentale interrogativo globale del momento storico, ancora senza nome, in cui ci troviamo. Che cosa succederà ora che gli impegni post-Guerra fredda dell’America in Iraq e Afghanistan hanno fatto il loro corso e che l’attenzione statunitense si è spostata sull’Asia? Gli Stati Uniti possono continuare a interagire con la Cina e al tempo stesso proteggersi in qualche modo dalla minaccia strategica che essa pone? La Cina può continuare a vedere negli Stati Uniti sia un modello da emulare, sia una barriera che le impedisce di occupare il posto che le spetta legittimamente sulla scena mondiale?


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La risposta è un paradosso: il paradosso della Cool war, la «Guerra fresca».* L’espressione Cool war mira a cogliere due sviluppi storici diversi e reciprocamente contraddittori che si stanno verificando in contemporanea. Proprio mentre la cooperazione economica diventa più profonda e indispensabile, si sta consumando una classica lotta per il potere. La situazione attuale è diversa dalle lotte di potere globali del passato. La più grande potenza del mondo e il suo principale antagonista sono economicamente interdipendenti a un livello mai raggiunto prima. La Cina ha bisogno che gli Stati Uniti continuino a comprare i suoi prodotti. Gli Stati Uniti hanno bisogno che la Cina continui a prestare loro denaro. I loro destini economici sono, per il prossimo futuro, intrecciati. Riconoscere la sovrapposizione fra conflitto geostrategico e interdipendenza economica è essenziale per capire il futuro che ci aspetta, e quali alternative abbiamo per incidervi. Questo libro è il frutto del lavoro che ho svolto nel primo decennio del xxi secolo sull’opposizione e sintesi di islam e democrazia. All’epoca la mia speranza era che una comprensione articolata dell’interazione fra queste idee e questi sistemi potesse aiutarci a ripensare la visione dominante dello scontro di civiltà. Nel secondo decennio di questo ancor giovane secolo, le grandi questioni del conflitto e della cooperazione sono cambiate. Oggi la leadership statunitense e la democrazia occidentale si giustappongono alle aspirazioni globali della Cina e al suo emergente sistema di governo proteiforme. Come in precedenza, il mio scopo è aggiungere complessità alle opinioni convenzionali prevalenti. La posta in gioco in questo dibattito non potrebbe essere più elevata. Da una parte si sostiene che gli Stati Uniti debbano accettare il declino o prepararsi a una guerra. Solo con la forza militare gli Stati Uniti potrebbero convincere la Cina che non vale la pena di mettere in discussione il loro status di unica superpotenza. Dare un’immagine di debolezza porterebbe all’instabilità e renderebbe la guerra ancora più probabile. Dall’altra parte si replica che cercare di arginare la Cina sarebbe la cosa * Salvo alcune eccezioni, si è preferito non tradurre l’espressione «Cool War»: «guerra fresca» non coglie la complessità semantica dell’originale. L’aggettivo «cool», infatti, oltre a corrispondere all’italiano «fresco», ha valore figurativo (una persona cool è distaccata, disinvolta), e nella lingua parlata ha il significato di «fantastico», «figo». [N.d.T.]


Introduzione  11

peggiore che gli Stati Uniti possano fare. Una spesa eccessiva per la difesa li renderebbe meno competitivi sul piano economico. Peggio ancora, incoraggerebbe la Cina a diventare essa stessa aggressiva, portando a una corsa agli armamenti che a sua volta aumenterebbe le probabilità di sviluppi violenti. Sarebbe molto meglio interagire politicamente ed economicamente con la Cina, incoraggiandola a condividere gli oneri dello status di superpotenza. Ciò che dobbiamo fare, io credo, è cambiare il modo in cui pensiamo e parliamo della relazione tra Stati Uniti e Cina; abbiamo bisogno di sviluppare un’alternativa alle immagini semplicistiche di un conflitto inevitabile o di un’utopistica cooperazione. Ci serve un modo per comprendere la nuova struttura, che si fonda sui precedenti storici, ma dobbiamo anche essere consapevoli di ciò che in questo caso rende la situazione diversa. Abbiamo bisogno di capire in quali settori gli Stati Uniti e la Cina possono vedere le cose allo stesso modo, e in quali non possono trovare un compromesso. Soprattutto, ci serve una strada da seguire per riuscire a scampare ai rischi concreti che ci attendono.1 Questo libro offre una diagnosi della situazione, un’analisi delle idee e degli incentivi che guidano la leadership della Cina e un resoconto di come probabilmente le nazioni, le grandi imprese e le istituzioni che operano per la pace reagiranno a un ordine mondiale in mutamento.2 Nella prima parte del volume, mostro come gli interessi degli Stati Uniti e della Cina coincidano spesso negli ambiti del commercio internazionale e dell’economia, ma continuino a divergere drasticamente quando si passa al potere geopolitico e all’ideologia. Questa situazione di cooperazione e conflitto simultanei ha bisogno di un nuovo nome – Cool war – che ne colga i tratti distintivi. Nella seconda parte del libro, offro un’interpretazione della leadership cinese. Non possiamo capire le dinamiche della Cool war senza una comprensione più raffinata del Partito comunista cinese. Non più ideologicamente comunista, la leadership è pragmatica e impegnata a salvaguardare la propria posizione di potere. Cerca di preservare la legittimità attraverso una crescita continua, transizioni fluide e una forma abbozzata di accountability (la responsabilità pubblica del governo nei confronti della popolazione). Punta a far fronte alle profonde divisioni interne fra «principini» privilegiati e «meritocrati» che si sono fatti da sé, attraverso un sistema ibrido che lascia spazio a entrambi i tipi di élite.


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Per finire, nella terza parte del volume mi occupo delle conseguenze dell’emergente Cool war. Valuto il significato della nuova situazione per i diversi paesi del mondo, per le istituzioni che mirano a mantenere la pace mediante la cooperazione internazionale, per le multinazionali che operano ovunque – e per il futuro dei diritti umani. Gli sbocchi di questa situazione saranno importanti. La complessa interazione fra Stati Uniti e Cina influirà sulla guerra e sulla pace a livello globale, e chiarirà se il sogno di una pacifica cooperazione internazionale – incarnato, seppure in maniera precaria, dall’Unione Europea – possa essere esteso a paesi che hanno meno cose in comune. Determinerà il futuro della democrazia come movimento globale, articolerà le strategie internazionali di potenze crescenti come l’India e il Brasile e orienterà i movimenti delle imprese e dei capitali. Influenzerà l’Onu, il futuro del diritto internazionale e i progressi o le regressioni nel campo dei diritti umani. Come già fece la Guerra fredda, questo nuovo tipo di interazione internazionale coinvolgerà tutti i paesi del mondo. Ove possibile, eviterò di parlare del popolo americano in prima persona plurale. Le idee qui espresse dovrebbero essere utili in Cina, in Occidente e altrove. Il rischio di un conflitto – che sia innescato dall’incomprensione reciproca dei leader o da un’esatta valutazione di interessi divergenti – deve essere preso sul serio.3 Ridurre i gravi rischi di conflitto globale sarebbe positivo per gli Stati Uniti, ma anche per la Cina e, più in generale, per il mondo intero. Lo scopo di questo libro è immaginare come possiamo farlo, prima che sia troppo tardi.


PRIMA PARTE Cool war



1. Indissolubilmente legati

Chi ha vinto la Guerra fredda? Da ormai vent’anni – quasi la metà della durata della guerra stessa – le democrazie occidentali danno per certo di averla vinta. Nel primo decennio seguente al crollo dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti e l’Europa hanno registrato una crescita significativa, in assenza del loro principale avversario strategico. Gli Stati Uniti hanno dato vita alla rivoluzione informatica. L’Europa ha incrementato la cooperazione al suo interno, unificato la propria valuta e incorporato i pezzi migliori dell’ex impero sovietico nell’Unione Europea. Esistevano solidi precedenti storici sia per la crescita che per l’unità: dopo la sconfitta di Napoleone a Waterloo la Gran Bretagna, principale vincitrice, aveva dato il via alla Rivoluzione industriale, e il Concerto europeo aveva rappresentato gli sforzi degli stati europei nel cooperare e gestire le questioni di sicurezza.1 Nel secondo decennio successivo alla Guerra fredda, però, sono avvenute due cose sorprendenti. La prima è che gli Stati Uniti, con la partecipazione europea, hanno invaso l’Afghanistan e l’Iraq, per poi spendere migliaia di miliardi di dollari, un capitale diplomatico enorme e la vita di migliaia di soldati nel tentativo di costruire in entrambi i paesi uno stato funzionante. L’esito è stato un successo molto parziale in un caso e qualcosa di molto simile a un fallimento nell’altro. La crisi economica iniziata verso la fine del decennio non è stata causata da queste disavventure, che però, nel complesso, hanno segnalato la possibilità di un declino imperialista.2 Nello stesso tempo la Cina, che era stata un attore secondario nella


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Guerra fredda, ha intensificato l’esperimento già avviato con riforme di mercato gestite dallo stato. Il risultato è stato una crescita economica prolungata di proporzioni sbalorditive. La Cina è divenuta la seconda economia mondiale, superando il Giappone e tutti i singoli membri dell’Unione Europea. Il suo tasso di crescita è sceso dal 10 per cento o più registrato nel post-Guerra fredda a un dato più vicino al 7,5 per cento nel 2012, e rimane possibile un ulteriore rallentamento.3 Tuttavia, la Cina ha retto alla crisi finanziaria globale molto meglio degli Stati Uniti e dell’Europa. Autorevoli osservatori credono che l’economia cinese possa diventare la più grande del mondo nel giro di un decennio – o addirittura prima.4 Improvvisamente la certezza di una vittoria occidentale e democratica della Guerra fredda ha dovuto essere rivista. Al livello delle idee, il capitalismo ha effettivamente ottenuto una vittoria significativa. L’ideale comunista di un’economia totalmente svincolata dal mercato non ha più molti sostenitori al di fuori della Corea del Nord e forse di Cuba. Il Partito comunista cinese ha formalmente ammesso i capitalisti – definiti in modo da comprendere i proprietari di piccole imprese – tra i suoi membri. Lo stato cinese possiede tuttora enormi aziende e governa l’economia controllando le banche e regolamentando alcuni settori, ma la teoria di base secondo cui agisce è il capitalismo di mercato, non il comunismo e neppure il socialismo.5 La democrazia, però, non ha vinto nel modo in cui i suoi promotori avevano sperato.6 In Cina l’élite di governo rifiuta sia le elezioni che i diritti individuali, ed è riuscita a ottenere una rapida crescita e una legittimità di fatto in assenza di entrambe le cose. Dopo un esperimento di democrazia perlopiù fallito, la Russia è tornata a essere governata da un uomo forte. Gran parte della sua popolazione sembra accettare, e persino sposare, tali sviluppi, a dispetto di alcune proteste. Gli esperimenti statunitensi nella costruzione di nazioni democratiche in Afghanistan e Iraq hanno funzionato male, non per un intrinseco problema con l’islam ma per l’estrema difficoltà di instaurare la democrazia senza uno stato forte ed efficace nel preservare l’ordine. Le manifestazioni di massa per reclamare la fine dell’autocrazia hanno deposto i dittatori di Tunisia ed Egitto, ma la Primavera araba ha incontrato diversi ostacoli. Nel frattempo, la posizione degli Stati Uniti appare molto più debole di quanto avrebbe dovuto se davvero avessero definitivamente vinto la Guer-


1. Indissolubilmente legati   17

ra fredda. La Pax britannica durò dal 1815 al 1914, prima che l’ascesa della Germania portasse il secolo del dominio britannico a un’atroce conclusione. Nel 2013, invece, l’ascesa della Cina ha fatto sì che la posizione degli Stati Uniti come unica superpotenza globale apparisse fragile. Si può dire che gli Stati Uniti si siano spinti troppo in là, come fece la Gran Bretagna nel xix secolo.7 La dura realtà è che, parallelamente alla straordinaria ascesa della Cina, l’economia statunitense è cresciuta piano o per nulla, al punto che nel 2012 una crescita annua del 2 per cento sarebbe stata considerata un successo. L’ascesa cinese – e il relativo declino degli Stati Uniti – prepara il terreno per la possibilità che la vera vincitrice della Guerra fredda si riveli proprio la Cina. A differenza di Michail Gorbačëv, Deng Xiaoping respinse ogni glasnost e insistette per mantenere il dominio del partito. 8 E a differenza dell’Unione Sovietica, la Cina ha abbandonato l’ideologia comunista in tempo per evitare il crollo. L’emergente stato capitalista a direzione partitica oggi è pronto a prendere il suo posto come superpotenza globale paragonabile agli Stati Uniti.

Interdipendenza Eppure, si può sostenere in modo convincente che, malgrado la sua ascesa economica, la Cina non cercherà di mettere in discussione la posizione degli Stati Uniti come massimo leader globale. L’argomentazione parte dal fatto che la spettacolare crescita della Cina non si è verificata in un contesto isolato. Al contrario, la Cina ha ottenuto gran parte di questa crescita attraverso le esportazioni verso gli Stati Uniti e altre economie di consumo. Oggi il commercio internazionale rappresenta la metà del Pil cinese, con le esportazioni che prevalgono nettamente sulle importazioni. Gli Stati Uniti da soli incidono pressappoco per il 25 per cento sulle vendite della Cina.9 Gli scambi totali fra i due paesi ammontano alla sbalorditiva somma di 500 miliardi di dollari l’anno.10 I legami economici fra Stati Uniti e Cina vanno al di là dei trasferimenti di merci. Gli Stati Uniti, una nazione debitrice, dipendono dalla Cina come maggior acquirente dei propri titoli di stato. Il governo cinese detiene circa 1200 miliardi di dollari in buoni del Tesoro statunitense, l’8 per cento


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del totale in circolazione. Solo la Federal Reserve e il Social Security Trust Fund, entrambi organismi governativi, ne possiedono di più; tutte le famiglie statunitensi messe insieme ne hanno di meno.11 Questo profondo grado di interdipendenza economica riflette le realtà geostrategiche del mondo post-Guerra fredda, nel quale gli Stati Uniti si sono assunti la responsabilità di garantire la stabilità globale e proteggere le acque internazionali. Nel quadro di un mondo sufficientemente sicuro per il commercio internazionale, Cina e Stati Uniti hanno iniziato a interagire su scala sempre più vasta. Oggi i due paesi e i loro cittadini cooperano non solo nel sistema internazionale, ma all’interno di un’ampia e sempre rinnovata gamma di interazioni economiche e culturali. In base ai calcoli più recenti, 194mila studenti cinesi frequentano università statunitensi e ottengono successi a ogni livello, dall’educazione universitaria di base ai più avanzati corsi di dottorato e contratti di ricerca postdottorato, specialmente nel campo della scienza, della tecnologia, dell’ingegneria e della matematica.12 Circa 70mila americani vivono, studiano e lavorano nella Cina continentale.13 Gli architetti formati negli Stati Uniti si sono avvantaggiati del boom edilizio cinese e oggi progettano in Cina migliaia di importanti edifici, che non potrebbero essere costruiti in nessun altro paese, nelle attuali circostanze economiche. Imprese americane e cinesi investono le une nelle altre quotidianamente, per un valore di molti miliardi di dollari. Qui non ci troviamo nell’ambito della diplomazia del ping-pong; ci troviamo nel mondo della partnership economica e culturale. Questi numerosi progetti cooperativi richiedono fiducia, credibilità e impegno – tre elementi che non sussistevano tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Durante la Guerra fredda, gli unici ambiti di significativa cooperazione tra gli antagonisti erano la salvaguardia di un sistema internazionale studiato per gestire la loro rivalità e il loro implicito (seppur instabile) patto di non aggressione. Anche all’apice del disgelo, la cooperazione si incentrava sulla riduzione delle probabilità di un conflitto nucleare e sul riconoscimento di confini stabili. Sotto ogni altro aspetto le parti erano implacabilmente contrapposte.14 Un’importante ragione della relativa assenza di cooperazione durante la Guerra fredda fu che gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica avevano scambi commerciali pressoché inesistenti. Per ciascuna delle parti, migliorare lo status economico dell’altra avrebbe significato indebolire la propria


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posizione relativa. Il blocco occidentale e quello orientale erano divisi dai confini e dall’ideologia, ma anche dall’economia. Né gli americani né i sovietici (e nessun altro) potevano essere sicuri dell’accesso ai mercati di tutto il mondo. Gli Stati Uniti e la Cina, invece, cooperano costantemente per agevolare la loro relazione economica che avvantaggia entrambi. Lavorare insieme è l’unica strada da seguire per un mondo interdipendente fondato sugli scambi internazionali. Un produttore deve preoccuparsi della salute dei suoi clienti. Un debitore deve preoccuparsi dello stato dei suoi creditori, almeno finché ha la speranza di continuare a ottenere prestiti. Più scambi si fanno, più profonda è la cooperazione che occorre. Se, per esempio, gli Stati Uniti vogliono vendere in Cina prodotti basati sulla proprietà intellettuale – film, videogiochi, programmi informatici e farmaci – hanno bisogno della cooperazione della Cina per evitare furti sistematici.15 Se la Cina vuole investire in società americane, deve avere la garanzia che sarà trattata allo stesso modo di qualsiasi altro investitore.

Cooperazione competitiva Potrebbe sembrare bizzarro descrivere la relazione economica fra Stati Uniti e Cina come essenzialmente improntata alla cooperazione. Dopotutto, aziende americane e cinesi si fanno un’aspra concorrenza negli affari. Le due nazioni competono per attrarre investimenti e creare nuovi posti di lavoro. In entrambi i paesi, la retorica dei politici suggerisce spesso la metafora della guerra economica, con ciascuna delle parti che cerca di battere l’altra. Le origini dell’idea per cui la concorrenza economica può essere considerata una forma di cooperazione risalgono all’osservazione che non necessariamente, per la crescita economica di alcuni paesi, occorre ridurre la ricchezza di altri. Come scrisse il filosofo David Hume 250 anni fa, la «gelosia del commercio» è profondamente infondata. Io non dovrei preoccuparmi se un’altra nazione si arricchisce. «L’aumento delle ricchezze e del commercio, in qualunque nazione, invece d’impedire, promuove generalmente le ricchezze e il traffico in tutti i vicini.»16 La concorrenza economica può far arricchire tutti quanti.


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In questo senso, le nazioni che partecipano alla rete internazionale del commercio si fanno effettivamente concorrenza, ma in un contesto di cooperazione collettiva che porta benefici a tutti. Secondo la definizione di buon affare liberamente scelto, facendo lo scambio ogni parte guadagna più di quanto otterrebbe in caso contrario. Per di più, alcune delle regole fondamentali del commercio, per poter sussistere, richiedono un accordo: le parti devono accordarsi su una valuta, e devono fidarsi l’una dell’altra per i pagamenti. I partecipanti a un sistema di commercio internazionale possono dunque essere paragonati ai cittadini di una stessa nazione. Competono tra loro per arricchirsi, ma nello stesso tempo cooperano congiuntamente in una governance che li fa stare tutti meglio di quanto starebbero in sua assenza. Questa relazione stretta e interdipendente fa sì che una guerra tra i partecipanti appaia improbabile, in quanto illogica. Se una nazione creditrice attaccasse una nazione debitrice annienterebbe il valore dei suoi stessi asset. Invadere i partner commerciali comporterebbe la cessazione degli scambi fino alla conclusione della guerra, e oltre. Tale osservazione fu resa famosa per la prima volta da un giornalista britannico di nome Norman Angell, che nel 1909 pubblicò La grande illusione, un libro enormemente popolare e ampiamente letto, in cui sosteneva che la corsa agli armamenti fra Gran Bretagna e Germania fosse la conseguenza di un errore fondamentale.17 Ciascuna parte sembrava convinta che il successo economico dipendesse dal dominio militare. Ma il potere economico moderno scaturiva invece da un sistema capitalistico basato sul credito. In un mondo incentrato sul debito, conquistare un altro paese era inutile, perché la ricchezza del paese assoggettato sarebbe evaporata nel momento stesso della conquista. La Prima guerra mondiale scoppiò malgrado le insistenze di Angell sulla sua irrazionalità, e la tesi del giornalista sembrò ormai screditata. Fu però riesumata negli anni settanta in una forma più sofisticata da studiosi liberali di politica estera, per i quali l’interdipendenza economica, le istituzioni internazionali e la democratizzazione possono ridurre nettamente le probabilità di guerra.18 La prova più convincente degli internazionalisti liberali è l’Unione Europea, che ha portato la pace (e, per la maggior parte del tempo, la prosperità) in paesi che erano stati eterni nemici durante la Seconda guerra mondiale e per centinaia di anni prima di essa. L’Unione


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Europea ha realizzato il suo miracolo incrementando gradualmente i reciproci legami economici tra i suoi membri, al contempo integrandoli sempre più profondamente in una serie di istituzioni giuridiche e governative. Uno dei motivi per cui oggi è così difficile immaginare una guerra tra Gran Bretagna, Francia e Germania è che tutti hanno troppo da perdere in termini di prosperità collettiva. Una cruciale lezione internazionalista del periodo seguente alla Seconda guerra mondiale è che le grandi potenze economiche non diventano inevitabilmente grandi potenze militari. Prima della guerra, sia la Germania che il Giappone erano cresciuti rapidamente ed erano diventati attori globali di primo piano. Dopo averli sconfitti, gli Stati Uniti (con il tacito assenso dell’Unione Sovietica) imposero a entrambi la non militarizzazione. L’idea era che anche se fossero diventati avversari economici non sarebbero mai più stati in grado di rappresentare degli avversari strategici. Ha funzionato. Divenuta parte integrante dell’Unione Europea, la Germania è tornata gradualmente a una posizione economica regionale dominante, ma senza le aspirazioni espansionistiche che ne avevano accompagnato l’ascesa come stato-nazione. Anche dopo la riunificazione, la Germania ha mantenuto l’impegno per l’ideale pacifico di un progetto europeo. Si è focalizzata sulla ricchezza, non sulla forza militare. Anche nel Giappone del dopoguerra, la rapida crescita economica ebbe luogo senza che a ciò corrispondesse un impulso verso il dominio. Quando l’economia giapponese stava raggiungendo il suo zenit, negli anni ottanta del xx secolo, sollevò preoccupazioni nazionaliste negli Stati Uniti per l’eventualità che aziende giapponesi comprassero imprese americane. Ma nessuno temeva seriamente che il Giappone stesse per riemergere come rivale interessato a creare un nuovo impero militare. A dispetto (o forse proprio a causa) del recente passato imperiale nipponico, a oggi in Giappone non è stata compiuta alcuna mossa significativa per trasformare il paese in una potenza globale armata.19 Nessuno di questi due casi di successo post-Seconda guerra mondiale sarebbe stato possibile, senza l’egida della protezione militare statunitense durante la Guerra fredda.20 Contribuì, inoltre, il fatto che nessuno dei due paesi avrebbe potuto avviare un rafforzamento militare senza che gli Stati Uniti lo stroncassero. Come potenze dell’Asse, avevano provato a percorrere la via del dominio globale ed erano state sconfitte. Eppure, nell’ambito


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di questo nuovo contesto demilitarizzato, la Germania e il Giappone perseguirono strategie razionali basate sulla crescita economica senza ambizioni geostrategiche. Quando non ebbero più la possibilità di essere attori militari importanti, i loro interessi di lungo termine non li costrinsero più a cercare di diventarlo.

Ascesa e ragione La Cina odierna è come la Germania o il Giappone della ricostruzione, una potenza economica in ascesa senza alcuna ragione particolare per perseguire una supremazia militare e rischiare un conflitto con gli Stati Uniti? Il Brasile, la Russia e l’India, gli altri paesi in rapida crescita del gruppo dei cosiddetti Bric, sembrano corrispondere a questa descrizione. Il Brasile non ha una tradizione di ambizioni militari globali, e la sua posizione geografica gli offre l’opportunità di una leadership continentale, ma non molto di più. Per giunta, nel 2011 e 2012 la sua crescita ha rallentato notevolmente di più rispetto a quella degli altri Bric. Le infrastrutture deteriorate della Russia, la sua corruzione dilagante e, non ultimo, il suo status di superpotenza sconfitta ne ostacolano il ritorno a una posizione anche lontanamente simile a quella precedente, nonostante il nazionalismo di Vladimir Putin e le armi nucleari che tuttora possiede. L’India, che occupa la maggior parte di un subcontinente, ha in effetti un passato di scontri con i vicini più importanti, compresa, nel 1962, la Cina. Il suo arsenale nucleare, principalmente puntato sul Pakistan, è un segnale del suo status di grande potenza. Eppure, a dispetto della sua impressionante crescita economica, rapida quasi quanto quella cinese, l’India è limitata dalla povertà, sia delle persone che delle infrastrutture. La democrazia conferisce stabilità e apporta altri benefici rilevanti, ma di fatto può ostacolare lo sviluppo di grandi infrastrutture. Almeno in parte, è per questo che la crescita dell’India non è stata di tipo industriale. Trainata dalla tecnologia, non ha creato moltissimi nuovi posti di lavoro. In misura crescente, l’India ha una sofisticata élite globale seduta in cima a un insieme di infrastrutture che cadono a pezzi. Questa non è la ricetta giusta per diventare una superpotenza. Si potrebbe sostenere che anche la situazione della Cina sia pressoché


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analoga a quella della Germania e del Giappone del dopoguerra. Un’economia fondata sul commercio internazionale dipende dalla stabilità globale, che potrebbe essere interrotta da un tentativo cinese di diventare una forza militare. Alcuni raffinati analisti pensano che sarebbe strategicamente assurdo, per la Cina, provare a competere con il predominio militare americano cercando al contempo di far crescere la propria economia.21 Per di più, visto nell’ottica dell’interdipendenza economica, oggi un conflitto militare fra Stati Uniti e Cina apparirebbe irrazionale per entrambi quanto una guerra tra le potenze europee. A meno che la Cina non sviluppi un mercato interno di consumatori con un enorme potere d’acquisto, nessuno, al di fuori degli Stati Uniti, avrà un appetito altrettanto insaziabile per le sue merci. A meno che non incrementino largamente le proprie entrate o limitino i programmi di assistenza sociale, gli Stati Uniti avranno ancora bisogno di indebitarsi, il che significa che avranno bisogno di paesi ricchi di liquidità, come la Cina, che prestino loro il denaro. Con 136mila dollari di debito per famiglia e un rapporto di uno a uno tra debito e Pil, agli Stati Uniti serve prendere in prestito denaro a buon mercato per mantenere in salute la loro economia. Stretti legami economici creano la possibilità di una guerra economica. Sarebbe straordinariamente costoso, per la Cina, se gli Stati Uniti chiudessero i loro mercati ai prodotti cinesi. Di fatto, se di punto in bianco la Cina perdesse un quarto delle sue entrate, il susseguente danno economico potrebbe destabilizzare il dominio del Partito comunista cinese. Per gli Stati Uniti, inoltre, sarebbe pericoloso se la Cina iniziasse a disfarsi dei suoi titoli di stato statunitensi. Nel frattempo la Cina perderebbe molti soldi, ma è plausibile che una simile perdita di fiducia nei buoni del Tesoro statunitensi renda più oneroso, per gli Stati Uniti, prendere soldi in prestito altrove. Anche se la guerra economica fosse parziale invece che totale, come in un conflitto commerciale limitato, le conseguenze negative sarebbero notevoli. Data l’intensità della loro interdipendenza, qualsiasi indebolimento delle relazioni economiche tra Stati Uniti e Cina potrebbe essere disastroso. Guerra commerciale, manipolazione dei mercati finanziari, escalation dei cyberattacchi economici: tutto ciò avrebbe una tremenda, seppur ignota, capacità distruttiva. La gravità di questi rischi e le incertezze che comporterebbero rendono improbabile che si materializzino davvero. I costi sarebbero così elevati


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che per molti tali possibilità sono pure fantasie, troppo autodistruttive perché accadano nel mondo reale. Proprio come la distruzione nucleare mutua assicurata contribuì a tenere sotto controllo il conflitto tra Stati Uniti e Unione Sovietica durante la Guerra fredda, recita l’argomentazione, la distruzione economica mutua assicurata – o almeno qualcosa di simile – dovrebbe tenere Stati Uniti e Cina lontani da una guerra economica diretta e su larga scala. Se nessuno è in grado di vincere una guerra, e se entrambe le parti lo sanno fin dall’inizio, è letteralmente folle combatterla. Per il futuro prossimo, la relazione economica fra Stati Uniti e Cina rimarrà quella di uno stretto abbraccio. Questo dà alla Cina una buona ragione per non cercare di diventare una superpotenza globale qualora tale tentativo incrementi i rischi di conflitto con gli Stati Uniti. Nel lungo periodo la Cina vorrebbe fare minor affidamento sulle esportazioni e diversificare la propria base di acquirenti, sia per aumentare la propria stabilità, sia per avere meno preoccupazioni riguardo ai costi di una potenziale guerra commerciale. Gli Stati Uniti preferirebbero che la proprietà del loro debito fosse meno concentrata, per evitare la leva finanziaria che può avere un unico creditore. Ma, per ora, entrambe le parti sono bloccate.22

La questione della storia In passato, stretti legami economici tra potenze in ascesa e dominanti non furono sempre sufficienti a prevenire conflitti fra loro.23 Le grandi potenze d’Europa ebbero vasti scambi commerciali negli anni precedenti la Prima guerra mondiale. Le loro economie erano profondamente interconnesse. La Germania, considerata dai britannici il potenziale avversario di maggior rilievo per la loro posizione globale, era un importante partner commerciale del Regno Unito.24 Eppure l’entità degli scambi tra la Germania e la Gran Bretagna imperialista era notevolmente inferiore a quella odierna tra Stati Uniti e Cina. L’economia tedesca non dipendeva dalle esportazioni. Quella britannica, trainata dalle esportazioni, aveva una base di compratori altamente diversificata, di cui la Germania costituiva solo una parte ben proporzionata.25 Le argomentazioni di Norman Angell in favore dell’irrazionalità di un conflitto si basavano su una molto più ampia interdipendenza econo-


1. Indissolubilmente legati   25

mica globale piuttosto che sulla reciproca dipendenza dei due contendenti cruciali. Proprio in quest’epoca, gli Stati Uniti, altra potenza in ascesa, commerciavano con la Gran Bretagna su una scala paragonabile a quella attuale tra Stati Uniti e Cina. Tra il 1885 e il 1895 gli Stati Uniti inviavano circa metà delle loro esportazioni in Gran Bretagna. Nei vent’anni successivi la proporzione diminuì, ma rimase di circa un quarto alla vigilia della Prima guerra mondiale, e si mantenne stabile negli anni del conflitto. La Gran Bretagna, dal canto suo, esportava tra il 10 e il 15 per cento dei suoi prodotti negli Stati Uniti, nello stesso periodo precedente alla Prima guerra mondiale.26 È un po’ sconcertante che all’epoca (e in nessun’altra epoca, a dire il vero) l’Impero britannico non abbia visto negli Stati Uniti la minaccia strategica più significativa, l’impero che alla fine l’avrebbe superato.27 Ma gli Stati Uniti non stavano turbando l’equilibrio di potenza europeo come stava facendo la Germania. Le loro sfere d’influenza in espansione si trovavano nel Pacifico e in America Latina, dove le ambizioni imperaliste della Gran Bretagna erano piuttosto esigue.28 Di fatto, nell’epoca moderna gli Stati Uniti non combatterono alcuna guerra contro il Regno Unito. Presero le parti britanniche in entrambe le guerre mondiali ed ereditarono la posizione di superpotenza globale solo dopo che l’Impero ebbe subito gravi danni a seguito di quelle guerre. Non c’era inoltre alcuna profonda divisione ideologica fra Stati Uniti e Regno Unito, due democrazie liberali votate al capitalismo e al libero scambio. Semmai, gli imperialisti britannici vedevano il potenziale impero americano come una sorta di appendice del proprio, che faceva risparmiare loro i costi associati a un’ulteriore espansione. Quando nel 1898 gli Stati Uniti conquistarono le Filippine, Guam e Porto Rico nella guerra ispano-americana, la Gran Bretagna fu l’unica tra le potenze europee ad appoggiarli. Rudyard Kipling rispose l’anno successivo con il suo famoso poema, Il fardello dell’uomo bianco, che (a meno che non sia letto in chiave ironica) elogiava il ritrovato imperialismo statunitense nel Pacifico.29 Economicamente, l’attuale relazione tra Stati Uniti e Cina è ancora più intensa di quella che esisteva tra Stati Uniti e Regno Unito. Tipicamente i governi delle epoche precedenti non possedevano i debiti di altri stati sovrani. Le banche centrali degli Stati Uniti e della Gran Bretagna deteneva-


26   Cool war

no raramente titoli di stato l’una dell’altra. L’idea di un fondo sovrano che cercasse al contempo di realizzare guadagni sul mercato dei capitali e di promuovere gli interessi nazionali dei suoi detentori era ancora ben lontana dall’affermarsi.30 Da molto tempo i detentori esteri di titoli di stato influenzano i governi, facendo pressioni in favore di riforme fiscali e costituzionali. Si potrebbe scrivere una storia delle modifiche costituzionali alla luce delle pressioni e degli incentivi dei mercati. Ma il possesso del debito di un paese da parte di cittadini esteri è diverso dal possesso da parte di un governo estero di un’alta percentuale dei titoli di stato in circolazione. L’interdipendenza tra nazioni si approfondisce molto di più quando il detentore dei titoli non è un banchiere privato, ma un governo che non può permettersi che lo stato debitore vada in default. E l’influenza che il detentore di titoli potrebbe esercitare sul paese creditore è in proporzione molto più significativa. In sostanza, dunque, la tesi secondo cui Stati Uniti e Cina non si vedranno coinvolti in un conflitto militare per il potere globale dipende da una realtà storica elementare: mai prima d’ora la potenza mondiale dominante ha registrato un così alto grado di interdipendenza economica con il rivale in ascesa che deve affrontare. In queste condizioni, il commercio internazionale e il debito forniscono schiaccianti incentivi economici per evitare un conflitto che sarebbe costoso per tutti. Nel tempo i reciproci interessi delle due nazioni avranno più peso di qualunque tensione sorga tra loro. Ogni altro sviluppo sarebbe semplicemente irrazionale. Se solo il mondo fosse semplice…


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