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Lucio Magri
Il sarto di Ulm Storia militante del comunismo italiano nel Novecento
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In una delle affollate assemblee che dovevano decidere se cambiare nome al Pci, un compagno rivolse a Pietro Ingrao una domanda: «Dopo tutto ciò che è successo e sta succedendo, credi proprio che con la parola comunista si possa ancora definire un grande partito democratico e di massa come siamo stati, ancora siamo e che vogliamo rinnovare e rafforzare per portarlo al governo del paese?». Ingrao, che già aveva ampiamente esposto le ragioni del suo dissenso da Occhetto e proposto di seguire un’altra strada, rispose, scherzosamente ma non troppo, usando un famoso apologo di Bertolt Brecht, Il sarto di Ulm. Quell’artigiano, fissato nell’idea di apprestare un apparecchio che permettesse all’uomo di volare, un giorno, convinto di esserci riuscito, si presentò al vescovo e gli disse: «Eccolo, posso volare». Il vescovo lo condusse alla finestra dell’alto palazzo e lo sfidò a dimostrarlo. Il sarto si lanciò e ovviamente si spiaccicò sul selciato. Tuttavia – commenta Brecht – alcuni secoli dopo gli uomini riuscirono effettivamente a volare. Io, che ero presente, trovai la risposta di Ingrao non solo arguta, ma fondata. Quanto tempo, quante lotte cruente, quanti avanzamenti e quante sconfitte, furono necessari al sistema capitalistico – in un’Europa occidentale all’inizio più arretrata e barbarica di altre regioni del mondo – per trovare alla fine una efficienza economica mai conosciuta, darsi nuove istituzioni politiche più aperte, una cultura più razionale? Quali contraddizioni irriducibili marcarono, per secoli, il liberalismo tra ideali solennemente affermati (la comune natura umana, la libertà di pensiero e di parola, la sovranità conferita dal popolo) e pratiche che li smentivano in
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modo permanente (schiavismo, dominazione coloniale, espulsione dei contadini dalle terre comuni, guerre di religione)? Contraddizioni di fatto, ma legittimate nel pensiero: l’idea che alla libertà non potessero né dovessero accedere se non coloro che avessero per censo e cultura, perfino per razza e colore, la capacità di esercitarla saggiamente; e l’idea correlativa che la proprietà dei beni era un diritto assoluto e intoccabile e dunque escludeva il suffragio generale. Tutte contraddizioni che non tormentarono solo la prima fase di un ciclo storico, ma si erano riprodotte in forme diverse, nelle loro successive evoluzioni e gradualmente si erano ridotte solo per l’intervento di nuovi soggetti sociali sacrificati e di forze contestatrici di quel sistema e di quel pensiero. Se dunque la storia reale della modernità capitalistica non era stata lineare, né univocamente progressiva, anzi drammatica e costosa, perché dovrebbe esserlo il processo del suo superamento? Questo appunto voleva significare l’apologo del sarto di Ulm. Tuttavia, scherzosamente ma non troppo, proposi subito a Ingrao due interrogativi che quell’apologo, anziché superare, metteva in luce. Siamo sicuri che il sarto di Ulm, se fosse sopravvissuto storpiato alla rovinosa caduta, sarebbe rapidamente risalito per riprovarci, e che i suoi amici non avrebbero cercato di trattenerlo? E comunque, quel suo azzardato tentativo, quale contributo effettivo aveva portato alla successiva storia dell’aeronautica? Questi interrogativi, in relazione al comunismo, erano particolarmente pertinenti e ostici. Anzitutto perché, nella sua costituzione teorica, pretendeva non di essere un ideale cui ispirarsi, ma parte di un processo storico già in corso, di un movimento reale che cambia lo stato di cose esistenti: comportava quindi, in ogni momento, una verifica fattuale, un’analisi scientifica del presente, una realistica previsione sul futuro, per non evaporare in un mito. In secondo luogo perché tra le precedenti sconfitte e gli arretramenti delle rivoluzioni borghesi, in Francia e in Inghilterra, e il crollo recente del «socialismo reale» occorre vedere una differenza pesante. Una differenza che non si misura nel numero dei morti o nell’uso del dispotismo, ma nel risultato: le prime hanno lasciato eredità, magari molto più modeste delle speranze iniziali, dovunque sono avvenute, comunque immediatamente evidenti; del secondo è invece difficile decifrare e misurare il lascito e individuare degni continuatori. Vent’anni dopo, questi interrogativi non solo non hanno trovato una risposta, ma non sono neppure stati seriamente discussi. O meglio, delle
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risposte le hanno trovate in una forma molto superficiale e dettata dalle convenienze: abiura o rimozione. Un’esperienza storica e un patrimonio teorico che hanno segnato un secolo sono stati così affidati, per usare un’espressione di Marx, alla «critica roditrice dei topi», che come si sa sono voraci e, in un ambiente adatto, si moltiplicano velocemente. La parola comunista torna certo ancora, in modo ossessivo e caricaturale, nella propaganda della destra più rozza. Resta nei simboli elettorali di piccoli partiti europei, per conservare il consenso di una minoranza affezionata a un ricordo, o per indicare genericamente un’avversione al capitalismo. In altre regioni del mondo, partiti comunisti continuano a governare piccoli paesi, soprattutto a difesa della propria indipendenza dall’imperialismo, e uno, grandissimo, in cui serve a sostenere uno straordinario sviluppo economico, che però va in altra direzione. La Rivoluzione di ottobre è generalmente considerata una grande illusione, in qualche momento e agli occhi di pochi utile, ma nel complesso sciagurata (identificata con lo stalinismo e in una sua versione grottesca), comunque condannata dal suo esito finale. Marx, di recente, ha riconquistato un certo credito, come pensatore, per le sue lungimiranti previsioni sul capitalismo del futuro, ma del tutto amputato dall’ambizione di porvi fine. Ancor peggio, la dannazione della memoria tende ormai a procedere oltre: a estendersi all’intera vicenda del socialismo e, su per li rami, alle componenti radicali della rivoluzione borghese e alle lotte di liberazione dei popoli coloniali (che, come si sa, anche nel paese di Gandhi, non poterono essere sempre pacifiche). Insomma, «il fantasma che si aggirava» sembra finalmente sepolto: da alcuni con onore, da altri con odio non dimenticato, dai più con indifferenza perché non ha più nulla da dirci. L’orazione più graffiante, ma a suo modo più rispettosa, a questa definitiva sepoltura l’aveva anticipata uno dei maggiori cervelli avversari, Augusto Del Noce. Quando, anni fa, disse in sostanza dei comunisti: hanno perduto e vinto. Hanno perduto rovinosamente nella loro prometeica ambizione di rovesciare il corso della storia, di promettere agli uomini libertà e fratellanza, anche senza Dio e riconoscendosi mortali. Ma hanno vinto come potente e necessario fattore di accelerazione della globalizzazione della modernità capitalistica e dei suoi valori: il materialismo, l’edonismo, l’individualismo, il relativismo etico. Uno straordinario fenomeno di eterogenesi dei fini, che egli, cattolico conservatore e intransigente, pensava di aver previsto, ma del quale aveva poche ragioni per compiacersi.
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Chi però al tentativo del comunismo ha creduto, in qualche modo vi ha partecipato, e solitamente senza dare segnali di allarme, ha il dovere di renderne conto, anche a se stesso, di chiedersi se quella sepoltura non sia troppo frettolosa, se non occorre un altro certificato sul rigor mortis. Abbiamo tutti molti argomenti per aggirare l’ostacolo. Del tipo: sono stato un comunista italiano perché era prioritario per combattere il fascismo, difendere la democrazia repubblicana, sostenere le sacrosante rivendicazioni dei lavoratori; oppure, sono diventato comunista quando il legame con l’Unione Sovietica o l’ortodossia marxista erano ormai in discussione, oggi posso aggiungere una circoscritta autocritica al passato e una forte apertura al nuovo. Non basta? A mio parere non basta, perché non rende conto di un’impresa collettiva che, nel bene e nel male, ha coperto molti decenni, e va considerata e compresa nel suo insieme. Non basta soprattutto per trarne una lezione utile per l’oggi e per il domani. Sento troppi ormai dire: era tutto uno sbaglio ma sono stati i migliori anni della nostra vita. Per alcuni anni, sotto botta, questo misto di autocritica e di nostalgia, di dubbio e di fierezza, soprattutto tra le persone semplici, mi è sembrato giustificato, anzi una risorsa. Ma col passare del tempo, e soprattutto tra intellettuali e dirigenti, mi pare ormai un accomodante compromesso con se stessi e con il mondo. E torno di nuovo e di più a chiedermi: ci sono argomenti razionali e convincenti per opporsi all’abiura e alla rimozione? O quanto meno ci sono buone ragioni e condizioni adatte per riaprire oggi criticamente una discussione sul comunismo, anziché archiviarla? A me pare di sì. Da quel fatale Ottantanove molta acqua è infatti passata sotto i ponti, turbolenta. Le novità che quella cesura storica esprimeva e ratificava sono emerse più chiare e definitive, e altre se ne sono aggiunte, rapide e inattese. Dal loro insieme è risultato un nuovo assetto dell’ordine mondiale, della società e della coscienza di chi ci vive. Ciò che restava in campo, vincente, non era solo il capitalismo, ma un capitalismo cui la vittoria permetteva di riaffermare, senza più condizionamenti cogenti, i suoi valori e meccanismi fondanti e cui una nuova rivoluzione tecnologica, e un salto nella globalizzazione, sembravano promettere espansione economica impetuosa e duratura, stabilità delle relazioni internazionali sotto la guida, condivisa o subìta, di una sola soverchiante po-
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tenza. Si poteva certo ancora discutere nel valutare il contributo che i conflitti e la competizione tra due sistemi del secolo scorso avevano dato alla democrazia e al progresso, o di ciò che erano costati a ciascuno e a tutti. Si poteva anche discutere dei correttivi da apportare al nuovo assetto per ridurne le peggiori conseguenze sociali, o per garantire al mercato restaurato trasparenza e correttezza, o per temperare l’unilateralismo della potenza dominante. Ma il sistema era ormai questo, non poteva essere contestato, anzi andava sostenuto a fin di bene e in coerenza con i suoi princìpi. E se mai, un giorno lontano, avesse anch’esso esaurito il suo compito, e dovesse essere superato, questo non avrebbe avuto comunque niente in comune con quanto le sinistre avevano fatto o pensato. Questa era la realtà, e ogni politico di buon senso doveva riconoscerla, o abbaiare alla luna. Nel giro di pochi anni però il quadro è profondamente mutato. Anche questo è un fatto difficilmente contestabile. Si sono ripresentate, in forma nuova e in molti casi crescente, disuguaglianze di reddito, di qualità della vita, di potere, tra varie aree del mondo e all’interno di ciascuna di esse. Si è misurata l’incompatibilità tra il nuovo funzionamento del sistema economico e il permanere di grandi conquiste sociali da tempo acquisite: welfare universalistico, piena e stabile occupazione, democrazia partecipata nelle società più avanzate; il diritto all’indipendenza nazionale e qualche tutela dall’intervento armato, per i popoli sottosviluppati e i paesi più piccoli. Sono emersi, ovunque e in tutta la loro urgenza, problemi nuovi incombenti: degrado dell’ambiente naturale, che accelera il suo corso; e degrado morale che insieme a individualismo e consumismo, anziché riempire con nuovi valori e nuove relazioni umane un vuoto aperto dalla crisi irreversibile e in sé liberatrice di istituzioni millenarie, lo approfondisce e lo trasforma nella dicotomia tra sregolatezza e neoclericalismo. Altrettanto evidente, e nuova, avanza una crisi del sistema politico: reso impotente dal declino degli stati nazionali, surrogato da istituzioni estranee al suffragio popolare, a sua volta svuotato dalla manipolazione mediatica del consenso e dalla trasformazione dei partiti in macchine elettorali di riproduzione di un ceto. Anche sul piano produttivo i tassi di sviluppo per ora declinano, e gli equilibri appaiono instabili, qualcosa più di una congiuntura: la finanziarizzazione genera come figlia naturale la rendita, e come sorella la ricerca esasperata del profitto immediato; e quindi toglie allo stesso mercato un criterio sul cosa produrre e sul come verificare la propria efficienza. Infine, e come conseguenza di tutto ciò, un de-
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clino di egemonia, una moltiplicazione di conflitti, una crisi dell’ordine mondiale, cui è naturale supplire con l’impiego della forza, fino alla guerra, che a sua volta anziché risolvere aggrava ogni problema. Ammettiamo pure che il quadro così disegnato in poche righe sia eccessivamente fosco e soprattutto unilaterale, che tali tendenze preoccupanti siano ancora ai primi passi. E ammettiamo anche che altri elementi – per esempio le risorse dell’innovazione tecnologica, o l’ancor più sorprendente irruzione di nuovi e grandissimi paesi e i loro attuali successi – compensino o frenino tali tendenze. Ammettiamo infine che la nuova ampiezza della base sociale, che ha beneficiato di una precedente accumulazione diffusa, o altrove spera di beneficiare di un benessere finora negato, garantisca tuttora il consenso o generi comunque un timore per mutamenti radicali ma non sicuri. Molte volte i comunisti hanno compiuto l’errore di analisi catastrofiche, di cui hanno pagato il prezzo. Ciò non toglie che una svolta si è compiuta, più e prima di quanto chiunque temesse o sperasse. Non solo in minoranze riottose o sofferenti, ma nel senso comune di massa, in una intellettualità diffusa, perfino in alcuni settori della classe dominante, il futuro del mondo e della civiltà sembra promettere poco di rassicurante. Non siamo nella temperie del Novecento, ma non si respira aria di Belle Époque (che peraltro, sappiamo, non finì affatto bene). Non a caso dunque, in pochi anni sono apparsi sulla scena movimenti di lotta sociale e di contestazione ideale, sorprendenti per estensione, durata, pluralità di soggetti e novità di tematiche. Movimenti dispersi e intermittenti, privi di un progetto unitario e di un’organizzazione; movimenti perciò sociali e culturali più che politici? Certamente, perché nascono da situazioni e soggettività le più diverse tra loro, e rifiutano organizzazione, ideologia, politica per come le hanno conosciute e, soprattutto, per come si presentano oggi. E tuttavia comunicano incessantemente tra loro, riconoscono avversari comuni cui danno nome e cognome, coltivano ideali e sperimentano pratiche che si contrappongono radicalmente all’ordine delle cose esistenti, ai valori, alle istituzioni, ai poteri che lo incarnano; su ogni terreno, il modo di produrre, di consumare, di pensare, il rapporto tra le classi, tra i sessi, i paesi, le religioni. In certi momenti, e su certi temi, come la guerra «preventiva» in Iraq, sono riusciti a mobilitare una parte larga dell’opinione pubblica. In questo senso sono pienamente politici e pesano.
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Possiamo perciò sentirci rassicurati? La «vecchia talpa» – finalmente liberata dal peso di dottrine e da discipline che potrebbero frenarla – ha ripreso a scavare e, nel lungo periodo, ci farà trovare in un «mondo nuovo»? Mi piacerebbe crederlo, ma ne dubito. Anche qui i fatti parlano abbastanza chiaramente. Da un lato occorre vedere in faccia, senza cupezza ma senza infingimenti, come per ora evolve la situazione reale. Non è lecito dire che volga gradualmente al meglio, né che la lezione delle cose stia producendo uno spostamento generale dei rapporti di forza a favore della sinistra. Per accennare qualche riferimento concreto: il matrimonio di convenienza tra l’economia asiatica e quella americana ha permesso alla prima un sorprendente decollo e garantito alla seconda di garantirsi profitti imperiali e continuare a consumare al di sopra dei propri mezzi, ma nel contempo ha contribuito alla stagnazione europea, ed è sbucata in una grande nuova crisi. La guerra anziché stabilizzare il Medio Oriente ha «incendiato la prateria». L’unità europea, anziché progredire come forza autonoma, ha ripreso e accentuato la sua subalternità al modello economico anglosassone. E alla sua politica internazionale. In America Latina dopo parecchi anni sono al governo di molti paesi forze popolari e antimperialistiche, ma nell’Asia centrale, come nell’Est europeo, si moltiplicano invece i clienti degli Stati Uniti. In Europa ha vinto Zapatero, ma in Italia, dopo una breve e stentata vittoria di una larga coalizione di centrosinistra, è tornato Berlusconi in versione peggiore. In Germania i democristiani hanno ripreso la guida del paese, in Francia la gauche intera è in confusione, in Inghilterra il New Labour ha resistito a lungo sulla linea di Blair e se perderà sarà a vantaggio dei conservatori. I sindacati, dopo qualche segno di ripresa, si trovano quasi ovunque inchiodati a una difensiva perenne, e le condizioni reali dei lavoratori sono sotto la pressione di questo quadro politico e il ricatto della crisi economica e dei deficit di bilancio. Complessivamente, si può forse prevedere che dall’ammaccata politica in stile Bush si torni a una politica più prudente alla Clinton: poco a che fare con una vera svolta adeguata ai nuovi e pressanti problemi del mondo. Nell’economia come nella politica non c’è nessun New Deal in cammino, il riformismo è da tutti invocato, in tutte le versioni, e del tutto pallido e sfuggente. E tuttavia è in questa versione che resta al comando, per necessità o per scelta. Quanto alle forze che si oppongono e contestano il sistema, anche qui
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si può e si deve fare un bilancio veritiero, per ora non molto confortante. È certo importante che i nuovi movimenti sociali restino in scena, in certi casi si estendano a nuove regioni o contribuiscano a produrre qualche ricambio politico, e comunque abbiano portato all’attenzione problemi decisivi e sempre rimossi: l’acqua, il clima, la tutela dell’identità culturale, le libertà civili per le minoranze come immigrati o gay. Sarebbe dunque sbagliato parlare solo di riflusso o di crisi. Ma lo è altrettanto parlare, come in un certo momento si è fatto, di una «seconda potenza mondiale» in atto o in via di allestimento. Perché sulle grandi battaglie in cui erano unitariamente impegnati – la pace e il disarmo, l’abolizione del Wto o del Fondo monetario internazionale, la Tobin Tax, l’energia alternativa e il precariato – i risultati sono stati finora irrilevanti e l’iniziativa è declinata. Il pluralismo ha mostrato di essere oltre che una risorsa anche un limite. L’organizzazione, ripensata finché si voglia, non può per troppo tempo ridursi a Internet o alla replica dei forum. Rifiuto della politica, il potere dal basso, la rivoluzione senza potere, anziché tappa di un percorso, verità parziali cui non rinunciare, rischiano di trasformarsi in una subcultura cristallizzata, in una retorica ripetitiva che ostacola una riflessione su se stessi e ogni definizione impegnativa delle priorità. Infine e soprattutto, certo non per colpa loro, ai nuovi movimenti si è affiancato un altro tipo di opposizione radicale alla modernità capitalistica, quello animato dal fondamentalismo religioso o etnico, che nel terrorismo trova la forma estrema, ma coinvolge e influenza masse imponenti. Se poi, tra le forze di opposizione, vogliamo concentrare lo sguardo sulle forze politiche organizzate dell’estrema sinistra, che hanno resistito al collasso del dopo Ottantanove, si sono impegnate in tentativi di rinnovamento, hanno fiancheggiato nuovi movimenti e lotte sindacali, il bilancio appare ancora più magro. Dopo anni di lavoro, in una società in ebollizione, queste forze restano marginali, divise tra loro e al loro interno, in termini elettorali si collocano tra il 3 e il 10%, e sono quindi costrette nel dilemma tra radicalismo minoritario o intese elettorali di cui subiscono il vincolo pesante. Insomma, a voler essere sinceri, si può dire, parafrasando alcuni classici del marxismo, che ci troviamo di nuovo di fronte a una fase nella quale «il vecchio mondo può produrre barbarie ma un mondo nuovo non appare in grado di sostituirlo». La ragione di questa impasse non è difficile da vedere, anche se è molto difficile da rimuovere. Neoliberismo e unilatera-
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lismo, contro cui in questa fase si combatte giustamente, sono l’espressione e una delle varianti di qualcosa di più profondo e permanente, che è intervenuto nel sistema portando all’estremo la sua originaria vocazione. Dominio dell’economia su ogni altra dimensione della vita individuale e collettiva; dominio nell’economia del mercato globalizzato, e nel mercato delle grandi concentrazioni finanziarie sulla produzione e, nella produzione, dei servizi rispetto all’industria, e di beni immateriali per consumi indotti rispetto ai bisogni reali; declino invece della politica, nella forma degli stati nazionali, sovrastati da compatibilità che la travalicano, e insieme svuotata dalla frammentazione e dalla manipolazione di quella volontà popolare che doveva orientarla e sostenerla; infine unificazione del mondo ma nel segno di una precisa gerarchia al cui vertice permane una soverchiante potenza. Un sistema dunque in apparenza decentrato, ma nel quale in ultima analisi le scelte più importanti sono concentrate nelle mani dei pochi che detengono decisivi monopoli: in ordine crescente, quello tecnologico, quello sulle comunicazioni, quello finanziario, quello militare. A reggere il tutto – come sempre più di sempre – la proprietà nella forma di capitale, alla ricerca incessante e irrinunciabile del proprio accrescimento, processo che ha conquistato piena autonomia rispetto al territorio in cui si colloca e a ogni diversa finalità che lo vincoli; che attraverso l’industria culturale può direttamente conformare bisogni, coscienze, stili di vita; che può selezionare il ceto politico e intellettuale; che può condizionare politica estera, spese militari, indirizzi della ricerca; che, infine ma non per ultimo, può anche rimodellare i rapporti di lavoro scegliendo il dove e come reclutarlo e le forme più adatte a minarne il potere contrattuale. Rispetto alle fasi precedenti, la novità più rilevante sta dunque nel fatto che, anche nei momenti e per gli aspetti in cui entra in crisi o segna un fallimento, il sistema riproduce comunque le proprie basi di forza e di interdipendenza e riesce a destrutturare o ricattare i propri antagonisti. Evoca e insieme seppellisce il proprio becchino. Per contrastare e superare tale sistema bisogna sempre più definire un sistema a sua volta coerente, occorre la forza per imporlo, la capacità di gestirlo, un blocco sociale che può sostenerlo, tappe e alleanze adeguate all’ambizione. Quanto più ci si può e ci si deve liberare dal mito di una precipitazione catastrofica e della conquista del potere statuale da parte di una minoranza giacobina che approfitta dell’occasione, tanto meno ci si può
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affidare a una successione di rivolte disperse o di piccole riforme che spontaneamente si compongono in una grande trasformazione. Ecco perché mi pare che le cose stesse impongano a una sinistra, che oggi naviga in una grande confusione, una riflessione sulla «questione comunista». Non uso a caso entrambe queste parole. Dico riflessione – non recupero, né restauro – per sottolineare il fatto che una fase storica si è conclusa, e la fase nuova impone un’innovazione radicale di questa, come di ogni altra tradizione teorica o pratica (delle sue origini, dei suoi sviluppi, dei suoi esiti). Dico comunista, perché mi riferisco non solo o non tanto a testi variamente interpretati nei quali riscoprire verità offuscate ma permanenti, né nobili intenzioni da cui si è tralignato. Mi riferisco, specificamente e nel suo insieme, a un’esperienza storica che ha posto esplicitamente il tema di una rivoluzione anticapitalistica, guidata dalla classe operaia organizzata in un partito, ha raccolto, per decenni, intorno a questa impresa milioni e milioni di uomini, ha combattuto e vinto una guerra mondiale, ha governato grandi stati plasmandone la società e influendo indirettamente sulle vicende del mondo e, alla fine, certo non a caso, è degenerata ed è stata duramente sconfitta. Nel bene e nel male ha segnato quasi un intero secolo. Fare un bilancio del comunismo del Novecento – quali che siano le convinzioni da cui si parte o le conclusioni cui si arriva, ma con spirito di verità, senza contraffazione dei fatti, senza giustificazioni e senza separarlo dal contesto. Distinguere il grano dal loglio, il contributo dato a decisivi e permanenti avanzamenti storici dai costi tremendi che questi hanno comportato, le verità teoriche intuite dagli abbagli del pensiero. Distinguere le varie fasi di un’evoluzione e cercare in ognuna non solo gli errori compiuti e i successivi elementi degenerativi, ma le loro cause soggettive e oggettive e anche le occasioni, che si offrivano realmente, per imboccare strade diverse per raggiungere il fine perseguito. Insomma ricostruire il filo di un’impresa titanica e di un declino drammatico, senza esibire una neutralità impossibile e senza sconti, ma cercando un’approssimazione alla verità. Per affrontare questi temi abbiamo tutti, oggi, lo straordinario privilegio di sapere come la vicenda si è conclusa e lo stimolo che nasce dalla consapevolezza di trovarci di nuovo in una crisi di civiltà. Usare il presente per capire meglio il passato, e capire bene il passato per orientarsi nel presente e nel futuro. Se si evita questo tipo di riflessione, se si considera il Novecento un
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cumulo di ceneri, se vi si espungono le grandi rivoluzioni, le aspre lotte di classe, i grandi conflitti culturali che l’hanno attraversato, il socialismo e il comunismo che l’hanno animato; o anche solo se si riduce il tutto a uno scontro tra «totalitarismi» e «democrazia» (senza distinguere diverse origini e diverse finalità dei totalitarismi e prescindendo dalla politica concreta della democrazia), non solo credo che si alteri la storia, ma che vengano a mancare alla politica passioni e argomenti per affrontare sia drammatici antichi problemi, che oggi si ripresentano, sia i nuovi che emergono ed esigono cambiamenti profondi e un discorso razionale. Perché il «secolo breve» è un’epoca grande e complicata, attraversata da tragiche contraddizioni ciascuna delle quali rinvia ad altre e reclama perciò una visione generale del contesto. Perché è ancora tanto vicino nella memoria collettiva da ostacolare il necessario distacco critico. Perché va controcorrente rispetto a un senso comune oggi prevalente, che non solo considera quel capitolo chiuso, ma più in generale nega che la storia possa essere, complessivamente e nel lungo periodo, decifrabile, negando così l’utilità di collocarvi il presente e di apprestare categorie interpretative adeguate. Infine, perché, per contrastare questo senso comune, occorrerebbe più che non in altri momenti una rottura della continuità, essere capaci di far emergere già in partenza dalla lettura critica del passato i primi abbozzi di un’analisi calzante del presente e un progetto di azione futura (questo fu il punto di forza del marxismo, anche negli aspetti che presto si rivelarono caduchi). Ora, so benissimo di non avere affatto il tempo di vita, le competenze, le risorse di intelligenza per portare a un’impresa di questa portata un aiuto importante. Ma sento la responsabilità, non solo individuale ma per una intera generazione, di contribuirvi con quel poco di cui dispone. Il primo passo, per me, deve essere il lavoro di ricostruzione e di indagine su alcuni nodi cruciali della storia del comunismo italiano. La scelta non ha motivazione autobiografica, e non è provincialmente restrittiva. Al contrario, proprio in questa scelta, circoscritta a un oggetto concreto, è implicita un’ipotesi di lavoro che va controcorrente, che costringe, e forse alla fine permette, qualche conclusione generale. Mi spiego. Oggi prevalgono due letture diverse del comunismo italiano, opposte tra loro e ciascuna con finalità molteplici e mosse da diversi versanti. La prima lettura sostiene, in forma più o meno grezza, che il Pci, almeno
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dalla fine della guerra, è sempre stato, nella sostanza, un partito socialdemocratico, pur senza volerlo dire e forse senza neppure saperlo; la sua storia è stata una lunga marcia, troppo lenta ma costante, di autoriconoscimento; quel ritardo gli è costato la lunga esclusione dal governo del paese, ma quell’identità sostanziale gli ha assicurato la forza e poi garantito la sopravvivenza, malgrado la crisi. La seconda lettura sostiene che malgrado la Resistenza, la Costituzione repubblicana, il ruolo avuto nell’ampliamento della democrazia, malgrado alcune prove di autonomia e l’ostilità a ogni ipotesi insurrezionale, in ultima istanza il Pci era un’articolazione della politica sovietica e portava in cuore la prospettiva di quel modello: solo verso la fine, ha dovuto arrendersi e cambiare identità. Entrambe queste letture non solo sono contraddette da troppi fatti, ma cancellano quanto di più originale e interessante c’è stato in quella vicenda. Vorrei sostenere invece che il Pci ha rappresentato, in modo intermittente e senza svilupparlo pienamente, il tentativo più serio, in una certa fase storica, di aprire la strada a una «terza via»: di coniugare cioè riforme parziali, ricerca di ampie alleanze sociali e politiche, uso convinto della democrazia parlamentare, con aspre lotte sociali, con una esplicita e condivisa critica della società capitalistica; di costruire un partito fortemente coeso, militante, ricco di quadri ideologicamente formati, ma di massa; di ribadire la propria appartenenza a un campo rivoluzionario mondiale subendone i vincoli ma conquistando una relativa autonomia. Non si trattava di una semplice doppiezza: l’idea strategica unificante era che il consolidamento e l’evoluzione del «socialismo reale» non costituiva un modello che un giorno sarebbe stato possibile applicare anche in Occidente, ma il retroterra necessario per realizzarvi, nel rispetto delle libertà, un altro tipo di socialismo. È questo tentativo che spiega la crescita della sua forza in Italia – che continuò anche dopo la modernizzazione capitalistica – e della sua influenza internazionale, anche dopo i primi e vistosi segni di crisi del «socialismo reale». Ma, allo stesso tempo, il suo successivo declino e il finale dissolvimento in una forza liberaldemocratica più che socialdemocratica obbligano a spiegare come e quando quel tentativo sia fallito. Permettono cioè di individuare le ragioni oggettive e soggettive di una parabola e di chiedersi se, come e quando si sono offerte strade migliori per correggerla. Se questo è vero, e si riuscisse a dimostrarlo concretamente, allora la storia del comunismo italiano potrebbe non essere solo la storia di un par-
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tito, ma potrebbe dirci qualcosa di importante sulla vicenda complessiva sia dell’Italia repubblicana, sia del movimento comunista in generale, permetterebbe di valutarla nella versione migliore e di cogliere a fondo i limiti invalicati. (Forse lo stesso interesse, in un contesto del tutto diverso, e per chi ne fosse capace, potrebbe avere l’altrettanto specialissima vicenda del comunismo cinese, oggi tanto ammirata per i suoi successi economici, ma del tutto inspiegata nel suo passato e indecifrabile nel suo futuro.) La seconda ragione per cui concentro l’attenzione sul comunismo italiano è meno importante ma non trascurabile. Sulla storia dei comunisti, italiani compresi, molti storici hanno lavorato con estrema serietà e ricchezza di informazione, riguardo al periodo tra la Rivoluzione russa e il secondo dopoguerra, in modo più episodico e pieno di lacune e di pregiudizi per quello successivo. In un caso e nell’altro, comunque, un bilancio complessivo e un giudizio equilibrato restano carenti. Colpiscono non tanto le controversie, più che giustificate, quanto la divaricazione tra l’accurata esplorazione della documentazione disponibile, e la pamphlettistica faziosa. Non c’è da stupirsene, ovviamente, perché nel loro lavoro, sia in passato sia di recente hanno pesato prima un clima di scontro politico aspro, poi l’improvviso e inatteso crollo: l’uno o l’altro suggerivano ad alcuni la sobrietà dello specialista, o permettevano ad altri comode semplificazioni. Ma al di là di tutto ciò, un ostacolo si oppone alla ricerca e alla riflessione anche dello storico più scrupoloso e più acuto: la limitatezza e la difficile interpretazione delle fonti. I partiti comunisti infatti, per ideologia, forma organizzativa e per le condizioni in cui si trovavano a operare, sono stati assai poco trasparenti. Il dibattito sui temi fondamentali si concentrava in sedi molto ristrette spesso informali, i cui membri erano vincolati alla riservatezza e che, anche tra loro, si esprimevano in termini cauti, compatibili con la preoccupazione unitaria. Le scelte politiche tenevano in serio conto gli orientamenti dei militanti e gli stimoli di un dibattito spesso vivace e partecipato, ma erano da tutti infine accettate e difese sia pure con diverse sfumature. La selezione dei gruppi dirigenti teneva conto delle capacità realmente dimostrate, ma poi avveniva con la cooptazione dall’alto, in cui pesava anche il metro della fedeltà. In certi paesi, e in certi momenti, la comunicazione esterna, o verso la propria stessa base, non esitava a censurare i fatti né a fornire spiegazioni molto sommarie della politica adottata, perché prevaleva l’obiettivo di consolidare la mobilitazione e il con-
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senso seppure a danno della verità. Ma anche quando e laddove, come in Italia, a partire dagli anni sessanta, crescevano gli spazi di tolleranza per qualche dissenso, per esempio nei comitati centrali, esso veniva espresso con un linguaggio prudente e in parte cifrato. Il lavoro di archiviazione, per tutti i livelli, era molto accurato, ma anche molto sobrio e spesso, volutamente o per dovere d’ufficio, autocensurato. Negli stessi momenti di «svolta», il principio sempre vigente è stato quello del «rinnovamento nella continuità». Chi invece veniva allontanato, o si allontanava dal partito – essendo il partito, per scelta propria e per imposizione dell’avversario, una comunità di vita – pativa un isolamento umano pesante che alimentava a lungo una reciproca faziosità. Per ricostruire la storia reale, senza equivoci e senza censure, non basta dunque una lettura seria dei giornali e dei documenti dell’epoca; qualche intervista postuma o l’accesso agli archivi finalmente aperti. Occorre anche la mediazione della memoria di chi ha partecipato come protagonista, o come osservatore direttamente informato, e può dire qualcosa di più su quel che i documenti tacciono o interpretarne, oltre alla lettera, il significato e il peso. Pensiamo, per fare un esempio estremo, quanta luce avrebbe potuto portare sulla storia dell’ultimo quindicennio dell’Unione Sovietica un autentico resoconto dei fatti e delle discussioni, e un giudizio meditato, da parte di Gorbacëv, quando ormai c’erano tutte le condizioni per farlo. Sappiamo tutti però quante insidie comporta la memoria individuale, perché declina con l’età, o perché aver condiviso responsabilità rilevanti, o aver subìto un torto immeritato, può renderla selettiva o tendenziosa. Anziché parlare della storia che la nostra vita ci consente di conoscere per avvicinarsi alla verità, è facile rileggere questa storia con gli occhiali del proprio vissuto. Niente di male certo. Anzi, quando è fatto e dichiarato onestamente, anche questo uso della memoria può essere di grande aiuto. Proust, Tolstoj, Mann o Roth hanno contribuito alla comprensione della storia della loro epoca più acutamente degli storici loro contemporanei. Io ho però parlato di «mediazione della memoria» in senso diverso. Per scelta e per necessità. Non trovo molto interessante il mio vissuto e se lo fosse non avrei la capacità di comunicarlo. La mia incidenza nella politica è stata inoltre limitata, si è concentrata in precisi e rari momenti, si è esercitata più attraverso alcune idee, spesso troppo in anticipo ma ricorrenti, che in azioni dall’esito felice. Sento dunque il bisogno e l’utilità di una memoria disciplinata, con qualche verifica documentata dai fatti,
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con il confronto di memorie diverse, il più possibile oggettivizzata, come si trattasse della vita di un altro, perché ci si possa avvicinare a un’interpretazione plausibile di quanto è realmente accaduto o poteva accadere. L’autobiografia interverrà solo se strettamente necessaria. Da questo punto di vista credo di avere una condizione di vantaggio. Sono infatti diventato comunista, per ragioni di età, quando la temperie del fascismo e della Resistenza si era chiusa da un decennio, anzi dopo il XX congresso del Pcus e i fatti d’Ungheria, e dopo aver letto oltre a Marx, Lenin e Gramsci, anche Trockij e il marxismo occidentale eterodosso. Non posso dunque dire: l’ho fatto per combattere meglio il fascismo, oppure: dello stalinismo e delle «purghe» non sapevo nulla. Ci sono entrato perché credevo, come ho continuato poi a credere, a un progetto di cambiamento radicale della società di cui occorreva sopportare i costi. Devo quindi spiegare anzitutto a me stesso se avevo ragione di farlo. Ho militato in quel partito, mai in ruoli di potere, in diretto rapporto con il gruppo dirigente, durante quindici anni di un dibattito vivace e di esperienze importanti, cui ho partecipato con posizioni di minoranza ma con una certa influenza, e con piena conoscenza di ciò che vi accadeva. Anni decisivi, sui quali si sa ancora troppo poco, o troppo è stato rimosso e su cui posso invece aggiungere qualcosa. Sono stato radiato dal partito nel 1970, con altri compagni, perché avevamo dato vita a una rivista, il manifesto, considerata inammissibile, perché di per sé incrinava il centralismo democratico, perché sollecitava esplicitamente una più netta critica del modello e della politica sovietica, infine perché chiedeva di ripensare la strategia del partito, accettando suggerimenti dei nuovi movimenti operai e studenteschi. Nessuno quindi può sospettarmi di aver taciuto, né di coltivare vecchie ortodossie. Ma a mia volta sono obbligato a chiedermi perché, per quali errori e limiti, tante buone ragioni e analisi, spesso lungimiranti, siano rimaste isolate e abbiano mancato l’obiettivo. Sono tornato con numerosi compagni nel Pci all’inizio degli anni ottanta, consapevole dei limiti di un estremismo sul quale ci eravamo illusi, ma non da pentito, perché la svolta dell’ultimo Berlinguer sembrava comporre molti dei contrasti che ci avevano divisi. Trovandomi questa volta nella Direzione del partito conservo conoscenza diretta del processo che ha prima limitato, poi svuotato quella svolta, mostrandone anche il ritardo e i limiti. Un periodo sul quale la reticenza è tuttora
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grande, e l’autocritica smodata non trova contrasto. Ho partecipato, questa volta in prima fila, alla battaglia contro la scelta di sciogliere il Pci, non perché troppo innovatrice, ma perché innovava nel modo e nella direzione sbagliata, liquidava cioè senza discernimento una ricca identità, apriva la strada non solo a una socialdemocrazia, a sua volta già in crisi, ma a una forza liberaldemocratica e moderata, mandava a casa un esercito non ancora allo sbando, suppliva con velleitario «nuovismo» al vuoto di elaborazione. Dopo tutto quel che è seguito, resto tra i pochi a credere che quell’operazione fosse del tutto infondata, ma sono tanto più costretto a chiedermi perché abbia prevalso. Ho partecipato infine, con qualche dubbio, alla costruzione di Rifondazione comunista, perché temevo che mancassero le idee, la volontà e la forza per prendere sul serio quel nome: temevo cioè una deriva massimalista e poi un accomodamento politicistico. Me ne sono allontanato, perché a quel progetto continuo a credere, ma non riconosco in quell’organizzazione, come nella diaspora della sinistra radicale, sufficiente determinazione e capacità di portarlo avanti. Di questa più recente tormentata vicenda quasi nessuno sa o capisce molto, e anche solo parlarne onestamente può quindi essere utile. Sono così un particolare archivio vivente e in soffitta. Per una persona ormai anziana l’isolamento è dignitoso, ma per un comunista è il peccato più grave, di cui rendere conto. L’«ultimo dei mohicani» può essere un mito, il comunista solo, e arrabbiato, rischia il ridicolo se non si tira da parte. Ma se il peccato (perdonate l’ironica concessione alla moda e alla convenienza che oggi spinge tanti all’improvvisa ricerca di Dio) apre la via del Signore, proprio l’isolamento potrebbe permettere un utile distacco. Non posso affermare «non c’ero», non sapevo; qualcosa anzi l’ho detta quand’era scomodo, ho perciò la libertà di difendere ciò che non va ripudiato e di chiedermi ciò che si poteva fare o si potrebbe ancora fare al di là del bric-à-brac della politica di ogni giorno. Non è vero che la storia passata, dei comunisti e di tutti, era già tutta predeterminata, così come non è vero che il futuro è tutto in mano ai giovani che verranno. La «vecchia talpa» ha scavato e continua a scavare, ma, essendo cieca, non sa bene da dove viene e dove va, o se gira in circolo. Chi non vuole o non può affidarsi alla provvidenza, deve pur fare ciò che può per capirlo e così aiutarla.