Eli Pariser
Il Filtro Quello che internet ci nasconde Traduzione di Bruna Tortorella
www.saggiatore.it (sito & eStore) Twitter @ilSaggiatoreEd Facebook il Saggiatore editore Š Eli Pariser, 2011 Š il Saggiatore S.p.A., Milano 2012 Titolo originale: The Filter Bubble
Il Filtro A mio nonno Ray Pariser, il quale mi ha insegnato che l’utilizzo migliore della conoscenza scientifica è quello di creare un mondo migliore. E alla comunità della mia famiglia e dei miei amici, che riempiono la mia bolla con intelligenza, buonumore e amore
Sommario
Introduzione 1. La corsa alla rilevanza
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Il problema di John Irving 26 – Segnali 30 – Facebook ovunque 33 – Il mercato dei dati 38
2. L’utente è il contenuto
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Ascesa e caduta del grande pubblico 48 – Un nuovo intermediario 52 – La Grande Lavagna 59 – La Apple e l’Afghanistan 63
3. La società dell’Adderall
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Un equilibrio delicato 69 – La società dell’Adderall 76 – L’età della scoperta 83 – L’isola di California 85
4. Il circolo vizioso dell’io
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Una teoria sbagliata su di te 92 – I nostri punti deboli 97 – Uno stretto sentiero in discesa 100 – Incidenti e avventure 104
5. Il pubblico è irrilevante I signori del cloud 114 – La sindrome del mondo amico 119 – La campagna invisibile 122 – La frammentazione 126 – Dialogo e democrazia 130
111
6. Buongiorno, mondo!
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L’impero dell’ingegno 136 – I nuovi architetti 139 – Fare gli ingenui 141 – Un castello di sabbia da cinquanta miliardi di dollari 144 – A che gioco state giocando? 148
7. Quello che vuoi, che tu lo voglia o no
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Il robot dotato di Gaydar 155 – Il futuro è già qui 157 – La fine della teoria 161 – Nel mondo virtuale niente è gratuito 164 – Il mondo sta cambiando 166 – La perdita del controllo 170
8. Fuga dalla città dei ghetti
175
Il mosaico delle subculture 177 – Che cosa possono fare i singoli individui 179 – Che cosa possono fare le aziende 184 – Che cosa possono fare i governi e i cittadini 190
Ringraziamenti Note Bibliografia Indice analitico
197 203 227 229
Introduzione
Uno scoiattolo che muore davanti a casa vostra può essere più interessante per voi delle persone che muoiono in Africa. Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook1 Creiamo i nostri strumenti, che poi a loro volta ci trasformano. Marshall McLuhan, teorico della comunicazione 2
Poche persone hanno notato il post apparso sul blog ufficiale di Google il 4 dicembre 2009. Non cercava di attirare l’attenzione, nessuna dichiarazione sconvolgente né annunci roboanti da Silicon Valley, solo pochi paragrafi infilati tra la lista delle parole più cercate e un aggiornamento sul software finanziario di Google. Ma non è sfuggito a tutti. Il blogger Danny Sullivan analizza sempre con cura i post di Google per capire quali sono i prossimi progetti dell’azienda californiana, e lo ha trovato molto interessante. Più tardi, quel giorno, ha scritto che si trattava del «più grande cambiamento mai avvenuto nei motori di ricerca». Bastava il titolo per capirlo: «Ricerche personalizzate per tutti».3 Oggi Google usa 57 indicatori4 – dal luogo in cui siamo al browser che stiamo usando, fino al tipo di ricerche che abbiamo fatto in precedenza – per cercare di capire chi siamo e che genere di siti ci piacerebbe visitare. Anche quando non siamo online, continua a personalizzare i risultati e a mostrarci le pagine sulle quali probabilmente cliccheremmo. Di solito si pensa che facendo una ricerca su Google tutti ottengano gli stessi risultati, quelli che per il famoso algoritmo dell’azienda, PageRank, hanno maggiore rilevanza in relazione ai termini cercati. Ma, dal dicembre 2009, non è più così. Oggi vediamo i risultati che secondo PageRank sono più adatti a noi, mentre altre persone vedono cose completamente diverse. In poche parole, Google non è più uguale per tutti. Accorgersi della differenza non è difficile. Nella primavera del 2010,
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mentre la piattaforma Deepwater Horizon vomitava petrolio nel Golfo del Messico, ho chiesto a due amiche di fare la stessa ricerca su Google. Entrambe vivono nel Nordest degli Stati Uniti e sono bianche, colte e di sinistra; insomma, due persone abbastanza simili. Entrambe hanno digitato «bp», ma hanno ottenuto risultati molto diversi. Una ha trovato informazioni sugli investimenti legati alla bp. L’altra le notizie. In un caso, la prima pagina dei risultati di Google conteneva i link sull’incidente del Golfo; nell’altro, non c’era niente del genere, ma solo la pubblicità della compagnia petrolifera. Perfino il numero dei risultati era diverso: 180 milioni per una e 139 per l’altra. Se i risultati di due donne di sinistra della costa orientale erano così diversi tra loro, immaginate quanto possano esserlo, per esempio, rispetto a quelli di un vecchio repubblicano del Texas o di un uomo d’affari giapponese. Adesso che Google è personalizzato, la ricerca di «cellule staminali» probabilmente darà risultati diametralmente opposti agli scienziati che sono favorevoli alla ricerca sulle staminali e a quelli che sono contrari. Scrivendo «prove del cambiamento climatico», un ambientalista e il dirigente di una compagnia petrolifera troveranno risposte contrastanti. A quanto risulta dai sondaggi, la maggior parte di noi crede che i motori di ricerca siano neutrali. Ma presumibilmente lo pensiamo perché sono sempre più impostati per assecondare le nostre idee. Lo schermo del nostro computer è uno specchio che riflette i nostri interessi perché gli analisti degli algoritmi osservano tutto quello che clicchiamo. L’annuncio di Google ha segnato il punto di svolta di una rivoluzione importante, ma quasi invisibile, nel nostro modo di consumare le informazioni. Potremmo dire che il 4 dicembre 2009 è cominciata l’era della personalizzazione. Negli anni novanta, quando ero ragazzo e vivevo ancora nelle campagne del Maine, ogni mese arrivava alla nostra fattoria una copia di Wired, piena di storie su aol, la Apple e su come gli hacker e i tecnologi stavano cambiando il mondo. A un preadolescente come me, sembrava ovvio che internet avrebbe democratizzato il mondo, consentendoci di essere più informati e di agire di conseguenza. I futurologi californiani e i tecno-ottimisti che scrivevano su quelle pagine avevano una certezza incrollabile: stava per scoppiare una rivoluzione inevitabile, alla quale nessuno avrebbe potuto opporre resi-
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stenza, che avrebbe appiattito la società, spodestato le élite e aperto la strada a una sorta di utopia della libertà globale. Mentre ero al college, imparai a usare l’html e i primi rudimenti di linguaggi come il php e l’sql. A tempo perso, costruivo siti web per amici e per progetti universitari. E, dopo l’11 settembre, quando un’email che indirizzava verso un certo sito web che avevo creato iniziò a diffondersi come un virus, improvvisamente mi trovai in contatto con mezzo milione di persone di 192 paesi diversi. Per un ragazzo di vent’anni era un’esperienza straordinaria. Nel giro di pochi giorni mi ritrovai al centro di un piccolo movimento. Era anche opprimente. Presi contatto con un’altra piccola startup di Berkeley che si occupava di temi civili chiamata MoveOn.org. I suoi due fondatori, Wes Boyd e Joan Blades, avevano creato una società per la produzione di software che aveva regalato al mondo lo screensaver Flying Toasters. Il nostro capo programmatore era un fautore delle libertà civili di poco più di vent’anni, di nome Patrick Kane. La sua società di consulenza, We Also Walk Dogs, prendeva il nome da un racconto di fantascienza. Carrie Olson, una veterana dell’epoca dei Flying Toasters, dirigeva le operazioni. Lavoravamo tutti da casa. Il lavoro in sé non era niente di eccezionale: formattavamo e spedivamo email e costruivamo pagine web. Ma era entusiasmante, perché eravamo sicuri che internet avesse le potenzialità per inaugurare una nuova era della trasparenza. Per i politici, la possibilità di comunicare direttamente, e gratis, con i loro elettori avrebbe cambiato tutto. E internet avrebbe dato anche agli elettori la possibilità di aggregarsi e far sentire la propria voce. Il sistema che vedevamo a Washington era bloccato dalla burocrazia, la rete avrebbe potuto spazzare via tutto questo. Nel 2001, quando entrai a far parte di MoveOn, avevamo circa 500mila iscritti negli Stati Uniti. Oggi sono 5 milioni e l’organizzazione è diventata una delle più vaste d’America, molto più grande della National Rifle Association. Nel complesso, i nostri membri hanno versato più di 120 milioni di dollari, in piccole donazioni, per sostenere cause che abbiamo individuato insieme: l’assistenza sanitaria per tutti, l’economia verde e il rafforzamento del processo democratico, solo per citarne alcune. Per un certo periodo, è sembrato che internet avrebbe riportato la democrazia nella società. I blogger e i cittadini giornalisti avrebbero cam-
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biato da soli il mondo dell’informazione. I politici avrebbero potuto candidarsi solo se avessero avuto un’ampia base di sostegno da parte di piccoli donatori comuni. I governi locali sarebbero diventati più trasparenti e avrebbero reso maggiormente conto ai cittadini di quello che facevano. Ma l’era della connessione civica che sognavo non è mai arrivata. La democrazia richiede che i cittadini vedano le cose dal punto di vista gli uni degli altri, e invece siamo sempre più chiusi, ognuno nella propria bolla. La democrazia richiede proprio la conoscenza comune dei fatti, e invece ci vengono offerti universi paralleli ma separati. Il mio disagio ha assunto una forma concreta quando mi sono accorto che i miei amici conservatori erano spariti dalla mia homepage di Facebook. Politicamente pendo più a sinistra, ma mi piace sapere quello che pensano i conservatori, e ho fatto di tutto per stringere amicizia con alcuni di loro e aggiungerli alle mie reti di Facebook. Volevo vedere quali link suggerivano, leggere i loro commenti e imparare qualcosa da loro. Ma i loro link non comparivano mai tra le mie top news. A quanto sembrava, Facebook faceva dei calcoli e si era accorto che continuavo a cliccare i link dei miei amici progressisti più di quelli dei miei amici conservatori, e quelli degli ultimi video di Lady Gaga più di tutti. Quindi niente link conservatori per me. Ho cominciato a fare qualche ricerca per capire come facesse Facebook a decidere che cosa mostrarmi e che cosa nascondermi. E ho scoperto che non era il solo. Con discrezione, senza fare troppo chiasso, il mondo digitale sta cambiando. Quello che un tempo era un mezzo anonimo in cui tutti potevano essere chiunque – in cui nessuno sa che sei un cane, come diceva una famosa vignetta del New Yorker –, adesso è un modo per raccogliere e analizzare i nostri dati personali. Secondo uno studio del Wall Street Journal,5 i cinquanta siti più popolari, dalla Cnn a Yahoo6 a msn, installano in media 64 cookie e beacon carichi di dati su di noi. Se cerchiamo una parola come «depressione» su un dizionario online, il sito installa nel nostro computer fino a 223 cookie e beacon7 che permettono ad altri siti di inviarci pubblicità di antidepressivi. Se proviamo a condividere un articolo di cucina di Abc News, saremo inseguiti dalla pubblicità delle pentole di teflon per tutto internet.8 Se facciamo una ricerca sulla possibilità che no-
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stra moglie ci tradisca, saremo tempestati da annunci sui test del dna per accertare la paternità dei figli. Oggi la rete non soltanto sa che sei un cane, ma anche di che razza sei, e vuole venderti una ciotola di cibo. La gara per sapere il più possibile su di noi è ormai al centro della battaglia del secolo tra colossi come Google, Facebook, Apple e Microsoft. Come mi ha spiegato Chris Palmer dell’Electronic Frontier Foundation, «il servizio sembra gratuito, ma lo paghiamo con le informazioni su di noi. Informazioni che Google e Facebook sono pronti a trasformare in denaro».9 Anche se sono strumenti utili e gratuiti, Gmail e Facebook sono anche efficienti e voracissime macchine per estrarre informazioni, nelle quali riversiamo i dettagli più intimi della nostra vita. Il nostro elegante iPhone sa esattamente dove andiamo, chi chiamiamo, che cosa leggiamo. Con il suo microfono incorporato, il giroscopio e il gps, è in grado di capire se stiamo camminando, siamo in macchina o a una festa. Anche se (finora) Google ha promesso di non divulgare i nostri dati personali, altri siti e applicazioni molto popolari – dal sito per prenotare voli economici Kayak.com a un widget come AddThis – non garantiscono nulla del genere. Dietro le pagine che visitiamo si annida un enorme mercato di informazioni su quello che facciamo online, controllato da società per la raccolta dei dati poco conosciute ma molto redditizie come BlueKai e Acxiom. La sola Acxiom ha una media di 1500 informazioni10 – dalla capacità di credito ai farmaci comprati online – su ogni persona presente nel suo database, che comprende il 96% degli americani.11 E usando protocolli veloci come un lampo qualsiasi sito web, non solo Google e Facebook, adesso può partecipare al banchetto. Secondo i piazzisti del «mercato dei comportamenti», ogni «clic» è una merce e ogni movimento del nostro mouse può essere venduto al miglior offerente nel giro di pochi microsecondi. Come strategia di mercato, la formula dei colossi di internet è semplice: più informazioni personali sono in grado di offrire, più spazi pubblicitari possono vendere, e più probabilità ci sono che compriamo i prodotti che ci vengono mostrati. Ed è una formula che funziona. Amazon vende miliardi di dollari di merci cercando di prevedere quello che può interessare a ogni consumatore e mettendolo in evidenza nel suo negozio virtuale. Più del 60% dei film scaricati o dei dvd affittati da Netflix dipende dalle ipotesi che il sito fa sulle preferenze di ciascun cliente.12
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Secondo la direttrice operativa di Facebook Sheryl Sandberg, nel giro di tre o al massimo cinque anni, l’idea di un sito non personalizzato sembrerà assurda.13 Uno dei vicepresidenti di Yahoo, Tapan Bhat, la pensa nello stesso modo: «Il futuro del web è la personalizzazione. Ormai il web parla con “me”.14 La rete deve essere intelligente e fatta su misura per ogni utente». L’ex amministratore delegato di Google Eric Schmidt dichiara con entusiasmo: «Il prodotto che ho sempre voluto creare» è un codice che «indovina quello che sto per scrivere». Google Instant, che anticipa ciò che vogliamo cercare mentre scriviamo, è uscito nell’autunno del 2010, ed è solo l’inizio. Secondo Schmidt, gli utenti vogliono che Google «dica loro che cosa devono fare dopo».15 Se fosse solo un modo per vendere pubblicità mirata, non sarebbe tanto grave. Ma purtroppo la personalizzazione non condiziona solo quello che compriamo. Per una percentuale sempre più alta di utenti, i siti di notizie personalizzate come Facebook stanno diventando una delle principali fonti di informazione: il 36% degli americani sotto i trent’anni legge le notizie sui social network.16 E la popolarità di Facebook sta salendo alle stelle in tutto il mondo, i nuovi iscritti sono circa un milione al giorno.17 Come è fiero di affermare il suo fondatore Mark Zuckerberg, Facebook è forse la più grande fonte di notizie del mondo (almeno per quanto riguarda una certa idea di notizie).18 Ma la personalizzazione non condiziona il flusso delle informazioni solo su Facebook, perché ormai siti come Yahoo News e News.me, lanciato dal New York Times, adattano i loro titoli ai nostri particolari interessi e desideri. La personalizzazione interviene anche nella scelta dei video che guardiamo su YouTube e dei blog che leggiamo. Influisce sulle email che riceviamo, sui potenziali partner che incontriamo su OkCupid, e sui ristoranti che ci consiglia Yelp, il che significa che può stabilire non solo con chi usciamo, ma anche dove andiamo e di cosa parleremo. Gli algoritmi che gestiscono le pubblicità mirate stanno cominciando a gestire anche la nostra vita. Il codice alla base della nuova rete è piuttosto semplice. I filtri di nuova generazione stabiliscono le cose che ci piacciono – in base a quello che facciamo o che interessa a persone simili a noi – e poi estrapolano le informazioni. Sono in grado di fare previsioni, di creare e raffinare continuamente una teoria su chi siamo, che cosa faremo e che cosa vorremo. Nell’insieme, creano un universo di informazioni specifico per ciascuno
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di noi, una «bolla dei filtri», che altera il modo in cui entriamo in contatto con le idee e le informazioni. In un modo o nell’altro, abbiamo sempre scelto le cose che ci interessavano e ignorato quasi tutto il resto. Ma la bolla dei filtri introduce tre nuove dinamiche. Prima di tutto, al suo interno siamo soli. Un canale via cavo dedicato a chi ha un interesse specifico (per esempio, il golf) ha altri telespettatori che hanno qualcosa in comune con noi. Nella bolla invece siamo soli. In un’epoca in cui le informazioni condivise sono alla base di esperienze condivise, la bolla dei filtri è una forza centrifuga che ci divide. In secondo luogo, la bolla è invisibile. La maggior parte delle persone che per cercare le notizie consultano fonti di destra o di sinistra sa che quelle informazioni si rivolgono a chi ha un particolare orientamento politico. Ma Google non è così trasparente. Non ci dice chi pensa che siamo o perché ci mostra i risultati che vediamo. Non sappiamo se sta facendo ipotesi giuste o sbagliate su di noi, non sappiamo neanche se le sta facendo. La mia amica che cercava notizie sulla bp non ha idea del perché abbia trovato informazioni sugli investimenti, non è un’agente di borsa. Dato che non abbiamo scelto noi i criteri con cui i siti filtrano le informazioni in entrata e in uscita, siamo portati a immaginare che quelle che ci arrivano attraverso la bolla siano obiettive e neutrali. Ma non è così. In realtà, dall’interno della bolla è quasi impossibile accorgersi di quanto siano mirate. Infine, non scegliamo noi di entrare nella bolla. Quando guardiamo Fox News o leggiamo The Nation, abbiamo già deciso che tipo di filtro usare per interpretare il mondo. È un processo attivo e, come se inforcassimo volontariamente un paio di lenti colorate, sappiamo benissimo che le opinioni dei redattori condizionano la nostra percezione del mondo. Ma nel caso dei filtri personalizzati non facciamo lo stesso tipo di scelta. Sono loro a venire da noi e, dato che traggono profitto dai siti web che li usano, sarà sempre più difficile evitarli. Il motivo per cui i filtri personalizzati esercitano tanto fascino è evidente. Siamo sommersi da un fiume di informazioni: ogni giorno l’etere elettronico è invaso da 900mila post nei blog, 50 milioni di tweet,19 più di 60 milioni di aggiornamenti di stato su Facebook e 210 miliardi di email.20 Eric Schmidt ama dire che se decidessimo di registrare tutte le comuni-
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cazioni umane dall’alba dei tempi al 2003, occuperebbero circa 5 milioni di gigabyte di spazio di memoria.21 Oggi creiamo quella quantità di dati ogni due giorni. Perfino i professionisti faticano a stare al passo con questo ritmo. La National Security Agency, che registra buona parte del traffico internet che passa attraverso il centro at&t di San Francisco, sta costruendo nel Sudovest due nuovi complessi grandi come stadi per elaborare tutti quei dati.22 Il problema principale che ha è la potenza: la rete elettrica non ce la fa a sostenere tutta quell’attività di calcolo. L’nsa ha chiesto al Congresso i fondi per costruire nuove centrali elettriche. Entro il 2014 prevede di dover gestire una tale quantità di dati da essere costretta a inventare nuove unità di misura solo per descriverla.23 Inevitabilmente, questo provoca un fenomeno che il blogger e analista del settore Steve Rubel chiama «crollo dell’attenzione».24 Da quando comunicare a grande distanza e con un gran numero di persone costa sempre meno, non riusciamo più a stare dietro a tutto. La nostra attenzione si sposta da un messaggio di testo a una clip web a un’email. Soltanto scorrere quel fiume di notizie alla ricerca delle informazioni che sono veramente importanti o anche solo interessanti per noi è un lavoro a tempo pieno. Perciò, quando i filtri personalizzati si offrono di darci una mano, siamo ben disposti ad accettarla. Almeno in teoria, possono aiutarci a trovare le informazioni che ci servono, quello che realmente conta, tra foto di gatti, pubblicità del Viagra e video musicali. Netflix ci aiuta a trovare il film giusto per noi all’interno del suo vasto catalogo di 140mila pellicole. La funzione Genius di iTunes richiama l’attenzione sulle nuove canzoni del nostro gruppo preferito che altrimenti ci sfuggirebbero. In pratica, i creatori della personalizzazione ci offrono un mondo su misura, ogni aspetto del quale corrisponde perfettamente ai nostri gusti. È un mondo rassicurante, popolato dalle nostre persone, cose e idee preferite. Se non vogliamo più sentir parlare dei reality show (o di problemi più seri come la violenza armata), possiamo farlo – e se vogliamo essere informati su ogni minimo movimento di Reese Witherspoon, possiamo esserlo. Se non clicchiamo mai sugli articoli che parlano di cucina, di gadget o del mondo oltre i confini del nostro paese, queste cose semplicemente scompaiono. Non ci annoiano più. Non ci infastidiscono più. I nostri mezzi di informazione riflettono alla perfezione i nostri interessi e desideri.
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Per definizione, è una prospettiva molto piacevole, il ritorno a un universo tolemaico in cui il sole e tutte le altre cose girano intorno a noi. Ma ha un prezzo: personalizzando tutto, rischiamo di perdere alcuni degli aspetti che all’inizio rendevano internet così affascinante. Quando ho cominciato la ricerca che mi ha portato a scrivere questo libro, il passaggio alla personalizzazione sembrava impercettibile, quasi irrilevante. Ma quando ho iniziato a pensare a quello che poteva significare per un’intera società essere regolata in questo modo, mi sono reso conto che era qualcosa di più importante. Sebbene segua con attenzione tutti gli sviluppi della tecnologia, mi sono accorto che c’erano molte cose che non sapevo: come funzionava la personalizzazione? Che cosa c’era dietro? Qual era il suo scopo? E, soprattutto, che effetto avrebbe avuto su di noi? Come avrebbe cambiato la nostra vita? Nel tentativo di trovare una risposta a queste domande, ho parlato con sociologi e venditori, creatori di software e professori di diritto. Ho intervistato uno dei fondatori di OkCupid, un sito di incontri basato su un algoritmo, e uno dei principali analisti americani di guerra dell’informazione. Ho scoperto più di quanto avrei mai voluto sapere sul meccanismo di vendita della pubblicità online e sui motori di ricerca. Ho discusso con cyberscettici e cybervisionari (e con alcuni che erano entrambe le cose). Nel corso di tutta la mia indagine, sono rimasto colpito dagli sforzi che bisogna fare per capire veramente come funzionano la personalizzazione e le bolle dei filtri. Quando ho intervistato Jonathan McPhie, l’uomo di punta di Google per la personalizzazione delle ricerche, mi ha detto che è quasi impossibile prevedere come gli algoritmi condizioneranno l’esperienza di ogni singolo utente. Le variabili e i fattori da considerare sono semplicemente troppi. Quindi, anche se Google può calcolare i clic complessivi, non è in grado di stabilire che cosa succede a ogni singola persona. Sono rimasto colpito anche da quanta personalizzazione esiste già, non solo su Facebook e Google, ma in quasi tutti i maggiori siti web. «Non credo che il genio potrà mai rientrare nella lampada» mi ha detto Danny Sullivan.25 Anche se c’è chi esprime già da una decina di anni i suoi timori sulla personalizzazione dei media – il giurista Cass Sunstein ha scritto un libro intelligente e provocatorio sull’argomento nel 2000 –,26 la teoria sta ormai rapidamente diventando pratica: la personalizzazione fa già parte della nostra esperienza quotidiana più di quanto molti di noi pen-
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sino. Adesso iniziamo a vedere come funziona la bolla dei filtri, quali sono i suoi difetti, e che cosa significa per la nostra vita quotidiana e per la nostra società. «Ogni tecnologia ha un punto d’intersezione» dice Ryan Calo, un professore di diritto di Stanford «un punto in cui finiamo noi e comincia lei.» E quando il suo compito è quello di mostrarci il mondo, finisce per intromettersi tra noi e la realtà, come la lente di una macchina fotografica. «È una posizione di grande potere» sostiene Calo. «Può distorcere in molti modi la nostra percezione del mondo.»27 Ed è esattamente quello che fa la bolla. I costi della bolla dei filtri sono di tipo sia personale sia culturale. Per quelli di noi che usano filtri personalizzati (e presto lo faremo quasi tutti, che ce ne rendiamo conto o meno) ci sono conseguenze dirette. E quando tante persone cominciano a vivere ognuna nella sua bolla, questo comporta anche conseguenze sociali. Uno dei modi migliori per capire come i filtri condizionano la nostra esperienza individuale è pensare alla nostra dieta di informazioni. Come ha detto il sociologo Danah Boyd nel suo discorso al Web 2.0 Expo del 2009: Il nostro corpo è programmato per consumare grassi e zuccheri perché in natura sono rari… Allo stesso modo, siamo biologicamente programmati per prestare attenzione alle cose che ci stimolano: contenuti volgari, violenti o di tipo sessuale e pettegolezzi umilianti, imbarazzanti o disgustosi. Se non stiamo attenti rischiamo di ammalarci dell’equivalente psicologico dell’obesità. Di trovarci a consumare contenuti che sono dannosi per noi stessi e per la società.28
Come l’agricoltura industrializzata che produce e distribuisce quello che mangiamo condiziona la nostra dieta, le dinamiche dei nostri media influiscono sulle informazioni che consumiamo. Oggi ci stiamo rapidamente muovendo verso un regime sovraccarico di informazioni rilevanti a livello personale. E sebbene possa piacerci, anche una quantità eccessiva di qualcosa di buono può creare seri problemi. Se li lasciamo fare, i filtri personalizzati ci propinano una sorta di autopropaganda invisibile, ci indot-
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trinano con le nostre stesse idee, amplificano il nostro desiderio di cose che ci sono familiari e ci rendono ignari dei pericoli che si annidano nel buio territorio dell’ignoto. Nella bolla dei filtri ci sono meno possibilità di fare incontri illuminanti dai quali imparare qualcosa. La creatività spesso nasce dall’incontro tra idee che provengono da discipline e culture diverse. Dalla combinazione tra l’arte della cucina e la fisica sono nati la padella antiaderente e il piano cottura a induzione. Ma se Amazon pensa che mi interessino i libri di ricette, probabilmente non mi mostrerà mai quelli di metallurgia. Non è solo la nostra capacità di fare scoperte a essere a rischio. Per definizione, un mondo costruito a partire da quello che ci è familiare è un mondo nel quale non c’è niente da imparare. Se la personalizzazione è eccessiva, potrebbe impedirci di entrare in contatto con quelle idee e quelle esperienze che ci sconvolgono la mente, distruggono i nostri preconcetti e cambiano il nostro modo di vedere il mondo e noi stessi. E anche se il pretesto della personalizzazione è quello di offrirci un servizio, non siamo le uniche persone interessate a quei dati. Qualche tempo fa, un gruppo di ricercatori dell’Università del Minnesota ha scoperto che durante il periodo dell’ovulazione le donne rispondono meglio alla pubblicità di abiti aderenti, e ha suggerito agli addetti al marketing di «calcolare strategicamente i tempi» delle loro sollecitazioni online.29 E con una quantità sufficiente di dati, scegliere il momento giusto potrebbe essere più facile di quanto pensiate. Nel migliore dei casi, se una società sa quali articoli leggiamo o qual è il nostro stato d’animo, può presentarci annunci collegati ai nostri interessi. Ma nel peggiore, su quella stessa base può prendere decisioni che influiscono negativamente sulla nostra vita. Per esempio, se cerchiamo informazioni sul trekking in un paese del Terzo mondo, una compagnia di assicurazioni che accede ai nostri percorsi web può decidere di aumentarci il premio, come sostiene il giurista Jonathan Zittrain. I genitori che avevano comprato il software Echometrix Sentry per sapere quello che facevano i loro figli quando erano online si sono indignati quando hanno scoperto che la ditta vendeva i dati dei loro figli alle società di marketing.30 La personalizzazione si basa su un accordo economico. In cambio del servizio che offrono i filtri, regaliamo alle grandi aziende un’enor-
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me quantità di dati sulla nostra vita privata, molti dei quali non confideremmo neanche a un amico. E queste aziende diventano ogni giorno più brave a usarli per prendere decisioni. Ma non abbiamo nessuna garanzia che li trattino con cura e quando sulla base di questi dati vengono prese decisioni che influiscono negativamente su di noi, di solito nessuno ce lo dice. In conclusione, la bolla dei filtri può influire sulla nostra capacità di scegliere come vogliamo vivere. Secondo Yochai Benkler,31 professore di diritto a Harvard e studioso della nuova economia della rete, per essere artefici della nostra vita dobbiamo diventare consapevoli di una serie di modi di vivere alternativi. Quando entriamo nella bolla dei filtri, permettiamo alle aziende che la costruiscono di scegliere quali alternative possiamo prendere in considerazione. Ci illudiamo di essere padroni del nostro destino, ma la personalizzazione può produrre una sorta di determinismo dell’informazione, nel quale ciò che abbiamo cliccato in passato determina ciò che vedremo in futuro, una storia destinata a ripetersi all’infinito. Rischiamo di restare bloccati in una versione statica e sempre più ridotta di noi stessi, una specie di circolo vizioso. E ci sono anche conseguenze più ampie. Nel suo Capitale sociale e individualismo, un libro sul declino del senso civico in America,32 Robert Putnam affronta il problema dell’assottigliamento del «capitale sociale», cioè di quei legami di fiducia e lealtà reciproca che spingono le persone a scambiarsi favori e a collaborare per risolvere problemi comuni. Putnam individua due tipi di capitale sociale: lo «spirito di gruppo», che per esempio si crea tra gli ex studenti della stessa università, e il «senso della comunità», che per esempio si crea quando persone diverse si incontrano in un’assemblea pubblica. Questo secondo tipo di capitale è molto potente: se lo accumuliamo, abbiamo più probabilità di trovare un posto di lavoro o qualcuno disposto a investire nella nostra piccola impresa, perché ci consente di attingere a tante reti diverse. Tutti si aspettavano che internet sarebbe stata una grande fonte di capitale del secondo tipo. Al culmine della bolla speculativa di dieci anni fa, Thomas L. Friedman scriveva che internet ci avrebbe resi «tutti vicini di casa».33 Questa idea era alla base del suo libro Le radici del futuro: «Internet è destinata a diventare una morsa gigantesca che afferra il sistema della globalizzazione […] e continua a stringerlo intorno a tutti in modo
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che il mondo non solo diventi sempre più piccolo, ma anche sempre più veloce, giorno dopo giorno».34 Friedman aveva in mente una sorta di villaggio globale nel quale i bambini africani e i dirigenti d’azienda di New York avrebbero formato un’unica comunità. Ma non è quello che sta succedendo. I nostri vicini virtuali assomigliano sempre più a quelli reali, e i nostri vicini reali assomigliano sempre più a noi. Abbiamo sempre più «spirito di gruppo» ma pochissimo «senso della comunità». E questo è importante, perché è dal senso della comunità che nasce la nostra idea di uno «spazio pubblico» in cui cerchiamo di risolvere i problemi che vanno oltre i nostri interessi personali. Di solito tendiamo a reagire a una gamma di stimoli molto limitata: leggiamo per prima una notizia che riguarda il sesso, il potere, la violenza, una persona famosa, oppure che ci fa ridere. Questo è il tipo di contenuti che entra più facilmente nella bolla dei filtri. È facile cliccare su «Mi piace» e aumentare la visibilità del post di un amico che ha partecipato a una maratona o di una ricetta della zuppa di cipolle. È molto più difficile cliccare «Mi piace» su un articolo intitolato «Nel Darfur è stato il mese più sanguinoso degli ultimi due anni». In un mondo personalizzato, ci sono poche probabilità che questioni importanti ma complesse o sgradevoli, come l’aumento della popolazione delle carceri o di quella dei senzatetto, arrivino alla nostra attenzione. Come consumatori, non è difficile stabilire quello che per noi è irrilevante o poco interessante. Ma quello che va bene per un consumatore non va necessariamente bene anche per un cittadino. Non è detto che quello che in apparenza mi piace sia quello che voglio veramente, e tanto meno che sia quello che devo sapere per essere un cittadino informato di una comunità o di un paese. «È nostro dovere di cittadini essere informati anche su cose che sembrano essere al di fuori dei nostri interessi» dice l’esperto di tecnologia Clive Thompson.35 Il critico Lee Siegel la mette in un altro modo: «I clienti hanno sempre ragione, le persone no».36 La struttura dei mezzi di informazione influisce sul carattere della società. La parola stampata ha consentito il confronto democratico come i manoscritti faticosamente copiati su pergamena non avrebbero mai potuto fare. La televisione ha influito profondamente sulla vita politica del xx
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secolo, dall’assassinio di Kennedy all’11 settembre, e probabilmente non è una coincidenza che, se gli abitanti di un paese passano 36 ore alla settimana davanti alla tv, non hanno tempo per partecipare alla vita civile.37 L’era della personalizzazione è arrivata e sta ribaltando tutte le nostre previsioni su quello che avrebbe fatto internet. I suoi creatori avevano immaginato qualcosa di più grande e di più importante di un sistema globale per condividere le foto dei nostri animali domestici. Il manifesto della Electronic Frontier Foundation all’inizio degli anni novanta parlava di una «civiltà della mente nel cyberspazio»,38 una sorta di metacervello globale. Ma i filtri personalizzati troncano le sinapsi di quel cervello. Senza saperlo, forse ci stiamo facendo una lobotomia globale. Dalle megalopoli alla nanotecnologia, stiamo creando una società globale la cui complessità ha superato i limiti della comprensione individuale. I problemi che dovremo affrontare nei prossimi vent’anni – le crisi energetiche, il terrorismo, il cambiamento di clima, le malattie – saranno enormi. E potremo risolverli soltanto insieme. I primi entusiasti di internet, come il creatore del web Tim BernersLee, speravano che la rete sarebbe stata una nuova piattaforma dalla quale affrontare insieme i problemi del mondo. Io penso che possa ancora esserlo, ma prima dobbiamo guardare dietro le quinte, capire quali sono le forze che la stanno spingendo nella sua direzione attuale. Dobbiamo smascherare il codice e i suoi creatori, quelli che ci hanno regalato la personalizzazione. Se «il codice è la legge», come ha dichiarato il fondatore di Creative Commons Larry Lessig,39 è importante capire quello che stanno cercando di fare i nuovi legislatori. Dobbiamo sapere in che cosa credono i programmatori di Google e Facebook. Dobbiamo capire quali forze economiche e sociali ci sono dietro la personalizzazione, che in parte sono inevitabili e in parte no. E dobbiamo capire anche che cosa significa tutto questo per la politica, la cultura e il nostro futuro. Se non siamo seduti vicino a un amico, non possiamo sapere quanto la versione di Google o di Yahoo News che stiamo vedendo è diversa da tutte le altre. Ma poiché la bolla dei filtri distorce la nostra percezione di ciò che è importante, vero e reale, è fondamentale renderla visibile. Ed è proprio quello che cerca di fare questo libro.
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Se non state pagando qualcosa, non siete un cliente, siete il prodotto che stanno vendendo. Andrew Lewis, sul sito web MetaFilter con lo pseudonimo di Blue_beetle1
Nella primavera del 1994, Nicholas Negroponte era seduto a pensare e a scrivere. Al Media Lab del Massachusetts Institute of Technology (Mit), da lui ideato, giovani progettatori di microcircuiti, artisti della realtà virtuale e gestori di robot erano furiosamente impegnati a costruire i giocattoli e gli strumenti del futuro. Ma Negroponte stava meditando su un problema più semplice, quello che hanno ogni giorno milioni di persone: che cosa guardare in tv. A metà degli anni novanta, esistevano centinaia di canali che trasmettevano ventiquattr’ore al giorno, sette giorni alla settimana. Buona parte della programmazione era orrenda e noiosa: pubblicità di attrezzi da cucina, video dell’ultimo gruppo musicale che aveva prodotto un unico successo, cartoni animati e notizie sui personaggi famosi. Solo una piccola percentuale di quella roba poteva interessare a ogni singolo telespettatore. Con l’aumentare dei canali, il sistema di saltare continuamente da uno all’altro era sempre più frustrante. Cercare tra cinque canali o tra cinquecento non è la stessa cosa. E quando si arriva a 5mila, questo sistema diventa inutile. Ma Negroponte non si preoccupava. Non tutto era perduto, anzi, la soluzione era dietro l’angolo. «La svolta della televisione del futuro» scrisse «sarà smettere di pensare alla televisione come tale», e cominciare a vederla come un apparecchio intelligente. Ciò di cui avevano bisogno i telespettatori era un telecomando che si comandava da solo, un aiutante
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automatico e intelligente che avrebbe imparato quello che ognuno guardava di solito e selezionato i programmi. «Oggi il televisore vi consente solo di controllare la luminosità e il volume e di scegliere il canale» scrisse Negroponte. «Domani vi consentirà scelte ben più ampie, a seconda che siate interessati a spettacoli a luci rosse, a quelli di azione o alla politica.»2 E perché fermarsi lì? Negroponte immaginava un futuro pieno di apparecchi intelligenti che ci avrebbero aiutato a risolvere problemi come quello della televisione. Come un maggiordomo alla porta, quegli «agenti» avrebbero lasciato entrare solo i nostri programmi e i nostri argomenti preferiti. «Immaginate un futuro» scrisse ancora «in cui il vostro agente sia in grado di leggere tutti i giornali e le notizie d’agenzia, e di captare le trasmissioni radio e tv di tutto il pianeta, per poi farne una sintesi personalizzata. Questo tipo di giornale viene stampato in un’unica copia […], chiamatelo The Daily Me (Io oggi).»3 Più ci pensava e più l’idea gli sembrava sensata. Nell’era digitale, la soluzione all’eccesso di informazioni era un redattore intelligente, personalizzato e incorporato. E non soltanto per la televisione. Come scrisse al direttore della nuova rivista di tecnologia Wired, «gli agenti intelligenti sono indubbiamente il futuro dell’informatica».4 A San Francisco, Jaron Lanier rimase sgomento davanti a questa affermazione. Lanier era uno dei creatori della realtà virtuale. Fin dagli anni ottanta cercava di far incontrare i computer con le persone. Ma l’idea degli agenti gli sembrava una follia. «Che cosa vi è preso a tutti?» scrisse in una lettera alla «comunità di Wired» che pubblicò sul suo sito web. «Quest’idea degli agenti “intelligenti” è sbagliata e pericolosa… La questione degli agenti diventerà un fattore determinante per decidere se [la rete] sarà molto meglio o molto peggio della televisione.»5 Lanier era convinto che, dato che non sarebbero state persone reali, quegli agenti avrebbero costretto gli esseri umani a interagire con loro in modo scomodo e frammentario. «Il modello di agente che vi interessa sarà un modello da cartone animato, e attraverso i suoi occhi vedremo una versione da cartone animato del mondo» scrisse. E poi c’era anche un altro problema: l’agente perfetto avrebbe probabilmente escluso quasi tutta la pubblicità. E dato che il commercio online contava soprattutto su quella, era improbabile che le aziende produces-
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sero agenti che le danneggiavano. Era più probabile, scrisse Lanier, che questi agenti facessero il doppio gioco, che fossero corruttibili. «Non si capirebbe per chi lavorano.» Era un’obiezione chiara e semplice. Ma anche se sollevò un po’ di dibattito nei newsgroup online, non riuscì a persuadere i colossi del software dell’alba di internet. Trovavano più convincente la logica di Negroponte: l’azienda che avesse trovato il modo di setacciare il fiume digitale alla ricerca delle pepite d’oro avrebbe conquistato il futuro. Si aspettavano che presto l’attenzione sarebbe crollata, perché le scelte di cui ognuno poteva disporre stavano aumentando all’infinito. Se si voleva guadagnare, bisognava attirare clienti. E in un mondo in cui l’attenzione era fugace, il modo migliore per farlo era offrire contenuti che corrispondessero veramente agli interessi, ai desideri e ai bisogni specifici di ognuno. Nei corridoi e nei centri di calcolo di Silicon Valley, la nuova parola d’ordine era diventata: rilevanza. Tutti si precipitarono a creare un prodotto «intelligente». La Microsoft di Redmond immise sul mercato Bob – un intero sistema operativo che si basava sul concetto di agente, presentato da uno strano avatar disegnato che assomigliava molto a Bill Gates. A Cupertino, quasi dieci anni esatti prima dell’iPhone, la Apple introdusse il palmare Newton, un «segretario personale» il cui punto forte era l’agente che si nascondeva sotto la sua superficie beige. Ma i nuovi prodotti intelligenti furono un flop. Nelle chat e nelle mailing list, tutti prendevano in giro Bob. Gli utenti non lo sopportavano. Pc World lo definì uno dei venticinque peggiori prodotti tecnologici di tutti i tempi.6 E il Newton della Apple non se la cavò molto meglio: sebbene l’azienda avesse investito più di 100 milioni di dollari per realizzarlo,7 nei primi sei mesi della sua esistenza vendette pochissimo. Quando si interagiva con gli agenti intelligenti della metà degli anni novanta, il problema appariva subito evidente: non erano poi così intelligenti. Oggi, a più di dieci anni di distanza, questi geniali collaboratori non si vedono ancora. Sembra che la rivoluzione di Negroponte sia fallita. Quando ci svegliamo la mattina non informiamo un maggiordomo elettronico dei nostri desideri e progetti per la giornata. Ma questo non significa che non esistono. Sono solo nascosti. Assistenti personali simili si celano sotto la superficie di ogni sito web al quale
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accediamo. Diventano ogni giorno più intelligenti e più potenti e accumulano sempre più informazioni su di noi e sui nostri interessi. E, come aveva previsto Lanier, non lavorano solo per noi, lavorano anche per i colossi del software come Google e ci fanno arrivare pubblicità, oltre che contenuti. Anche se non hanno la faccia da cartone animato di Bob, gestiscono una percentuale sempre maggiore delle nostre attività online. Nel 1995, la gara per fornirci un prodotto che avesse una rilevanza specifica per ciascuno di noi era solo cominciata. Forse più di qualsiasi altro fattore, è stato questo obiettivo a fare di internet ciò che è oggi.
Il problema di John Irving L’amministratore delegato di Amazon.com Jeff Bezos fu uno dei primi a rendersi conto che si poteva sfruttare la rilevanza per fare qualche milione di dollari. A partire dal 1994, la sua idea fu quella di riportare la vendita di libri online «ai tempi in cui i piccoli librai ci conoscevano bene e dicevano cose del tipo: “So che le piace John Irving e, pensi un po’, c’è un nuovo autore che assomiglia molto a John Irving”», ha dichiarato a un suo biografo.8 Ma come farlo su vasta scala? Secondo Bezos, Amazon doveva diventare «una specie di piccola società di intelligenza artificiale»9 che disponeva di algoritmi in grado di trovare immediatamente la corrispondenza tra clienti e libri. Nel 1994, quando era un giovane ingegnere informatico che lavorava a Wall Street, Bezos era stato assunto da un investitore perché si facesse venire qualche idea commerciale per il nuovo spazio web in rapida espansione. Bezos lavorò diligentemente, gli presentò un elenco di venti prodotti che in teoria si sarebbero potuti vendere online – musica, abbigliamento, elettronica – e poi si mise a studiare la dinamica di ognuno di questi settori. All’inizio i libri erano in fondo alla lista, ma alla fine dell’indagine scoprì con sua grande sorpresa che erano arrivati ai primi posti.10 I libri erano il prodotto ideale per diversi motivi. Tanto per cominciare, l’industria editoriale non era centralizzata. La casa editrice più grande, la Random House, controllava solo il 10% del mercato.11 Se un editore non gli avesse venduto i suoi libri, ce ne sarebbero stati molti altri che lo avrebbero fatto. E la gente non ci avrebbe messo molto ad abituarsi a
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comprare libri online, come invece avrebbe potuto fare con altri prodotti – la maggior parte delle vendite di libri avveniva già al di fuori delle sedi tradizionali e, diversamente dai vestiti, non era necessario provarli. Ma il motivo principale era semplicemente il fatto che ce n’erano tanti: nel 1994 i titoli attivi erano 3 milioni, rispetto a 300mila titoli di cd.12 Una libreria reale non avrebbe mai potuto contenere fisicamente tutti quei libri, una libreria virtuale sì. Quando riferì questo risultato al suo capo, l’investitore non apparve interessato. Nell’era dell’informatica, i libri gli sembravano un prodotto obsoleto. Ma Bezos non riusciva a togliersi quell’idea dalla mente. Senza un limite fisico al numero di libri che poteva avere in catalogo, avrebbe potuto offrire centinaia di migliaia di titoli in più dei giganti del settore come Borders o Barnes & Noble e, al tempo stesso, avrebbe potuto garantire un servizio più intimo e personalizzato delle grandi catene. L’obiettivo di Amazon, decise, sarebbe stato quello di favorire il processo di scoperta: sarebbe stato un negozio personalizzato che avrebbe aiutato i lettori a trovare i libri e presentato i libri ai lettori. Ma come? Bezos iniziò a pensare all’apprendimento automatico. Era un problema difficile da risolvere, ma un gruppo di tecnici e di scienziati aveva cominciato ad affrontarlo in istituti di ricerca come il Mit e l’Università della California a Berkeley fin dagli anni cinquanta. Avevano chiamato il loro campo di ricerca «cibernetica»,13 una parola presa in prestito da Platone, che l’aveva coniata per designare un sistema che si autoregola, come la democrazia. Per i primi cibernetici, non c’era niente di più eccitante che creare sistemi che si autoregolavano sulla base del feedback. Nel corso dei decenni successivi, avrebbero gettato le fondamenta matematiche e teoriche per lo sviluppo di Amazon. Nel 1990, un’équipe di ricercatori del Centro ricerche della Xerox di Palo Alto (Parc) applicò la teoria cibernetica a un nuovo problema. Il Parc era famoso per la sua capacità di sfornare idee che poi venivano ampiamente adottate e commercializzate da altri, come l’interfaccia utente grafica e il mouse, per citarne solo due.14 E, come molti tecnologi all’avanguardia del tempo, i ricercatori del Parc furono i primi a fare un grande uso delle email, ne mandavano e ricevevano a centinaia. La posta elettronica era una grande invenzione, ma il suo lato negativo apparve subito evidente. Quando mandare un messaggio a tutte le persone
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che vogliamo non costa nulla, si fa presto a essere sommersi da informazioni inutili. Per risolvere questo problema, l’équipe del Parc cominciò a pensare a un sistema che chiamò «filtraggio collaborativo»,15 inserito in un programma che battezzò «Tapestry». Tapestry registrava la reazione delle persone alla massa di email che ricevevano – quali aprivano, a quali rispondevano e quali cancellavano – e usava quelle informazioni per ordinare la casella della posta in arrivo. I messaggi ai quali le persone dedicavano più attenzione passavano in cima alla lista, quelli che venivano spesso cancellati o mai aperti restavano in fondo. In pratica, il filtraggio collaborativo era un modo per risparmiare tempo: invece di dover selezionare tutte quelle email da soli, si poteva contare sull’aiuto di qualcun altro che le preselezionava. E naturalmente quel metodo non si poteva usare solo per le email. Come scrissero i suoi creatori, Tapestry «è progettato per gestire tutto il flusso di documenti elettronici in entrata. La posta è solo una parte di questo flusso, ci sono anche le notizie di agenzia e gli articoli di NetNews».16 Tapestry aveva presentato al mondo il filtraggio collaborativo, ma nel 1990 il mondo non era molto interessato. Dato che i suoi utenti erano solo pochi milioni, internet era un piccolo ecosistema, e non c’erano ancora molte informazioni tra le quali scegliere, né molta ampiezza di banda con la quale scaricare. Quindi il filtraggio collaborativo è rimasto per anni dominio di creatori di software e di studenti universitari annoiati. Nel 1994, se inviavate un messaggio a ringo@media.mit.com con un elenco di album che vi piacevano, il servizio vi rimandava un’email con altri consigli musicali e relative recensioni. «Una volta all’ora» diceva il sito web «il nostro server esamina tutti i messaggi in entrata e invia le risposte opportune».17 Era il precursore di Pandora, un servizio musicale personalizzato dell’epoca precedente alla banda larga. Ma quando nel 1995 uscì Amazon, tutto cambiò. Il sito puntò sulla personalizzazione fin dall’inizio. Vedendo quali libri comprava la gente e usando i metodi di filtraggio collaborativo del Parc, Amazon poteva dare consigli al volo. («Stai comprando Guida alla scherma per negati? Allora perché non ci aggiungi una copia di Svegliarsi ciechi: cause penali sulla perdita della vista?») E vedendo quello che gli utenti compravano nel corso del tempo, poteva anche capire quali avevano preferenze simili tra
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loro. («Altre persone che hanno gusti simili ai tuoi hanno comprato En garde!, la novità della settimana.») Più erano le persone che acquistavano libri su Amazon, più la personalizzazione diventava sofisticata. Nel 1997, Amazon raggiunse il suo primo milione di utenti. Sei mesi dopo, ne aveva 2 milioni. E nel 2001, pubblicò i suoi primi profitti trimestrali. Fu una delle prime aziende a dimostrare che online si poteva guadagnare sul serio. Anche se Amazon non era esattamente riuscita a creare l’atmosfera della libreria di quartiere, il suo metodo di personalizzazione funzionava abbastanza bene. I suoi dirigenti non dicono mai quanto rende veramente, ma indicano spesso il sistema della personalizzazione come la chiave del loro successo. Amazon è sempre affamata di dati sui suoi utenti: se leggiamo un libro su Kindle, le informazioni sulle frasi che evidenziamo, le pagine che giriamo e se leggiamo tutto o saltiamo qua e là tornano ai server di Amazon e possono essere usate per capire quali altri libri ci potrebbero piacere. Quando ci colleghiamo a internet dopo aver passato la giornata in spiaggia a leggere un ebook su Kindle, Amazon è in grado di adattare il suo sito a noi in base a quello che abbiamo letto. Se abbiamo dedicato molto tempo all’ultimo romanzo di James Patterson, ma dato solo un’occhiata fugace a quella nuova dieta, vedremo più pubblicità di thriller e meno di manuali sulla salute.18 Gli utenti di Amazon sono così abituati alla personalizzazione che ormai il sito usa un trucco opposto per guadagnare di più. Gli editori possono pagare perché nei negozi i loro libri vengano sistemati in una posizione strategica, ma non possono comprare le opinioni dei commessi. Come aveva previsto Lanier, invece, corrompere gli algoritmi è più facile: se siete disposti a pagare abbastanza, il software di Amazon può promuovere il vostro libro come se il consiglio che dà fosse assolutamente «obiettivo».19 E la maggior parte degli utenti non è in grado di capire la differenza. Amazon aveva dimostrato che sfruttando il concetto di rilevanza si poteva raggiungere il predominio nel proprio settore. Ma per applicare i princìpi dell’apprendimento automatico all’intero mondo dell’informazione online ci sarebbero voluti due studenti di Stanford.
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Segnali Mentre la nuova società di Jeff Bezos cominciava a decollare, i fondatori di Google Larry Page e Sergey Brin stavano facendo il loro dottorato di ricerca a Stanford. Sapevano del successo di Amazon, nel 1997 la bolla delle dot.com era al culmine, e Amazon, almeno sulla carta, valeva miliardi. Page e Brin erano geni della matematica. Page, in particolare, era appassionato di intelligenza artificiale. Ma a loro interessava un problema diverso. Invece di sfruttare gli algoritmi per vendere meglio certi prodotti, perché non usarli per selezionare i siti web? Page aveva inventato un nuovo sistema e, da buon secchione con la passione per i giochi di parole, lo aveva chiamato PageRank. All’epoca, la maggior parte dei motori di ricerca selezionava le pagine usando certe parole chiave, ma aveva difficoltà a stabilire quale delle pagine contenenti una parola fosse la più rilevante. In un articolo del 1997, Brin e Page osservavano ironicamente che tre dei quattro principali motori di ricerca non erano neanche in grado di trovare se stessi. «Il nostro concetto di “rilevanza” deve includere solo i documenti migliori» scrivevano, «perché potrebbero essercene decine di migliaia di altri la cui rilevanza è soltanto parziale.»20 Page si era reso conto che all’interno della rete c’erano molti più dati di quanti la maggior parte dei motori di ricerca riuscisse a sfruttare. Il fatto che una pagina web rimandasse a un’altra poteva essere considerato un «voto» per quella pagina. A Stanford, Page aveva visto che per valutare l’importanza dei loro articoli i professori contavano quante volte venivano citati. Come i saggi accademici, le pagine citate da molte altre – come, per esempio, la prima di Yahoo – potevano essere ritenute più «importanti», e le pagine per cui quelle votavano erano quelle che contavano di più. Quel processo, sosteneva Page, «sfruttava la singolare struttura democratica del web». In quei primi tempi, Google esisteva solo all’interno di google.stanford. edu, e Brin e Page erano convinti che dovesse rimanere non-profit e libero dalla pubblicità. «I motori di ricerca finanziati dalla pubblicità non possono che essere parziali nei confronti dei loro inserzionisti e lontani dalle esigenze dei consumatori» scrivevano. «Migliore è un motore di ricerca e meno ci sarà bisogno di pubblicità perché l’utente trovi quello che vuole… Pensiamo che la pubblicità confonda gli obiettivi e quindi è fondamenta-
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le che un motore di ricerca competitivo sia trasparente e rimanga nell’ambito accademico.»21 Ma quando fecero uscire la versione beta del loro motore di ricerca, il grafico del traffico salì alle stelle. Google funzionava, appena nato era il miglior motore di ricerca di internet. Ben presto, la tentazione di commercializzarlo sarebbe stata troppo forte perché i suoi creatori poco più che ventenni potessero resisterle. Secondo la leggenda di Google, la società doveva il suo predominio mondiale a PageRank. Ho il sospetto che le piaccia farci pensare che sia così, che la sua sia una storia di successo chiara e semplice basata su un’unica geniale invenzione dei suoi fondatori. Ma fin dall’inizio, PageRank costituiva solo una piccola parte del progetto di Google. Per risolvere il problema di selezionare i risultati più rilevanti tra l’enorme massa di dati del web bisognava… avere più dati. A Brin e Page non interessava solo sapere quali pagine rimandavano ad altre. La posizione del link, le sue dimensioni, da quanto tempo esisteva quella pagina, erano tutti fattori che contavano. Nel corso degli anni, Google è arrivato a definire queste informazioni inglobate nei dati «segnali». Brin e Page si erano resi conto fin dall’inizio che alcuni dei segnali più importanti sarebbero arrivati dagli utenti stessi del motore di ricerca. Se una persona cerca «Larry Page» e clicca sul secondo risultato, anche quello è un voto. Fa pensare che per l’utente quel secondo link sia più rilevante del primo. Lo chiamarono «segnale clic» (click signal). «Per alcune delle ricerche più importanti» scrivevano Brin e Page «sarà necessario sfruttare una grande quantità dei dati messi a disposizione dai sistemi web… Sono molto difficili da ottenere, soprattutto perché si ritiene che abbiano un valore commerciale.»22 Ma presto si sarebbero trovati a disporre della più grande riserva mondiale di tali dati. In questo Google era insaziabile. Brin e Page erano decisi a conservare qualsiasi cosa: tutte le pagine web che il motore di ricerca avesse mai trovato, tutti i clic degli utenti. Ben presto i loro server contenevano una copia quasi in tempo reale della maggior parte del web. Setacciando quei dati, erano sicuri che avrebbero trovato altri indizi, altri segnali, che potevano essere usati per migliorare i risultati. Nel reparto qualità delle ricerche della società si instaurò un’atmosfera di mistero; la regola era: pochi visitatori e massima segretezza.23
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«Il motore di ricerca ideale» amava scrivere Page «deve capire esattamente quello che cerchi e darti esattamente quello che desideri.»24 Google non doveva sfornare migliaia di pagine di risultati, doveva darcene uno solo, quello che volevamo. Ma la risposta perfetta per una persona può non esserlo per un’altra. Se io cerco «pantere», probabilmente mi riferisco ai grandi felini selvatici, mentre un tifoso di football americano intende la squadra della Carolina. Per fornire il risultato perfetto, il motore avrebbe dovuto sapere che cosa interessa a ognuno di noi. Avrebbe dovuto sapere che io non capisco niente di football; in pratica, sapere chi sono. Il problema era raccogliere abbastanza dati per capire che cosa fosse rilevante per ciascun utente. Comprendere quello che intende dire una persona è difficile, per riuscirci è necessario studiare il suo comportamento per un certo periodo di tempo. Ma come fare? Nel 2004, agli autori di Google venne in mente una nuova strategia. Cominciarono a fornire altri servizi, che prevedevano l’accesso a un sito. Gmail, il suo popolarissimo servizio di posta elettronica, fu uno dei primi. La stampa concentrò l’attenzione sugli annunci pubblicitari che scorrevano sulla barra laterale di Gmail, ma è improbabile che fossero l’unico motivo per cui era stato offerto quel servizio. Costringendo le persone ad accedere inserendo indirizzo email e password, Google metteva le mani su un’enorme quantità di dati: le centinaia di milioni di messaggi che gli utenti inviavano e ricevevano ogni giorno. E poteva incrociare la posta dell’utente e il suo comportamento sul sito con i link che cliccava nel motore di ricerca. Google Apps – una serie di strumenti online per scrivere e creare fogli di calcolo – svolgeva una doppia funzione: toglieva clienti alla Microsoft, la nemica giurata di Google, e offriva agli utenti un altro motivo per restare collegati continuando a inviare segnali clic. Tutti questi dati permettevano a Google di accelerare la costruzione di una teoria sull’identità di ogni utente: quali erano gli argomenti che gli interessavano, quali link cliccava. Nel novembre del 2008, Google aveva già diversi brevetti per la personalizzazione degli algoritmi, codici che consentivano di stabilire a quale gruppo apparteneva un individuo e di adattare i risultati della ricerca alle preferenze di quel gruppo. Le categorie che Google aveva in mente erano piuttosto ristrette: per citare il brevetto, Google faceva l’esempio di «tutte le persone interessate a collezionare denti di squalo antichi» e «tutte le
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persone non interessate a collezionare denti di squalo antichi».25 Le persone della prima categoria che avessero cercato, per esempio, «grandi incisivi bianchi» avrebbero ottenuto risultati diversi da quelle della seconda. Oggi Google raccoglie tutti i segnali sui quali riesce a mettere le mani. L’importanza di questi dati non va sottovalutata: se il motore vede che mi collego da New York, poi da San Francisco e poi di nuovo da New York, sa che sono uno che viaggia da una costa all’altra e regola i risultati di conseguenza. Guardando quale browser uso, può ipotizzare la mia età e forse anche le mie idee politiche. Il tempo che passa dal momento in cui cominciamo una ricerca a quello in cui clicchiamo su un risultato costituisce un indizio della nostra personalità. E naturalmente, i termini che cerchiamo rivelano i nostri interessi. Google personalizza le nostre ricerche anche quando non siamo connessi. Può vedere il quartiere, perfino l’isolato, dal quale ci connettiamo, e questo è importante per capire chi siamo e quali possono essere le nostre preferenze. Se scriviamo «Sox» da Wall Street, probabilmente ci riferiamo alla legge Sarbane Oxley sulle responsabilità delle società quotate in borsa, se invece siamo a Staten Island è probabile che stiamo cercando la squadra di baseball. «Molta gente pensa che per affinare le ricerche non si può fare più di così» ha detto Page nel 2009. «Ma non è affatto vero. Abbiamo fatto solo il 5% della strada. Vogliamo creare un motore di ricerca perfetto in grado di capire tutto… Qualcuno potrebbe definirlo un’intelligenza artificiale.»26 Nel 2006, durante la conferenza stampa annuale di Google, l’amministratore delegato Eric Schmidt illustrò il suo piano quinquennale. Un giorno, disse, Google sarà in grado di rispondere a domande del tipo: «A quale università devo andare?». «Dovrà passare ancora qualche anno prima che possa rispondere almeno parzialmente a questo genere di quesiti. Ma alla fine […] sarà capace anche di rispondere a domande più ipotetiche.»27
Facebook ovunque Gli algoritmi di Google erano impareggiabili, ma la difficoltà principale era costringere gli utenti a rivelare i loro gusti e i loro interessi. Nel feb-
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braio del 2004, mentre lavorava nella sua stanza alla casa dello studente di Harvard, Mark Zuckerberg partorì una soluzione facilissima. Invece di dedurre i gusti delle persone dai clic, con la sua creazione, Facebook, sarebbe stato possibile chiederglieli direttamente. Fin dal primo anno di college, Zuckerberg era rimasto affascinato da quello che chiamava il «grafico sociale», l’insieme dei rapporti che aveva ogni studente. Inserendo quei dati, un computer avrebbe potuto fare delle cose piuttosto utili e rilevanti, come dirci che cosa stavano facendo i nostri amici, dov’erano e che interessi avevano. Sarebbe stato comodo anche per le notizie: nella sua prima incarnazione come sito circoscritto a Harvard, Facebook inseriva automaticamente nella pagina personale di ognuno i link con gli articoli del Crimson, il giornale del college, in cui compariva il suo nome. Facebook non era certo il primo social network. Mentre Zuckerberg faceva le ore piccole per partorire la sua creatura, la popolarità di MySpace, un sito prevalentemente musicale, era già alle stelle. E prima di MySpace, per un breve periodo a catturare l’attenzione degli appassionati era stato Friendster. Ma il sito web che aveva in mente Zuckerberg era diverso. Non sarebbe stato un luogo d’incontro per timidi come Friendster. E diversamente da MySpace, che incoraggiava le persone a entrare in contatto, che si conoscessero o no, Facebook avrebbe sfruttato i rapporti sociali che già esistevano nel mondo reale. Rispetto ai suoi predecessori, era molto più semplice: puntava soprattutto sulle informazioni, non sulla grafica vistosa o sull’atmosfera culturale. «Siamo un servizio»28 avrebbe detto in seguito Zuckerberg. Facebook non assomigliava tanto a un nightclub quanto a una società telefonica, una piattaforma neutra per comunicare e collaborare. Già dalla sua prima incarnazione, si diffuse in un lampo. Quando lo estese ad alcuni campus selezionati dell’Ivy League, Zuckerberg fu inondato di richieste dagli studenti di altre università, che lo imploravano di allargarlo anche a loro. Nel maggio del 2005, funzionava già in oltre ottocento college. Ma fu l’aggiunta di News Feed nel settembre successivo a portare Facebook a un altro livello. Su Friendster e MySpace, per sapere che cosa stavano facendo i vostri amici dovevate visitare la loro pagina. L’algoritmo News Feed estraeva tutti gli aggiornamenti dall’enorme database di Facebook, e li si trovava
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insieme, in primo piano, appena lo si apriva. Da un giorno all’altro, da una rete di pagine web collegate tra loro, Facebook si era trasformato in un giornale personalizzato in cui comparivano i vostri amici, creato da loro. È difficile immaginare qualcosa di più «rilevante». Il suo successo fu eccezionale. Nel 2006, gli utenti di Facebook postarono letteralmente miliardi di aggiornamenti: citazioni filosofiche, informazioni sulle persone con cui uscivano, quello che avevano mangiato a colazione. Zuckerberg e i suoi collaboratori li incoraggiavano: più dati gli utenti fornivano, più la loro esperienza sarebbe stata interessante e più spesso sarebbero tornati sul sito. Quasi subito, venne aggiunta la possibilità di caricare fotografie, e Facebook divenne la più grande raccolta di foto del mondo. Incitarono gli utenti a inserire link ad altri siti, e ne arrivarono a milioni. Nel 2007, Zuckerberg dichiarava con orgoglio: «In un singolo giorno offriamo ai nostri 19 milioni di utenti più notizie di quante ne abbia mai prodotte qualsiasi altro mezzo di informazione in tutta la sua esistenza».29 All’inizio, News Feed mostrava quasi tutto quello che gli amici facevano nel sito. Ma quando il volume dei post e degli amici cominciò a crescere, la pagina divenne praticamente illeggibile e ingestibile. Anche se avevate solo un centinaio di amici, c’erano troppe cose da leggere. La soluzione che trovò Facebook fu EdgeRank, l’algoritmo in base al quale funziona la pagina di default del sito, Top News Feed. EdgeRank classifica tutte le interazioni che avvengono. L’aspetto matematico è complicato, ma l’idea di base è piuttosto semplice, e si basa su tre fattori.30 Il primo è l’affinità: più siamo amici di qualcuno – e questo si stabilisce in base al tempo che passiamo a interagire con quella persona e a controllare il suo profilo – più probabilità ci sono che Facebook ci mostri i suoi aggiornamenti. Il secondo è l’importanza relativa attribuita ai contenuti: gli aggiornamenti di stato riguardanti i rapporti sentimentali, per esempio, hanno un peso maggiore. Tutti vogliono sapere con chi escono gli altri. (Molti hanno il sospetto che anche questo dato sia personalizzato. A persone diverse interessano contenuti diversi.) Il terzo è il tempo: i post più recenti hanno la priorità su quelli più vecchi. EdgeRank dimostra il paradosso che è alla base della corsa alla rilevanza. Per garantirla, gli algoritmi che si occupano della personalizzazione hanno bisogno di dati. Ma più dati hanno, più i filtri devono essere sofisticati per organizzarli. È un ciclo senza fine.
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Nel 2009, Facebook aveva già raggiunto i 300 milioni di utenti e cresceva di 10 milioni al mese.31 A venticinque anni, Zuckerberg era miliardario. Ma l’azienda aveva ambizioni più alte. Zuckerberg voleva fare per tutte le informazioni quello che News Feed aveva fatto per le notizie personali. Sebbene non lo dicesse apertamente, il suo obiettivo era chiaro: sfruttando il grafico sociale e la massa di informazioni fornite dagli utenti, voleva mettere il motore di ricerca di Facebook al centro del web. Anche tenendo conto di questo, fu una vera sorpresa quando, il 21 aprile del 2010, i lettori caricarono la homepage del Washington Post e scoprirono che c’erano anche i loro amici.32 In un riquadro messo bene in evidenza nell’angolo in alto a destra – il posto dove qualsiasi direttore di giornale vi dirà che l’occhio cade per primo – c’era un servizio intitolato «Network News». In quel box, ogni persona che visitava il sito trovava una serie di rimandi diversi – i link del Washington Post che i suoi amici avevano condiviso su Facebook. Il Post stava permettendo a Facebook di inserirsi nel suo bene più prezioso online: la prima pagina. Ben presto anche il New York Times avrebbe seguito il suo esempio. Il nuovo servizio faceva parte di una piattaforma molto più ampia che l’azienda chiamò «Facebook Everywhere» e la cui uscita fu annunciata alla conferenza annuale degli sviluppatori, chiamata «f8» (fate, cioè fato). Da quando Steve Jobs aveva definito la Apple «follemente grande», questo stile grandioso aveva sempre fatto parte della tradizione di Silicon Valley. Ma quando Zuckerberg salì sul palco il 21 aprile 2010, quello che disse sembrò plausibile. «Questo è il cambiamento più importante che abbiamo mai introdotto nel web»33 annunciò. Lo scopo di Facebook Everywhere era semplice: rendere «sociale» l’intera rete ed estendere lo stile personalizzato di Facebook a milioni di siti che ancora non l’avevano. Volete sapere che tipo di musica ascoltano i vostri amici? Adesso Pandora ve lo dirà. Volete sapere quali ristoranti preferiscono? Ora Yelp ha la risposta. Ormai i siti di notizie, dall’Huffington Post al Washington Post, erano tutti personalizzati. Facebook permetteva di cliccare il pulsante «Mi piace» su qualsiasi elemento del web. Nelle prime ventiquattr’ore dall’uscita del nuovo servizio, partirono un miliardo di «Mi piace», e tutti i dati rifluirono verso i server di Facebook. Bret Taylor, il principale ideatore della piattaforma, annunciò che i suoi utenti condividevano 25 miliardi di elementi al
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mese.34 Google, che fino a quel momento era stato indiscutibilmente al primo posto nella corsa alla rilevanza, cominciò a preoccuparsi del rivale che lo tallonava. I due colossi sono ormai arrivati al combattimento corpo a corpo: Facebook ruba dirigenti chiave a Google. Google sta cercando di costruire un social network come Facebook. Ma non è del tutto chiaro perché mai questi due monoliti dei nuovi media debbano essere in guerra. Dopotutto, lo scopo principale di Google è rispondere alle domande, mentre la missione di Facebook è quella di aiutare le persone a restare in contatto con i loro amici. Ma i profitti di entrambe le aziende dipendono dalla stessa cosa: la pubblicità mirata e personalizzata. Gli annunci contestuali che Google inserisce accanto ai risultati delle ricerche e nelle pagine web sono la sua unica fonte importante di profitto. E anche se Facebook gode di finanziamenti privati, chi ci lavora ha fatto chiaramente capire che la pubblicità è al centro del modello commerciale dell’azienda. Google e Facebook hanno punti di partenza e strategie diverse: uno si basa sui rapporti tra informazioni, l’altro sui rapporti tra persone, ma alla fine sono in concorrenza per la stessa pubblicità. Dal punto di vista degli inserzionisti online, la questione è semplice. Quale dei due è in grado di far rendere di più i soldi investiti? Ed è qui che torna in gioco la rilevanza. La massa di dati che accumulano serve a due scopi. Agli utenti garantisce la rilevanza a livello personale delle informazioni e dei risultati. Agli inserzionisti permette di trovare probabili compratori. Chi dispone di più dati e sa sfruttarli meglio ottiene più pubblicità. Il che ci porta al lock-in, cioè alla cattura del cliente. Il lock-in è il punto in cui un utente è così coinvolto che, anche se la concorrenza offre servizi migliori, non se la sente di cambiare. Se siete iscritti a Facebook, pensate a quanto vi costerebbe passare a un altro social network, anche se offrisse molto di più. Probabilmente ci vorrebbe molto tempo per ricreare il profilo, per caricare tutte le fotografie, e inserire di nuovo tutti i nomi dei vostri amici sarebbe estremamente noioso. La dinamica del lock-in può essere descritta dalla legge di Metcalfe, il principio formulato da Bob Metcalfe, l’inventore del protocollo Ethernet che collega tra loro i computer. Secondo questa legge, per ogni persona
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che vi si aggiunge una rete diventa sempre più utile. Non serve a molto essere gli unici ad avere un fax, ma se tutte le persone con cui lavoriamo lo usano, è un grosso svantaggio non averlo. Il lock-in è il lato oscuro della legge di Metcalfe: Facebook è utile proprio perché ci sono tutti. Bisognerebbe gestirlo veramente male per annullare questo fatto basilare. Più gli utenti sono catturati, più è facile convincerli a connettersi e, quando siamo sempre connessi, la società può continuare a raccogliere i nostri dati anche quando non andiamo sul suo sito. Se siamo connessi a Gmail e visitiamo pagine che usano il servizio Doubleclick di Google, questo viene automaticamente inserito sul nostro account. E con i cookie traccianti che questi servizi piazzano nel nostro computer, Facebook o Google possono mandarci annunci pubblicitari basati sulle nostre informazioni personali prese da altri siti. L’intero web può diventare la loro piattaforma. Ma Google e Facebook non sono l’unica scelta possibile. La loro guerra quotidiana per la conquista del territorio tiene occupate decine di giornalisti economici e centinaia di blogger, ma in questa battaglia si sta furtivamente aprendo un terzo fronte. E sebbene la maggior parte delle aziende coinvolte operi in segreto, potrebbero essere proprio loro a rappresentare il futuro della personalizzazione.
Il mercato dei dati La caccia ai complici degli assassini dell’11 settembre è stata una delle più estese della storia. Immediatamente dopo gli attacchi, non si conoscevano le dimensioni del complotto. C’erano altri dirottatori che non erano stati ancora scoperti? Quanto era ampia la rete che aveva organizzato gli attentati? Per tre giorni, la Cia, l’Fbi e una miriade di altre agenzie lavorarono giorno e notte per capire chi altro era coinvolto. In tutti gli Stati Uniti non volò nessun aereo e gli aeroporti rimasero chiusi. L’aiuto arrivò da una fonte impensabile. Il 14 settembre, l’Fbi aveva reso noti i nomi dei dirottatori, e adesso chiedeva – pregava – chiunque avesse informazioni su di loro di farsi avanti. Quello stesso giorno, ricevette una telefonata da Mack McLarty, un ex funzionario della Casa Bianca che faceva parte del consiglio di amministrazione di una società poco nota ma molto redditizia, Acxiom.
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Appena resi pubblici i nomi dei dirottatori, Acxiom aveva avviato una ricerca nelle sue enormi banche dati, che occupano più di due ettari del piccolo centro di Conway, nell’Arkansas. E aveva scoperto alcune informazioni molto interessanti sui responsabili degli attacchi. In realtà, sembra che Acxiom su undici dei diciannove dirottatori ne sapesse di più dell’intero governo degli Stati Uniti, compresi i loro indirizzi passati e presenti e i nomi delle persone con cui abitavano.35 Probabilmente non sapremo mai che cosa c’era nei file che Acxiom consegnò alle autorità (anche se un funzionario dichiarò a un giornalista che le sue informazioni avevano consentito espulsioni e incriminazioni). Ma ecco quello che Acxiom sa del 96% delle famiglie americane e di mezzo miliardo di persone in tutto il mondo: il nome di tutti i familiari, i loro indirizzi presenti e passati, con quale frequenza saldano il conto delle loro carte di credito, se hanno un cane o un gatto (e di che razza), se mangiano con la destra o con la sinistra, che tipo di medicinali usano (in base ai dati delle farmacie)… e questa lista potrebbe andare avanti fino a circa 1500 dati. Acxiom cerca di restare nell’ombra, probabilmente non è un caso che il suo nome sia quasi impronunciabile, ma serve la maggior parte delle grandi aziende americane, nove su dieci delle maggiori carte di credito e marchi importanti che vanno da Microsoft a Blockbuster.36 «Acxiom è come una fabbrica automatizzata» ha dichiarato uno dei suoi tecnici a un giornalista «che però produce dati.»37 Per avere un’idea della visione che Acxiom ha del futuro, basta considerare siti di prenotazioni come Travelocity o Kayak. Vi siete mai chiesti come fanno a guadagnare? Kayak ci riesce in due modi. Uno è semplicissimo, e lo ha ereditato dalle vecchie agenzie di viaggi: quando compriamo un volo usando un link di Kayak, la compagnia aerea paga una piccola percentuale al sito. L’altro è molto meno ovvio. Mentre cerchiamo il volo, Kayak piazza un cookie nel nostro computer, un piccolo file che praticamente ci attacca un bigliettino in fronte con la scritta: «Dimmi tutto sulle tariffe più economiche per viaggiare da una costa all’altra». Così Kayak può vendere quel dato a una società come Acxiom o alla sua rivale BlueKai, che a loro volta lo rivendono al maggior offerente, in questo caso probabilmente una grande compagnia aerea come la United.38 Appena sa che viaggio ci in-
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teressa, la United può mostrarci gli annunci dei relativi voli, non solo su Kayak, ma letteralmente su quasi ogni sito internet che incontriamo. Tutto questo processo, dalla raccolta dei dati alla vendita alla United, avviene in meno di un secondo.39 I paladini di questa strategia la chiamano behavioral retargeting. Le aziende avevano notato che il 98% dei visitatori di un negozio online se ne andava senza aver comprato nulla.40 Il retargeting permette loro di rimediare a questo rifiuto. Supponiamo di essere andati a guardare un paio di scarpe da ginnastica su un sito e poi di essere usciti senza comprarle. Se il sito usa la strategia del retargeting, la sua pubblicità – nella quale magari appaiono proprio le scarpe che ci interessano – ci seguirà su tutta internet, e salterà fuori accanto al punteggio del gioco che stiamo facendo o al nostro blog preferito. E se alla fine ci arrendiamo e compriamo le scarpe? Il sito può vendere quell’informazione a BlueKai che a sua volta la rivenderà, per esempio, a un negozio online di articoli sportivi. E molto presto cominceremo a vedere ovunque la pubblicità di una marca di calzini che assorbono il sudore. Questo tipo di pubblicità insistente e personalizzata non si limita a invadere il nostro computer. Siti come Loopt e Foursquare, che trasmettono la posizione del cellulare dell’utente, offrono ai pubblicitari la possibilità di raggiungerlo con annunci mirati anche quando è in giro per il mondo. Loopt è un sistema che consente di inviare sconti speciali e promozioni ai clienti sui loro telefoni prima ancora che varchino la soglia di un negozio. E se ci troviamo su un volo della South-West Airlines, la pubblicità che leggiamo sullo schienale della poltrona davanti a noi potrebbe essere diversa da quella che vede chi ci siede accanto. La South-West sa come ci chiamiamo e chi siamo. E incrociando quelle informazioni con un database come quello di Acxiom, può sapere molto di più su di noi. E allora perché non mostrarci annunci personalizzati, o magari un programma mirato grazie al quale sarà più probabile che le vedremo? TargusInfo, un’altra delle nuove aziende che elaborano questo tipo di informazioni, si vanta di «trasmettere in tempo reale più di 62 miliardi di attributi all’anno».41 Questo significa 62 miliardi di dati su chi sono i clienti, che cosa stanno facendo e che cosa vogliono. Un’altra impresa dal nome sinistro, la Rubicon Project, sostiene di avere nel suo database mezzo miliardo di utenti internet.42
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Per il momento, a usare il retargeting sono solo gli inserzionisti, ma non c’è motivo di pensare che gli editori e i fornitori di contenuti non arriveranno a sfruttarlo. Dopotutto, se il Los Angeles Times sa che siete un fan di Perez Hilton, può mettere sulla prima pagina della vostra edizione personale l’intervista con lui, così è più probabile che rimaniate sul sito e clicchiate altri link. Tutto questo significa che ormai i nostri comportamenti sono una merce, una piccola fetta di mercato che costituisce il trampolino di lancio per la personalizzazione dell’intera rete. Siamo abituati a pensare al web come a una serie di rapporti biunivoci: gestiamo il nostro rapporto con Yahoo separatamente da quello con il nostro blog preferito. Ma dietro le quinte il web sta diventando sempre più integrato. Le aziende si stanno accorgendo che è utile condividere le informazioni. Grazie ad Acxiom e al mercato dei dati, i siti possono mettere in primo piano i prodotti che più ci interessano e bisbigliare tra loro alle nostre spalle. La corsa alla rilevanza ha dato origine agli attuali colossi di internet e sta spingendo le aziende ad accumulare sempre più dati su di noi e a confezionare le nostre esperienze online su quella base senza che ce ne accorgiamo. Questo sta cambiando la struttura del web. Ma, come vedremo in seguito, le conseguenze della personalizzazione sul modo in cui consumiamo le informazioni, prendiamo decisioni politiche, e perfino su come pensiamo, potrebbero essere ancora più drammatiche.