Eventi X

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John Casti

Eventi X Eventi estremi e il futuro della civiltĂ Traduzione di Silvio Ferraresi


www.saggiatore.it (sito & eStore) Twitter @ilSaggiatoreEd Facebook il Saggiatore editore © 2012 by John L. Casti © il Saggiatore S.p.A., Milano 2012 Titolo originale: X-Events. The Collapse of Everything­­


Eventi X



Sommario

Nota dell’autore

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Preambolo

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PARTE PRIMA. Perché PARTE SECONDA. I

normale non è più così «normale»

casi concreti

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Evento x #1. Tenebra digitale

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Evento x #2. Quando mangiamo?

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Evento x #3. Il giorno in cui l’elettronica smise di funzionare

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Evento x #4. Un nuovo disordine mondiale

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Evento x #5. La fine secondo i fisici

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Evento X #6. Spazzato via

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Evento x #7. Esaurire le scorte

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Evento x #8. Germi letali

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Evento x #9. Al buio e senz’acqua

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Evento x #10. La tecnologia in rivolta

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Evento x #11. La grande liquidazione

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PARTE TERZA. Ritorno

agli eventi x

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Note e voci bibliografiche

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Indice analitico

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Ai conoscitori delle cose che non sappiamo di non sapere



Nota dell’autore

Un rapido sguardo alla copertina del libro vi indurrà facilmente a pensare che questo sia l’ennesimo racconto di visioni catastrofiche, il racconto di apocalissi pronte a ghermire il genere umano e a riportare il nostro stile di vita a un’epoca preindustriale. Ma come spesso capita nella vita, a volte la prima impressione è ingannevole, quando non completamente errata. E così, questo non è un libro inteso a spaventarci a morte. È l’esatto contrario. Allora, se non è una visione di un mondo infernale che ci aspetta, di che cosa diavolo si tratta? Ebbene, il libro racconta una storia di possibilità, incredibilmente rare e sorprendenti, le quali potrebbero avere un impatto enorme sulla vita umana, e che ci illudiamo con ostinazione che «capiteranno agli altri». Nel linguaggio comune, queste possibilità sono in genere riassunte con l’espressione polivalente «eventi estremi». Io però preferisco eventi x. Il libro tratterà, perciò, di questi eventi anomali – outlier in gergo statistico – le sorprese complementari a quanto avviene nella regione che potremmo definire «normale». A un confronto, la regione degli eventi x è di gran lunga meno indagata scientificamente, per la ragione che gli elementi di questo regime – dall’impatto di asteroidi, al tracollo dei mercati finanziari, agli attacchi nucleari – sono per loro natura rari e sorprendenti. La scienza si occupa perlopiù di fenomeni ripetibili, e gli eventi x cadono al di fuori di questa categoria. È una delle ragioni per cui non esiste una teoria accettabile che preveda quando, come e perché essi accadranno. Se non altro, il libro è un’e-


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sortazione a sviluppare questa teoria, che potremmo definire «teoria della sorpresa». Gli eventi x causati dall’uomo – per i quali, cioè, responsabile non è la natura – sono il risultato della scarsissima comprensione della enorme complessità dei sistemi umani. Gli eventi x – una rivoluzione politica, ma anche il crollo di internet o di una civiltà – sono la via seguita dalla natura umana per ridurre un sovraccarico di complessità diventato insostenibile. Ciascuna delle tre parti del libro intende fare luce sui seguenti interrogativi: -- Perché accadono gli eventi x? -- Perché gli eventi x sono più frequenti oggi che in passato? -- Quale impatto avrà un certo evento x sulla nostra vita quotidiana? -- Come possiamo prevedere quando l’eventualità di un evento x è salita a un livello di guardia? -- Quando possiamo fare qualcosa per impedire un evento x e quando solo prepararci a sopravvivergli? La risposta a ciascuna delle domande è a suo modo collegata ai livelli esponenzialmente crescenti di complessità necessaria per gestire e conservare le infrastrutture essenziali della vita moderna. Questo fatto sarà il filo conduttore del libro. Eventi X è un libro di concetti e di idee. Affinché queste pagine siano più accessibili al lettore comune, ho evitato di inserire formule, diagrammi, equazioni, grafici o termini specialistici. Con l’eccezione di un unico grafico! Il libro è sostanzialmente la raccolta di storie collegate, le quali sostengono la tesi che la complessità può uccidere, e che non mancherà di farlo se sfuggirà al nostro controllo. Concluso un libro, qualsiasi libro, la parte più gratificante è ringraziare le molte persone che hanno contribuito a farlo nascere. Ho goduto, a riguardo, più di altri del vantaggio di molti lettori «beta»,1 che con generosità instancabile hanno dedicato il loro tempo per farne un libro migliore, più di quanto io avessi diritto di aspettarmi. Sono perciò lieto di riconoscere il loro impegno, qui sulla pagina scritta, e di ringraziarli pubblicamente per la loro generosità e il giudizio obiettivo. Senza seguire un ordine particolare, i miei complimenti vanno a Olav Ruud, Brian Fath,


Nota dell’autore  13

Leena Ilmola, Jo-Ann Polise, Helmut Kroiss, Rex Cumming e a Timo Hämäläinen per le idee, i suggerimenti e i contributi a uno o a più capitoli. Rivolgo poi un ringraziamento speciale ai miei lettori più fedeli Trudy Draper e Zac Bharucha, che hanno letto ogni riga di ogni capitolo e si sono prodigati nell’interesse del lettore. Qualsiasi punto oscuro sia rimasto nel testo, è ancora lì nonostante i loro sforzi per indurmi a scioglierlo. Infine, il mio editore, Peter Hubbard, caporedattore alla William Morrow/ HarperCollins, che con la sua necessaria intransigenza mi ha costretto a scrivere e riscrivere brano dopo brano finché tutto non quadrava. Senza il suo entusiasmo e il suo incessante sostegno, il libro non sarebbe mai venuto alla luce. John Casti Vienna, novembre 2011



Preambolo. Introdurre la x negli eventi

La trappola della complessità All’inizio del 2010, l’architetto americano Bryan Berg completò il più grande castello di carta del mondo, un record che ancora detiene.1 Con più di quattromila mazzi di carte, costruì una copia straordinaria del cinese Venetian Macao-Resort-Hotel, alto più di tre metri e largo oltre nove. Guardare questa incredibile struttura mi ha fatto subito pensare a una metafora del mondo, straordinariamente complesso e interconnesso in cui viviamo oggi: un topo che s’intrufola nella stanza o lo starnuto intempestivo di un visitatore, e i quarantaquattro giorni dedicati da Berg alla costruzione del castello sarebbero stati spazzati via in un secondo. La stessa cosa vale per le fragilissime infrastrutture da cui dipende la nostra vita quotidiana. L’intero mondo industrializzato si affida alla introduzione continua di tecnologie sempre più avanzate. Inoltre, i sistemi che garantiscono il nostro stile di vita sono profondamente intrecciati: internet funziona perché funziona la rete di energia elettrica, la quale dipende dall’approvvigionamento di energia derivato dal petrolio, dal carbone e dalla fusione nucleare, che si fonda a sua volta su tecnologie di fabbricazione che richiedono elettricità. E così via, sistemi poggiano su altri sistemi: tutto si collega a tutto. La società moderna è proprio come le carte del «Castello di Berg». Per il topo, una simile creazione è un invito a nozze a sfiorare la carta più in basso e a mandare all’aria il castello.


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Ovvio, è la fragilità della costruzione che rende il castello di carte degno di prestigio. Bellissimo, ma solo per stupire nei salotti. Vogliamo davvero che il nostro intero stile di vita sia tanto precario? Immaginate un blackout a New York, o Parigi, o Mosca. O, spaziando un po’, che cosa succederebbe se per un decennio non fossero introdotte nuove tecnologie? Che accadrebbe al nostro standard di vita? Bella domanda. Che cosa succederebbe se la musica seducente della tecnologia si fermasse? E – cosa ancora più interessante – che cosa potrebbe fermare questo flusso? Come tutte le domande fondamentali, anche quest’ultima ha molte risposte banali. Tuttavia, la domanda principale resta perché e come la tecnologia possa fermarsi. Sosterrò che il motivo profondo per cui potrebbe interrompersi questo flusso è che, a staccare la spina, è l’evento estremo, il sovvertitore delle regole del gioco, o game-changer. E questi eventi x sorprendenti e dal forte impatto che sbaragliano sistemi sono a loro volta guidati dalla crescente complessità delle infrastrutture tecnologiche e delle altre create dall’uomo, quelle stesse che alimentano la vita «normale», come potremmo chiamarla. A questo punto evidenzierò con chiarezza come questa cosiddetta normalità sia stata pagata un prezzo enorme: la crescente suscettibilità al crollo, per via di una gamma sempre più ampia di eventi x. Eventi rivoluzionari che, in più, scaturiscono dalla stessa causa profonda, vale a dire la conoscenza insufficiente delle sorprendenti e impensabili nature dei sistemi complessi. Ho dedicato buona parte della mia vita a esplorare la complessità, per esempio quando lavoravo presso organizzazioni come la Rand Corporation, il Santa Fe Institute e l’International Institute for Applied Systems Analysis (Iiasa). Negli anni settanta, quando ho preso il dottorato in matematica e ho iniziato a studiare i sistemi complessi, il mondo era molto diverso: i telefoni funzionavano ancora a disco, i computer costavano milioni di euro, metà del mondo era isolata dentro i propri confini, senza il libero scambio e la possibilità di viaggiare, e noi potevano riparare la nostra vecchia Cinquecento o il Maggiolino senza avere una laurea in ingegneria elettronica. In realtà, non serve un teorico dei sistemi per capire che la nostra vita e la nostra società dipendono sempre più da tecnologie complesse via via più complesse. Ciò è dovuto principalmente proprio a una maggiore complessità delle tecnologie. Anno dopo anno, la complessità dei nostri oggetti e delle nostre infrastrutture – dalle automobili, alla finanza, alle


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reti elettriche e alle catene di rifornimento alimentare – cresce in maniera esponenziale. Ciò permette di acquisire un livello di robustezza e di protezione contro gli errori di sistema, ma tutela anche da traumi minori, abbastanza prevedibili. Eppure la maggior parte della complessità non serve a questo. Avete davvero bisogno di una macchinetta del caffè con il microprocessore? Per forza al supermercato dobbiamo scegliere tra diciassette varietà di cibo per cani? È necessario fabbricare automobili con tanto di manuale d’istruzioni spesso due centimetri che spiega come regolare i sedili, il sistema Gps e usare gli altri gadget? Questi semplici esempi di aumento della complessità quotidiana sono spesso presentati come successi tecnologici. Lo sono veramente? Ci sono valide ragioni per dire che, in realtà, sono fallimenti tecnologici. Non è un successo se sprechiamo tempo ad analizzare gli ingredienti del cibo del cane in offerta prima di fare la scelta, che è poi più illusoria che reale, o se sfogliamo, frustrati, il manuale alla ricerca della pagina che spiega come impostare l’orologio della nostra nuova automobile. Ma funzioni indesiderate, o inutili, della nuova auto o le distinzioni senza differenze nel negozio di alimentari sono solo piccole seccature, risibili persino. E non dobbiamo andare molto lontano per imbatterci in casi di complessità eccessiva. Questi ultimi sì che fanno la differenza. In realtà, la prima pagina di un qualsiasi quotidiano è abbastanza «lontano». Troverete titoloni che raccontano l’ultima puntata della saga infinita degli scossoni al sistema finanziario mondiale, al blocco dei meccanismi di sicurezza delle centrali nucleari, e/o al fallimento delle trattative sulle tariffe doganali e sul commercio intese a far ripartire il processo della globalizzazione. Sono notizie che basterebbero a farci venire la pelle d’oca. Tuttavia – cosa ancora più terrificante – quanto viene riportato pubblicamente è un elenco per niente esauriente, come dimostreranno le pagine del libro. La scienza della complessità, in quanto disciplina, esiste da una ventina d’anni, allora perché portare all’attenzione del pubblico questo messaggio sulla complessità e sugli eventi estremi proprio ora? La ragione è semplicissima. Mai come oggi nella storia dell’umanità la nostra specie è stata soggetta a un gigantesco «ridimensionamento», quasi inimmaginabile, dello stile di vita. Per sostenere lo stile di vita postindustriale – energia, acqua, cibo, sistemi di comunicazione e dei trasporti, assistenza sanitaria, difesa, finanza – le strutture sono talmente intrecciate che, quando un si-


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stema starnutisce, gli altri si buscano rapidamente la polmonite. Il libro delinea le dimensioni dei problemi che ci si prospettano oggi, come sorgono e che cosa potremmo fare per ridurre il rischio di un tracollo totale del sistema, dove «sistema» sta per la civiltà umana.

Eventi comuni ed eventi sorprendenti Come riempitivo del tempo tra la nascita e la morte, la vita di un individuo, di una nazione, o anche di una civiltà si riduce a una lunga catena di eventi. È un dannato evento dopo l’altro, per parafrasare una celebre frase.2 Perlopiù si tratta di eventi irrilevanti: ordinare una bistecca al ristorante invece di un’aragosta è un evento per voi e per il cuoco; il comune di Vienna vieta al traffico Graben, celebre strada del centro storico: è un evento che ha effetti a lungo termine per chi vive nel primo distretto e per i turisti, ma praticamente per nessun’altro; la decisione del governo americano di invadere l’Iraq è un evento che avrà un grande impatto sul mondo intero per decenni, e forse più. A prescindere dal livello e dalle dimensioni del loro impatto, buona parte di tali eventi è rara, nel senso che è bassa la possibilità di vedere esattamente quell’occorrenza, e non qualcos’altro, prima del suo effettivo verificarsi. Trascurabile addirittura. Ma non sono affatto estremi. Se guardate gli eventi x, allora è importante il grado in cui l’occorrenza dell’evento è sorprendente nel contesto in cui si verifica, e qual è il suo impatto sulla società intera. Fermiamoci un attimo ad analizzare questi due aspetti definenti un evento x, cominciando dal fatto che quest’ultimo è, per definizione appunto, un’occorrenza anomala.

Eventi x Quando annuncia che domani pioverà con una probabilità del 60 per cento, il meteorologo intende che il suo modello meteorologico calcola che la temperatura, le velocità del vento e altri elementi previsti per il giorno seguente, in passato hanno causato precipitazioni il 60 per cento delle volte. Il meteorologo sta pertanto elaborando statisticamente il registro


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storico dei valori meteorologici, alla ricerca della frazione di tempo in cui la pioggia è caduta. L’idea di elaborare statisticamente dati storici del passato è la base, oltre che delle previsioni meteorologiche, anche di numerosi metodi e tecniche di previsione di altri fenomeni. Ma – ed è un grande «ma» – il registro storico deve essere dettagliato e ampio tanto da includere l’evento di cui stiamo cercando di stimare l’eventualità. Se non lo fosse? Se il registro storico è troppo breve, troppo parco di dati, o non contiene un evento anche solo lontanamente simile a quello che ci interessa? Che cosa succede a quel punto? Come afferrare l’eventualità del suo accadere del nostro caso specifico? Questo è l’ambito in cui «raro», «improbabile» e «inverosimile» si trasformano in «sorprendente». E più è sorprendente, più grande sarà l’estremità – e la possibile «x-ezza» – di ciò che accade realmente. Ecco un eccellente esempio di come impostare la questione del valore di sorpresa di un evento, quando il database delle possibilità è troppo scarno per includere le condizioni in questione. * Ogni sport ha le sue imprese mitiche, le prestazioni che per consenso unanime rimarranno scolpite nel libro dei record, fino a quando gli stessi libri dei record non diverranno polvere. Nel baseball americano, uno degli eventi leggendari è la striscia di cinquantasei battute valide in cinquantasei partite consecutive stabilita da Joe DiMaggio nella stagione 1941. Il buonsenso comune riteneva impossibile una striscia di cinquantasei hit in cinquantasei partite consecutive. Com’è in sostanza impossibile la sua eventualità di essere infranta: infatti, compare sistematicamente nella lista dei record «imbattibili» o «inarrivabili». Eppure quella striscia è accaduta. Allora, quanto era verosimile? Era l’unica volta nella vita dell’universo, come crede la maggior parte dei patiti di baseball? O su una seconda terra ai confini opposti della galassia magari è già successo molte volte negli ultimi settant’anni? Tempo fa, i ricercatori della Cornell University, Samuel Arbesman e Stephen Strogatz, decisero di affrontare il problema.3 Immaginarono diecimila mondi paralleli, tutti con gli stessi giocatori e con la stessa prestazione su base statistica, ma soggetti a differenti capricci della sorte. In


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sostanza, i due ricercatori hanno ripetuto diecimila volte ognuna delle stagioni dal 1871 al 2005, alla ricerca della striscia di hit più lunga in ciascuna stagione. Invece di chiedersi quanto fosse rara la particolare striscia di hit di DiMaggio, essi si sono posti una domanda di gran lunga più generale, e interessante pure: quale sarebbe il grado di sorpresa se un qualunque giocatore nella storia del baseball (fino al 2005) avesse realizzato una striscia di cinquantasei hit in cinquantasei partite? Risposta: un grado di sorpresa non molto alto. Nelle diecimila stagioni in parallelo, la più lunga striscia di hit era compresa da un modesto numero di trentanove partite a un incredibile (e davvero raro) centonove partite. Più di due terzi delle volte la striscia di battute più lunga era compresa tra cinquanta e cinquantaquattro partite. In breve, non c’era niente di estremo in una striscia di cinquantasei partite. Per una bizzarra coincidenza numerica, DiMaggio si è classificato solo cinquantaseiesimo nella lista dei giocatori con l’eventualità più alta di detenere il record della striscia più lunga della storia del baseball. Chi è il più verosimile? Per i fan del baseball, i vincitori di questo derby sono due veterani, Hugh Duffy e Wee Willie Keeler, che, insieme, hanno stabilito il record in più di mille delle stagioni simulate. Fra i giocatori un po’ più vicini a noi, il vincitore è risultato Ty Cobb, che aveva realizzato la striscia di hit più lunga in quasi trecento stagioni su diecimila. L’aspetto per noi importante in questo libro è che un evento in apparenza tanto raro da concedergli l’etichetta di «mitico» potrebbe risultare comune in un universo diverso dal nostro. Il problema è che il database della nostra «terra-singola» sarebbe troppo povero di dati per dirci fino a che punto qualcosa sia davvero raro. Pertanto, che cosa è, o non è, un evento x è una proprietà relativa, e non assoluta, di qualsiasi evento particolare, e la sua rarità dipende dal contesto. Il solo fatto che voi e le persone attorno a voi pensiate che sia raro non lo rende necessariamente tale. Ma persino l’essere alquanto inverosimile e sorprendente non è sufficiente per catapultare un evento nella categoria degli eventi x. A tal proposito, serve un secondo elemento. Questo elemento è l’impatto. Credo non sia esagerato affermare che gli eventi memorabili, quelli che contano, sono gli eventi che, in meglio o in peggio, cambiano il destino di una persona o di una nazione. Tuttavia, gli eventi game-changer,


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sconvolgenti, che mutano le regole del gioco, per definizione, sono quelli che hanno un impatto. Ritorniamo all’esempio del meteo. Domani la pioggia avrà un impatto modesto sugli individui, sempre che non abbiano programmato un matrimonio all’aperto o che si tratti di un contadino preoccupato per l’arsura dei campi. Ma se si abbatte poi un tornado, allora la vostra vita potrebbe essere stravolta, considerando che in un minuto la vostra casa si ridurrebbe a un cumulo di macerie. In questo caso, l’evento sorprendente ha un impatto serio, e non per il meglio. È pertanto giusto definire evento x un tornado: almeno per le sue vittime. Allargando lo scenario, l’uragano Katrina è stato, a un tempo, sorprendente e di enorme impatto su un’area molto più vasta di quella di un tornado. Dunque, esso è un evento x persino maggiore. Non è difficile estendere questo principio – ossia sorpresa più impatto – al dominio di eventi generati dall’uomo: gli attentati dell’11 settembre, la crisi dei mutui ipotecari del biennio 2007-2008 e l’interruzione dell’energia elettrica sulla East Coast nel 2003 possiamo considerarli tutti eventi x. * Come mai quando si parla di «evento estremo» pensiamo quasi sempre a qualcosa di minaccioso, oppure distruttivo? Considerare più a fondo tre proprietà descrittive di un evento x ci permetterà di fare luce. I tratti comuni a ogni evento sono un tempo di svolgimento, dal suo inizio alla sua fine, un tempo d’impatto durante il quale il suo costo o il suo beneficio è sperimentato da un individuo o da un gruppo, e l’impatto totale, che ne misura l’entità complessiva, espressa di solito in euro o in numero di vite umane perdute. Per inciso, a favore dei lettori più inclini all’analisi ho incluso nel capitolo Note e voci bibliografiche un’unica formula che misura la «x-ezza» di un evento su una scala compresa tra 0 [un non evento x] e 1 [il più estremo degli eventi possibili]. Ho relegato quasi tutti i dettagli tecnici nelle note. Esorto i più intrepidi a studiarli.4 Quando pensiamo al termine «evento», lo concepiamo come l’occorrenza di un fenomeno caratterizzato da un tempo di svolgimento piuttosto breve, per esempio un incidente d’auto o la vincita alla lotteria. Forse dipende dal fatto che la nostra attenzione ha una durata piuttosto breve,


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una caratteristica che si acuisce ogni giorno di più con i progressi delle telecomunicazioni e con i viaggi rapidi sulle lunghe distanze. Un evento che accade rapidamente (un breve tempo di svolgimento) e genera un grosso impatto con effetti duraturi (tempo d’impatto lungo) è un evento sorprendente, per il quale è complicato prepararsi. Oltre a essere sgradevole. Il terremoto del 2011 in Giappone, seguito dallo tsunami e dalla fusione della centrale nucleare, è un esempio di questo tipo di evento x. La seconda legge della termodinamica, secondo la quale i sistemi, se lasciati a se stessi, tendono verso uno stato di massimo disordine, spiega perché è sempre molto più facile e più rapido distruggere qualcosa che costruirlo. Perciò, gli eventi con un breve tempo di svolgimento e un grande impatto, almeno al livello di nazioni e di società, sono perlopiù e necessariamente distruttivi. Forse vi chiederete: esistono eventi x «piacevoli»? Certo che esistono. Voi dilettanti e investitori in cerca del colpo grosso mettetevelo bene in testa: tali, generosi, eventi x prevedono quasi sempre un tempo di svolgimento piuttosto lungo. Provate a pensare, che so, al piano Marshall, che ha permesso alla Germania Ovest di risollevarsi dalle ceneri della Seconda guerra mondiale o, su una scala temporale persino più lunga, allo sviluppo dell’agricoltura e dell’addomesticamento degli animali da cui è scaturita la civiltà moderna. Allo stesso modo, un farmaco o una cura innovativa sono spesso il prodotto di anni di ricerca, e imprese culturali come un romanzo o un’opera d’arte rivoluzionari sono, a loro volta, il prodotto di lunghi periodi di prove ed errori. Scenari come questi hanno bisogno di anni, decenni o persino secoli per dispiegarsi e implicano l’accumulo o lo sviluppo di infrastrutture, come un’economia, una nazione o un’innovazione tecnologica. Perciò, se gli esempi che proporrò nelle pagine seguenti sembrano inesorabilmente pessimistici, tenete comunque conto che gli eventi x positivi possono verificarsi, e accadono per davvero. Non in questo libro, però. Le belle sorprese sono sempre benvenute, solo che di rado sono minacciose. Ed è sulle minacce al nostro stile di vita moderno che intendo focalizzarmi. Ora sappiamo che cosa sia un evento x. Benché le definizioni siano utili, noi vogliamo veramente sapere come nascono tali sorprese e che cosa possiamo fare per prevenirle o quantomeno per prepararci e per attenuare le loro conseguenze negative.


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Collisione fra sistemi In tempi recenti, abbiamo visto come regimi politici decennali – in Tunisia, in Libia e in Egitto – sono stati abbattuti quasi nell’arco di una notte, e come il Bahrein, lo Yemen e la Siria siano percorsi da identiche fiammate rivoluzionarie, dove i ribelli combattono contro governi sordi e autoritari, per rovesciare decenni di oppressione. In apparenza, questi tumulti civili sembrano scaturire dal malcontento della popolazione nei confronti dei governi a causa dell’elevato tasso di disoccupazione, dell’aumento del prezzo dei generi alimentari, della mancanza di alloggi e di altre necessità quotidiane. Eppure queste motivazioni forniscono solo spiegazioni superficiali e non colgono adeguatamente la causa del crollo delle società. Una sommossa civile non è di per sé un evento sconvolgente, un game-changer, ma un semplice preludio, o un segnale premonitore, dell’evento x, del cambio di regime che verrà. La vera fonte dell’evento x alligna più in profondità nel sistema sociale. È un «divario di complessità» che cresce tra il governo e i suoi cittadini. La rivoluzione scoppia quando il divario non è più colmabile. Pensate a un rigido governo autoritario che si scontra con una popolazione risvegliata a nuove libertà grazie al contatto con il mondo esterno, e che sia coordinata da varie piattaforme di social networking. Il divario, il gap, tra la complessità del sistema di controllo (in questo caso il governo) e l’accresciuta complessità del sistema controllato (la popolazione) deve essere colmato. Per farlo, il governo potrebbe reprimere la popolazione, imprigionando i leader della rivolta, inviando l’esercito per disperdere la folla di manifestanti e ricorrendo ad altre misure per soffocare l’agitazione. In alternativa, il governo deve aumentare la propria complessità, per accelerare l’organizzazione di libere elezioni, rimuovere rapidamente le limitazioni di accesso ai contenuti mediali e permettere alla popolazione una mobilità verso l’alto. La teoria che un evento x sia il modo con cui la natura umana colmi un divario tra due o più sistemi è il tema dominante che percorre gli eventi x, causati dall’uomo, esaminati nel libro. Un evento x è un vettore mediante il quale viene ridotto un livello sfalsato di complessità tra due o più sistemi in competizione, o persino in cooperazione. In particolare, è il percorso automatico, di default, quando gli esseri umani stessi non riescono a ridurre un divario crescente. Vorrei darvi un’idea di come opera


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questo principio, accennando a un paio di eventi x recenti dove il divario era specialmente lampante.5 L’Egitto aveva un’economia statalista gestita da decenni in modo disordinato. Persino l’evidente miglioramento degli ultimi anni era una misura insufficiente e tardiva. In più, il paese era (ed è tuttora) gravato da una corruzione cronica, causata da un capitalismo clientelare dilagante su tutta la struttura sociale. Un simile sistema di corruttela si fonda su bustarelle consegnate ai funzionari per ottenere contratti, o posti di lavoro, o magari un alloggio adeguato. Un aspetto tanto significativo quanto divertente è che il Viagra sia stato – si dice – escluso dal mercato perché il suo produttore, la Pfizer, si era rifiutato di pagare una tangente congrua al ministro della Salute egiziano affinché ne autorizzasse la vendita. Questo genere di cattiva amministrazione e di corruzione non ha fatto altro che congelare un governo caratterizzato di per sé da un basso livello di complessità, dotato di pochi gradi di libertà nella sua struttura, e dalla povertà dei mezzi per gestire i problemi sociali al loro insorgere. Ma fintantoché il popolo egiziano non aveva possibilità di esprimere il malcontento verso la mancanza di abitazioni decenti, il rincaro dei generi alimentari, un’assistenza sanitaria scadente e così via, il governo non aveva motivo di fornire questi servizi. Naturalmente, esisteva un ministro incaricato della Salute pubblica, ma serviva in primo luogo come garanzia per i burocrati e le clientele dei potenti di turno, e forniva l’assistenza sanitaria solo come una sorta di optional nei ritagli di tempo. Nessuno si sarebbe aspettato che questa situazione sarebbe cambiata: sarebbe rimasta immutata fino a quando la gamma di azioni permesse ai cittadini veniva mantenuta a un livello basso (bassa complessità), un livello molto inferiore a quello del governo. Niente è immobile. E quando le tecnologie moderne – come la comunicazione istantanea su scala planetaria, un maggior livello di istruzione e i trasporti rapidi – si sono fatte strada nel mondo arabo, i cittadini hanno aumentato il loro potere. A questo punto, sono comparse le prime scritte sui muri (o meglio, sui muri di Facebook) dei regimi consolidati e autoritari di quella regione.6 Le comunicazioni moderne e i social network – come Google, Twitter e Facebook – aumentano incredibilmente la complessità sociale. Solo che oggi è la complessità della popolazione a essere cresciuta, e non quella del governo. Per tale ragione questi servizi vengono di solito limitati o


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addirittura chiusi quando i governi sono sotto attacco: è il caso del governo egiziano, che bloccò internet per alcuni giorni, poiché permetteva di ascoltare più voci e di formare forti reti sociali. A un certo punto, il divario tra il livello stagnante della complessità governativa e il livello di complessità della popolazione cresce a tal punto che non è più sostenibile. Ne abbiamo viste le conseguenze in Tunisia, in Libia e in Egitto con il cambio di regime, che ha provocato la caduta della dinastia degli Assad in Siria e della monarchia nel Bahrein. Uno studioso dei sistemi complessi riconosce qui a prima vista il principio della legge della complessità necessaria in azione. Tale legge asserisce che, per regolare un sistema, la complessità del controllore deve essere grande almeno quanto la complessità del sistema controllato.7 In parole povere, solo la complessità distrugge la complessità. Un evidente corollario è che, se il divario è troppo grande, sorgeranno dei problemi. E nel mondo politico «problema» è spesso sinonimo di rivoluzione. Sono moltissimi gli esempi di queste discrepanze. Prendiamo l’Impero romano, dove la classe dominante usò il potere politico e militare per controllare le classi inferiori e per conquistare i vicini al fine di spillare entrate erariali. Alla fine, le risorse della società si consumarono per gestire un impero immenso in continua crescita, ormai troppo complesso per essere mantenuto in vita. L’antica civiltà Maya è un altro esempio ad hoc, come lo è l’ex Unione Sovietica. Alcuni studiosi, come lo storico Paul Kennedy, hanno sostenuto che l’impero americano, il quale spende più di 23 miliardi di dollari all’anno in sussidi allo sviluppo di paesi esteri e consuma molto più di quanto esporta, rischia di trovarsi nei guai sostanzialmente per la stessa ragione. Questo genere di discrepanza non vale solo per divari di complessità nel domino politico e governativo. Lo ha messo in evidenza lo sconvolgimento della vita quotidiana in Giappone causato dalla radiazione fuoriuscita dai reattori di Fukushima danneggiati dal terremoto del marzo 2011. La causa prima di questo malcontento sociale è un «incidente di riferimento», in cui lo tsunami creato dal terremoto si è riversato oltre i muri di contenimento progettati per impedire l’accesso dell’acqua oceanica nei reattori. L’esondazione ha danneggiato i generatori impedendo loro di fornire l’energia di emergenza che avrebbe dovuto pompare l’acqua per raffreddare le barre di combustibile del reattore nucleare. Que-


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sto è un doppio problema. Per prima cosa, gli ingegneri hanno progettato i muri per un terremoto di magnitudo 8,3, il più forte mai sperimentato dal Giappone, senza considerare che, prima o poi, una scossa avrebbe potuto superare quel livello. Ma – è questo il fattore ancora più grave – i generatori erano situati al livello del suolo, e qualunque inondazione li avrebbe mandati in corto. Non solo, secondo alcuni resoconti il terremoto aveva abbassato il livello del terreno di sessanta centimetri, aggravando il problema. Alla fine tutto dipendeva dai muri di contenimento, ma questi non hanno retto. È un caso di complessità troppo bassa nel sistema di controllo (la combinazione dell’altezza del muro e dell’ubicazione del generatore) schiacciati dalla complessità troppo grande del sistema da controllare (la magnitudo del sisma e le sue conseguenze). Ma un tradizionale esperto di analisi dei rischi di una compagnia di assicurazioni o di una banca potrebbe domandarsi: dov’è la novità? Se vogliamo capire quanto è alto il rischio che si verifichi un particolare evento Y, calcoliamo la probabilità che Y accada, valutiamo il danno provocato se Y accade veramente, e moltiplichiamo i due valori. Il risultato esprime il danno atteso nel caso che Y accada. E quello è il rischio. Detto fatto. E allora che cosa sto proponendo qui di significativamente diverso? Per i lettori che avessero saltato la premessa, provo a riassumere le ragioni per cui questa domanda dell’esperto di analisi dei rischi è la domanda giusta, ma solo per gli eventi «normali». Si rivela tutt’altro che giusta, anzi pericolosa, quando entrano in campo gli eventi x. Eccone le ragioni. Per prima cosa, la rarità stessa di un evento x significa che non abbiamo un database di azioni e di comportamenti passati ricco a sufficienza per calcolare una probabilità significativa che si verifichi l’evento Y. Benché, per aggirare l’ostacolo, gli studiosi di probabilità e di statistica abbiano sviluppato una serie ingegnosa di strumenti – come la teoria della probabilità soggettiva, l’analisi bayesiana o la statistica degli eventi estremi – resta il fatto che definire con precisione la probabilità affinché occorra un evento raro, semplicemente, non è possibile. Se lo fosse, non avremmo sperimentato eventi come la Grande Recessione del 2007-2008, il blackout sulla East Coast nel 2003 e i danni dell’uragano Katrina a New Orleans. Non ci stupiremo, dunque, quando il prossimo evento sconvolgente si farà vivo e ci metterà in ginocchio. A proposito degli eventi x, do-


Preambolo  27

vremo allora inventare o scoprire sistemi per misurare il rischio, capaci di cogliere il succo di che cosa intendiamo quando affermiamo che questo evento è più verosimile che accada qui e ora di quanto lo sia stato in passato. Personalmente, propongo che il metro di valutazione sia la magnitudine di discordanza della complessità tra i sistemi infrastrutturali umani, che interagiscono tra di loro. Il secondo elemento di un’analisi del rischio tradizionale – quello degli avvenimenti normali – è il danno che l’evento infliggerebbe alla società, qualora accadesse. L’unico problema è che se non si è mai verificato uno shock al sistema su cui si regge il nostro stile di vita, allora diventa un problema valutare l’entità del danno reale. Per la valutazione, dovremo comparare i danni dello shock con i danni di altri eventi simili avvenuti in passato. A quel punto, andiamo a vedere come la situazione ipotizzata differisca da un evento attestato dalla documentazione storica, e creiamo un fattore ad hoc nella nostra valutazione del danno, che spieghi la differenza. Ma come potrebbe funzionare questo ragionamento, se non disponiamo di documentazioni storiche da cui attingere? Come illustrerò nel libro, quando il mondo reale non fornisce i dati necessari, per ottenerli dobbiamo spesso costruire un mondo alternativo, come hanno fatto Arbesman e Strogatz per studiare il record della striscia «indistruttibile» di hit nel baseball realizzata da Joe DiMaggio. Di nuovo, è un’impostazione assai differente da quella impiegata per studiare gli eventi normali. Riassumendo, siamo in presenza di due regimi molto differenti. Un regime normale, che consiste di eventi accaduti molte volte in passato e per i quali disponiamo di un ricco database dal quale attingere per calcolare le probabilità di generazione e i danni possibili. E poi c’è il regime degli eventi x, per i quali non abbiamo alcun parametro di riferimento. Questo libro crea una cornice entro cui studiare in modo sistematico il regime degli eventi x, una cornice che integra quella usata per calcolare il rischio nel regime normale. Nelle prossime pagine presenterò questo ragionamento poggiandolo su parametri ed esempi concreti. I dettagli tecnici li lascio a un programma di ricerca ancora in via di definizione. Ora che abbiamo inquadrato le questioni dei divari di complessità e gli eventi x che ne conseguono, farò una brevissima panoramica delle tre parti che formano il libro.


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Tre pezzi facili Il celebre incipit del De bello gallico di Giulio Cesare è «Gallia omnis divisa est in partes tres», la Gallia è divisa in tre parti. Come questo libro. La prima parte approfondirà la relazione tra complessità ed eventi x, rimpolpando la struttura presentata nelle pagine precedenti. Qui, distinguo le sgradevoli sorprese perpetrate dalla natura a nostro danno da quelle che sono frutto di disattenzione, inerzia, equivoco, stupidità o pura e semplice malafede. Il piatto principale – la Parte Seconda – sarà servita in undici bocconi, ciascuno dei quali racconterà la storia di un possibile evento x e il suo impatto sulla vita quotidiana, sempre che accada. Ho scelto questi esempi in modo da coprire la gamma più ampia possibile di attività umane, evitando al contempo di ripercorrere il territorio già ben raccontato in anni recenti dall’evento x du jour, come la bolla finanziaria del 2007-2008 o il disastro di Fukushima del 2011. Gli elementi della Parte Seconda spazieranno dalla fine del sistema di produzione e del rifornimento alimentare mondiale, al crollo su vasta scala di internet, a una pandemia mondiale, fino alla scomparsa della globalizzazione. Queste storie possono essere lette in qualsiasi ordine, secondo i vostri gusti e interessi. Tuttavia, nel complesso, dipingono tutte un quadro della gravità e dell’eterogeneità della minaccia di un evento x alla sopravvivenza del nostro amato stile di vita. Il finale – la Parte Terza – collega le questioni e i problemi teorici della Parte Prima agli esempi pratici della Parte Seconda, per afferrare la questione centrale, ovvero come anticipare gli eventi x, e come provare a gestirli. Più nello specifico, esaminerò fino a che punto potremo mettere a fuoco lo spazio e il tempo, relativamente al momento in cui un potenziale rivoluzionario (originale: game-changer) sta entrando nella zona di pericolo, ovvero quando sta per verificarsi. Mi occuperò poi dei segnali «deboli», le spie di un evento x imminente, e dei metodi per scoprire questi segnali travolti dal rumore, scambiati per l’informazione in cui siamo quotidianamente immersi. Il libro si concluderà con qualche consiglio precauzionale rivolto a tutti; a come potremmo predisporci agli eventi x creando sistemi sociali più resilienti (capaci dunque di resistere alle avversità) e infrastrutture meno fragili.


PARTE PRIMA

Perché normale non è più così «normale»



Sbucati dal nulla Nell’agosto del 2011 una notizia di cronaca occupò le prime pagine dei giornali. L’uragano Irene – diceva – avrebbe sconvolto le abitudini dei newyorkesi. E se gli eventi fossero accaduti «come da copione», Manhattan e altri quartieri a livello del mare sarebbero stati inondati, e sarebbero andati in tilt i sistemi di trasporto pubblico, Wall Street, la catena di rifornimento alimentare e quella idrica e altri aspetti delicati della vita urbana della Grande Mela. Per fortuna, Irene perse potenza prima di assestare una batosta così devastante, e dunque l’esito fu appena più pesante di un violento temporale estivo. I buoni abitanti di Manhattan l’hanno scampata bella, e l’isteria mediatica preventiva si è rivelata una reazione spropositata alle possibili minacce dell’uragano. Il fatto è che, prima o poi, il conto si presenterà davvero, com’è accaduto nel 2005 con l’uragano Katrina, a dimostrare che la reazione eccessiva e una prudenza paranoica sono due facce della stessa medaglia. Lo sappiamo, distrarsi per scacciare la paura è un meccanismo di difesa naturale alle minacce, quando le nostre certezze e competenze non sono sufficienti e non ci resta che imitare Chicken Little, sperando che passi. E il più delle volte passa. Ma non sempre. Sono questi eventi «non sempre» – come l’uragano Katrina nel 2005 – che, oltre a guadagnarsi le prime pagine, ci costringono a fare i conti con i disagi di una minaccia a uno stile di vita consolidato. E non c’è da scherzare, a volte i guai arrivano davvero.


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Gli eventi x accadono e provocano devastazioni che molti di noi vorrebbero credere siano il semplice parto della mente degli scrittori di fantascienza o dei cineasti hollywoodiani. Ma un evento x su scala planetaria non è un reality show: è realtà. Punto e basta. Proporrò un paio di esempi, come preludio allo spirito delle storie che racconterò nelle pagine seguenti. * Circa settantaquattromila anni fa, nell’odierna isola di Sumatra in Indonesia, il supervulcano Toba esplose con una potenza inaudita.1 Fu qualcosa di inedito sul nostro pianeta, almeno da quando la specie umana aveva conquistato la postura eretta. Al confronto, la forza esplosiva della eruzione del Krakatoa, avvenuta nel 1883, fu pari a centocinquanta megatoni di tritolo, diecimila volte più potente della bomba atomica che rase al suolo Hiroshima. Le stime dicono che l’esplosione di Toba fu equivalente a un gigatone. Era cioè sei volte maggiore di quella del Krakatoa e tremila volte l’energia sprigionata dal monte St. Helens quando eruttò nel 1980. All’epoca dell’eruzione del Toba, il nostro pianeta era abitato dall’uomo di Neanderthal, dall’Homo sapiens in Europa e dall’Homo erectus e l’Homo floresiensis in Asia. L’ultima glaciazione era al suo apice, e la dieta di quegli uomini prevedeva mammut dal pelo lanuginoso e tigri dai denti a sciabola. Poi il vulcano cambiò lo scenario, tutto in una notte. Oltre alle gigantesche onde dello tsunami, i circa tremila chilometri cubi di polveri e di detriti scagliati nell’atmosfera schermarono la radiazione solare, così che le piante furono private della luce e morirono. Sul pianeta, la temperatura media scese di colpo a meno 15° centigradi, e non di 15°: l’estate divenne inverno e l’inverno gelo profondo. Secondo le stime, poche migliaia di esseri umani sopravvissero all’evento: piccoli gruppi in Africa. La stima è il frutto di uno straordinario lavoro d’indagine genetica svolto da studiosi che hanno esaminato il Dna risalente a quell’epoca, estraendolo dai mitocondri, le centrali energetiche della cellula. I ricercatori hanno scoperto che i campioni ricavati da ogni angolo della terra sarebbero stati assai differenti se la specie umana si fosse evoluta senza lo sconvolgimento provocato sul pianeta dall’eruzione del Toba. Gli attuali esseri umani sono i pronipoti di quegli intrepidi sopravvissuti. È stata la giornalista scientifica Ann Gibbons a ipotizzare


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che il supervulcano abbia causato la quasi totale estinzione del genere umano, un’ipotesi presto ripresa dai ricercatori, tra cui Stanley Ambrose dell’Università dell’Illinois, che ha attinto all’ipotesi della Gibbons per sviluppare le sue teorie e racimolare informazioni. Tuttavia la catastrofe del supervulcano Toba non cancellò dalla terra il genere umano. Fu un disastro immane, certo, ma insufficiente per relegare l’uomo nel cimitero della storia. Che cosa riuscì a evitarlo? Per capire quale evento potrebbe detronizzare l’Homo sapiens come forma di vita dominante sul pianeta, fate una capatina all’ala principale di un museo di storia naturale, anche il più vicino a casa. Ebbene, circa sessantacinque milioni di anni fa una palla di fuoco del diametro di dieci chilometri si schiantò sulla penisola dello Yucatan in Messico, sparata a trenta chilometri al secondo. Questo «oggetto vicino alla terra» o Neo (Near-Earth Object) generò alcuni pericoli di estinzione prodotti anche da un supervulcano, come sfere incandescenti, tsunami, onde d’urto e altri cataclismi del genere. Solo che la sua immensità fu tale da far impallidire il più gigantesco dei vulcani. Per rendervi l’idea delle conseguenze se mai, oggi, un simile bolide colpisse un continente, vi propongo uno scenario ipotetico. In prima battuta, l’esplosione annienterebbe ogni cosa nel punto d’impatto; poi creerebbe un’onda d’urto che s’irradierebbe per centinaia di chilometri, destinata a eliminare, in progressione, ogni forma di vita. E ancora divamperebbero incendi giganteschi in ogni direzione per almeno ottocento chilometri; per non parlare delle tempeste di fuoco generate dall’enorme quantità di detriti scagliati nell’atmosfera, che ricadrebbero su ogni centimetro del pianeta. L’energia liberata dall’esplosione aumenterebbe la temperatura sulla terra, trasformandola in un forno rovente; poi i detriti nell’atmosfera schermerebbero i raggi solari congelando l’intero pianeta qualche tempo dopo l’impatto e le gigantesche onde d’urto trasmesse sulla superficie terrestre scatenerebbero, come effetto secondario, l’attività dei vulcani. Questi eventi furono più che sufficienti per decretare la scomparsa dei dinosauri, che avevano dominato ogni altra forma vivente per centosettanta milioni di anni. Un periodo immenso. La loro scomparsa liberò una nicchia ecologica per mammiferi grandi non più di un grosso roditore, animali ricoperti di pelliccia che nel tempo si sono evoluti negli… esseri umani di oggi. Ma la cosa certa è che se un oggetto analogo colpisse oggi la terra scriverebbe all’istante la parola fine sulla nostra civiltà: tutti gli ani-


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mali terrestri grandi più di un gatto morirebbero. Ma chi potrebbe davvero dirlo? In fondo, nessun dinosauro poté fare incetta di cibo in scatola o di sacchi di mais, né approvvigionarsi di acqua potabile e rifugiarsi in un bunker nelle viscere della terra. Niente vieta perciò di pensare che, fra noi, qualcuno se la caverebbe persino dopo un evento così catastrofico. Preferirei però non scommetterci. Anche perché chi dovesse sopravvivere invidierebbe quelli scomparsi nel disastro. Noi esseri umani viviamo qui, con questo nostro aspetto, da qualche centinaia di migliaia di anni. Certo, un asteroide come quello che ha colpito lo Yucatan si manifesta soltanto ogni poche centinaia di migliaia di anni. Ma che cos’è un simile lasso di tempo al confronto dei quasi duecento milioni di anni di cui godettero i dinosauri, prima di uscire di scena? Ed eccoci al punto: la realtà di disastri, catastrofi ed estinzioni. Sta a voi scegliere. Forse avrete notato che ciascuno degli eventi x citati ha una causa in comune: la natura. Terremoti, vulcani, impatti di asteroidi e altri eventi simili non sono causati dall’uomo, il quale nemmeno potrebbe intervenire su di essi. Siamo assolutamente incapaci di influenzare le calamità di madre natura. E se la mala sorte avrà la meglio su di noi, appenderemo il cartello di «cessata attività», spegneremo le luci e, tutti, diremo: «La festa è finita!». Questi interventi della natura sono utili come premessa della storia che vi racconterò. Tuttavia, la parte ben più interessante e rilevante per il genere umano è l’altra faccia della medaglia degli eventi x. Mi riferisco alle catastrofi causate da noi, dall’uomo, e magari con la natura che ci fa da complice, come vedremo fra breve. Proporrò tre esempi analoghi di eventi x provocati dal genere umano, anche con ordini di grandezza inferiori ai casi citati. Comincerò citando alcuni ipotetici eventi x che illustrano il ventaglio di possibilità, prima di passare agli esempi autentici.

Il fattore umano Consideriamo i seguenti possibili eventi x: -- Un ceppo virulento del virus aviario colpisce alcuni esseri umani a Hong Kong, si diffonde in tutta l’Asia e, uccide più di cinquanta milioni di persone.


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-- Un terremoto di magnitudo 8, con epicentro a Ginza, un distretto di Tokyo, uccide sul colpo due milioni di persone e causa danni al patrimonio per migliaia di miliardi di euro. -- Muoiono le api in numero massiccio in tutto il mondo, un fenomeno che interferisce con l’impollinazione delle piante su scala mondiale, scatenando una penuria globale di cibo. -- I terroristi fanno esplodere un’arma nucleare in Times Square all’ora di punta, radendo al suolo buona parte di Manhattan, uccidendo mezzo milione di persone e riducendo New York a un cumulo di macerie. -- Un’autocisterna che trasporta cloro deraglia a Rio de Janeiro, riversando il suo contenuto e uccidendo più di cinque milioni di carioca. E potremmo prolungare l’elenco quasi all’infinito. Il punto è che eventi sorprendenti che possono uccidere centinaia di milioni di persone appartengono al regno del possibile. In più, anche se non registrassimo un’enorme perdita di vite, il capitale azionario risulterebbe decimato, riportando indietro di decenni lo sviluppo nel mondo. Non un solo elemento dell’elenco è impossibile, e infatti alcuni di essi, come la fuoriuscita di una sostanza mortale, sono già accaduti diverse volte. Oggi gli esseri umani sono più vulnerabili che mai agli eventi x. Le complesse infrastrutture da cui dipendiamo per la vita quotidiana – trasporto, comunicazione, rifornimento alimentare e dell’acqua, energia elettrica e assistenza sanitaria, per citarne alcune – sono più delicate di quanto immaginiamo, come ci ricorda anche il minimo intoppo nei sistemi di erogazione. Quali sono le cause di questa elevata fragilità e della nostra conseguente vulnerabilità? Possiamo veramente comprendere questi eventi x? E se non proprio controllarli, quantomeno anticiparli? Per affrontare tali questioni, è necessario avere qualche conoscenza della(e) causa(e) di questi eventi e se le cause sono intrinseche ai meccanismi delle infrastrutture, oppure sono qualcosa di prevedibile e in qualche misura di controllabile. Come spiegherò nel libro, la causa a monte degli eventi x è attribuibile alla complessità crescente della nostra società globale. Una complessità che si manifesta sotto molte forme, che è attribuibile all’elevato grado di connessione fra le infrastrutture, e che trasmette un tremolio ad altre parti del sistema, spesso alla velocità della luce. Letteralmente. A volte, la


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complessità si rivela in strati su strati di burocrazia, fino al punto di paralizzare il sistema. Nelle pagine seguenti lo definirò «sovraccarico di complessità».2 Altre volte, il problema della complessità si manifesta non già come un problema in una singola infrastruttura, ma come una «discrepanza» nei livelli di complessità tra due o più sistemi interagenti, come per esempio il governo di una nazione e i suoi cittadini. Ma in tutti i casi, i sistemi su cui contiamo nella vita quotidiana non possono funzionare se sono troppo complessi. Pertanto, quando il livello di complessità o la discrepanza diventano superiori alla capacità di sopportazione del sistema, è necessario ridurre la complessità per raddrizzare la situazione. E un evento x è semplicemente il modo adottato dal sistema per ristabilire un equilibrio sostenibile. Questo atto di bilanciamento sarà il nostro tema dominante, perché a esso sono legati i nostri destini. Se viene a mancare, è un guaio per la specie umana. L’aspetto davvero terrificante è che i sistemi che sorreggono il nostro stile di vita del XXI secolo non sono robusti come ci illudiamo che siano. A proposito, vorrei presentarvi alcuni esempi un po’ più estesi di sistemi umani che si guastano con modalità emblematiche della nostra vulnerabilità, caso mai un sovraccarico di complessità dovesse logorare il sistema. * Una notizia pubblicata nel 2004 sul Los Angeles Times diceva che un IMPORTANTE guasto al sistema di controllo del traffico aereo della California meridionale era stato causato da una «anomalia progettuale» nella integrazione tra i server basati su Microsoft Windows. Il sistema radio aveva smesso di funzionare per più di tre ore, ottocento aerei erano rimasti in volo privi di contatto con i controllori e, a quanto dichiara la Federal Aviation Administration (Faa, l’agenzia federale dell’aviazione civile), in almeno cinque casi gli aerei si erano avvicinati troppo fra loro. I controllori di volo si erano ridotti a usare i propri telefoni cellulari per trasmettere gli avvisi ai controllori di altri impianti e avevano osservato più volte gli aerei cavarsela per il rotto della cuffia senza poter avvisare i piloti. La Faa concluse che il guasto del sistema era attribuibile alla combinazione di un errore umano e di un problema progettuale nei server Win-


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dows introdotti negli ultimi tre anni in sostituzione dei server originali Unix del sistema radio. I server sono programmati per disattivarsi dopo un uso di 49,7 giorni, per impedire il sovraccarico dei dati: così riferiva un funzionario della Faa al Los Angeles Times. Per evitare questa interruzione automatica, i tecnici devono far ripartire il sistema manualmente ogni trenta giorni. E come ha spiegato il funzionario, un impiegato non preparato in modo adeguato si era dimenticato di resettare il sistema, causando l’interruzione senza preavviso. I sistemi di backup non hanno funzionato a causa di un piccolo guasto nel software. Tre anni dopo, nel giugno 2007, ad Atlanta non ha funzionato il sistema di un computer specializzato nella elaborazione dei piani di volo dei piloti e nel loro invio ai controllori di volo, avviando guasti a catena simili in tutti gli Stati Uniti. I quali hanno causato il ritardo, e persino la cancellazione, di centinaia di voli da e verso gli aeroporti di New York. Appena un anno prima, quel computer di Atlanta si era già bloccato. Il problema si era verificato durante una manutenzione ordinaria del software, un fatto che aveva sovraccaricato di lavoro l’altro sistema di controllo, situato a Salt Lake City. Solo che il sistema dello Utah fu sommerso dall’ondata d’informazioni, che gli impedì di elaborare i piani di volo inoltrati. Il risultato? Non veniva più elaborato alcun piano di volo, e perciò nessun controllore sapeva quali rotte gli aerei avrebbero seguito e quando avessero in progetto di atterrare. A quel punto, gli uomini radar annullarono ogni autorizzazione al decollo, con il conseguente blocco del traffico aereo. Ma l’errore umano nei cieli non si limita agli equivoci e a computer obsoleti. Nel settembre del 2010, un jet della Us Airways, in decollo da Minneapolis, con a bordo 95 persone sfiorò di 15 metri un piccolo aereo cargo. E appena un paio di mesi dopo, un volo dell’American Airlines con 259 persone a bordo per poco non si schiantò a sudest di New York contro due aerei da trasporto dell’aviazione militare. Più tardi, un controllore di volo del centro radar di Ronkonkoma, nello stato di New York, che aveva il controllo dell’aereo dell’American Airlines avrebbe lamentato l’atmosfera poco professionale e trasandata che regnava in quel centro. E non stiamo parlando di un impianto sperduto, bensì del secondo centro radar più trafficato del paese. Questi racconti potrebbero essere moltiplicati enne volte, e caricati ancor più da resoconti di controllori addormentatisi nelle torri di con-


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trollo e di altre fragilità squisitamente umane, che vanno sommandosi nei cieli sempre meno alleati per i viaggiatori contemporanei. I dati statistici confermano questo quadro angosciante. I resoconti di errori dei controllori di volo sono infatti quasi raddoppiati dal 2009 al 2010, e non se ne vede la fine. Per fortuna, la maggior parte degli errori non apparteneva alla categoria più grave, quella che richiederebbe ai piloti un’azione evasiva. Ma persino in quella classe, gli errori riferiti sono aumentati da 37 nel 2009 a 44 nel 2010. Nel complesso, permangono buone ragioni per essere seriamente preoccupati che capiti un evento x capace di mandare in tilt l’intero sistema del traffico aereo. Il sistema è estremamente fragile, abbarbicato sul margine di un divario di complessità tra le linee aree che ambiscono a rendere massimo il numero dei voli e a raggrupparli in orari di viaggio desiderabili, e la necessità dei controllori di mantenere sicuri i cieli. Come suggeriscono queste storie, il divario sembra allargarsi, e con una rapidità allarmante. * Il 24 febbraio 2010 la polizia greca ha sparato gas lacrimogeni e si è scontrata con i dimostranti nel centro di Atene durante una marcia che i sindacati avevano organizzato per protestare contro il programma del governo di ridurre il più grave deficit di bilancio dell’Unione Europea. Il presidente di un importante sindacato ha affermato: «La gente in strada manderà un messaggio forte al governo, ma soprattutto all’Unione Europea, ai mercati e ai nostri partner in Europa che la gente e i suoi bisogni vanno oltre le esigenze dei mercati. Mica l’abbiamo creata noi la crisi». In seguito, anche i controllori di volo, i funzionari doganali e delle imposte, i macchinisti delle ferrovie, i medici degli ospedali statali e gli insegnanti sono scesi in strada per protestare contro i tagli alle spese da parte del governo. Anche i giornalisti si sono uniti agli scioperi, creando un blackout informativo che ha ulteriormente aggravato la situazione. Quest’agitazione sociale in Grecia è stata un classico esempio di malcontento civile trasformatosi in disordine civile, che ha richiesto l’intervento delle autorità per mantenere l’ordine pubblico. Per amor di chiarezza, i disordini civili potrebbero assumere molte forme: agitazioni sindacali, scioperi, tumulti, dimostrazioni, fino a vere ribellioni, il pre-


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