Clelia Marchi
Il tuo nome sulla neve Gnanca na busia Il romanzo di una vita scritta su un lenzuolo Prefazione di Carmen Covito Prefazione alla prima edizione di Saverio Tutino
Il lenzuolo di Clelia Marchi è conservato presso l’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano (AR). La trascrizione del testo è stata eseguita da Rosanna Mai. Per il materiale iconografico: Luigi Burroni/Archivio diaristico nazionale www.ilsaggiatore.com (sito & eStore) Twitter @ilSaggiatoreEd Facebook il Saggiatore editore © il Saggiatore S.p.A., Milano 2012
Il tuo nome sulla neve Gnanca na busia
Sommario
Prefazione di Carmen Covito
9
Prefazione alla prima edizione di Saverio Tutino
19
Il tuo nome sulla neve
27
Poesie
83 85 86 87 88 89 90 91 92 93
Cose vere quando è morto mio marito 1972 <Caro mio sole> <Essere tristi> <Quando morirò> <Povero autunno> Stanco mio cuore Cari cari Cara luna mia Cosa vorrei avere fatto
Prefazione di Carmen Covito
Quanto può essere grande un lenzuolo? A vederlo, in fotografia o dal vero, il celebre «lenzuolo libro» di Clelia Marchi sembra star tutto dentro il paio di metri per lato o poco più che misura la tela. Esposto in una sala dell’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano con ogni precauzione per la sua fragilità di documento unico più che raro, ci appare come uno strano arazzo decorato meticolosamente con un ordito fitto di linee orizzontali, righe di una scrittura diligente che verso il fondo ondeggiano e poi scendono a disporsi in rettangoli che formano una frangia regolare, quasi fossero ansiose di riempire ogni spazio ma rispettando i margini imposti dal fregio superiore a nastri rossi con dei nodi d’amore. Il disegno ottenuto fa pensare al lavoro alacre e ozioso di una ricamatrice posseduta suo malgrado da voglie d’arte: un’arte che non potrebbe essere altro che povera, modesta, sempre costretta come sembra a tenersi nei limiti fissati da qualcun altro. Una cosa da donna d’altri luoghi o d’altri tempi, una piccola cosa incatenata che sa di spicanardo, forse di naftalina. Poi si comincia a leggere il testo e, a mano a mano che lo
12 Il tuo nome sulla neve
sguardo assorbe e stacca le parole da quel loro supporto di ortografia oscillante e grammatica incerta, ecco che il senso si dilata e si addensa, si accumula e riprende a dilatarsi, con un ritmo di cuore che pulsa e perde colpi e batte forte, sorprendendoci: dunque, questo lenzuololibro non è piccolo, se contiene una vita. Clelia Marchi era una contadina di Poggio Rusco, Mantova, nata nel 1912, morta nel 2006 dopo aver perso quattro figli su otto, aver vissuto due guerre mondiali e aver patito tutta un’esistenza di sacrifici, povertà, fatica manuale. Nel 1972, ormai raggiunta la tranquillità di una casa in paese, con i figli sistemati e nipoti e pronipoti da godere, un incidente stradale le porta via il marito, il bello e onesto Anteo dagli occhi azzurri, conosciuto a quattordici anni e amato a sedici. Per un particolare accanimento della sorte, mancava poco alla scadenza dei loro cinquant’anni di matrimonio, un’occasione in cui avrebbero potuto, finalmente, festeggiare. L’amarezza, il dolore, l’improvvisa solitudine nel letto matrimoniale tolsero il sonno all’anziana signora. Si sentiva «come una vite senza l’albero» a cui si era avvinghiata per cinquant’anni, ricavandone tutta l’energia per rimanere in piedi e ripartire dopo ogni disgrazia: a che cosa poteva attaccarsi, adesso? Nella spietata saggezza delle contadine, la depressione è sempre stata un lusso che non ci si può concedere, perciò Clelia si trovò qualcosa da fare nelle notti insonni. Raccolse cartoncini, carte, fogli, li cucì per formare dei quaderni e scrisse, scrisse, scrisse come si piange, senza freno, a dirotto, all’ingrosso, a peso: chili e chili di quaderni. Fino a quando, una notte, rimase senza carta.
Prefazione 13
Allora aprì l’armadio, prese un lenzuolo, si posò un cuscino sulle ginocchia, sul cuscino spianò le pieghe del lenzuolo e, in quella posa classica da ricamatrice, cominciò a ricoprire di righe di scrittura la superficie candida della tela, intrecciando i ricordi della sua vita e «la storia della gente della sua terra, riempiendo un lenzuolo di scritte, dai lavori agricoli, agli affetti». Nel 1985 il lenzuolo-libro era completo: Clelia aveva ordinatamente numerato ogni riga per aiutare i lettori a non perdere il segno e aveva incollato sopra lo scritto, a mo’ di frontespizio, un’immaginetta sacra al centro, e ai due angoli due fotografie, quella del marito e la sua, con le didascalie in inchiostro rosso. Non mancava nemmeno il titolo, un programmatico Gnanca na busia, in dialetto per farlo suonare più forte, più sincero. Ma a che pro raccontare la propria verità, se non trova lettori? Consapevole che a nulla serve scrivere ricordi e sentimenti «se nessuno li guarda, ò li legge», Clelia chiese consiglio al sindaco del paese e nel marzo del 1986 prese il treno per Arezzo, poi una corriera, e con il suo lenzuolo ben impacchettato sottobraccio arrivò a Pieve Santo Stefano, dove Saverio Tutino aveva inaugurato da neanche due anni l’archivio dedicato alle scritture autobiografiche degli italiani. Quello che poi successe è storia nota. Nel 1989 Luca Formenton, durante una visita a Poggio Rusco, luogo natale di suo nonno Arnoldo Mondadori, venne a sapere del lenzuolo di Clelia, volle vederlo e fu subito colpito dalla particolare aura del documento. Il testo, pubblicato nel 1992 dalla Fondazione Mondadori, diventò un caso editoriale, dando all’autrice e alla sua opera una
14 Il tuo nome sulla neve
notorietà che non sarebbe stata transitoria. Oltre a venire sempre citato negli studi sulla memorialistica e la scrittura popolare, lo straordinario oggetto iscritto di Clelia Marchi è diventato il simbolo stesso dell’archivio diaristico di Pieve. Raccontando come mai le fosse saltato in mente di prendere un lenzuolo dall’armadio e di scriverci sopra, Clelia offrì due risposte. «Le lenzuola non le posso più consumare col marito e allora ho pensato di adoperarle per scrivere» disse, e ce la immaginiamo che si stringe nelle spalle mentre lo dice, e guarda a muso duro l’interlocutore come per sfidarlo a smentirla. Perché questo non è un motivo sufficiente a spiegare la sua impresa di quella notte, è soltanto una scusa da massaia che si sente in dovere di giustificare l’inaudito spreco di un lenzuolo matrimoniale «bello», cioè uno di quegli oggetti da corredo così preziosi che raramente erano usati dalle nostre madri e nonne per tutti i giorni: li tenevano riguardati per tirarli fuori nelle grandi occasioni, una nascita, un funerale. E infatti l’altra risposta di Clelia, quella vera, affonda nella memoria antropologica di un’Italia molto antica: «La mia maestra Angiolina Martini mi aveva spiegato che i Truschi [cioè gli etruschi] avevano avvolto un morto in un pezzo di stoffa scritto. Ho pensato, se l’hanno fatto loro, lo posso fare anch’io». Clelia Marchi aveva frequentato solo i primi due anni della scuola elementare e soltanto d’inverno, dato che, come racconta alle righe [3] e [4], nella stagione agricola doveva stare a casa per badare ai fratelli mentre la madre andava a lavorare. Ma quel ricordo scolastico riemerse nel momento giusto, imprevedibile e necessario come una folgorazio-
Prefazione 15
ne poetica. Clelia capì di colpo che non voleva scrivere un’autobiografia: voleva fabbricare un monumento funebre al marito, e a se stessa. Perché, come scrive alle righe [99] e [100], quando in una coppia così consolidata uno dei due muore, «una parte del suo corpo di chi rimane è già morta». Articolare tutta la complessità dell’intuizione che le fece aprire l’armadio era certamente al di là delle sue capacità di espressione, ma possiamo essere certi che in qualche modo lei sapesse benissimo quello che stava facendo. La cura dedicata all’aspetto finale del suo lenzuolo-libro, l’ordinata disposizione delle righe, la ricerca ostinata della simmetria, rivelano l’intento di dargli una dignità estetica pari almeno a quella di un tappeto o di un arazzo decorativo: tradizionali mezzi di espressione artistica delle donne, e dunque accessibili, leciti. Un monumento tessile era alla sua portata: la bellezza della composizione avrebbe funzionato come richiamo, come invito a fermarsi a leggere la storia. Così come una bella statua o un’elegante edicola invitano il passante a leggere una lapide su un sepolcro e a portarne con sé la memoria. Ma c’era anche di più. Scrivere sul lenzuolo era un gesto potente: eseguendolo Clelia iscriveva se stessa nella schiera atemporale, mitologica, delle donne che tessono, che filano e ricamano il mondo, che intrecciano destini e possono tagliare il filo di una vita o salvarla. Trasformandosi in una ricamatrice di parole si proiettava di fatto sul piano del simbolico, prendeva su di sé l’archetipo della dea tessitrice, padrona del tempo, signora della saggezza. Anche se lei non l’avrebbe mai
16 Il tuo nome sulla neve
detto così. Quello che dice è che, nella vecchiaia, la muove il desiderio di salvare la memoria del suo uomo, di se stessa, dell’amore per lui, della tristezza della separazione che le fa scrivere poesie da adolescente con il cuore spezzato a settant’anni. Intorno e insieme a questa storia di sentimenti, intima e tanto più commovente per i modi spontanei in cui ci viene rivelata, vediamo dipanarsi la vicenda delle difficoltà della famiglia, del lavoro nei campi, della miseria. Con pochi tratti precisi, l’anziana narratrice ci spalanca un’ampia illustrazione di quel mondo contadino di povertà, di stenti, di fatiche inumane che non avrebbe voluto rivivere, dice, nemmeno in cambio del vantaggio di ritornare giovane. Ha scritto cose che lei stessa non riesce a leggere «senza che mi cadono le lacrime» però sono cose che fanno parte di lei, e le ha scritte perché chi legge possa comprendere come erano quei tempi che oggi sembrano troppo duri per essere stati possibili. Le scene della vita nelle cascine, descritta per episodi e dettagli, ben meritano l’orgogliosa rivendicazione della testimone che ci offre una documentazione di prima mano sulle famiglie contadine e sui rapporti tra salariati agricoli e padroni nella prima metà del Novecento: «Questo è il vero albero degli zoccoli» dice, mica ricostruzioni da cinema… Era un mondo di bambini senza scarpe e senza medicine, di gerarchie da rispettare e ingiustizie da subire a testa bassa, ma era anche un mondo di persone per bene, di uomini e donne onesti che volevano solo «lavorare, essere amati». Per raccontarne tutte le sofferenze, la penuria, i mo-
Prefazione 17
menti di piccolo benessere, la felicità sempre così difficile, «ci vorrebbe un lenzuolo largo, lungo come il mare» dice Clelia. Ma anche nei poco più di due metri per due di questo memoriale a due piazze ci sta molto, moltissimo davvero.
Il tuo nome sulla neve
itto scr ome nto o h o n ve l u il t eve i lato. ome l n e n c a l sul là can il tuo ore u o to. itt o c scr l mi ferma Ò su è si e li
[1]
Care Persone Fatene Tesoro Di Questo Lenzuolo Chè C’è Un Pò della Vita Mia; è Mio Marito; Clelia Marchi (72) anni hà scritto la storia della gente della sua terra, riempendo un lenzuolo di scritte; dai lavori agricoli, agli affetti, dai filos,
[2] alla qucina, agli affetti, e alle feste popolari: À scritto tutta una storia; una avventura, nei sacrifici, nelle sofferenze di ogni giorno; ogni riga si svolge sul filo della sincerità: come pure il titolo del mio lenzuolo libro: (Gnanca nà busia) non o raccontato: gnanca nà busia nè par mi; nè ai lettori!!! [3]
Là nostra vita. Mi, ricordo dà piccola eravamo in tanti frattelli: la mia mamma lavorava tanto per mandarsi a scquola, iò andavo à scquola solo d’inverno; perchè la mia mamma doveva andare à lavorare altrove… e io à qurare i miei frattelli più piccoli di mè, però non c’era neanche un gioccattolo: proprio nò!
Il tuo nome sulla neve 31
[4]
giocavamo con dei sassolini, della terra, facevamo piattini, tavolini, palline ecc. ecc… un pò insegnavo ai miei frattelli à fare il compito quelli più piccoli di mè; mà avevo poco dà insegnarci; perchè andavo poco à scquola anch’io, solo d’inverno con un paio di zoccoli, e un palettò di due colori fatti in una sottana di mia mamma;
[5]
e un paio di pantaloni vecchi del mio papà, sembrava l’arlecchino; quando si andava à casa da scquola non si andava à giocare: si faceva le calze ò scapinelle per i miei frattelli; ò pizzo: la mia mamma mi dava un grosso gomitolo di canapa, e così si lavorava anche essendo molto piccola… eravamo in famiglia con i
[6]
miei zii, era lei che comandava à tutta là famiglia, lei non aveva figli, e così diceva io non faccio differenze à nessuno; ma essendo una famiglia numerosa e poco da, coprirsi: le donne: ò le mamme di noi bambini: si sgridavano frà di l’oro; ma se arrivava la mia zia, le diceva non vi vergognate à sgridare che siete cariche di
[7]
figli: lè discqusioni finivano là; tanti figli da qurare, e stare alzati fini à tarda ora à filare per fare le lenzuola: anche spesso le 2 dopo mezzanotte, tutti i giorni erano uguali, il mio papà teneva là contabilità del padrone che aveva molti terreni; la mia mamma era molto timida, ma di una belezza rara; à tanto lavorato per noi figli, al mattino si
32 Il tuo nome sulla neve
[8]
alzava presto à lavare gli stracci dei miei frattelli fatti di pipì, rompeva il ghiaccio con una zappa, poi con una banca di legno, à due piedi la calava nel fosso, e così lavava gli stracci, che si assiugassero per il giorno successivo, al mezzo giorno facevamo una polenta: la fuori: fare fuoco con i malgheri, che erano le piante del frumentone; dopo mezzo giorno verso sera:
[9]
le mamme si davano dà mangiare polenta è un mezzo ficco, era la cena quella, poi tutti à letto, guai se veniva à casa gli uomini se cera un bambino alzato (gli uomini erano tutto) per scaldare il letto doperavano delle braccie di costoni, quelli del frumentone, e bruscola che era la legna di fasine sottili, quando eri di sopra c’era solo cenere calda: che l’ò scaldino era una
[10] lattina quella delle sardelle ò un vaso da notte rotto: pochi avevano le padelline per scaldare il letto: che vita conomica, due paia di calze anche troppo, si aggiustava delle cosse orribili; sempre quei stracci e difronte non c’era di meglio: quanto si é sofferto nella vita; poco pane: solo la polenta era là bondanza dei poveri; poi successe la guerra: mio papà dovette andare in guerra… [11] pensate là mia mamma: c’è rimasto solo noi figli: quelli un p’ò grandi à casa da scquola per prendere il posto del nostro papà, per mangiare: la mia zia non le dava mai niente à mia mamma; che
Il tuo nome sulla neve 33
il mio papà lé davano un piccolo stipendio per noi figli, ma era la mia zia ché lì andava à prenderli; poi mio papà à voluto una foto di noi figli, con mia mamma… [12] invece è venuta mia zia: quando il mio papà à visto che non c’era la mia mamma! Era lei la comandante: si andava d’accordo per forza!! La capa famiglia era tutto: (mà!! mà!!) Non avevano mai un soldo le mamme: neanche per comprare il lucido per gli zoccoli: (Povera mamma) prendeva un pò di palia le bruciava: poi il bruciato lò metteva in una vaso da pomodori. [13] con un pò di olio dà carretto quello nero; l’ò mescolava quello era il lucido: e così tirava avanti, con dolori, lavori, sacrifici per aiutare noi figli: con il passar del tempo venne à casa mio papà dalla guerra; dopo un pò anno fatto due famiglie: mio papà ancora contabile sotto al padrone; e le dava di più di quanto prendeva: prima; le condizioni migliorarono: noi si incominciava [14] à diventare grandi: si lavorava da quel padrone; dove il nostro papà era contabile! Si incominciava stare un p’ò meglio: ma contenti non ci si sta nessuno, quando ò compiuto (12) anni mi è morto una sorella di (10) anni; i miei genitori à lavorare con tanto dispiacere; pure eravamo in tanti chè avevamo bisogno dei nostri genitori: di tanto, in tanto di più si creseva, e di più si voleva
Poesie
Le poesie che seguono sono collocate nella parte terminale del lenzuolo, a completamento del testo.
Cose vere quando è morto mio marito 1972 Sapprò abituarmi a non vederti più??? Sapprò a rassegnarmi al mio dolore??? Sapprò fingere di essere felice??? Sapprò dire alla gente che è stato il destino… Non ti cancellerò mai dal mio cuore; come una bimba cancella con la gomma la parola sbaliata; che nel mio cuore: il tuo nome <Anteo> non l’ò cancellerò mai!!! poi mai!!! Anche se vò à cancellare le cose che si deve dimenticare; ma io non l’ò… cancellerò mai! Il tuo cuore che avevi per mè:… Che à ritrovarsi sola al buio come un povero cagnalino… Non è facile à reagire Poi tè l’ò detto tante volte e tante volte; tante volte 1.2.3.4.5. volte… Ma quando il mio cuore sarà stanco: smatterà di battere: mi addormenterò, e mi svellerò lassù: solo all’ora… Potrò essere vicino a chi un tempo… Mi aveva tanto amata… Che mai dimenticherò Che avevamo tutte le nostre cose in comune… Come ò detto scriverò il mio pianto sù à una pagina nera… che mai nessuno leggerà o potrà leggere Queste scritte sono il mio passa tempo che poco sò dormire… Clelia Marchi