Carlos Barral
Il volo oscuro del tempo Memorie di un editore poeta 1936-1987 A cura di Roberto Baravalle, Paolo Collo e Glauco Felici Traduzione di Roberto Baravalle
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© Heirs of Carlos Barral Años de penitencia © 1975 Los años sin excusa © 1978 Cuando las horas veloces © 1988 Mario Vargas Llosa, «Carlos Barral» © Mario Vargas Llosa, 1992 Octavio Paz, «Carlos Barral» © Octavio Paz, 1992 Alberto Oliart, «Un personaggio singolare» © Alberto Oliart Saussol, 2001 © il Saggiatore s.p.a., Milano 2011 Titolo originale: Memorias
Sommario
Nota dei curatori
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Carlos Barral di Mario Vargas Llosa
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Carlos Barral di Octavio Paz
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Un personaggio singolare di Alberto Oliart
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prima parte.
Anni di penitenza
Prefazione alla prima edizione
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Nota alla quarta edizione
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La strada redenta
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Ritratto di famiglia
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Calafell e la questione della lingua
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Lezioni di letteratura
58
Le umiditĂ del sogno
63
Brevi soggiorni
74
L’università : coin de table
82
Una lucertola su ogni quercia
87
Vigilia in armi
104
seconda parte.
Gli anni senza scusa
Prologo
121
Nota alla seconda edizione
123
La stanza dei saggi
125
Costruiamo un gruppo durevole
137
Profeta Elia
146
Cimasa di carminio in mezzo ai fiori
152
Figli del fumo
169
Osare di potere
186
Il crocevia di Formentor
205
Sequenze
222
terza parte.
Quando le ore veloci
I
251
II
257
III
277
IV
294
V
299
VI
309
VII
317
VIII
319
Note
321
Indice dei nomi
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Il volo oscuro del tempo
Y quedemos azogados y absortos bajo el vuelo oscurĂsimo del tiempo.
E restiamo turbati e assorti sotto il volo oscurissimo del tempo.
prima parte
Anni di penitenza
Prefazione alla prima edizione
Questo libro non è interamente rispondente al suo progetto iniziale. Quando incominciai a scriverlo – inizialmente, a dettarlo, come a tratti si noterà – pensavo di usare tutta la mia esperienza per descrivere, nel modo meno personale possibile, il panorama urbano e l’ambiente borghese del mio radicamento negli anni quaranta, quegli «anni di penitenza nazionale» nei quali si verificò il passaggio dalla mia infanzia alla mia gioventù: un’adolescenza che, nei suoi tratti essenziali, considero rappresentativa di una tappa biografica comune a un buon numero di persone della mia classe sociale, della mia età e della mia provenienza geografica. Ciò che mi spingeva a scrivere era il desiderio di rappresentare, con la necessaria distanza, la mia memoria ormai sedimentata di quel mondo tanto sordido come crudele, di quella interminabile decade. Volevo dipingere il paesaggio civile e l’atmosfera morale di quegli anni per comporre un’immagine decisamente pubblica nella quale avrebbe avuto un ruolo marginale l’anima del testimone. Però, evidentemente, non sono stato in grado di farlo. L’anima del testimone, minuziosamente educata dalla poesia lirica, ha, poco a poco, invaso il racconto creando un intrico di digressioni, scendendo nel particolare degli aneddoti e, in definitiva, velando il progetto originale di un palpito soggettivo. E così, ne è uscito un altro libro, un libro diverso da quello che avevo immaginato. Questo mi premeva dire. E ora mi viene il dubbio che questo testo possa avere un seguito, che non sia semplicemente un capitolo – forse il primo – di una specie di autobiografia o di qualcosa simile a un volume di memorie. Da questo nuovo punto di vista è anche possibile che le decadi più recenti, vissute da angolazioni aperte a questioni più connesse con una curiosità generale, meritino lo stesso impegno che ho posto nell’evocare la mia adolescenza, in parte ingannato dall’aspirazione a dare testimonianza di quella che fu un’umiliazione collettiva. In tutti i casi, questo testo conserva molte delle caratteristiche del progetto originale, successivamente tradite nel corso della scrittura. Il sezionamento del-
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Il volo oscuro del tempo
la narrazione in parti tematiche, prevalente rispetto alla continuità cronologica, per esempio, o una spigliatezza che a tratti sconfina nell’impertinenza, o, nonostante lo sforamento nella mitologia personale, la volontà di riflessione oggettiva. E, soprattutto, una metodica inesattezza. Poiché volevo suscitare una visione generale, grandangolare, nella quale l’accadimento personale costituiva solamente il punto di vista, non era molto importante che le date fossero precise, i ricordi circostanziati ed esatti, sempre che una loro ambiguità non squilibrasse il quadro d’insieme. In fondo, mi sarebbe costato poco disseppellire carte, annotazioni, documenti amministrativi con date precise o confrontare la mia memoria con quella di altre persone che vedo di frequente, ma questo mi sembrava un tradimento dell’elemento principale del progetto: il corso naturale dei ricordi. E, successivamente, le piccole coincidenze mancanti, le vibrazioni, il tremito del dubbio in ogni affermazione divennero una caratteristica tonale, e si sa quanto siano importanti le questioni tonali per chi scrive versi. Sotto un certo aspetto, a parte le poche note, il libro potrebbe forse aspirare a raggiungere una dignità di opera di narrativa, perché ha a che fare con la cronaca e cerca di riflettere su fatti di storia minima. Questo libro è naturalmente dedicato ad alcuni dei suoi personaggi, quelli con cui, dopo tanti anni, continuo a mantenere una relazione intensa e frequente: Jaime Gil de Biedma, Alberto Oliart, Alfonso Costafreda, José María Castellet, Jaime Ferrán… Dovrei anche scusarmi con le persone citate che potrebbero irritarsi di fronte a mie possibili indiscrezioni, soprattutto se inesatte. Ma credo che servirebbe a poco. Barcellona, gennaio 1973
Nota alla quarta edizione
Le prime edizioni di questo libro riproducono un testo nel quale, rispetto all’originale da me congedato per la stampa, furono praticate numerose mutilazioni e varie sostituzioni di espressioni, verbi e aggettivi, patteggiate con i responsabili della censura sui libri nel 1974. Precedentemente, nel corso di un paio d’anni, avevo fatto diversi tentativi di persuasione personale per ottenere il permesso di pubblicazione del libro così come era stato scritto, però tutti quegli sforzi risultarono infruttuosi. Le mutilazioni e i cambiamenti patteggiati nell’anno 1974 con il Servicio de inspección de libros diedero origine a un diverso aspetto stilistico e a variazioni nel ritmo narrativo che contribuirono a creare un libro leggermente diverso da quello originariamente scritto. Si tratta della versione che è stata stampata diverse volte. Ho però conservato l’intenzione di restituire al testo, un giorno o l’altro, i periodi, le frasi e le parole soppresse o cambiate, cosa che avrei voluto fare per la terza edizione se avessi avuto ancora copia del primitivo originale. Ma non è stato possibile. La copia restituitami dalla censura, con le notazioni a margine e i freghi in matita rossa, era finita nelle mani di una tesista, di una studiosa della censura franchista, le cui tracce si sono perse nella remota Costa d’Avorio. Quel manoscritto martirizzato dagli ultimi esponenti della polizia franchista mi è arrivato da Abidjan solamente alla vigilia della quarta edizione. Avrei comunque potuto aggiungere le parti soppresse e ripristinare quello che mi avevano cambiato. Ma non l’ho fatto, se non in misura minima. Curiosamente, il testo si è «cicatrizzato» col tempo e non è più in grado di riammettere, se non con grande difficoltà, come fossero corpi estranei, le espressioni che gli appartenevano nella primitiva redazione. Di più, il tentativo di ricomposizione del manoscritto si è rivelato per me una lezione letteraria: la congruità retorica di un testo, mi è sembrato di capire, si consolida col tempo. Il testo si impone allo stesso autore così come è uscito dalla tipografia, metabolizzando persino gli errori o, come
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Il volo oscuro del tempo
in questo caso, quelle che furono mutilazioni di arbitraria chirurgia. Pertanto, se qualche lettore volesse confrontare questa edizione con le precedenti, vi troverĂ poche differenze e, se qualche curioso confrontasse questo testo con il manoscritto originale e censurato, vedrebbe che alla fine ho ammesso come migliorie stilistiche alcune impertinenti intransigenze del censore, specialmente quelle relative ad alcune sottolineature e reiterazioni di mie maniacali antipatie. Calafell, novembre 1981
La strada redenta
La scuola dei Gesuiti, che era stata rimessa in attività a Barcellona al termine della Guerra civile, non riconosceva la validità dei titoli di studio conseguiti durante la guerra nella zona repubblicana, non so se per ragioni di ordine amministrativo o per una questione di principio. O forse fu mia madre a volermi inviare là. Il problema era che io avevo passato l’esame di ammissione nel 1938, in un istituto statale, e fui pertanto obbligato a entrare nel febbraio del 1939 nell’imponente e lugubre colegio di calle Caspe per rifare quell’esame che già avevo superato. Tuttavia, la mia permanenza nelle aule del livello inferiore fu assai breve. Dopo poche settimane occupavo già un banco in quelle del primo anno di baccellierato, nelle cui materie avrei dovuto essere esaminato dopo pochi mesi. Il ’39 fu un anno scolastico breve, accelerato, come si diceva allora. In ogni caso, i miei laici e ponderosi maestri della zona «rossa» non avevano perso il loro tempo dato che la mia preparazione era tutt’altro che carente. Fu, per quanto riguarda l’ambito scolastico, un anno breve e facile. Non fu la stessa cosa per altre situazioni, a causa della tanta e radicalmente nuova esperienza del mondo che mi si veniva imponendo. Per quasi tutti i ragazzi della mia età la guerra era stata una lunga e strana vacanza, un hortus libertatis nel quale si era andati avanti grazie alle continue eccezioni a un corpus di regole dimenticate. Nella zona repubblicana, inoltre, avevamo vissuto in mezzo a un clima di «dimissioni» da parte degli adulti, avviliti e disarmati da tutte le cose brutte che l’istinto di conservazione sviluppa in un clima di vero o presunto pericolo. Le nostre famiglie «dimagrite» avevano perso il senso dell’autorità e l’energia necessaria per esercitare la punizione. I maestri che avevamo avuto sembravano, sovente, nelle ore di scuola, essere lì per forza, dopo essere stati obbligati ad alzarsi dai letti nei quali avevano giaciuto, in preda a vergognose coliti o febbri divoranti. Le loro reazioni erano sempre inopportune e il loro apporto quasi sempre ridicolo. Un’umanità affamata e impaurita, una precarietà di condizioni troppo evidente per permettere loro di vestire i panni ne-
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cessari a esercitare quel tanto di potere sufficiente a impressionare i ragazzi. Del resto, le due o tre scuole che avevo frequentato erano situate in appartamenti abbandonati nel centro della città e trasmettevano una sensazione di assoluta precarietà, come un recinto dalle porte spalancate. Erano un posto qualunque, nel quale ci si recava senza nessuna preoccupazione. Il colegio dei Gesuiti era esattamente l’opposto. Qualcosa sino ad allora inimmaginabile. Era, ed è, uno degli edifici più impressionanti e, nello stesso tempo, più deprimenti che io abbia mai visto. Una casamatta immensa, di pietra artificiale, di un materiale sudicio e polveroso che imita la detestabile pietra con la quale uno si fa male, si ferisce, un materiale con il quale non si può tenere altro tipo di relazioni. Un edificio punteggiato di finestrelle: aperture concepite secondo una concezione ibrida, tra il gotico e il neoclassico, tutte debitamente protette da inferriate. Occupa i tre fronti di un isolato, fronti che corrispondono rispettivamente alla scuola, alla chiesa e alla residenza dei religiosi, tre corpi ben delimitati che comunicano tra loro attraverso una rete di corridoi e di scale. Con la sola eccezione del portale del tempio, l’edificio ha facciate uguali e simmetriche, all’esterno come all’interno, nella parte che dà su un patio rettangolare di cemento, circondato per tre quarti da un chiostro di smilze colonne metalliche e delimitato in uno dei suoi lati maggiori da un muro altissimo che separa l’insieme dalle case confinanti. Al muro sono addossati alcuni lavandini e una fila di servizi igienici. Come il cortile di una prigione, destinato a ricreazioni di tipo rigorosamente sportivo. Lo sport obbligatorio era, ai miei tempi, il calcio, giocato con palloni improvvisati. I palloni autentici erano assolutamente vietati. La città intera, o per lo meno la parte che io ora ricordo come sfondo di quegli anni (alcune strade dell’Ensanche e i dintorni del Paseo de Gracia), era grigia e polverosa come i muri sinistri della scuola. Era come se ancora non avesse finito di cadere e di depositarsi la polvere di un qualche evento geologico. Le strade della mia memoria sono intrise di una fanghiglia grigia e vischiosa come quella che ricopriva nelle giornate di sole il cortile della scuola. E mi tornano alla mente, vuote. Quasi completamente vuote. Nella vía Layetana della mia memoria vi sono alcuni caffè scalcagnati e pochi negozi che si affacciano sulla strada intimiditi, quasi vergognosi. Il commercio si ricostituiva come scusandosi. Un commercio di tipo ebraico, oserei dire. Più volte al giorno, tutti i giorni compresa la domenica, percorrevo a passo regolare il tratto alto di vía Layetana, quello che era chiamato Pau Claris prima dell’occupazione della città. Impiegavo esattamente sette minuti dalla porta di casa mia al cancello della scuola. Ora non mi spiego cosa facesse la gente in quei mesi. Non vedo quasi nessuno nella strada dei miei ricordi. La vía Layetana è, nella mia memoria, una strada essenzialmente «di scuole». Alunni dell’istituto vicino, bambine che da lì a breve avrebbero cominciato a vestire uniformi ottocentesche e, soprattutto, miei compagni di
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scuola, tantissimi. Mandare i figli dai Gesuiti doveva essere, per molte famiglie borghesi e anche di lavoratori, uno dei riti espiatori ai quali sottoporsi per emendare una colpa collettiva. E molte famiglie, per un altro verso, dovevano essere convinte che la tradizionale disciplina degli educatori ignaziani avrebbe ricondotto alla ragione la propria prole, diseducata e dissipata dal libertinaggio degli anni di guerra. Questo era vero in special modo per le famiglie che erano rimaste in Catalogna durante il periodo rosso. I bambini che arrivavano dalle province della zona franchista, da San Sebastián, per esempio, che erano la maggioranza, ritornavano a percorrere le piste tradizionalmente tracciate dagli ordini religiosi. Nella zona franchista l’educazione laica non doveva aver goduto di alcun prestigio. I bambini che venivano da San Sebastián o da Pamplona li distinguevi a prima vista. Arrivavano abituati a indossare un’uniforme. Portavano ai piedi delle scarpe orribili, chiamate navarras, con stringhe lunghissime che si allacciavano sopra certi calzettoni bianchi di lana ruvida. Molti indossavano il capote, un capo di vestiario che era stato l’ornamento un poco civettuolo degli ufficiali nazionali, una specie di poncho o di coperta ingegnosamente ripiegata, con un collo di coniglio. Esistevano mantelli di tonalità che andavano dal grigio a diversi tipi di ocra. Dal colore delle olive a quello dei ceci, probabilmente a seconda delle unità militari nelle quali avevano servito i padri dei ragazzi. Il capote fu uno dei simboli della vittoria franchista. I negozi, le scuole, gli uffici pubblici e privati si riempirono di litografie che riproducevano un quadro del pittore Sotomayor, nel quale il generale Franco appariva in una postura da personaggio di Rigaud, avvolto in un sontuoso mantello. Per quanto mi riguarda, essendo stato a lungo amico di un ragazzo piuttosto tardo che portava uno di questi mantelli, color cenere, il capote era diventato sinonimo di stupidità. I bambini con il capote sono personaggi importanti nei miei ricordi della Barcellona appena liberata, però non sono quelli più importanti. I più importanti sono i preti. Per tre anni, dai sette ai dieci anni di età, non avevo visto l’ombra di un prete e mi ero persino dimenticato come fossero fatti. I preti e le banane mi sembrano assenze solidali del periodo della guerra e ricordo la mia estrema curiosità quando li riscoprii entrambi. Di preti se ne vedevano moltissimi fin dai primissimi giorni dopo la vittoria dei nazionalisti. Molti sfilarono con le prime truppe entrate in città e si diedero subito a officiare numerosissime messe al campo. In seguito, occuparono un posto di primo piano nel panorama del viavai cittadino e, in modo particolare, si imposero come mondo autonomo e divorante al momento della mia entrata nella scuola. I preti della vittoria non avevano sfumature. Erano preti del potere, esseri della Provvidenza che erano venuti, investiti di un’autorità senza limiti e di una ragione senza frontiere, a ristabilire l’ordine squassato delle cose. Io ero troppo piccolo per poter approfittare del libertinaggio degli anni di guerra. Non avevo dato manifestazioni di insubordinazione e neppure mi ero di-
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mostrato propenso al vagabondaggio. Avevo trascorso il mio tempo a scuola. La mia famiglia non poteva avere inquietudine alcuna circa il mio carattere o la mia condotta. E tuttavia, a tavola, si parlava dell’educazione gesuitica come di qualcosa di assolutamente necessario, qualcosa che mi avrebbe corretto non so quali difetti. Io credo che i gruppi sociali che veramente si sentivano liberati, la borghesia che era rimasta intrappolata nella zona repubblicana, quelli per i quali le forze fasciste avevano vinto la guerra, fossero pervasi dall’ossessione di emendare il paese, di restaurare non si sa bene che tipo di ordine arcaico, e anche le giovani innocenti generazioni, secondo loro, dovevano essere purificate. Mio padre era morto e io me lo ricordo liberale e anticlericale, però mi chiedo quale sarebbe stato il suo atteggiamento in quelle circostanze e se la forza delle cose avrebbe prevalso sulle sue convinzioni. Perché fu l’intero paese che si mise a fare penitenza e si verificò a una velocità vertiginosa un cambiamento inimmaginabile persino nell’arco di parecchi anni. Quelle dame virtuose, fresche di bucato, odorose di chiostro, medievali, che ho conosciuto nel mio transito dall’infanzia all’adolescenza, erano state senza dubbio, alcuni anni prima, abitanti di una città europea, dai costumi piuttosto liberi, dalle visuali non intransigenti. Le famiglie bigotte che si riunivano la sera per recitare il rosario erano state, nella Barcellona dell’Estatut, famiglie normali, con opinioni politiche, magari con qualche storia oscura nel cassetto, comunque relativamente tolleranti verso gli accadimenti della vita quotidiana. Mi piace immaginare che alcune di queste signore di mezza età, che entravano nelle chiese diverse volte al giorno per assistere a funzioni di ogni genere o per rendere omaggio al Santissimo, avessero vissuto durante la guerra ogni tipo di amore romantico con combattenti in seguito scomparsi o con fuggitivi dalla memoria corta e che non si ricordassero più, come le loro madri, le storie piccanti degli anni trenta e neppure i libri che avevano letto, tutti sostituiti, adesso, da uno solo: il messale quotidiano del padre Molina. Accadde che non solo si imposero la virtù e il pudore, il pensiero ortodosso e il timor di Dio, ma che ogni ricordo di un altro tipo di vita venisse cancellato dalla memoria. E nessuno si sentiva obbligato a comprendere chi era nell’errore. Nella mia famiglia si evitava con cura qualunque allusione ai nostri parenti repubblicani, persone influenti che avevano seduto alla nostra tavola e che ora si trovavano dall’altro lato della frontiera o si suicidavano in qualche carcere franchista, mentre tutti quelli, comprese le domestiche, che l’altro ieri gridavano «no pasarán», ora erano partecipi di questo entusiasmo per la nuova era e si rotolavano con piacere nelle pieghe di una religiosità delirante. Alcuni amici di famiglia e parenti ritornarono dal fronte con improvvisate uniformi o mostravano all’occhiello il luccichio di nuovi simboli politici. La cosa curiosa è che molti di quelli che avevano vissuto la guerra a Barcellona avevano a suo tempo portato sul bavero della giacca una coccarda rossa o i colori della
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Cnt. Per mano di qualcuno di questi «vincitori», non ricordo di chi, fui portato al quartier generale della gioventù falangista del mio distretto, dove mi regalarono una camicia azzurra di tela di Mahon e un cinturone nero, ah sì, e anche un paio di certi calzettoni alti e neri con due righe rosse sul risvolto. La mia esperienza di flecha, di ragazzino della gioventù falangista, fu comunque molto breve. In due anni, partecipai sì e no a due o tre adunate, generalmente una tortura, per la mancanza di organizzazione e perché avvenivano in luoghi remoti e io avevo paura di perdermi e non sapevo cosa fare in mezzo a tanti compagni sconosciuti che mi incutevano timore. Inoltre, il disinvolto stile militare e l’arroganza fascista erano per me un liquore eccessivamente forte. Mi recai due o tre volte anche alla sede del mio distretto, non ricordo per quale ragione. Era un locale orrendamente sporco, in condizioni pietose, con puzzo di urina ovunque, dove le voci risuonavano come all’interno di una testa assalita dalla febbre. Le adunate e le visite in caserma erano, del resto, assai scomode. Per una ragione o per l’altra si protraevano in modo smisurato e mi facevano arrivare in ritardo per la cena. Un guaio perché, con la «liberazione», gli orari familiari erano diventati tirannici e la disciplina oraria dei pasti veramente da caserma. La scuola, la caserma e la casa erano divenute tre aspetti di un’unica oppressione, scandita secondo norme di frequenza e di tempo. Comunque, debbo dire che la mia esperienza delle caserme falangiste fu quasi nulla, ma sufficiente a mettermi in contatto con la nuova specie umana protagonista di quel mondo nuovo. La mia idea del fascismo, del fascismo ispanico è in realtà popolata, ancora oggi, di rapide immagini di quei falangisti che conobbi allora e che mi definirono le caratteristiche tipologiche in base alle quali, per molti anni, ho potuto infallibilmente riconoscere un fascista, comunque fosse vestito. Perché il fascista spagnolo, soprattutto in Catalogna, è davvero qualcosa di simile a una specie zoologica. Forse non è facile da spiegare, ma in quasi tutti i falangisti che ho conosciuto coincidono alcuni tratti fisici, certi atteggiamenti e abbigliamenti che si combinano sino a formare un quadro morfologico. In Catalogna, poi, è evidente che il ceto burocratico, l’unico gruppo sociale dal quale esce il fascista convinto, è costituito da gente che proviene da altri luoghi della penisola, per cui, di fatto, il fascista diventa una sottospecie del burocrate castigliano, un figlio di burocrate. Esistono una certa villosità, certi sopraccigli, una particolare struttura ossea che, quando si agitano al ritmo dell’ammirazione per la violenza, contribuiscono all’identificazione del falangista-tipo. Un inconfondibile atteggiamento che si comunica attraverso il modo di guardare, di muovere le braccia, di camminare e persino di muoversi in mezzo alla gente. Sì, i falangisti hanno costituito per me una sorta di specie zoologica. Una specie aggressiva e urlante. Temibile. A parte questi, che ho conosciuto in uniforme nelle loro tane, nei miei primi anni di esperienza della nuova Spagna, ho avuto poco a che fare con loro. Sicuramente ce ne
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sarà stato qualcuno tra i miei condiscepoli, ma non ne ho conservato gran ricordo. Probabilmente erano falangisti timidi. E nella cerchia della mia famiglia non ne esistevano. Non ebbi modo di trattare con loro se non molto più tardi. Però i falangisti erano personaggi di prima grandezza nel panorama urbano degli anni ’39, ’40 e ’41. Falangisti in uniforme che sfilavano in strada in drappello, dietro a una bandiera, o fermi alla porta di qualche edificio pubblico. Semplici componenti della truppa o elegantissimi signori della guerra, interamente vestiti di nero, con stivali da equitazione e con il basco ripiegato nel cinturone. Preti, gente pia e ossequiosa, bottegai trepidanti, falangisti e militari con capote o con le ultime casacche azzurre da caserma erano i personaggi di strada che io ricordo. Non mi sembra di aver tenuto, prima della guerra, alcun tipo di relazione con preti ed ecclesiastici. Con suore, sì, da piccolo, però non mi ricordo di uomini di Chiesa. Un’esperienza così limitata e i tre anni di loro totale assenza mi avevano predisposto a un misto di preoccupazione e ammirazione che avrei sperimentato nel corso dell’intensa convivenza con i religiosi, alla quale il prolungato orario scolastico mi condannava. Ignoravo il loro particolare odore, una mescolanza di muschio e prosciutto da affettare. Rimasi stupito dal fatto che emettessero la voce in modo speciale, frutto della loro educazione, suppongo, e che nei Gesuiti lo si notasse in maniera ancora più accentuata. Rimanevo sconcertato da un certo modo di gesticolare, un poco artificioso e solenne, con un che di orientale, direi oggi, che non sempre corrispondeva all’aspetto di coloro i quali lo praticavano. Uomini alti, ieratici, come gente di guerra, che muovevano le mani come fossero marionette e guardavano di lato senza muovere la testa. Non so da dove venisse quella prima ondata di padri e di fratelli destinati a ripopolare la scuola e a rimettere in moto quel sistema educativo tanto apprezzato dalla gente perbene. Tutti parlavano in castigliano e sembravano ancora molto impregnati di Guerra civile, indaffarati in riti come alzare e ammainare bandiere o dirigere canti patriottici. Tutti quei riti, ma non solo quelli, tutte le funzioni, venivano svolti con fare molto marziale. In seguito ho raggiunto la convinzione che una delle abilità principali del gregge gesuitico è il mimetismo storico. Durante gli anni delle vittorie tedesche, nella prima metà della guerra mondiale, i Gesuiti non solo, in un certo senso, si germanizzarono, ma affidarono i posti chiave della scuola a padri dal cognome tedesco e persino quelli che possedevano nomi iberici o umili lasciavano cadere nei loro eloquenti discorsi un certo accento presumibilmente centroeuropeo mentre si facevano obbligo di pronunciare assai correttamente ogni toponimo del Reich. Quei preti, osservo ora, sono stati dei personaggi a effetto ritardato, perché non solo mi è rimasto di loro un ricordo vivissimo, ma addirittura la maggior parte dei miei ricordi di quei due o tre anni passati con loro ha a che fare con essi. Nelle prime classi, del resto, una buona metà degli insegnanti erano sì laici, ma si trattava per lo più di maestri o
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laureati dallo sguardo sfuggente e dall’aspetto affamato che, come ho saputo in seguito, lavoravano nella scuola per un misero compenso. La riscoperta o, forse, semplicemente la scoperta della casta clericale non fu la sola novità che mi veniva offerta dalla scuola di calle Caspe. Quelle oscure e strane persone stavano lì, soprattutto, per introdurci a una nuova legalità, eterna, che però aveva risvolti immediati: la rigorosa obbligatorietà della vita religiosa e le pratiche patriottiche. L’una e le altre erano importanti e costituivano la cornice quotidiana, le frontiere con il mondo e con il cielo, della monotona vita scolastica. La giornata incominciava con il concentramento per la messa, il tutto regolato dallo schioccare di battimani e con la comunione obbligatoria. Dopo la messa veniva il rito della colazione, indimenticabili colazioni scolastiche nel refettorio: un caffellatte con isole galleggianti di aspetto oleoso, servito in scodelle bianche grandi come zuppiere. Dopo la colazione, a volte in silenzio e a volte tra zittii che cercavano di moderare risa e conversazioni, si usciva nel patio carcerario a cantare, con il braccio levato, inni alla bandiera che pendeva flaccida dall’asta, in quel recinto senza vento e quasi senz’aria. All’inizio di ogni lezione si doveva ripetere a voce alta una giaculatoria e alla metà delle ore di studio pomeridiano, sotto la vigilanza dei prefetti, si recitava il rosario seguito da una serie di orazioni per il papa e con altre destinazioni che non ricordo bene. Oltre a questi riti regolari vi erano altre attività di più improvvisata programmazione. Talvolta, prediche impreviste, una volta all’anno esercizi spirituali e una volta la settimana confessione generale. E non era finita lì: le riunioni della Congregazione mariana (alla quale tutti eravamo iscritti), la messa domenicale, che faceva della domenica un giorno che iniziava come tutti gli altri, le pratiche particolari del mese mariano o di quello dedicato al Sacro Cuore, gli uffici del sabato, vivamente consigliati. Naturalmente, io non me ne rendevo conto allora, ma quella pesante strutturazione conventuale della vita scolastica, quell’abuso di pratiche obbligatorie erano un formidabile, quasi infallibile, vaccino contro il sentimento religioso, la garanzia della futura tranquillità della coscienza rispetto ai problemi teologici, tanto per i futuri atei quanto per quelli destinati a essere cattolici irreprensibili. Sono contento di aver vissuto quell’esperienza, senza la quale mi avrebbero marchiato forse in modo diverso le febbri emotive dell’adolescenza. Ignoro se in seguito le cose siano cambiate, ma quei Gesuiti della mia adolescenza, tanto alla Pio xii, erano molto consci che il fatto religioso era legato in modo primordiale alla socialità, concetto evidentemente mutuato dal diritto romano. I riti politici, di educazione patriottica, come si diceva allora, erano essenzialmente formali e io sono convinto che quasi nessuno li prendesse sul serio. Esistevano dei professori di educazione politica che dirigevano e controllavano le attività premilitari, i canti con il braccio teso e che impartivano blande lezioni sulla vita e il pensiero di José Antonio Primo de Rivera, fondatore della Falan-
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ge. Comunque, anche in rapporto agli insegnanti delle discipline normali, erano considerati personaggi di secondo livello. Di solito, oltre a occuparsi della formazione patriottica, insegnavano ginnastica ed è noto il fondamentale disprezzo che la ginnastica ispira agli educatori religiosi. E dire che a molti miei condiscepoli denutriti, appena usciti dalla fame della zona rossa, avrebbe fatto bene qualche sorta di esercizio fisico, praticato seriamente, come preludio a porzioni più sostanziose di cibo. Ma l’educazione fisica consisteva nella ripetizione casuale e saltuaria di una serie elementare di esercizi respiratori e di flessioni che si svolgevano con i vestiti addosso, molto svogliatamente. All’entrata del famoso cortile dei palloni di pezza si trovava una tabella con sopra scritte le consegne della settimana. Si trattava di frasi estrapolate dai discorsi di Franco o di José Antonio, scelte generalmente in ragione della loro retorica. Sono convinto che nessuno le leggesse e credo che molti ignorassero persino che venissero cambiate periodicamente. Io le leggevo e mi chiedevo spesso cosa avessero significato realmente nei loro contesti originali, essendo evidente che non erano state pronunciate con intenti epigrafici. Comunque, tutto era previsto, persino gli spunti per la meditazione per noi che costituivamo la semina, disposta in modo molto geometrico, della futura Spagna dell’Ordine Nuovo. Per l’esame del primo anno un solo insegnante ci preparava in tutte le materie. Mi sembra di ricordare che solo la religione e il latino erano insegnate da ecclesiastici. Quel professore laico era un buon tipo, mi dispiace non riuscire a ricordarne il nome: molti anni dopo mi fece una visita in qualità di rappresentante di non so più quale impresa legata alle arti grafiche. Era tuttavia di temperamento collerico, nervoso nel gesto, piuttosto urlante, con uno spiccato accento dell’Aragona settentrionale. Credo che fu lui a scoprire in me un alunno brillante e a gettare le basi di una fama di scolaro superdotato che tanto mi sarebbe stata utile nei miei anni di scolarità semimonastica. Doveva trattarsi di un laureato in materie scientifiche. Aveva una chiara inclinazione per la matematica e non credo risultasse simpatico alla maggioranza dei miei compagni. Eravamo circa in quaranta. In una fotografia che ho qui davanti a me, la mia prima foto di gruppo, prima foto scolastica, ne conto trentasei. Alcuni di loro li incontro ancora adesso, con alcuni conservo una qualche forma di amicizia. La maggioranza, è chiaro, è scomparsa poco a poco. Ma ciò che mi interessa adesso è l’aspetto che avevamo. Vi erano, e la fotografia ne è la prova, due gruppi distinti, alunni di due razze diverse: figli della classe media, di borghesi, professionisti o funzionari – ed eravamo la maggioranza – e un piccolo gruppo di ragazzi di umili origini che fruivano di borse di studio. La loro condizione in quella scuola era del tutto particolare. Avevano l’obbligo di conseguire punteggi elevati che giustificassero la generosità dei padri nel dedicarsi alla loro educazione e in più venivano utilizzati per il servizio in refettorio. Erano chiamati ufficialmente e sfrontatamente fámulos, fami-
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gli. Avevano quindi un’identità ufficiale che il loro aspetto di poveri non faceva altro che confermare. A dire il vero, in fondo, un aspetto da povero ce l’avevamo un poco tutti. Eravamo quasi tutti bambini devitaminizzati che reclamavano ginnastica e aria buona. Nella fotografia di cui parlo, siamo in maggioranza visibilmente magri e tre o quattro sembrano obesi endocrinopatici. Il professore (il signor Suárez, forse?) ha un aspetto cadaverico. Per quanto riguarda il vestito, dopo aver appeso agli attaccapanni gli eroici capote con collo di coniglio, rimanevamo con addosso i maglioni di lana ruvida, sferruzzati in casa dalle mamme, dalle zie disoccupate o dalle sorelle maggiori. Le camicie erano variopinte, di solito rimaneggiamenti di quelle di papà, con – e questa era una faccenda che aveva a che fare con la storia – una gran profusione di cravatte nere e di bracciali a lutto attorno alle maniche delle giacche. La maggior parte di noi, fámulos e señoritos, indossava vestiti ereditati, aggiustati alla buona da una cucitrice domestica o dal sarto giù all’angolo. I più poveri, pertanto, portavano pantaloni lunghi o corti, grazie al lavoro delle forbici. La pace aveva messo in circolazione i pantaloni «alla norvegese», versione militare di una certa civetteria sportiva d’anteguerra, che, però, in quella prima fase del loro successo erano lunghi e informi, pericolosamente abbinati alla famigerata calzatura navarra (quella con le stringhe lunghissime). In seguito, col passare degli anni, nella piena gioventù del franchismo, i pantaloni alla zuava si accorciarono e cominciarono a prendere forma, trovarono un accordo con certe calze lunghissime a scacchi e arrivarono a essere persino eleganti, ma, a quei tempi, quelli che in seguito si sarebbero anche chiamati «calzoni da golf» erano nella loro preistoria. Personalmente, entrai nella società gesuitica in calzoni corti. Come ho cercato di ricordare, la moda infantile era assai sobria: i borghesi della liberazione non si preoccupavano molto dell’eleganza dei loro figli. In realtà, noi señoritos ci distinguevamo dai fámulos soprattutto per la qualità originale dei vestiti paterni adattati per noi. Quelli dei poveri discendevano chiaramente da vetusti abiti proletari, della domenica, e sembravano sempre avere una qualche relazione con l’eredità di un defunto. In ultima analisi, benché tutti avessimo un aspetto, come si direbbe oggi in linguaggio giornalistico, da «sottosviluppati», era possibile cogliere le diverse sfumature. Ricordo un ragazzo, particolarmente intelligente, che brillò per diversi anni con addosso diverse paia di pantaloni alla zuava con la stessa giacca blu sui cui risvolti figuravano due isole di colore più scuro dove sicuramente, in passato, avevano campeggiato le insegne o le iniziali di un antico destino. Questo ragazzo scriveva versi, molto brutti, però conservo il suo ricordo con una certa ammirazione, perché fu il primo a precedermi in tale occupazione. Era un tipo triste, fervente membro della Congregazione mariana, sicuramente chiamato a salire in cielo prima dell’età adulta. Non l’ho più visto, né ho più sentito il suo nome, il che mi è molto sospetto data la mia lunghissima successiva frequentazione della società letteraria come promotore e giurato di tan-
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ti premi e manifestazioni. Tra noi vi erano due o tre rampolli di famiglie aristocratiche e furono loro che, nel giro di due o tre anni, introdussero le prime frivolezze per quanto riguardava l’abbigliamento. Il giovane conte di C., per esempio, introdusse il blazer inglese con lo stemma della scuola e il mio caro amico Antonio Senillosa fu il pioniere dei golf corti e delle calze lunghe colorate. Però questa aristocrazia del vestire non iniziò a fiorire sino agli anni ’41 e ’42, quando già eravamo immersi nella disciplina più severa del secondo e terzo corso. Io avevo ereditato, quasi subito dopo la fine della guerra, una splendida giacca dei tempi andati che, al principio, mi stava larghissima, enorme, ma che, poco a poco, cominciò a starmi meglio. La portai un’eternità. Mi conferiva un certo aspetto militare, diverso però da quello dei capote. C’è ancora chi mi ricorda con addosso quell’indumento mentre percorro a testa bassa la vía Layetana, portando con due mani la pesante cartella piena di libri, appoggiata sulla spalla. Sembra che per lungo tempo mi sia dedicato a coltivare questa immagine di «passeggiatore preoccupato». Dei pantaloni da golf conservo un ricordo pessimo. Erano fatti di un tessuto ruvido che mi dava fastidio. Ero arrivato al punto di tenere sotto i calzoni le brache del pigiama, così piene di intimità, sino a quando convinsi la mamma a foderarmi i calzoni con la stessa seta artificiale che si usava per l’interno delle giacche. Questo accorgimento rese, però, i pantaloni molto più caldi. Ricordo che in una delle poche occasioni, sicuramente la prima, in cui assistetti a una partita di calcio allo stadio, la fodera dei pantaloni conquistò per sempre un posto nella mia memoria. Si trattava di una partita tra il Betis e il Barcelona, alla quale mi voleva assolutamente portare un dipendente di mio padre, un autista che si era sposato da poco e cercava tutte le occasioni per frequentare le famiglie degli imprenditori. Il signor R. e la sua signora, una grassottella piuttosto appetitosa, mi passarono a prendere a casa a metà del pranzo, perché l’incontro iniziava molto presto, e io arrivai allo stadio con un furioso desiderio, pieno di angoscia, di orinare. Intimidito da tutta quella moltitudine sportiva, non osai chiedere dove risolvere il problema. Già sistemato in tribuna, rinunciai a ogni resistenza e mi feci la pipì addosso. E mi accorsi che le fodere dei pantaloni erano praticamente impermeabili. Vidi la partita e ritornai a casa trasportando due pozze all’interno dei pantaloni. Non è impossibile che la mia antipatia per gli stadi e per gli spettacoli che vi si tengono abbia origine proprio da quell’umiliante aneddoto. Credo che tutta questa provvisorietà nel vestire abbia predisposto la gente della mia generazione a una certa sciatteria per quanto riguarda l’abbigliamento. Naturalmente i più giovani cominciarono ad attribuire sempre maggiore importanza al proprio aspetto, compresi i giovani intellettuali, ma i miei anni di università furono ancora quelli in cui vestir bene rendeva sospetti: erano gli anni in cui le mode mentali avevano origine in Saint-Germain-des-Prés.
Ritratto di famiglia
Avrete capito che in casa mia si parlava castigliano. Occorre però precisare che la maggioranza degli ispanoparlanti non escludeva il bilinguismo e, per quanto riguarda il castigliano, convivevano, nell’appartamento di vía Layetana dove abitavamo, diverse sfumature e tradizioni dialettali. La lingua degli zii Medina e quella di mia madre era, fondamentalmente, l’argentino, a volte screziato di un colore locale che lo differenziava da quello che ho in seguito udito in bocca ai cosmopoliti letterati rioplatensi. Diciamo che era la lingua di Entrerríos, l’argentino di Concordia, che mano a mano si era diluito a contatto con il castigliano coloniale di Barcellona. Tra i praticanti di questa lingua esistevano poi notevoli differenze. La lingua di mio zio el gaucho era molto più saldamente americana di quella di sua moglie, nella quale i lunghi anni di vita transatlantica non erano riusciti a estirpare del tutto la più dura fonetica peninsulare, e nella cui dura sintassi affioravano a tratti gli errori tipici dei baschi. Non era raro, per esempio, che sbagliasse il genere dei sostantivi e che anteponesse gli aggettivi in usi non enfatici. Il gaucho, inoltre, si divertiva a usare locuzioni esotiche e idiotismi come intercalari in forme esclamative, cosa che sembrava, a sua moglie, assolutamente ordinaria. Nel modo di parlare di mia madre, l’argentino era molto presente per quanto riguardava l’accento e il sistema fonetico, ma non era evidente per quanto concerneva il lessico e la sintassi. Solo se era irritata con mia sorella e con me dimenticava di usare la seconda persona plurale e ci sgridava entrambi inserendo nelle sue frasi la concordanza con la terza. La fonetica di mia madre ha avuto grande influenza su di me e mi capita, se sono stanco, di pronunciare yerba (che mi ripugnerebbe scrivere con l’h) o caballo, in argentino. Posso comunque dire che, nonostante ormai da lungo tempo mi sia arreso a questa realtà, non ho mai avuto difficoltà a rimare rayo con caballo in un sonetto. A queste varianti domestiche dell’ispano-argentino con substrato basco c’erano anche da aggiungere in quella casa le mutevoli influenze intrapeninsulari delle donne di
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servizio, che mai furono di lingua catalana, e il castigliano di tipo amministrativo che mia sorella e io sentivamo a scuola e per la strada. La lingua naturale del cugino Gerardo era il catalano. Il catalano era stata la lingua della famiglia Barral e della sua giovinezza. In realtà, parlava un catalano molto poco urbano, da sala da biliardo anni trenta, un catalano da festino, con eccesso di interiezioni e completamente stravolto da particolari vizi espressivi. In casa, però, tranne in alcuni momenti di esasperazione in cui doveva inveire, Gerardo parlava castigliano, un castigliano di sette o otto vocali e con una sintassi dominata dai sistemi di giustapposizione, perché aveva inventato un eloquio totalmente in lite con la sintassi tradizionale. Fin da bambino mi aveva colpito la sua mania di raddoppiare i sostantivi e gli aggettivi in numerosissime frasi. Soprattutto quando voleva parlare seriamente, raddoppiava inevitabilmente i nomi più significativi e quelli che dovevano sembrargli i principali aggettivi. E, anche, quasi sempre, talune parole astratte del tipo «condizione» o «supposizione». Col tempo credo di aver capito che tutto ciò poteva essere la conseguenza di un forzato bilinguismo e, nel suo caso, il cui contatto più intenso con il castigliano doveva essere stato alla Scuola di Commercio (e Dio solo sa che razza di scuole di commercio dovevano essere state quelle della sua infanzia), quel vizio potrebbe aver avuto origine dalla vaga sensazione che il castigliano fosse soprattutto la lingua delle lettere commerciali, la lingua formale del muy señor mío e del de mi mayor consideración. Ho già avuto modo di osservare che, per molti pseudointellettuali che si aggirano nella pubblica amministrazione, come nel giornalismo e persino nella letteratura, i modelli più fecondi di invenzione linguistica sono le formulazioni che si usano in tribunale, la lingua amministrativa elaborata nei bugigattoli dei ministeri di Carlo iii. Forse lo sfrenato amore per i gerundi, nutrito da migliaia di spagnoli, ha proprio a che fare con quelle origini. Il cugino Gerardo raddoppiava i sostantivi prendendoli per quasi-sinonimi, con la pretesa di rafforzare con il secondo il significato del primo. Talvolta ci azzeccava e le parole risultavano sinonimi o con significati assai prossimi e talvolta, per caso, otteneva stupendi effetti stilistici riuscendo a stabilire una relazione semantica, in aumento o in decrescita, di autentico valore espressivo. Il più delle volte, comunque, ciò che io ho battezzato «sistema binario» non produceva altro che l’assoluta perplessità dell’interlocutore. Frequentemente, la duplicazione non aveva altro fondamento che la somiglianza fonetica dei vocaboli e il discorso si faceva progressivamente oscuro, anche perché il cugino Gerardo si impantanava nelle difficoltà che lui stesso aveva creato, rendendo sempre più pesanti e complicati i suoi incomprensibili raddoppi. Incominciava dicendo «discussione e soluzione» e poco dopo parlava di «ragione e collusione». Questo vizio rendeva il suo pensiero e la sua capacità di decisione estremamente lenti e difficili. Ancora oggi, dopo molti anni, nelle relazioni di lavoro, quando il cugino Gerardo si sente spinto a esprimere quella
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che lui pensa essere un’opinione che solleciti un immediato livello esecutivo, interrompe il suo discorso in catalano e tira fuori dal cassetto certe cartelle redatte nel castigliano della sintassi binaria che risultano incomprensibili persino a lui stesso. Quando termina la lettura di quelle cartelle chiede agli astanti se è stato chiaro, se hanno capito bene. Domanda che, già influenzata dal sistema binario, viene di norma posta in catalano. Di fronte al rischio di una ripetizione in extenso, tutti si affrettano a rispondere immancabilmente che sì, si è spiegato perfettamente. Credo che il cugino Gerardo viva in perenne ammirazione nei confronti delle sottigliezze della comunicazione umana. Nella cerchia delle mie relazioni familiari e tra i figli della buona borghesia con i quali normalmente avevo a che fare a scuola, la lingua comune era quella che in precedenza ho chiamato «castigliano coloniale», una sorta di koinè dei quartieri alti di Barcellona. Un castigliano dal lessico piuttosto ridotto, non più ricco del francese del primo volume del Metodo Perrier, dove tutto si risolve in una ventina di verbi e nel nominare praticamente solo gli oggetti onnipresenti e più comuni. Una lingua che non sa elencare più di una mezza dozzina di fiori, non più di cinque alberi e forse quattro diversi pesci. Non si tratta, attenzione, del castigliano utilitario dei tassisti, dei camerieri o dei commessi dei grandi magazzini, si tratta, invece, di una lingua che dissimula la propria indigenza e tende, per esempio, a strutturarsi in cliché, in frasi vellutate che servono a tutto e in un certo periodo raggiungono una gran voga, per poi scomparire o essere sostituite. Si tratta di frasi schematiche che costituiscono il nocciolo duro di un trucchetto che viene frequentemente impiegato per far sì, per esempio, che un verbo, quando si è introdotti al gioco, possa essere interpretato in diversi sensi. E il trucco sta nel cambiare soggetto e predicati a seconda della situazione. Il che può dare l’erronea sensazione che i barcellonesi siano sboccati. Una forma di controllo pudibondo si esercita in modo molto cosciente su ciò che la gente chiama «accento», quella parte della fonetica sulla quale quasi tutti hanno un’opinione diversa. Quindi, i barcellonesi, seguendo il magistero di don Eugenio d’Ors,1 hanno cura di pronunciare una «s» lunga e sibilante evitando con cura di biforcare quella lettera in sorda o sonora e hanno adottato una «z» dai connotati decisamente meridionali. Pronunciano «ch» alla maniera delle Antille, ma non si sognano di evitare la sovrabbondanza delle vocali né la tendenza a rompere i dittonghi. D’altro canto, i contagi morfologici e sintattici sono infiniti. Nella facoltà di Legge non ho mai sentito un indigeno – professore o alunno – dire de-re-cho, ma sempre dre-cho. Si usa frequentemente il partitivo (los hay de blancos…) e i dimostrativi si riducono a due. Non dicono mai por eso, ma sempre por esto… Si usano con eccessiva frequenza parole astratte e parole latine prossime al catalano e, tra la gente più sofisticata, si usano verbi francesi semplicemente trasposti. Sì, perché la koinè della quale stiamo parlando si diversifica a seconda del
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livello della gerarchia sociale. In quelli più alti, per esempio, esiste una spiccata inclinazione a pronunciare la «s» attraverso l’espirazione nasale, il che ha dato ai volti di certe famiglie aristocratiche un aspetto vagamente leporino, a furia di cercare di abbassare il naso verso il labbro inferiore per pronunciare elegantemente la suddetta «s». I miei rapporti con il catalano sono stati per molti anni assai particolari. Il catalano era la prima delle mie lingue straniere, una lingua che parlavo quotidianamente e correntemente, ma solo per relazionarmi con determinati gruppi di persone. Era, prima di tutto, la lingua delle estati, la lingua dei pescatori di Calafell, dai quali lo avevo realmente imparato, e in questo senso si trattava di una lingua piena di locuzioni speciali, che erano immagini concrete e dirette delle cose del mare: una lingua pittoresca che allora, ai tempi della mia adolescenza, mi sembrava molto lontana dalla lingua della cultura. Ma di questa questione, delle relazioni tra la lingua e il paesaggio della mia infanzia, voglio occuparmene più avanti e in modo approfondito. Il catalano, per un altro verso, risultava una lingua spesso connessa a persone e situazioni meno simpatiche, fortemente collegata alla logica mercantile grossolana e facilmente utilizzata nei discorsi ingiuriosi. Era la lingua che si usava per parlare con autisti e portinaie, per intendersi con gli scarsi rappresentanti del proletariato con i quali venivo a contatto nella mia vita di señorito (ancorché tutt’altro che ricco). Tutto questo senza parlare delle domestiche che erano, come in seguito avrei potuto rendermi conto, al pari delle prostitute, rigorosamente tutte di lingua castigliana. L’unica persona a me vicina che parlasse un catalano borghese e urbano era mia cugina Adelina, che però aveva poche occasioni di farlo notare nel suo ambiente di ispano-filippini. I figli parlavano il castigliano nasale della Diagonal. Le mie relazioni con il catalano erano, in definitiva, quelle che si tengono con il patois della regione dove si vive e seguitarono a rimanere tali anche dopo essermi reso conto che quella era una lingua letteraria ed espressiva di una cultura totalmente equivalente alla mia. È probabile che questo sia stato uno dei crimini non minori del franchismo nei confronti della mia generazione: essere riuscito, con la collaborazione di una borghesia ossequiosa e pronta a qualunque sacrificio, a degradare una lingua nobilissima agli occhi di coloro i quali erano destinati a trovare espressione in essa, in modo che chi non disponeva di alternative (come, per esempio, il mio sudamericano uterino) crescesse orfano e straniero a tutte le lingue, condannato a esprimersi per tentativi. Durante quel lungo periodo, la fine dell’infanzia e l’adolescenza, lessi in catalano qualche libro, per lo più traduzioni, anche di classici greci e latini. Leggevo il catalano senza sforzo, solo con qualche sorpresa di fronte a certi arbitri ortografici, però un po’ come leggevo il francese, come se fosse la lingua di altri. Con la letteratura catalana e con il catalano vivo, come lingua di cultura, non ho avuto familiarità e soprattutto intimità sino a un perio-
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do molto successivo. Ed era ormai troppo tardi per pensare e scrivere in quella lingua come lingua mia. Penso e scrivo in francese molto più facilmente e con maggior sicurezza. Col tempo il catalano doveva diventare per me – oltre a essere la lingua del mare e dell’estate, una sorta di patois viscerale – la lingua colta che uso per comunicare con un gruppo, anche se non molto ampio, di amici civilizzati e con alcuni grandi scrittori. Non riesco a ricordare se erano molti o pochi i miei condiscepoli che a scuola usavano il catalano per comunicare in margine alla lingua ufficiale. Mi sembra fossero pochi e direi che alcuni di quelli che in famiglia lo parlavano non lo usavano in pubblico. In ogni caso, credo che mi considerassero di lingua castigliana, perché non mi ricordo di avere mai parlato catalano a scuola. O forse non mi sorregge adeguatamente la memoria. Il fatto è che questa faccenda del bilinguismo è una questione assai meno chiara di quel che sembra a prima vista.