Cosa grigia

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Giacomo Di Girolamo

Cosa Grigia Una nuova mafia invisibile all’assalto dell’Italia


Per contattare l’autore: giacomo@ilvolatore.it

www.ilsaggiatore.com (sito & eStore) Twitter @ilSaggiatoreEd Facebook il Saggiatore editore Š il Saggiatore S.p.A., Milano 2012


Cosa Grigia A Serena e Adele



Sommario

Introduzione

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1. Alla luce del sole grigio

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2. Tutte le sfumature del grigio

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3. La politica grigia

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4. Profondo grigio, profondo Nord

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5. L’umore grigio dell’antimafia

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Le palme. Il punteruolo

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Ringraziamenti

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Note

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Bibliografia, fonti e documentazione

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Indice dei nomi

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La vostra prova scritta deve presentare una tesi. Una tesi è un’affermazione che fate voi. La vostra prova consiste nel dichiarare, spiegare e sostenere adeguatamente la vostra tesi, che, oltretutto, deve risultare interessante. David Foster Wallace Abbiamo ottenuto tutto, ma la mia impressione è che quello che abbiamo ottenuto è una parodia di quello che avevamo sognato. Krzysztof Kieślowski Persino il Padreterno, da così lontano guardando quell’inferno dovrà benedire quel che non ha governo né mai ce l’avrà quel che non ha vergogna né mai ce l’avrà quel che non ha giudizio... Chico Buarque de Hollanda



Post-it del giardiniere per mia madre: Professoressa, attenzione a questo insetto nuovo: il punteruolo. Si infila nella palma, succhia la linfa e la pianta muore. Mi chiami.

Il post-it era appeso alla porta sul retro di casa. Ăˆ caduto. L’ho ritrovato stropicciato e sporco, a terra, dopo un mese. Le palme erano giĂ morte da un pezzo.



Introduzione

La mafia non esiste. Esistono i libri sulla mafia, certo. Esiste la Sicilia. Esistono i criminali e i carabinieri che li inseguono. Ma la mafia non esiste. È stato un tormentone della mia infanzia: la mafia non esiste. Non bisogna averne paura, perché, semplicemente, non c’è. Ci dicevano. Ma quale mafia. È carattere. È l’orgoglio della sicilianità. Ma quale mafia. È la ribellione dei meridionali alle violenze vessatorie del Nord conquistatore. Lo diceva anche lo storico Giuseppe Pitrè: la mafia non esiste.1 Ma Pitrè non era uno storico, era un medico. Meglio, era più preciso: «La mafia è la coscienza del proprio essere […] l’insofferenza della prepotenza altrui». Etimologia della parola mafia: deriva dal siciliano antico, significa «bellezza», «orgoglio». Mafiusu è un uomo di coraggio. Mafiuseddra è una ragazza «bella e fiera». Oppure è una sigla che ha origini nel Risorgimento: mafia come acronimo di Mazzini Autorizza Furti Incendi Avvelenamenti.2 Etimologia della parola omertà: significa uomo «che virilmente risponde da sé alle offese senza ricorrere alla giustizia statale».3


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La mafia non esiste, è una fratellanza. Di certo non un’associazione criminale. Ma quale mafia. Per la Chiesa è «una congiura per disonorare la Sicilia».4 Sono tre le disgrazie della Sicilia: la mafia, Danilo Dolci e Tomasi di Lampedusa. È un fenomeno naturale, ha a che fare con il folklore. Forse c’era una volta la mafia, poi venne il prefetto Mori, e la mafia grazie al fascismo sparì. Certo, c’è in Parlamento la Commissione Antimafia, ma non fu uno dei suoi primi presidenti a dire che «la mafia altro non è che il retaggio della dominazione musulmana in Sicilia»?5 La mafia non esiste. Lo disse anche il sindaco di Trapani, Erasmo Garuccio, il giorno dopo la strage in cui, il 2 aprile del 1985, nella sua città, per un attentato fallito al giudice Carlo Palermo, avevano perso la vita la signora Barbara Rizzo, 30 anni, e i suoi due figli gemelli, Salvatore e Giuseppe Asta, 6 anni. Li stava accompagnando a scuola. La mafia non esiste, disse quel sindaco che di mestiere faceva il maestro elementare. Persone presenti al primo anniversario della strage di Pizzolungo: centocinquanta. Persone presenti al secondo anniversario: quindici. La mafia non esiste. È una costruzione intellettuale dell’antimafia. «Perché c’è la mafia?» «Perché c’è l’antimafia». Me lo disse anche un’insegnante, una volta: non si deve parlare di mafia. Se no i ragazzini si montano la testa. I ragazzini eravamo noi. Nelle nostre scuole si faceva di tutto: si scrivevano articoli sull’importanza del volontariato, si adottavano a distanza, con eguale trasporto emotivo, bambini del Sud del mondo e balene dei mari del Nord. Ci impegnavamo strenuamente per la difesa dell’ambiente. La raccolta della carta, mi ricordo, ogni giovedì. Passava una bidella con un sacco di iuta dove noi dovevamo mettere tutta la nostra carta straccia, i giornaletti vecchi, i fogli scarabocchiati e inutilizzabili. La signora stava lì, sull’uscio dell’aula, immobile, le unghie lunghe e laccate, una santabarbara di finta gioielleria addosso. E quel sacco marrone, aperto, affamato. Noi a fare la fila. Una volta non avevo niente da gettare. «E tu, non hai carta da dare?» mi rimpro-


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verò la bidella. Staccai delicatamente un foglio bianco e ruvido dall’album, lo appallottolai, e lo misi nel sacco. Ecco. Il mio contributo per l’ambiente. Sapevamo tutto di Chernobyl, noi bambini siciliani della seconda metà degli anni ottanta. Sembrava che l’avessimo sopra la nostra testa, quella nuvola radioattiva. E sapevamo tutto delle piogge acide e delle foglie di lattuga da lavare per bene, latte e formaggi meglio evitarli, e facevamo le gite a Selinunte quando si stava fuori un giorno, o a Taormina per i primi eccitanti pernottamenti fuori casa. Ma la mafia no. Di mafia neanche a parlarne. Ogni tanto arrivava l’eco di qualche omicidio di mafia, e il commento era sempre lo stesso: «Finché si ammazzano tra loro…». Qualche giornale entrava in classe, c’erano gli articoli su Cosa Nostra, il maxi processo, Buscetta. Ma noi non capivamo. E nessuno ci spiegava. Chiamavamo a scherno «Masino» un compagno di classe che una volta ci aveva fatto mettere una nota raccontando delle pallottole di carta, acqua e colla che lanciavamo di nascosto contro la lavagna. Poi esplosero le bombe. Quelle bombe. Meteoriti. Capaci, via d’Amelio e tutto il resto. E come in un big bang devastante e iniziale, quello fu il punto zero della nostra coscienza. Scoprimmo tutti la mafia, e i giudici, Falcone & Borsellino, come una premiata ditta. Imparammo i nomi degli agenti della scorta, come quando ero piccolo mio padre mi recitava quelli della grande Inter. Improvvisamente cominciammo a ricordare, di altre vittime, non solo giudici, di altre cose. Cominciammo a vedere, anche. Le cose che avevamo accanto e che prima chiamavamo con nome diverso. Dove eravamo stati. Cosa ci eravamo persi. La mafia esiste. E ce lo aveva già detto Sciascia, e lo avevano già scritto in tanti, inascoltati. Era come quella linea tra mare e cielo che chiamiamo orizzonte e che ci fa sempre paura guardare perché è ambigua, smarrita, ai nostri occhi. Imparammo a lavorare su ricordi che non avevamo. Per farli emergere, fuori da quella linea dell’orizzonte che era come una cataratta in fondo ai nostri occhi: sindacalisti vittime di mafia nel dopoguerra, giornalisti vittime di mafia negli anni settanta, politici vittime di mafia negli anni ottanta. La nostra isola era un cimitero accecato in un mare di luce. Questa luce che è una condanna.


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La mafia esiste, eccome. Ce lo ricordavano i funerali alla tv, i lenzuoli stesi ai balconi. Per un momento tutto ci fu chiaro. Vedemmo quant’era sottile l’orizzonte. Fiorirono primavere che appassirono in fretta. Ci fu una specie di scossa elettrica, di ribellione sincera, in tutta la Sicilia. E poi il Sud. L’Italia. Sembrò l’inizio di un tumulto da troppo tempo atteso. (Era invece un semplice singhiozzo. Quasi una sincope.) La mafia esiste. In Italia, per proibirla per legge ci sono voluti centoventi anni. Il reato di associazione mafiosa è stato introdotto solo nel 1982. La mafia è Cosa Nostra. Poi ci sono le altre mafie. La camorra, per dirne una. Lo scrittore francese Alexandre Dumas, di passaggio a Napoli al seguito dei Mille, la definì «un’associazione creata allo scopo di godere del lavoro altrui a profitto della pigrizia propria». Esistono i libri sulla mafia. Quelli c’erano già prima. Solo che ora li leggevamo avidi. A un certo punto divenne quasi obbligatorio leggerli, impararli a memoria. Esiste la mafia. Esistono le vittime. Esistono i giornalisti eroi che raccontano Cosa Nostra. Esistono i giudici che viaggiano in auto blindate. Etimologia della parola mafia: deriva dall’arabo, e significa «prepotenza». Esistono le tavole rotonde sulla mafia. Esiste Libera. E le Giornate della memoria e dell’impegno. Esiste la mafia. Ed esiste soprattutto l’antimafia. Ragione quotidiana di ogni siciliano che si rispetti. Scuola antimafia, lezioni antimafia, corsi antimafia, cineforum antimafia, cronaca antimafia fatta da giornalisti antimafia per lettori antimafia che si appellano ai giudici antimafia. A scuola passammo dai convegni su «I rifiuti: problema o risorsa?» a «Educare alla legalità». Il mio ultimo anno di liceo, nel 1994, è anche l’unico da rappresentante d’istituto e il primo della mia vita con Silvio Berlusconi presidente del Consiglio. Capita. È un autunno caldo, scendiamo in piazza anche noi, alunni dei licei della periferia dell’impero. «Perché scioperate?» mi chiede una giornalista con una videocamera al seguito durante un nostro sit-in


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in piazza. Già, perché? Io, davanti a un microfono con alle spalle i miei compagni d’istituto, che mi guardano come un oracolo. Io, che i compagni miei di lotta e di banco non li vedo, ma i loro sguardi li sento, e li sento implorarmi di dare una risposta che giustifichi tutti questi giorni senza andare a scuola. Io, che ne avrei di cose da dire, che mi prudono dentro, la condizione giovanile, la riforma della scuola che hanno spiegato alla tv, i miei che si stanno separando (sì, pure loro metterei nella mia studentesca agitazione). Io, balbetto qualcosa, poi mi fermo. Poi respiro e dico: «Perché c’è la mafia». È un boato. Divento subito popolare. Scalzo in studentesco prestigio un collega rappresentante – una specie di capopopolo – del più famoso Istituto commerciale che per tentare di guadagnare terreno afferra il microfono della giornalista e urla «Siamo stanchi di essere l’ultimo carro della ruota… volevo dire… l’ultima ruota del carro!». La mafia esiste. Ed esistono gli eroi dell’antimafia. Ogni giorno un’intitolazione, una cerimonia, un ricordo: piazza Falcone, viale Borsellino, via Falcone & Borsellino, Ospedale «Paolo Borsellino», Aeroporto «Falcone & Borsellino». Targhe, poster, lapidi. Alberi, giardini. Lacrime. Canzoni dell’antimafia, t-shirt dell’antimafia, concerti dell’antimafia. Gadget dell’antimafia Made in China. Spuntano pure i fumetti e i cartoni animati: Giovanni e Paolo e il mistero dei pupi, da proiettare nelle scuole elementari e medie.6 E i panini. Un tale vicino piazza Dante, a Palermo, ci fa i panini, con le vittime di mafia: Panino Falcone, con prosciutto e mozzarella e salsa rosa. Panino Saetta, con bacon. Panino Livatino, con salsiccia. La mafia esiste. Ha i suoi martiri. E i suoi santi. Per Paolo Borsellino è in corso una causa di beatificazione. C’è già un miracolo che pare avrebbe fatto. Lo raccontava un ex sindaco socialista di Marsala, la mia città, dove Borsellino fu procuratore capo. Enzo Genna, questo il nome del politico, ha raccontato che si ammalò di un grave tumore. I medici gli avevano dato pochi mesi di vita. Lui andava spesso a trovare l’amico procuratore in Tribunale: «Paolo Borsellino pregava sempre alla finestra, con un rosario in mano. Mi condusse lungo un cammino di fede». Nel marzo del 1991, Genna dice al giudice Paolo: «Sento il bisogno di cresimarmi». E lui: «Ti accompagno io». Dopo la morte del giudice, Genna fa un sogno: Borsel-


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lino al tramonto, che passeggia sul lungomare di Marsala. Qualche giorno dopo fa un nuovo check up per controllare il suo stato di salute: il tumore è miracolosamente scomparso.7 La mafia esiste. Ha uno Stato che la combatte. Che inventa il carcere duro con le luci in cella sempre accese, la sorveglianza continua, che crea la Direzione investigativa antimafia. Che inorridisce all’idea che qualcuno possa «trattare» con Cosa Nostra e che dà la caccia ai grandi latitanti e confisca loro i beni. Totò Riina, il capo dei capi, viene preso il 15 gennaio 1993 dopo più di trent’anni di latitanza. E pazienza se il covo non viene perquisito, se sembra quasi una messa in scena. Bernardo Provenzano, il suo alter ego, viene preso nel 2006. Lo cercavano da quarant’anni. Lì, a presidiare il covo, tra le pecore e l’abbeveratoio, arriva niente meno che la più popolare tra le giornaliste televisive del momento, Anna La Rosa, nel suo tailleur confetto. Perché la mafia è esplosa anche alla tv: nelle fiction, nei programmi di inchiesta, nei talk show dove i politici si rinfacciano l’un l’altro espressioni nuove come «connivenza» e «contiguità», dove i governi continuano a ripetere il numero degli arrestati, il valore dei beni confiscati. Comincia un conto alla rovescia: ne mancano trenta, di latitanti, ne mancano dieci. «Arrestiamo otto mafiosi al giorno» dice Berlusconi alla tv. Mizzica. Quando non ci arrivano i poliziotti, ci pensa la propaganda. A un certo punto si introduce una selezione più elitaria e rassicurante. I cinquecento latitanti più pericolosi della mafia diventano di colpo, nelle dichiarazioni ufficiali, i trenta più pericolosi. Non perché abbiano arrestato gli altri quattrocentosettanta. trenta è pur sempre un numero rispettabile, ma più confortante. Fa pensare a dei fuggiaschi. Cinquecento invece alimentava lo sgomento e faceva pensare a un esercito.8 Nei loro nascondigli vengono catturati i Lo Piccolo e Raccuglia, Francesco Schiavone, Antonio Iovine e Giuseppe Setola lo stragista, e tanti altri. Ogni volta è tutto un lampeggiare di flash e volanti, di poliziotti con le braccia in alto, di euforia. È come un tuono sotterraneo questa lotta alla mafia roboante. Un tappeto rosso di successi, di ministri che si compiacciono con i prefetti che dicono bravi ai signori questori che premiano i loro poliziotti.


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Si utilizzano gli esplosivi per fare saltare in aria i covi, gli aerei militari per rilevare il calore nelle tane, si ricostruiscono profili al computer, volti invisibili che invecchiano a suon di pixel. I migliori esperti vengono ingaggiati per decifrare i «pizzini», come se contenessero un codice segreto, quando spesso sono solo imbastiti di cattivo, primitivo, italiano. L’ultimo boss che hanno preso è Michele Zagaria, «Capastorta», il boss dei Casalesi. «Il tramonto di Gomorra» sarà il commento al suo arresto. È stato rovinato dallo champagne. Lui l’ordinava, e i poliziotti seguivano le bollicine. Da quell’esile traccia sono arrivati al suo bunker supertecnologico a cinquanta metri sottoterra, circondato dalle videocamere a circuito chiuso.9 Per farlo uscire gli hanno spento l’impianto di aerazione. Gli è mancata l’aria, è stato lui a dire agli agenti «liberatemi». Stessa sorte per Matteo Messina Denaro, l’ultimo davvero dei padrini. Verrà catturato presto, forse è già stato catturato e non lo sappiamo. È in trappola Messina Denaro. E, come lui, tutti gli altri padrini ancora in circolazione, e le confische dei beni ai mafiosi gli hanno levato l’aria. Lo senti quasi, il rantolo del prigioniero. Sentilo, come boccheggia. «Ha vinto lo Stato» ha detto Zagaria quando gli hanno messo le manette ai polsi. «Ha vinto lo Stato» ripetono in coro titoli dei tg, commentatori autorevoli, analisti. È cominciato un conto alla rovescia. Non c’è più un mafioso in giro neanche a pagarlo oro. È questione di giorni. Ogni giorno ci ripetono: è questione di giorni. Solo allora, potremo dire: la mafia non esiste. La mafia non esiste più. O forse è solo una parodia, come al teatrino dei pupi. E forse la mafia esiste, esiste ancora, solo che è diversa. Non ha più delle regioni di appartenenza, si è presa l’Italia tutta. Non ha più i padrini di una volta: sono stati fatti fuori per limiti di età. Puzzavano di crasto e vino cotto. Erano troppo legati ai riti, ai codicilli. Siamo noi, i Grigi. Siamo quelli che hanno in mano tutto.


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Noi siamo una cosa diversa. Il sottobosco che è diventato foresta, l’ombra che si è mangiata la luce. Siamo senza colore, ancora, e senza forma. Siamo Cosa Grigia. A noi serve qualcosa che parli una lingua nuova, che abbia più parole che pallottole. Tanti linguaggi, pochi colpi, quelli necessari. A noi serve pilotare le gare d’appalto con la leggerezza allegra di un’impunità certa, farci finanziare le nostre imprese da quella manna che sono gli aiuti di Stato o i soldi dell’Europa. A noi serve un salotto dove ricevere gente, e un servizio buono per i pranzi che vogliamo organizzare. Un corso veloce di inglese e una stretta di mano di quelle che facciano male. Noi non siamo un semplice ricambio generazionale, siamo una mutazione, l’evoluzione. Vi lasciamo il mito, la caccia alle streghe, la letteratura, le storie raccontate in cerchio per farvi sentire più coraggiosi. Ci prendiamo il resto. Ci prendiamo tutto. Noi parliamo la lingua dell’antimafia, perché ci conviene. Siamo dentro l’antiracket, perché ci guadagniamo. Non abbiamo politici su cui puntare come alle corse dei cavalli, perché ci siamo comprati il maneggio. Non abbiamo regole, perché siamo noi la regola. «Per non morire di mafia» è il vostro comandamento. Sapeste che vita state vivendo, invece… Vi arrabattate a polemizzare su sentenze, reati, ordinanze, vi accusate l’un l’altro. E vi dimenticate che nel frattempo è venuto crescendo un, come possiamo dire, contesto. E il contesto, come diceva Sciascia, è assai influente. Siamo il Paese che ha combattuto la mafia. Anche noi. La mafia fa schifo. Anche per noi. L’abbiamo masticata, divorata, ingoiata. Metabolizzata. E adesso la mafia siamo noi.


1. Alla luce del sole grigio

In punta di naso La mafia non esiste. Perché non la sentiamo più. In fondo è tutta una questione di naso. Sono state le nostre narici a decretare irreversibilmente la fine di Cosa Nostra. Prima non la sentivamo perché avevamo il naso chiuso. Ora le narici sono aperte. Ma non sentono più niente. Cosa Nostra faceva puzza. E che puzza. Di stalla, innanzitutto, di bestiame. Di formaggio stagionato male. Puzza di terra bagnata, a volte. Puzza di muffa e di chiuso. Lo riconoscevi subito, un mafioso. Non c’era bisogno di esami particolari. Bastava l’alito avvinato. L’aura di cavolo bollito che si portava dietro. Loro ci provavano, eccome se ci provavano, a vestirsi bene, a darsi un tono e un’aria, a mostrarsi urbani, cittadini del mondo. Ma rimanevano sempre provinciali, viddrani. La loro massima aspirazione agli occhi di chi li giudicava era quella di apparire come viddrani arrinisciuti, contadini che si sono fatti i soldi. Che poi erano imperi. Nessuno sospettava che, sotto quell’afrore di acqua di colonia alla zagara, ci fossero volti rasati freschi, custodi di miliardi di lire divisi in un’infinità di libretti postali, padroni di intere zone residenziali, proprietari di sale ricevimenti come di alberghi di lusso. Ci provavano. A vestire griffati, ad aumentare le firme addosso. Perché


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volevano essere considerati signori, ma non ci riuscivano. Ecco la maledizione del mafioso. Signori si nasce, d’altronde, come diceva Totò. E loro non lo nacquero. Mai. Si intestardivano allora con le regole di etichetta. Il primo insegnamento che il vecchio boss dava al figlio non era come si spara. Piuttosto, gli diceva: «Mi raccomando, mai scarpe marroni dopo le 18». Zagaria dava ai suoi ordini precisi: solo scarpe Samsonite e calzini di cachemire. Gli Schiavone usavano solo Hogan, e vietavano la gelatina nei capelli. Il narcotrafficante Cesare Pagano era soprannominato Paciotti per la sua passione per le scarpe fabbricate dal suo omonimo. Per non parlare della passione per i Rolex e i vestiti Armani di Matteo Messina Denaro. Tentavano di imparare qualche regola di pronuncia o di dizione, ma gli veniva la bocca smorfiosa, a culo di gallina. Dire ciao con un sorriso e non con uno sguardo, una taliata. Evitare di baciare tutti gli amici che si incontrano. Limitarsi a una stretta di mano. Ma l’odore non se ne andava. Pesavano, gli orologi d’oro ai polsi. Erano imbarazzanti le camicie Valentino, i pantaloni Trussardi. Facevano scena quando andavano in missione a Roma o a Milano per seguire un carico di droga o per organizzare un attentato, ed entravano nelle vie più lussuose a fare incetta di capi d’abbigliamento all’ultima moda. Venti, trenta milioni di lire a botta. Soldi in contanti. Ci provavano anche con le commesse, convinti che con i loro soldi e i loro vestiti nuovi potessero comprare anche quelle, e uscire dalla galleria della moda con il vestito addosso e la ragazza a fianco. Ma ridevano, e come se ridevano, le ragazze in tailleur alla cassa, golose solo dei loro soldi, e nulla più. A loro questa gente di provincia inverosimilmente ricca, inverosimilmente puzzolente e cafona faceva solo un po’ di tenerezza. Per quello che erano, e per quello che non sarebbero potuti diventare, mai. La mafia odora di becco, era la prima cosa che imparava un investigatore alle prime armi. Odora di becco, di montone, cioè, di pecorume, di stalla. Una puzza che non puoi scrollarti di dosso. Che ti entra nelle narici e non esce più. È anche per questo che a un certo punto lo Stato ha inventato il carcere duro, che costringe, tra le altre cose, il boss a partecipare ai processi che lo riguardano in videoconferenza, senza alcun contatto fisico con altre persone. Quando vedo un vecchio padrino dallo schermo del picco-


1. Alla luce del sole grigio  23

lo monitor di un’aula di giustizia penso proprio a questo. Li hanno messi dentro un televisore perché non si sentisse il loro odore.1� Ma oggi c’è una Cosa Grigia, che ha un altro odore. E che odore. Cera per mobili, per esempio. Parquet. E poi, profumi costosi. Interni in pelle. Cosa Nostra muore come Grenouille, il protagonista del romanzo di Süskind, Il profumo, l’uomo che sentiva tutti gli odori del mondo: muore con l’ossessione di fabbricare un profumo talmente sublime da far inginocchiare l’umanità intera ai suoi piedi. Ma Grenouille era anche l’uomo senza odore. Cosa Nostra no, Cosa Nostra puzza. E Cosa Nostra muore puzzando. Puzzando di macerie, di esplosivo. I mafiosi fanno esplodere l’Italia, ma si ritrovano sparuti come gattini ciechi in una nuvola sporca. Grigia. Al loro posto, adesso, c’è una Cosa nuova, che odora di buono. Odora di potere. Quando andiamo in uno studio notarile, o da un avvocatone, e c’è quell’odore, in sala d’attesa, come di suprema eleganza – parquet e librerie in radica di noce –, di un deodorante per ambienti costoso, di pulizie fresche e penetranti, di mobili pregiati tenuti sempre a lucido. Ecco, quell’odore lì. Oppure non ha odore. Ed è un guaio ancora peggiore. Nessun segno distintivo, qualcosa che ti aiuti, niente. Anzi, ha l’odore che ti porti addosso. Odore di grigio.

Senza padrini La zona grigia, quando si parla di mafia, è un concetto vecchissimo. La criminalità ha sempre vissuto di alleanze nell’ombra. Ha sempre parlato con professionisti, imprenditori, istituzioni. Già all’inizio del secolo scorso, lo storico Gaetano Mosca aveva parlato di una «mafia in guanti gialli», riferendosi ai complici che le mafie avevano nelle classi dominanti del Mezzogiorno. Si è poi coniata l’espressione di «borghesia mafiosa», quella più fashion dei «colletti bianchi». Per dirla con il procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso, l’area grigia è «fatta di intrecci inconfessabili e contiguità compiacenti». In altre parole, continua Grasso, «in ogni segmento professionale possiamo trovare persone pronte a fare da interfaccia tra Cosa Nostra e il mondo legale».


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Anche l’espressione di «imprenditore mafioso» ormai è datata, risale agli anni ottanta.2� Indica il trasferimento del metodo mafioso nell’organizzazione aziendale e nella conduzione degli affari di un’impresa. La novità, oggi, è che l’area grigia non è più una metafora suggestiva. È diventata una «cosa». Lo spazio opaco tra legale e illegale si è fatto sistema, ha propri meccanismi, regole, una sua autonomia alla quale devono sottostare anche gli stessi mafiosi. Non è più la mafia «infiltrata» nell’economia, come ci hanno raccontato i giornali per anni e anni. Cosa Grigia non costituisce più una componente dell’economia, ma la struttura portante del paese, che ha fatto propri e reso più sofisticati i metodi che una volta erano tipici della mafia. Se Cosa Nostra chiedeva le tangenti per fare vincere un appalto (e ancora lo fa, in alcune zone di confine oggi come nella mia terra, per esempio, questa Sicilia d’occidente, così ostinatamente antica anche nel suo modo di concepire la violenza), in Cosa Grigia tutto è deciso a monte, e ci si mette d’accordo ancora prima su «come» gestire un appalto. Tutto viene negoziato prima. Il caso più evidente di questo tipo di approcci è il corpo del reato più lungo del mondo, la Salerno - Reggio Calabria. Le grandi imprese che hanno vinto gli appalti hanno cercato un accordo con la criminalità prima di vincere la gara. Hanno mandato i loro inviati sul posto, come se dovessero girare un documentario per il National Geographic. Hanno chiesto informazioni, si sono fatti un’idea. Hanno parlato con le persone giuste. Hanno raggiunto una specie di «compromesso», prima dell’acquisto, che ha visto una negoziazione fatta a monte di quello che chiamiamo «pizzo», in un confronto tra pari. A Palermo in pochi pagano il pizzo. In pochissimi lo pretendono. Eppure un mercato-chiave, come quello dell’edilizia, è per l’unanimità degli osservatori completamente assoggettato al sistema mafioso. Come mai? Perché alle famiglie che controllavano i cantieri si sono sostituiti invece una serie di imprenditori con il loro stuolo di professionisti e consulenti, che ha conquistato il mercato e ha fatto proprio il metodo mafioso, controllando tutto, dalla vendita del terreno su cui edificare fino alla costruzione e alla gestione dei rifiuti. E tutto avviene alla luce del sole.3� La mafia viveva nel buio. Aveva necessità di nascondersi, di fare del segreto la sua regola chiave. «La migliore parola è quella che non si dice» era il motto di Cosa Nostra per invitare tutti al silenzio.


1. Alla luce del sole grigio  25

Cosa Grigia fa tutto alla luce del sole. La vecchia mafia aveva fretta. Una fretta dannata, di stomaco. Una fame antica, nata dalla povertà. «Cu mangia fa muddriche.» E Cosa Nostra lasciava dietro di sé i resti dei suoi appetiti voraci: cantieri distrutti, vite spezzate, rottami. Cosa Grigia ha invece ha l’appetito calmo dei benestanti. Affamata allo stesso modo, ma lenta, ordinata, composta, attenta alla forma. Non fa briciole. Non macchia la tovaglia con il sugo. Non è vorace. Nel loro tablet, i nuovi boss hanno il file preparato dagli studi professionali con l’elenco dei più importanti lavori in fase di progettazione in una determinata zona. E selezionano a monte quelli più appetibili, lasciando agli altri il gusto di scannarsi per le cose di poca importanza, le minuzzaglie. È una nuova mafia, la possiamo intendere anche come una specie di mutazione genetica, se vogliamo. Una mafia senza padrini. Perché i vecchi mafiosi non occupano in Cosa Grigia nessuna posizione dominante. Sono una specie di contorno, un complemento d’arredo, rispetto agli imprenditori, ai professionisti, ai funzionari della pubblica amministrazione che invece hanno in Cosa Grigia un ruolo di primo piano. Se fossero più giovani e presentabili potrebbero fare loro da portaborse, niente di più. Sono stati fatti fuori padrini e mandamenti, picciotti e capidecina, cosche e famiglie. Ci ha pensato lo Stato, ad arrestarli a uno a uno.4 Nessuno ha battuto ciglio. Il livello militare di Cosa Nostra è stato aggredito senza soste. I blitz delle forze dell’ordine hanno letteralmente smantellato le cosche. I boss mafiosi più importanti sono stati catturati. L’assenza di un vertice ha reso problematico il rapporto tra le famiglie e i mandamenti. A Palermo e negli altri grandi centri molti movimenti e diverse associazioni hanno condotto battaglie contro il racket che hanno avuto una risonanza straordinaria. I totem della mafia che fu si stanno lentamente spegnendo, nella più ingloriosa delle fini. Bernardo Provenzano e Totò Riina, i capi, sono in carcere. Il primo ha bisogno del pannolone per l’incontinenza, la faccia scavata dal tumore. Vive la sua malattia terminale nel silenzio del 41 bis, in una cella isolata con uno sgabello, un tavolino e dei medicinali. È talmente disperato che simula il suicidio per farsi notare.5� Riina non ha mai


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sentito il peso dei tredici ergastoli. Ora trema per il Parkinson, perché si accorge che lui e la cella che lo ospita sono ormai una cosa sola. Sono generali di un labirinto che ha come unica uscita la loro fine. Perché sanno che per loro non c’è più posto, gli amici tutti andati, i fantasmi e le loro strane facce le uniche compagnie. Anche se potessero uscire, tornare indietro di vent’anni ed essere di nuovo spietati, giovani e potenti, sarebbero a disagio, fuori posto. Come una barca nel bosco. Perché la nuova mafia non è più cosa loro. È diventato sistema il metodo mafioso, una «intelligenza collettiva» che rappresenta la nuova frontiera della criminalità organizzata.6 I nuovi capi di Cosa Grigia non sono al servizio della mafia, ma hanno la mafia al loro servizio. Riina e Provenzano oggi sarebbero gli utili idioti al servizio di qualcuno, di un’altra entità. Forse lo sono già stati e lo hanno capito troppo tardi. Non esiste più il bianco e il nero, con il grigio a fare da elemento di contorno. Esiste il grigio. Comanda sul nero, ne controlla le azioni, lo usa a suo vantaggio. Per dirla tutta, una tecnica molto utilizzata da Cosa Grigia è l’autoriciclaggio, cioè il riciclaggio di denaro posto in essere dallo stesso individuo che ha commesso quello che i penalisti chiamano il «reato presupposto». L’autoriciclaggio in Italia non è reato. Un boss, con i suoi modi grossolani, alla finezza dell’autoriciclaggio da solo non ci sarebbe mai arrivato. I vecchi padrini che ancora resistono si dedicano alle loro attività preferite: le estorsioni, gli appalti… E per il resto fanno i passacarte. Proprio così. Padrini di rango ridotti al ruolo di mediatori da due soldi, considerati più per il prestigio del cognome che portano che per il loro effettivo ruolo nel territorio. Prima l’imprenditore si rivolgeva al mafioso per fare un lavoro. Oggi l’imprenditore si rivolge al mafioso, ma per avere informazioni – come una specie di Tuttocittà – o per essere messo in contatto con un politico, che a sua volta lo mette in contatto con un burocrate… È per questo che tutti sono rimasti a bocca aperta quando è balzata agli onori delle cronache la figura di Giuseppe Liga, architetto palermitano. La sua carriera è il simbolo di Cosa Grigia: prima diventa consulente finanziario della potente cosca dei Lo Piccolo, ma quando questi vengono arrestati è lui stesso ad assumere la reggenza del mandamento della cosca.7� «Una specie di papa» lo definiscono i mafiosi. Ogni parrocchia ha un par-


1. Alla luce del sole grigio  27

roco e lui è il papa che gestisce tutte le parrocchie. «Io sono solo una vittima» si difende lui con un copione già noto, ma in realtà Liga passa con disinvoltura dalla reggenza del Movimento cristiano lavoratori a quella di una cosca. Nel maggio del 2012 a Palermo è stato condannato in primo grado a venti anni e sei mesi di carcere per associazione mafiosa e corruzione. Fa impressione la sua foto scattata dagli agenti che lo pedinavano mentre entra con disinvoltura a Palazzo d’Orleans, sede della Presidenza della Regione Siciliana. «Sono cresciuto insieme con il presidente Raffaele Lombardo» dichiara in un’intervista. È il primo non appartenente a Cosa Nostra, un incensurato, che guida quel che resta di un mandamento per portarne avanti gli affari, perché sa che dalle sorti della cosca dipendono anche le sue sorti e quelle degli altri gruppi che lui rappresenta. Un professionista, come tanti, esponente della nuova Cosa Grigia: non è semplicemente un colluso, Liga, ma è il rappresentante di una certa classe dirigente, è al vertice dell’organizzazione. Come possiamo definirlo? Forse un «neomafioso». Lo stesso che gestiva associazioni, centri di assistenza e patronati di area cattolica. Che conosce politici e vescovi. Che da giovane militante della Dc scrisse, all’indomani dell’uccisione di Dalla Chiesa a Palermo, nell’82, una lettera aperta su L’Ora, chiedendo «un profondo rinnovamento della classe politica». In qualche modo, c’è riuscito. È architetto pure Vincenzo Rizzacasa, uno degli imprenditori edili più noti a Palermo. Si occupa di ristrutturazioni immobiliari, soprattutto nel centro storico. Nel 2008 decide di aderire al movimento antiracket Addiopizzo, anche perché dice di aver fatto diverse denunce contro il racket. Ma in realtà Rizzacasa ha messo il suo nome e la sua azienda a disposizione degli imprenditori Sbeglia, famiglia di costruttori legata a doppio filo con la mafia.8 Erano proprio loro che gli avevano suggerito di aderire all’antimafia per allontanare ogni sospetto di collusione. Gli stessi Sbeglia avevano deciso di devolvere a Addiopizzo ottomila euro, frutto di un risarcimento ottenuto in una causa contro lo scrittore Andrea Camilleri. Come Rizzacasa, come Liga, in tanti si muovono tra il Veneto, la Liguria, la Lombardia, il Piemonte.9 Non sono boss. Non hanno volto, non hanno nomi noti alle cronache. Sono sconosciuti a tutti, anche agli inquirenti. Hanno dato a Cosa Grigia la forma dell’acqua, per l’aderenza perfetta a ogni tipo di contesto, la capacità di arrivare dovunque, una presenza impalpabile.


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