Kirk Douglas
Io sono Spartaco! Come girammo un film e cancellammo la lista nera Prefazione di George Clooney Traduzione di Luca Fusari
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Io sono Spartaco!
Sommario
Prefazione di George Clooney
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Introduzione
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Capitolo primo
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Capitolo secondo
31
Capitolo terzo
55
Capitolo quarto
75
Capitolo quinto
95
Capitolo sesto
111
Capitolo settimo
129
Capitolo ottavo
143
Capitolo nono
161
Capitolo decimo
173
Capitolo undicesimo
183
Capitolo dodicesimo
197
Epilogo
203
Ringraziamenti
211
Prefazione di George Clooney
Esiste un metodo infallibile per giudicare di che pasta è fatta una persona: non si capisce da come ti comporti quando fila tutto liscio, ma da come ti gestisci quando è dura. Finché la posta in palio è bassa siamo tutti coraggiosi e senza peli sulla lingua… ma quando è in gioco il tuo lavoro, o persino la tua vita, quella dei tuoi familiari o dei tuoi amici… allora sì che viene fuori di che stoffa sei fatto. La stoffa di cui è fatto Kirk Douglas è parecchio resistente. La sua non è una storia da film, quella del paladino che parte, lancia in resta, per difendere la sua causa. Per come ha raggiunto la gloria, somiglia più all’Atticus Finch del Buio oltre la siepe. Non cercava lo scontro… è stato lo scontro a trovare lui… e come Atticus, Kirk sapeva che cosa fare… quale fosse la scelta giusta. Oggi è difficile rendersi conto di quanto fosse ingombrante e pesante il maccartismo. È difficile immaginare che tanti americani onesti furono trascinati davanti alle sottocommissioni del Senato e costretti a svergognare i loro amici, se non volevano
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andare in prigione. Processati in pubblico senza potersi difendere… sotto quel peso, cedettero in tanti. E chi non cedeva pagava, e continuò a pagare anche dopo la fine degli interrogatori di McCarthy… persino dopo la morte di McCarthy. Dalton Trumbo era uno degli sceneggiatori più rispettati di Hollywood… si rifiutò di incriminare i suoi colleghi, finì in prigione e per anni fu costretto a lavorare sotto falso nome. Nel dicembre del 2011 il suo nome è tornato dove avrebbe dovuto stare da sempre: nei titoli di testa di Vacanze romane. Ma molto prima del dicembre del 2011, fu Kirk Douglas a farsi avanti e, in qualità di produttore e protagonista dello Spartacus di Stanley Kubrick, a scrivere chiaro e tondo il nome di Trumbo nei titoli di testa di un film, per la prima volta dal giorno in cui era comparso di fronte alla Commissione sulle attività antiamericane. Lo so, oggi sembra roba da poco, uno sceneggiatore che ottiene il giusto riconoscimento per un film che ha scritto… ma nei libri di storia questo momento segna la fine della lista nera di Hollywood. Kirk Douglas è tante cose. Una stella del cinema. Un attore. Un produttore. Ma prima di tutto, un uomo di straordinario carattere. Di quelli che vengono fuori quando la posta in palio è alta. Di quelli a cui ci rivolgiamo sempre nei momenti più bui.
Introduzione
È soltanto con l’esperienza, con il passare del tempo, e non certo con la teoria che impari a conoscere davvero te stesso. Inutile dire: «Ah, se l’avessi saputo!». Ancora oggi, a distanza di più di cinquant’anni, mi sembra straordinario che siamo riusciti a girare Spartacus. Avevamo tutti contro: il maccartismo, la concorrenza di un altro film, tutto. Ho 95 anni. Quando sono nato, alla Casa Bianca c’era Woodrow Wilson. Ho visto sedici presidenti, due guerre mondiali, la Grande depressione e una sfilza di crisi politiche, dallo scandalo di Teapot Dome al Watergate all’impeachment di Bill Clinton per essersi fatto fare un servizietto alla Casa Bianca. Mentre scrivo queste parole, l’America è divisa come non l’ho mai vista. Dal momento della sua nascita la nostra nazione ha superato tanti momenti di divisione estrema. Certo, il frangente più tragico fu quello che culminò nella Guerra civile. Più di mezzo milione di vittime, e gli Stati Uniti rischiarono di dissolversi. Eppure, in un modo o nell’altro, siamo sempre sopravvissuti.
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In questo libro voglio raccontare come girammo Spartacus in un altro periodo di grandi dissidi. Gli anni cinquanta furono un decennio di paura e paranoia. Il nemico erano i comunisti, come lo sono oggi i terroristi. Cambiano i nomi, la paura rimane. E rimangono i politici che la fomentano, i media che la sfruttano. Che dalla nostra paura traggono profitto. Il primo presidente per cui ho votato è Franklin Roosevelt. Diceva: «Non abbiamo niente da temere, a parte la paura». Non sono un attivista politico. Nel 1959, quando produssi Spartacus, volevo girare il miglior film possibile, non prendere una posizione politica. Misi insieme alcuni dei migliori attori mai apparsi sullo schermo: Laurence Olivier, Charles Laughton, Peter Ustinov, Jean Simmons e Tony Curtis. Ingaggiai un regista giovane e talentuoso con cui avevo già collaborato. All’epoca il grande pubblico non lo conosceva quasi per nulla. Si chiamava Stanley Kubrick. Il giudizio sul film lo lascio agli altri. Credo si difenda bene da sé. Ne vado fiero. Quando racconto ai miei nipoti la storia della realizzazione di Spartacus, la ascoltano come il racconto fantastico di un’epoca lontana, gli anni cinquanta. Hanno ragione. Di tempo ne è passato. Ma in un mondo in cui dalla Tunisia un uomo può innescare una serie di eventi che rovescia il governo dell’Egitto, la storia di Spartaco è importante come lo era cinquant’anni fa – e duemila anni fa. Uno spirito rivoluzionario si aggira per il mondo. Sarà contagioso? Ci sorprende vedere grandi folle che, senza capi dichiarati, si radunano nelle città americane, parlano con una voce sola, sfidano una struttura di potere che sembra inespugnabile.
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È la stessa cosa che fece Spartaco. Decine di migliaia di altre voci si unirono alla sua. Insieme, tutte erano Spartaco. Quando girai questo film ero giovane. Ho già detto spesso che, se avessi avuto qualche anno in più, forse non avrei mai affrontato l’impresa. Di sicuro non avrei chiesto a Dalton Trumbo di scriverlo senza nascondersi dietro uno pseudonimo. In quegli anni di grandi divisioni Dalton era diventato un vero capro espiatorio. Nemmeno dopo quasi un anno di galera per via delle sue idee politiche gli studios avevano tolto il suo nome dalla lista nera – fedeli alla regola del «non assumere» entrata in vigore più di un decennio prima. Oggi c’è ancora chi cerca di giustificarla, la lista nera. Dicono che era necessaria per proteggere l’America. Dicono che gli unici a farne le spese furono i nostri nemici. Mentono. Fu una vergogna nazionale che rovinò la vita di uomini, donne e bambini innocenti. Lo so. Io c’ero. L’ho visto coi miei occhi. Adesso vi racconto com’è andata. E di Spartacus, del film che girammo in quel clima di follia. Kirk Douglas, 1º gennaio 2012
Nel 1947, quando fu chiamato a comparire davanti alla Commissione sulle attivitĂ antiamericane, Dalton Trumbo era lo sceneggiatore piĂš pagato di Hollywood. (Bettmann/Corbis)
Tre anni dopo finĂŹ in prigione per oltraggio al Congresso.
Capitolo primo
«In ogni città e provincia liste di dissidenti sono già compilate.» Laurence Olivier nella parte di Marco Crasso
Nella Sala delle riunioni dell’Old House Office Building, i membri della Commissione sulle attività antiamericane furono richiamati all’ordine dal membro del Congresso J. Parnell Thomas, repubblicano del New Jersey. Era martedì 28 ottobre 1947, e dieci sceneggiatori e registi erano stati convocati per rendere conto delle loro tendenze politiche, attuali e passate. Gli sceneggiatori erano nove: Dalton Trumbo, Albert Maltz, Ring Lardner Jr., Lester Cole, Alvah Bessie, Herbert Biberman, John Howard Lawson, Samuel Ortniz e Adrian Scott. Il regista, Edward Dmytryk. Gli imputati – i cosiddetti Unfriendly Ten1 – erano convinti che sul banco degli imputati avrebbe dovuto trovarsi la Commissione, che violava in maniera assai poco americana il Primo emendamento alla Costituzione, garanzia di libertà di parola e di libera associazione, ed erano decisi a dirlo pubblicamente. Quel freddo giorno di ottobre, il primo a testimoniare fu 1
«I dieci ostili». [N.d.T.]
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Dalton Trumbo. Con la mano destra alzata gli fu chiesto di giurare su Dio di «dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità». Trumbo giurò. Ma gli spettatori imparziali capirono al volo che l’unica «verità» gradita alla Commissione (di cui faceva parte un membro del Congresso sconosciuto e neoeletto, un certo Richard M. Nixon) era quella che avrebbe confermato una sentenza già scritta: i Dieci erano colpevoli. Alle spalle di Trumbo, nel salone affollato, c’erano i membri del Comitato per il Primo emendamento, un gruppo fondato a Hollywood per sostenere gli accusati. Nella delegazione, tutte stelle del cinema che erano volate a Washington su un aereo privato offerto da Howard Hughes, tra cui spiccavano Humphrey Bogart e la sua giovane moglie Lauren Bacall, e poi Gene Kelly, Danny Kaye, John Garfield e John Huston. Lauren Bacall l’avevo conosciuta a New York nel 1940, un freddo giorno d’inverno, quando sgomitavamo per farci strada alla American Academy of Dramatic Arts. Lei, sedicenne, ci si era appena iscritta. Io di anni ne avevo ventitré e stavo per diplomarmi, ero un «anziano». All’epoca lei si chiamava ancora Betty Joan Perske. Per me è rimasta Betty. Nella sua autobiografia, con la sincerità schietta che ancora oggi la contraddistingue, Bacall descrive senza mezzi termini la messinscena a cui assistette in quella sala: Quando i testimoni come […] Dalton Trumbo […] si sentivano chiedere «Lei è membro del Partito comunista?» e si rifiutavano di rispondere, non facevano altro che esercitare un diritto sancito dal Bill of Rights. Non dicevano neanche se fossero o no membri
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del sindacato degli autori. Le loro tendenze politiche non erano affare del Comitato […] e Thomas era un martellare continuo. Non riuscivo a crederci, non riuscivo a credere che quel cretino pieno di sé avesse il potere di mettere in galera tutta quella gente!
J. Parnell Thomas sfidava tutti i testimoni convocati dal Comitato, e tuonava: presidente: Lei è o è mai stato membro del Partito comunista?! trumbo:
Credo che sia mio diritto sapere in base a quali prove mi si fa questa domanda.
Il presidente non si aspettava certo un testimone combattivo e svelto di parola come Dalton Trumbo: presidente:
Ah, davvero?
trumbo:
Sì. presidente: Be’, presto le vedrà. [Dà un colpo di martelletto.] Fate uscire il testimone. Impossibile! trumbo: Questo è solo l’inizio… presidente: [Martellando] Un minuto appena! trumbo: … del campo di concentramento americano in cui metterete gli autori! presidente: Tipica tattica comunista! La sua è una tipica tattica comunista! [Martella.]
Quel bastardo zelante di Thomas continuò a martellare come un matto, e Dalton Trumbo fu trascinato via. Ma le udienze non furono uno scherzo. Dalton Trumbo e i
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Dieci persero la libertà, nel vero senso della parola. Finirono tutti in galera per oltraggio al Congresso. A quell’epoca ero ancora una giovane promessa del cinema. Come altri milioni di americani ascoltavo alla radio le fasi salienti delle udienze. La televisione era ancora giovane e non se ne occupava. Appena un mese prima avevo comprato il mio primo piccolo apparecchio per vedere le finali delle World Series, trasmesse per la prima volta in diretta. I Brooklyn Dodgers di Jackie Robinson sfidavano i New York Yankees. Lo schermo minuscolo non mi impedì di restare a bocca aperta davanti alla grazia e al talento di quel nero che, da matricola, faceva già la storia.2 Due anni dopo, anche Jackie Robinson fu convocato dalla Commissione per rendere conto dei suoi rapporti con il controverso cantante Paul Robeson. Ovviamente, rapporti non ce n’erano. L’unica cosa che i due avevano in comune era l’essere neri, ma a J. Parnell Thomas bastava e avanzava. Era l’epoca in cui una frequentazione sbagliata valeva un’accusa. Io non fui mai convocato come testimone, né mi fu chiesto di unirmi ai vari Bacall, Bogart e via dicendo, perché non ero un «nome» abbastanza importante da finire sui giornali. All’epoca avevo girato soltanto un film, Lo strano amore di Marta Ivers. I ricordi che ho di quel periodo hanno un titolo diverso: La strana vita di Kirk Douglas. Nel 1945, appena arrivato in treno da New York, mi presentai a Hollywood ignaro delle controversie politiche che da qualche tempo ne turbavano l’ambiente. Non sapevo nulla Jackie Robinson fu il primo giocatore di colore nella Lega dei professionisti dopo quasi cinquant’anni di segregazione razziale nel baseball. [N.d.T.] 2
Capitolo primo 19
della prima serie di udienze tenuta dalla Commissione durante la guerra, mentre combattevo lontano da casa. Né immaginavo che Robert Rossen, sceneggiatore dello Strano amore di Marta Ivers, e Lewis Milestone, che del film fu regista, sarebbero finiti entrambi nei guai per via delle loro opinioni politiche estremiste. Diamine, a quel punto sapevo soltanto che stavo per recitare in un film di Hollywood. Prima di partire da New York non mi avevano detto altro: credevo di essere il protagonista romantico della storia, di andare a far coppia con Barbara Stanwyck. Giunto a Los Angeles fui prontamente informato dai rappresentanti dello studio che la mia parte era stata assegnata a Van Heflin. Ero diventato attore non protagonista. All’altro capo del paese, avevo studiato la parte sbagliata. Il primo giorno di riprese la Paramount mandò una limousine a prendermi e a scaricarmi sul set. Ero senza parole. Che emozione. Eppure rimasi di sasso quando l’autista accostò davanti ai grandi cancelli di Melrose Avenue e vidi un picchetto di lavoratori. E soltanto lì scoprii che erano dipendenti dello studio in sciopero. Era l’ultimo (fu l’ultimo in assoluto) di una serie di scioperi che videro opporsi la Conference of Studio Unions, un sindacato di sinistra, alle più importanti case di produzione. La Conference aveva chiesto allo Screen Actors Guild (il sindacato degli attori) di partecipare allo sciopero, ma il Sag, nelle persone del presidente George Murphy e dei membri dell’esecutivo Ronald Reagan e George Montgomery, negò la propria collaborazione e incoraggiò gli attori a passare oltre i picchetti. Nessuno me l’aveva spiegato. Ci misi un po’ a capire persino perché scioperassero (per difendere i sussidi ai costumisti di scena).
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Tra i lavoratori che presidiavano la Paramount c’era Robert Rossen. Me lo indicò l’autista: «Quello è Bob Rossen, l’autore». Guardai la sceneggiatura che tenevo con me sul sedile: in prima pagina c’era il nome di Robert. Fu il mio primo incontro con lui, ed era lì con un cartello in mano. Entrato negli studi ebbi la seconda sorpresa. Lewis «Milly» Milestone, il mio regista, non era nemmeno sul set. Per solidarietà verso gli scioperanti aveva deciso di passare la giornata da Oblath, il ristorante sull’altro lato della strada. Le riprese di quel giorno erano state affidate a un altro «regista». Il primo film della mia carriera, e il regista era letteralmente fuori. Benvenuto a Hollywood, Kirk. La situazione era così tesa che il produttore Hal Wallis decise di non farmi uscire dagli studios per non rischiare che rimanessi chiuso fuori. Per qualche notte, finché lo sciopero non si concluse, dormii in camerino. Questioni politiche a parte, avrei vissuto una vita molto più sana se Lewis Milestone non fosse mai tornato. Una brava persona, eh, ma anche convinto che gli attori dovessero fare sempre esattamente quel che diceva lui. «Allora, Kirk, secondo me in questa scena dovresti fumare una sigaretta.» «Ma, signor Milestone, io non fumo.» «Tranquillo, ragazzo, imparerai.» Non osai ribattere e obbedii. Finita la scena, corsi in camerino a vomitare. Purtroppo fu l’unica occasione in cui fumare mi diede la nausea. Milestone aveva ragione, altroché se ho imparato, poi. Due pacchetti al giorno per quarant’anni. Grazie, Milly. Le riprese filarono liscio, anche se per due settimane Miss
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Stanwyck non mi degnò di uno sguardo. Ebbi buone recensioni come coprotagonista e lei stessa, alla fine, mi disse che me l’ero cavata bene. Le risposi che era «troppo tardi» per i complimenti. Sfacciato d’un ragazzo. Due anni dopo, nello stesso periodo degli Unfriendly Ten, sia Milestone che Rossen vennero chiamati a comparire davanti alla Commissione sulle attività antiamericane. Poi Milestone scappò a Parigi. Robert Rossen, invece, confessò la propria militanza nel Partito comunista. Entrambi finirono sulla lista nera. All’epoca non lo sapevo, ma l’autore del mio primo film era un comunista, con tanto di tessera. Ripensandoci oggi, direi che non potrebbe fregarmene di meno. Mi sono sempre domandato cosa sarebbe successo se fossi arrivato a Hollywood anche solo cinque anni prima. Sarei rimasto anch’io coinvolto in quelle lotte? E in tal caso sarei sopravvissuto come attore? Ovviamente a Hollywood furono in parecchi a collaborare strettamente con le indagini della Commissione. Ronald Reagan testimoniò a favore dell’accusa, e con lui attori come Gary Cooper, Robert Montgomery, George Murphy o Adolphe Menjou. Menjou disse al Comitato: «Sono un cacciatore di streghe, se le streghe sono i comunisti. Io i rossi li perseguito. Fosse per me, tornerebbero tutti in Russia». Una curiosità su Adolphe Menjou: dieci anni dopo, quando lo ingaggiai per Orizzonti di gloria, fu ben felice di incassare l’assegno della mia casa di produzione, la Bryna. Immagino che nessuno gli avesse detto che Bryna era il nome di mia madre, russa.
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La nazione era spaventatissima e molto divisa, come lo è oggi. L’antisemitismo pesava ancora molto. Con lo pseudonimo «Kirk Douglas» riuscivo a lavorare. Con il mio nome di battesimo – Issur Danielovitch – non mi avrebbero neanche lasciato entrare. Le barriere razziali erano ancora alte e diffuse. Jackie Robinson le aveva appena infrante nel baseball, ma doveva passare ancora un anno prima che il presidente Truman decretasse l’integrazione nell’esercito. Ma più di ogni altra cosa, a gettare un’ombra sulla vita americana era la crescente isteria per il comunismo, il «pericolo rosso». In tanti lo consideravano una vera minaccia. Altri erano convinti che fosse semplice allarmismo. A ogni modo, non pensarci era impossibile. Nel 1945, l’anno del mio sbarco a Hollywood, Gerald L.K. Smith – demagogo religioso e fondatore del partito America First – cominciò ad attaccare pubblicamente «gli ebrei russi di Hollywood e la loro ideologia ripugnante». Nel suo cinismo riuscì a mescolare antisemitismo e paura del comunismo in una denuncia sola. Chiunque fosse ebreo, chiunque fosse russo, era un traditore. Ce l’aveva con me? Io ero ebreo di discendenza slava. I miei genitori erano immigrati bielorussi, ma non si sono mai considerati altro che americani. Mia madre, che in inglese non sapeva leggere né scrivere, mi ha insegnato ad amare questo paese come lo amava lei. «L’America» diceva, stupita. «Che paese meraviglioso!» Dopo Pearl Harbor mi ero arruolato in marina ed ero stato fiero di combattere nel Pacifico. E adesso ecco che quel perfido antisemita di Smith contestava la mia lealtà e il patriottismo di chiunque, a Hollywood, avesse radici ebraiche o russe. Un mese dopo l’apparizione di Dalton Trumbo (che peraltro
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non era ebreo) davanti alla Commissione, l’hotel Waldorf-Astoria ospitò una riunione privata a cui partecipò una cinquantina di alti dirigenti e distributori delle compagnie cinematografiche. Terminato l’incontro a porte chiuse, questi grandi e potenti uomini diffusero il comunicato che passò alla storia con il nome di Waldorf Statement3. Fu l’inizio della lista nera di Hollywood. Il paragrafo più importante dichiarava: I membri della Association of Motion Picture Producers4 deplorano l’azione dei dieci uomini di Hollywood accusati di oltraggio dalla Camera dei rappresentanti. Ci accingiamo da subito a congedare o sospendere senza alcun risarcimento chi tra essi lavora per noi, e non riassumeremo nessuno dei dieci a meno che non venga prosciolto o che abbia espiato la colpa dichiarando sotto giuramento di non essere comunista.
Caspita. Qui devo fare una pausa e riprendere fiato. Sono passati più di sessant’anni, ma se le rileggo oggi queste parole mi riempiono di rabbia, disgusto e tristezza profonda. Sei dei Dieci erano ebrei. E la cosa brutta è che pure la maggior parte dei firmatari del Waldorf Statement era ebrea. Possibile che fossero proprio degli ebrei, vittime di persecuzioni millenarie, compreso il più terribile caso di orrore e genocidio nella storia del mondo – l’Olocausto –, a diffondere un simile clima di paura in America? Be’, è una domanda retorica. La paura genera altra paura. Questa gente – uomini come Jack Warner, Louis B. Mayer e Harry Cohn – 3 4
«Dichiarazione del Waldorf». [N.d.T.] Associazione dei produttori cinematografici. [N.d.T.]
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moriva di terrore al pensiero di perdere il potere in un batter d’occhio, se qualcuno avesse dubitato della sua fedeltà all’America. Così si trasformarono in superpatrioti. Per dimostrare la propria correttezza erano più che disposti a sacrificare la vita altrui, anche quella di ebrei come loro. Come il governo di Vichy in Francia, erano collaborazionisti che mantennero la propria posizione e la propria influenza a spese dei concittadini. Hollywood era impazzita. In un baleno le battute di caccia alle streghe stupidamente incoraggiate da Adolphe Menjou si diffusero in tutta la nazione. Come la maggior parte degli americani, le vedevo e non sapevo come fermarle. Fredric March, interpellato dal programma radiofonico Hollywood Fights Back, lo vide come un segno premonitore: Secondo voi qual è il loro vero obiettivo? Chi è il prossimo? Il vostro prete, a cui spiegheranno cosa può dire dal pulpito? La maestra dei vostri figli, a cui spiegheranno cosa può dire in classe? O direttamente i vostri stessi figli? Oppure voi, che dovrete guardarvi attorno, nervosi, prima di dire ciò che pensate? Con chi ce l’hanno? Non soltanto con Hollywood. Questa faccenda riguarda tutte le città degli Stati Uniti, grandi e piccole.
Freddie March aveva ragione. Vedeva le nubi all’orizzonte. Forse è per questo che quando produssi Sette giorni a maggio decisi di affidargli la parte del presidente degli Stati Uniti. Nel corso degli anni, la Commissione rovinò migliaia di vite. Bastava un tratto di penna a stroncarti la carriera, e non soltanto a Hollywood.
Capitolo primo 25
Nel 1950, circa tre anni dopo le prime udienze davanti alla Commissione, la Corte Suprema respinse gli appelli di Dalton Trumbo e del resto dei Dieci. La condanna per oltraggio al Congresso fu confermata. Dalton si beccò dieci mesi di galera nel penitenziario federale di Ashland, Kentucky. Sua moglie e i tre figli piccoli rimasero senza un marito e senza un padre a sostentarli. Nello stesso periodo, con un colpo di scena che nessuno sceneggiatore avrebbe osato concepire, quel tronfio idiota di J. Parnell Thomas fu condannato per appropriazione indebita di denaro pubblico: appaltava lavori falsi e si intascava i quattrini. Si difese dicendo che «lo facevano tutti», più o meno. Il giudice non abboccò, e spedì l’ex presidente della Commissione nel penitenziario federale di Danbury, Connecticut, lo stesso dove due dei Dieci, Lester Cole e Ring Lardner Jr., stavano scontando la pena. Che ironia, ritrovarti in galera insieme a chi ti ci ha mandato. Spesso mi domando cosa potrebbero aver detto all’ex potente membro del Congresso incrociandolo in mensa: «Per favore, passami il martello»? La giustizia sarà anche cieca, ma a volte ha un senso dell’umorismo pazzesco. A riempire in fretta il vuoto lasciato dall’incarcerazione di J. Parnell Thomas fu Joseph R. McCarthy, uno sconosciuto senatore repubblicano del Wisconsin. Esordì mentendo: diceva di possedere numerose «liste» di comunisti infiltrati in tutti gli strati della società americana. Un numero sempre più grande di miei conoscenti e amici, come lo sceneggiatore Carl Foreman, fu coinvolto in una situa-
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zione che si faceva sempre più brutta e minacciosa. Cominciammo a chiamarlo «maccartismo», una parola nuova di cui la lingua non aveva bisogno. Come me, Carl era figlio di immigrati russo-ebrei. Era un autore brillante. Scrisse la sceneggiatura di due dei film che mi aiutarono a farmi un nome, Il grande campione e Chimere. (Anche sua figlia Amanda Foreman è un’autrice eccellente. Peccato che Carl non sia vissuto abbastanza per festeggiarne i successi.) Il film per cui Carl è più noto oggi è Mezzogiorno di fuoco. Non soltanto ne scrisse la sceneggiatura originale, ma ne fu anche coproduttore. Nel 1951, nel bel mezzo delle riprese di Mezzogiorno di fuoco, Carl fu chiamato a testimoniare davanti alla Commissione sulle attività antiamericane. Si rifiutò di fare nomi e la sua carriera a Hollywood finì per sempre. Scappò in Inghilterra per sfuggire al destino di Trumbo e degli altri. Riuscì a partire un attimo prima che il Dipartimento di Stato gli annullasse il passaporto. Hedda Hopper, squalo del pettegolezzo e mietitrice d’odio, lo attaccò con perfidia, e scrisse nella sua rubrica che sperava «che nessuno lo ingaggiasse mai più, da queste parti». Persino Stanley Kramer, produttore di vedute liberal, nonché socio in affari e amico fraterno di Carl, si spinse fino a cancellarne il nome dai crediti di Mezzogiorno di fuoco. Temeva che i rapporti con lui potessero costargli caro. Qualche anno dopo, di passaggio a Londra, andai a trovare Carl. Dopo qualche minuto di chiacchiere ebbi la sensazione che ci fosse qualcosa di strano. Alla fine Carl disse: «Va bene lo stesso, Kirk». Non capivo a cosa si riferisse.
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«Che cosa va bene, Carl?» «Va bene lo stesso anche se non ti va di pranzare con me. Capisco.» Gesù, pensai. Ecco cosa ti succede quando credi che tutti i tuoi amici ti abbiano mollato. «Carl, sono io, sono Kirk. Basta cazzate. Dov’è che vuoi andare a mangiare?» Non ho mai dimenticato quel breve incontro con Carl Foreman. Ogni volta mi fa ricordare quanta sofferenza provocò la lista nera. Mise gli amici contro gli amici. Mandò a pezzi matrimoni come quello di Carl, che divenne un uomo senza cittadinanza. Anni dopo, intervistato dall’American Film Institute, Carl scrisse queste parole toccanti: Negli anni del cosiddetto maccartismo […] il mio problema era la solitudine estrema. Non mi ero schierato con nessuno, io. All’epoca non militavo nel Partito comunista e non volevo entrarci, ma d’altro canto era impensabile che mi mettessi a fare l’informatore. Sapevo di essere già morto; volevo soltanto morire bene.
Qualcuno morì davvero. Philip Loeb insegnava recitazione a New York quando ancora studiavo; seguii anche dei suoi corsi. Quando andarono a cercarlo, la sua carriera nel nuovo mondo della televisione era appena decollata. Nel giugno del 1950 una pubblicazione intitolata Canali rossi. Rapporto sull’influenza comunista sulla radio e sulla televisione accusava Loeb di comunismo. Lui negò con forza, ma la General Foods, che sponsorizzava il suo programma televisivo, non ne volle sapere e spinse perché l’emittente televisiva lo licenziasse. E così fu.
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Phil non tornò mai più in televisione. Unico affidatario e responsabile di un figlio con problemi mentali, non si poteva permettere di mantenerlo. Cadde in una brutta depressione. Morì nel 1955 per overdose di sonniferi. Un lettore scrisse al New York Times che «Philip Loeb è morto di una malattia che si chiama “lista nera”». Il Times pubblicò la lettera, ma chiarì immediatamente la propria posizione con un editoriale: «Mai assumeremmo volontariamente un membro del Partito comunista come giornalista o redattore […] perché dubiteremmo della sua capacità di rendere una cronaca obiettiva dei fatti, o di commentarli con sincerità». Ironia della sorte, nel mese in cui Phil Loeb entrò nella lista nera – giugno 1950 – accadde qualcosa di simile nella vita di altri due uomini. Non si conoscevano, e non li conoscevo neanch’io. Non ancora. Uno era Dalton Trumbo, l’altro uno scrittore di nome Howard Fast. Fast era uno degli autori di romanzi storici più famosi d’America. Tra le sue opere, The Unvanquished, Il cittadino Tom Paine e La via della libertà. In quella fase della sua vita, Fast era anche un fiero comunista. All’inizio del 1950 fu convocato a Washington per testimoniare di fronte alla Commissione (presieduta da un democratico della Georgia, John Wood). Si discuteva il sostegno dato da Fast a un gruppo antifranchista, il Joint Anti-Fascist Refugee Committee.5 Wood e la Commissione volevano i nomi di tutti i donatori. Fast si rifiutò di darglieli (tra coloro che protesse c’era anche Eleanor Roosevelt). Come Dalton Trumbo, Fast fu accusato di oltraggio al Con5
«Comitato congiunto per i rifugiati antifascisti». [N.d.T.]
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gresso. Lo condannarono a tre mesi e finì in un campo di prigionia in West Virginia. Cominciò a scontare la pena il 7 giugno 1950. Era un ambiente duro, ma c’era la biblioteca. E Fast, come scrive lui stesso nelle sue memorie, la sfruttò: […] in carcere cominciai a pensare allo schiavo Spartaco, […] lessi tutte le informazioni e i ritagli che riuscivo a trovare nella piccola biblioteca della prigione. Lessi tutto il possibile su Roma, che era pochissimo, […] trovai la storia di Spartaco, e mi convinsi che c’era un modo di raccontarla in modo che potesse almeno avvicinarsi alla realtà.
A Ashland, nel Kentucky, a soli trecento chilometri dal luogo in cui era confinato Howard Fast, Dalton Trumbo stava scontando la sua pena. Il suo «nome» divenne Detenuto #7551. Trumbo non si scusò mai per ciò che era o che aveva fatto. Una volta rilasciato, scrisse così a un amico: […] mostrami l’uomo che denuncia amici che non hanno fatto del male a nessuno, e che viene ricompensato con più soldi di quanti ne avrebbe mai guadagnati, e io ti mostrerò non un patriota, non un cittadino onesto, ma una miserabile canaglia che posta di nuovo sotto pressione, e al giusto prezzo, tradirà non soltanto i suoi amici, ma anche la sua nazione.
Ciò che accadde a Dalton Trumbo e Howard Fast quell’estate innescò la serie di eventi che finì per cambiare la mia vita nel profondo. Ma all’epoca non potevo saperlo.