I settanta anteprima

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Barry Miles

I Settanta Da William Burroughs ai Clash, da Allen Ginsberg a Patti Smith Avventure nella controcultura Traduzione di Luca Fusari


L’editore ringrazia Leopoldo Carra per il prezioso contributo alle traduzioni da Allen Ginsberg. Sito & eStore – www.ilsaggiatore.com Twitter – twitter.com/ilSaggiatoreEd Facebook – www.facebook.com/ilSaggiatore © Barry Miles, 2011 © il Saggiatore S.r.l., Milano 2014 Titolo originale: In the Seventies


I Settanta a Rosemary, incontrata nei Settanta



Sommario

Introduzione

9

1970. Inizio con il botto

11

1970. La comune hippy di Allen Ginsberg

21

1970. La gente dell’estate

45

1970. Al Chelsea

67

1971. L’Ovest dorato

77

1971. Big Sur

95

1971. Nel deserto

109

1972. A St. James’s con William Seward Burroughs

119

1972. Condizione di tradimento

141

1973. Una gita a Orgonon

155

1973. Harry Smith al Chelsea

165

1973. Il Mercer Street Arts Center

179

1974. Bananas

187

1976. Rock’n’roll

197

1976. Il punk

213

1978. Alla Bowery

239

Postfazione

245

Indice

249



Introduzione

Gli anni Settanta sono finiti da un pezzo – chi trent’anni fa c’era e li ricorda bene ha superato la mezza età – e come il resto dei decenni che hanno scandito il Novecento tendono, con il passaggio del tempo, a trasformarsi in un cliché: per la precisione in uno strano miscuglio di pantaloni a zampa, Abba, punk, pornografia e droghe pesantissime. Non dico che tutto questo non ci fosse, anzi, ma per quanto mi riguarda ho sempre considerato gli anni Settanta un’estensione dei Sessanta, intesi come un periodo storico e sociologico dai limiti temporali molto netti: il 1963 e il 1977, l’alba dei Beatles e il tramonto del punk. Di sicuro è un criterio di catalogazione più scomodo rispetto alla regolarità del decennio tondo, ma penso sia più utile a delineare la crescita e il crollo di un movimento. Secondo il giornalista Peter Braunstein, gli anni Settanta furono «l’ultimo decennio di vera libertà sessuale del xx secolo» e credo che abbia ragione; inoltre, a ben vedere, la maggior parte degli eccessi che normalmente attribuiamo agli anni Sessanta avvenne durante i Settanta, la vera età dell’oro di sesso, droga e rock’n’roll, se mai ce n’è stata una. Inaugurata da David Bowie vestito da donna e chiusa da Grace Jones nuda allo Studio 54, fu l’epoca del consumo massiccio di cocaina, dei film pornografici legali e di mode che nemmeno oggi nessuno si azzarda a riesumare. Questo libro è il seguito di In the Sixties, il volume che nel 2003 dedicai alle attività dell’underground e della controcultura, concentrandomi più che altro su Londra. In quel libro racconto il reading poetico del 1965 alla Albert Hall, lo Ufo Club, la Indica Books and Gallery, la fondazione di


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International Times e della Zapple – l’etichetta dei Beatles dedicata agli album di spoken word. Indica Books chiuse nel febbraio del 1970 (la galleria già nel 1967), mentre International Times proseguì fino al 1974 – e rifiorì più tardi – e io stesso continuai a scriverci, perlopiù come corrispondente da New York. Continuai a dedicarmi alla Beat Generation anche dopo gli anni Sessanta, e il libro che state per leggere racconta del periodo che trascorsi nella comune hippy di Allen Ginsberg nel Nord dello stato di New York, di quando lavorai con lui a Berkeley e di quando a Londra catalogai gli archivi di William Burroughs. Negli stessi anni continuai a scrivere di musica rock per il New Musical Express, occupandomi pressoché di chiunque, dai Pink Floyd ai Clash, da Brian Eno ai Talking Heads. Lo feci soprattutto da New York e riuscii a raccontare ciò che succedeva al Cbgb sulla Bowery, poi nel 1978 andai per un breve periodo a dirigere Time Out, la guida settimanale di Londra dedicata alla cultura e all’intrattenimento. Fu un decennio pieno, ebbi il privilegio di lavorare con alcune tra le persone che più ammiravo al mondo, e alla fine di quegli anni riuscii davvero a capire che cosa volessi fare da grande: lo scrittore. La storia comincia a New York, dove mi ero trasferito insieme a Sue, la mia prima moglie, per riprendermi dalla Londra dei Sessanta.


1970. Inizio con il botto

Sul lato meridionale dell’alberata Undicesima Strada Ovest, all’altezza della Quinta Avenue nel Greenwich Village, si affaccia una schiera di eleganti brownstones in stile greco, costruiti nel 1845 e serviti dalla First Presbyterian Church, eretta un anno dopo in posizione piuttosto arretrata rispetto alla Quinta. La casa al civico 18 rimase parzialmente nascosta da un’alta recinzione di legno fino a mezzogiorno meno cinque del 6 marzo 1970, quando una potente esplosione ne sventrò la facciata. Mentre le fiamme uscivano dalle finestre giunsero altri due botti, in rapida successione. Le nuvole di polvere riempirono la via, diversi brandelli di muri e pavimentazione sbriciolarono i tetti delle auto parcheggiate e riempirono il prato e la strada, sbarrando la carreggiata e il marciapiede. Due ragazze stordite uscirono barcollando dalle fiamme; una era completamente nuda dopo che l’esplosione le aveva lacerato i vestiti, l’altra indossava un paio di blue jeans. Tremavano, erano sotto shock. Una parte della facciata crollò, mancò le ragazze di un soffio e le avvolse nella polvere e nel fumo. A quel punto cominciavano ad accorrere i vicini, una dei quali – Susan Wagner, ex moglie dell’attore Henry Fonda – si affrettò a prendere con sé le ragazze e a portarle nel salotto di casa sua, al civico 50. Le ragazze tremavano, non riuscivano a parlare ma sembravano illese, perciò la donna le accompagnò a lavarsi e diede loro qualche indumento pulito. Chiese alla sua domestica di preparare un caffè alle malcapitate e tornò sul luogo dell’incendio a verificare che non ci fossero altre vittime. Mentre cominciava ad assembrarsi una folla arrivò il primo dei mezzi


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d’emergenza, con i lampeggianti rossi accesi e la radio che gracchiava a tutto spiano. Si sentivano le sirene e i clacson in avvicinamento da tutte le direzioni. Poco dopo, i cavalletti di legno bianchi e blu della polizia sbarrarono l’accesso alla strada insieme al groviglio dei tubi pulsanti dei pompieri, che serpeggiavano nei canaletti di scolo. Prima che cedesse anche il tetto, i vicini cominciarono a evacuare le proprie case – tra essi Dustin Hoffman, che uscì dalla porta accanto con in mano una preziosa lampada Tiffany. La signora Wagner tornò a casa per controllare come stavano le ragazze, ma non le trovò: erano uscite dicendo alla domestica che andavano al drugstore a comprare qualche medicinale. In poco tempo i pompieri riuscirono a domare l’incendio, spegnere le fiamme e aprire un varco sicuro verso la casa disastrata. Al calare della sera, in cantina, ritrovarono un corpo maschile a brandelli e poco dopo, al piano terra, il torso orribilmente maciullato di una donna. La polizia rinvenne anche un certo numero di sacchetti pieni di tesserini universitari, rubati nei mesi precedenti. A quel punto, l’ipotesi che l’esplosione fosse stata causata da un tubo del gas rotto non convinceva più quasi nessuno. Aiutandosi con le fotoelettriche, quella sera i poliziotti trovarono più di sessanta candelotti di dinamite, una bomba anticarro carica, alcuni detonatori e grossi tubi di metallo zeppi di esplosivo. Le case dei vicini furono sgomberate. Quella che la polizia aveva scoperto era una fabbrica di bombe dei Weathermen. Le indagini continuarono. Studiando le impronte digitali, la polizia scoprì che il morto era Theodore Gold, uno degli studenti che avevano guidato lo sciopero del 1968 alla Columbia University: aveva ventitré anni e militava nei Weathermen. I resti della donna furono identificati soltanto grazie all’impronta di un dito mozzato: era Diana Oughton, nipote del fondatore dei Boy Scouts of America e figlia di un politico dell’Illinois. Dopo sette giorni di meticolose indagini tra le macerie, la polizia individuò anche il corpo di un altro maschio, impossibile da identificare perché ne rimaneva soltanto il torso. In seguito furono i Weathermen a dargli un nome: era Terry Robbins, uno di loro, fatto a pezzi dall’esplosione accidentale dei sei candelotti di dinamite che stava fissando alla miccia. La casa al 18 dell’Undicesima Strada Ovest era intestata a James P. Wilkerson, proprietario di una stazione radiofonica del Midwest. Sua figlia, la venticinquenne Cathlyn Wilkerson, era in libertà provvisoria grazie a una cauzione da ventimila dollari: l’autunno precedente aveva partecipa-


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Poco dopo, i cavalletti di legno bianchi e blu della polizia sbarrarono l’accesso alla strada insieme al groviglio dei tubi pulsanti dei pompieri, che serpeggiavano nei canaletti di scolo.

to alla protesta dei Days of Rage, i «giorni della rabbia» durante i quali un gruppo di membri degli Students for a Democratic Society (Sds, «Studenti per una società democratica»), armato di mazze da baseball e caschi per proteggersi dai manganelli della polizia, aveva vandalizzato una serie di negozi nel distretto della Gold Coast di Chicago. Una delle sue migliori amiche, Kathy Boudin, era uscita di galera soltanto grazie a una cauzione da quarantamila dollari: durante i fatti di Chicago aveva picchiato con la mazza da baseball un ufficiale di polizia. Al momento dell’esplosione, Kathy era ospite di Cathlyn al civico 18. Erano entrambe note militanti dei Weathermen, il braccio scissionista e radicale degli Sds. Ed erano le ragazze uscite illese dalla casa dopo l’esplosione. Le bombe avrebbero dovuto «portare la guerra in casa» esplodendo durante un ballo per sottufficiali a Fort Dix; se così fosse stato, avrebbero senza dubbio causato parecchie vittime. Due settimane prima, il 19 febbraio, i Weathermen avevano scatenato esplosioni in tre palazzi di uffici a New York e altrove: California, stato di Washington, Maryland e Michigan. Do-


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po la débâcle dell’esplosione accidentale, però, si astennero dal compiere ulteriori azioni che rischiavano di mettere a repentaglio vite umane. Prima di consegnarsi alla giustizia, Cathlyn Wilkerson visse in clandestinità per dieci anni. Kathy Boudin rimase a piede libero fino al 1981, quando fu catturata dopo l’assalto a un blindato portavalori costato la vita a due poliziotti e a un agente di sicurezza. Fu condannata a vent’anni di galera e tornò in libertà vigilata nel settembre del 2003. All’epoca dell’esplosione io e mia moglie Sue eravamo ospiti di un amico che abitava all’ottavo piano della palazzina al 51 della Quinta Avenue, all’angolo con l’Undicesima Strada, a dieci case di distanza dal 18. Ricordo le montagne di macerie, lo sbarramento della polizia in strada e l’immagine sconvolgente della casa sventrata; dietro la facciata a pezzi si vedevano le stanze. La cosa strana è che non ricordo se mi trovassi già da quelle parti al momento dell’esplosione: può benissimo darsi che mancasse ancora un giorno al mio arrivo in aereo da Londra. In quel periodo mi occupavo di controcultura newyorkese per International Times, la rivista underground londinese che nel 1966 avevo contribuito a fondare, e il tempo ha aggrovigliato nella memoria le indagini che condussi, gli articoli che scrissi e i ricordi di prima mano dell’evento. Viene da farsi qualche domanda riguardo al concetto di autenticità: c’ero o ne ho soltanto sentito parlare? Senza dubbio ricordo i giorni successivi all’incidente, la strada chiusa e i veicoli di soccorso. Somiglia parecchio ai ricordi d’infanzia che conservi solo perché i tuoi te li hanno raccontati spesso; sono ricordi autentici o informazioni tramandate? È un elemento molto presente in questo libro; a volte aggiungo resoconti oggettivi per contestualizzare, ma si tratta a tutti gli effetti di un’autobiografia. Sbarcavo a New York esausto dopo anni di coinvolgimento diretto nell’underground londinese come gestore dell’Indica Bookshop, redattore di International Times, autore di recensioni cinematografiche o letterarie e altri articoli per IT, Oz e tanti altri giornali underground americani ed europei, direttore della Zapple – l’etichetta sperimentale dei Beatles – e produttore di una dozzina di album di spoken word. Fu con un certo sollievo che risposi alla chiamata di Allen Ginsberg, il quale mi propose di andare a catalogare il suo archivio di nastri: sarebbe stato un impiego senza scadenza precisa, che poteva darmi qualcosa da fare per almeno un anno. Indica, la libreria che avevo fondato nel 1965 insieme a John Dunbar e Peter Asher,


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aveva chiuso definitivamente il 29 febbraio del 1970; a quel punto diedi le dimissioni dalle varie società che avevo creato per produrre e vendere poster psichedelici, subaffittai il mio appartamento e partii insieme a Sue per Manhattan. L’esplosione dell’Undicesima Strada fu il trauma che ci scagliò di colpo nella tetraggine del clima politico americano. All’inizio dei Settanta la società americana era divisa; la contestazione alla guerra del Vietnam era al culmine e l’establishment di destra impiegava ogni risorsa a sua disposizione in una lotta annientatrice nei confronti della controcultura dei giovani e dei pacifisti; a volte sembrava quasi che l’America considerasse «nemici» tutti gli universitari e qualunque giovane con i capelli lunghi, senza andare troppo per il sottile. Le posizioni degli hippy erano sempre più estreme. Era un’epoca di grandi manifestazioni e di attivismo politico violento. Molte delle figure chiave della controcultura erano in prigione o venivano tartassate dalla polizia. John Sinclair, capo del White Panther Party di Detroit, era stato condannato a dieci anni di galera dopo che alcuni agenti della narcotici travestiti da hippy lo avevano incastrato con uno spinello. Il 19 febbraio anche Timothy Leary era stato denunciato per la detenzione di due canne (probabilmente erano di sua figlia) e spedito dietro le sbarre. Da tempo la polizia cercava il modo giusto per arginare Leary, considerato una specie di mina vagante, un membro dell’establishment che aveva abbandonato la retta via. Allen Ginsberg scrisse un telegramma al giudice del processo contro Leary, che si teneva a Santa Ana, California: Per cortesia, concedete al pionieristico psicologo dott. Timothy Leary la libertà su cauzione fino al giorno della sentenza. Tante brave persone hanno una grande considerazione delle sue opinioni, autorevoli benché controverse, e non giova a nessuno che a causa di certe sue posizioni impopolari si neghi la cauzione e si imprigioni sbrigativamente un così famoso teorico – una sanzione del genere non si addice né alla scienza né alla giurisprudenza. Firmato Allen Ginsberg, poeta premiato con la Guggenheim Fellowship / borsista della National Academy of Arts and Letters.

Ovviamente lo ignorarono, e come Sinclair anche Tim fu condannato a dieci anni. L’11 marzo Leary si vide negare la richiesta di scarcerazione su cau-


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zione in quanto «influenza insidiosa» e fu spedito al penitenziario statale di Vacaville in attesa del processo. Nel frattempo era in pieno svolgimento il grande processo per i fatti di Chicago del 1968. Nell’agosto di quell’anno lo Youth International Party (gli yippie) aveva organizzato in collaborazione con il National Mobilization Committee (Mobe) una serie di manifestazioni in concomitanza con il Congresso nazionale del Partito democratico. Nel mese di marzo, in qualità di curatori di un «Festival della vita» da tenersi durante la convention, gli yippie avevano chiesto e ottenuto dal dipartimento dei Parchi di Chicago tutte le autorizzazioni del caso – com’era loro diritto democratico. Il 5 agosto, a sole tre settimane dalla convention e dall’arrivo di migliaia di giovani intenzionati a seguire il festival yippie, il vicesindaco Stahl decise di ritirare il permesso di pernottamento nei parchi. Malgrado le pressioni dell’American Civil Liberties Union, le autorità cittadine si rifiutarono di ritrattare e il 22 agosto gli organizzatori del Mobe le avvertirono che impedire ai dimostranti di dormire nei parchi sarebbe stato «un suicidio»; era un chiaro invito al braccio di ferro. Il giorno dopo, mentre i poliziotti affiggevano agli alberi del parco cartelli con la scritta «coprifuoco ore 11 pm», il Mobe e gli yippie diedero ai manifestanti lezioni di karate, snake dancing e altre forme di autodifesa. Ce n’era bisogno, perché il 25 la polizia caricò. A Lincoln Park gli spettatori di un concerto furono messi al tappeto a colpi di sfollagente, e la sera successiva i poliziotti, senza targhette di riconoscimento per evitare denunce, attaccarono circa tremila persone nel parco con manganelli e lacrimogeni. La violenza raggiunse il culmine il 28, quando la polizia si scatenò e picchiò chiunque: dimostranti, spettatori, giornalisti, passanti incolpevoli e cameraman della Cbs; il tutto in diretta televisiva. La vetrata dell’Hilton Hotel fu sfondata, i poliziotti entrarono a frotte e cominciarono a picchiare chiunque si trovasse nella hall, compresi i rappresentanti della stampa estera. L’esile facciata dietro cui si nascondeva lo stato di polizia americano infine si sgretolò, e la borghesia statunitense ne fu sconvolta. Poi venne il periodo dei lunghi processi: nel marzo del 1968 un gran giurì federale incriminò gli «Otto di Chicago» e nel mese di settembre cominciarono le udienze presiedute dal giudice Julius Hoffman. Fu una parodia della giustizia. Bobby Seale, un membro del Black Panther Party giunto a Chicago soltanto due giorni prima della convention e totalmente estraneo


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all’organizzazione delle manifestazioni, fu costretto in catene e imbavagliato a causa degli scoppi d’ira con cui chiedeva alla corte di potersi difendere. Alla fine, il 5 novembre, il procedimento che lo riguardava fu stralciato, ma non prima che il pubblico americano potesse assistere al triste spettacolo della lotta tra un nero incatenato e imbavagliato e una corte di soli bianchi. Il 18 febbraio 1970 la giuria dichiarò cinque imputati su sette colpevoli di violazione dell’Anti-Riot Act del 1968; il giudice Hoffman li condannò all’ergastolo e ad altre pene minori per oltraggio alla corte. L’incriminazione per oltraggio costò diversi anni di prigione persino ai loro avvocati. (Le condanne per oltraggio furono annullate in appello l’11 maggio 1972, gli ergastoli il 21 novembre 1972.) Le sentenze scatenarono in tutta la nazione ondate di rabbia che riempirono i campus universitari di dimostrazioni spontanee. Ci fu una sommossa a Isla Vista, California, seguita il 25 febbraio da una dimostrazione violenta durante la quale la filiale di Isla Vista della Bank of America venne incendiata da un gruppo di universitari della University of California di Santa Barbara. Fu l’episodio che strappò a Ronald Reagan, governatore della California, un celebre commento riguardo alle sollevazioni studentesche: «Se occorre un bagno di sangue, facciamolo e non pensiamoci più». Fu un’osservazione profetica, perché soltanto un mese dopo, il 4 maggio, nel campus della Kent State University dell’Ohio membri della Guardia nazionale aprirono il fuoco contro studenti disarmati e ne uccisero quattro. Due di loro non stavano facendo altro che andare a lezione; naturalmente, nessuno fu denunciato per l’episodio. Dopo dieci giorni ancora, la polizia uccise altri due studenti, stavolta al Jackson State College, durante una manifestazione violenta contro la decisione di Nixon e Kissinger di dispiegare truppe americane in Cambogia. La cosa stupefacente fu che gli assassinii della Kent State incontrarono la vasta approvazione dei patrioti americani destroidi; due giorni dopo, gli operai edili di New York, con tanto di bandiera a stelle e strisce sull’elmetto, aggredirono un corteo contro la guerra a Wall Street, urlando oscenità a tutto spiano. Persino i camerieri spagnoli del ristorante Quijote, quello che serviva l’Hotel Chelsea, dimostrarono il proprio patriottismo decorando i tavoli con bandierine americane; il gesto scatenò qualche brutto litigio quando certi residenti del Chelsea disegnarono svastiche sulle bandiere e le bruciarono. Fu in questo clima sempre più polarizzato che a metà maggio, insieme ad Allen Ginsberg e Sue, presenziai a Holding Together, il benefit organiz-


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zato al Village Gate in favore di Tim Leary. Nel corso della manifestazione l’intervento di Allen fu contestato dagli autoproclamati leader giovanili Abbie Hoffman e Jerry Rubin, che sotto l’effetto di acidi accusarono Ginsberg di essere «un agente della Cia» e gli organizzatori del benefit di appartenere «per metà alla Cia»: insinuazioni alquanto ridicole. «Leary non lo fanno uscire più» urlò Hoffman, rosso in viso, con gli occhi fuori dalle orbite e una bandana sporca in testa. «Voi cercate un martire religioso, ma questa è una rivoluzione politica, e lui è un prigioniero di guerra – un prigioniero politico!» Allen, altrettanto sudato, abbandonò il centro del palco, preoccupato e confuso mentre il circo Hoffman-Rubin deragliava. Ci accompagnava qualche amico di Allen, tra cui i suoi traduttori francesi Claude Pélieu e Mary Beach, palesemente sconcertati: per loro sia Leary che la coppia Hoffman-Rubin erano validi portavoce della controcultura, e adesso non sapevano da che parte stare. A me sembrava piuttosto ovvio che il processo e le condanne avevano gonfiato all’inverosimile i già ingombranti ego di Hoffman e Rubin, ormai convinti di essere davvero due leader rivoluzionari. Peccato che non rappresentassero nessuno, non facessero parte di alcun partito politico organizzato, non avessero un elettorato di riferimento. Erano leader soltanto ai propri occhi e a quelli dei media, che ne adoravano le goliardate. Quella sera, mentre i due ego enormi si dilatavano davanti a noi come palloni aerostatici, pressati nel poco spazio che rimaneva c’erano altri due sostenitori di Leary: Fernanda Pivano, la traduttrice italiana di Allen Ginsberg, Jack Kerouac e dei beat, e suo marito, il famoso architetto e designer Ettore Sottsass. Ettore scattava foto, spensierato: non capiva abbastanza bene l’inglese e non riusciva a seguire la discussione, ma fu bravo a coglierne la natura spettacolare e mediatica. Aveva trascorso quasi tutta la Seconda guerra mondiale in un campo di concentramento jugoslavo e non fu particolarmente colpito da una pagliacciata grossolana come questa; per lui era soltanto una recita. Poi ci fu un bel concerto di Jimi Hendrix, spalleggiato da Johnny Winter, che conoscevo perché abitava all’Hotel Chelsea. Può darsi che ci fosse anche Jim Morrison venuto a leggere qualche poesia, ma se c’era me lo sono perso. Benché fossi già impegnato nella fase preliminare di organizzazione dei nastri di Allen Ginsberg da inventariare e catalogare, non volevo smettere di scrivere per la stampa underground. Spedivo regolarmente i miei articoli all’International Times e cominciai a lavorare anche per Crawdaddy, una


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delle prime riviste musicali underground. Il suo direttore, Peter Stafford, cercava di farne una rivista che parlasse più della cultura rock che del rock stesso. La musica in quanto tale doveva riempire soltanto la metà delle pagine, più o meno. Peter era mosso dall’ambizione che i lettori si chiedessero: «Dove cazzo vogliono arrivare questi di Crawdaddy?». La redazione era nei sotterranei di un palazzo di ghisa al 510 della Sesta Avenue, all’angolo con la Tredicesima Strada. Al piano terra c’era un negozio enorme che vendeva all’ingrosso candele profumate, bastoncini d’incenso, vestiti tie-dye e altre cianfrusaglie hippy. L’olio di patchouli ti si attaccava in gola non appena mettevi piede all’interno. Sotto il seminterrato che faceva da magazzino e ufficio c’era un altro grosso locale, con dozzine di colonne di ferro a reggerne il soffitto. Su una parete, un’enorme porta di metallo con una complicata serratura simile a quella di un sottomarino, anch’essa di metallo, dava accesso alla metropolitana; eravamo al livello delle rotaie, sentivamo il rombo dei treni di passaggio. Il grosso dello stanzone era vuoto, escluso l’angolo in cui stavano ammassate alla luce dei neon le scrivanie che formavano la redazione di Crawdaddy. All’altro capo del locale, al di là della coltre di oscurità che circondava il nostro angolo, c’erano altre scrivanie ammassate e illuminate: vi si produceva la New York Review of Sex, una delle riviste nate all’incirca nello stesso periodo di Screw di Al Goldstein. La situazione era un po’ strana, ambigua, lo si capiva anche da come veniva stampata la rivista. Quando le lastre erano pronte, venivano a prenderle certi tipacci italiani. Qualche giorno dopo, Crawdaddy arrivava in edicola. Non sapevamo chi la stampasse, né dove, né in quante copie. Il nostro compito era quello di riempire le pagine, senza alcun vincolo editoriale. Scrissi regolarmente su Crawdaddy per sei mesi, fino al giorno in cui Peter chiamò a raccolta i collaboratori. «Mi sa che questa settimana avrò qualche problema a pagarvi» spiegò. «Ma mi dicono che le Ibm Selectric si vendono bene, ultimamente. Adesso mi faccio un giro dell’isolato e spero che nel frattempo nessuno rubi le nostre macchine da scrivere.» Ne portai al Chelsea una color rosso pompieri, insieme a un paio di «palle da golf» – le testine mobili su cui si trovano i caratteri – che in seguito spedii a Londra. Più avanti conobbi Bob Salpeter, che aveva contribuito alla prima campagna pubblicitaria della Selectric con uno slogan che diceva: «Le nostre macchine da scrivere sono diverse: hanno le palle!». Ovviamente lo licenziarono.


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