Paddy Docherty
Khyber Pass Una storia di imperi e di invasioni Traduzione di Maria Eugenia Morin
www.saggiatore.it
Š Paddy Docherty, 2007 Š il Saggiatore s.p.a., Milano 2010 Titolo originale: The Khyber Pass: A History of Empire and Invasion
Khyber Pass Questo libro è dedicato ai miei genitori, Margaret e Bob, con la mia gratitudine
Sommario
Prologo
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1. I primi persiani 2. Alessandro Magno 3. L’impero mauryano 4. Greci e nomadi 5. I kushana 6. Persiani sasanidi e unni bianchi 7. I primi musulmani 8. Gengis Khan e Tamerlano 9. Moghul e sikh 10. Il Raj britannico 11. Il Pakistan
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Epilogo
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Ringraziamenti Saggio bibliografico Crediti fotografici Indice analitico
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Prologo
L’uscita occidentale del Khyber Pass
Era l’amara conclusione della disastrosa Prima guerra afghana. John Nicholson stava attraversando a cavallo il Khyber Pass verso l’India, in direzione della frontiera e della libertà. Giovane ufficiale subalterno, prestava servizio nell’esercito dell’India britannica e il suo reggimento era stato inviato in Afghanistan dopo l’invasione del 1839 e vi era rimasto mentre le fortune degli inglesi nel paese declinavano fino a crollare del tutto. Durante la terribile ritirata da Kabul nel gennaio 1842, quando il grosso dell’esercito britannico era stato completamente annientato, Nicholson e un pugno di altri ufficiali erano stati catturati a Ghazni e avevano dovuto sopportare parecchi mesi di crudele prigionia nelle mani degli afghani. Poi una nuova forza britannica – nota come l’«Armata punitiva» – aveva compiuto una seconda invasione, vendicandosi duramente sulla popolazione afghana e lasciando Kabul in fiamme. Nicholson era stato liberato e, la mattina del 4 novembre 1842, doveva soltanto attraversare il Khyber Pass – il leggendario passaggio in India – per trovarsi in territorio alleato. La marcia da Kabul era stata lugubre e pericolosa. I morti di gennaio erano ancora disseminati lungo tutta la strada che portava dalla capitale afghana alla città di Jalalabad, a metà strada fra Kabul e il Khyber Pass: un esercito di oltre sedicimila soldati con civili al seguito era stato annientato in pochi giorni, mentre tentava di lasciare l’Afghanistan lungo l’aspro percorso montagnoso verso l’India. Gli innumerevoli scheletri che giacevano sparsi qua e là stavano a testimoniare che gli uomini delle
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Khyber Pass
tribù afghane e l’inverno rigido non avevano lasciato scampo. Ora questi due killer erano tornati a ostacolare il viaggio verso casa dell’Armata punitiva; sebbene gli inglesi lo sbandierassero come il ritorno trionfale di una forza vittoriosa, il ripiegamento rischiava di trasformarsi in una seconda costosa ritirata. Malgrado il rischio di imboscate e gelate, Nicholson e il suo reparto erano arrivati sani e salvi all’imboccatura occidentale del Khyber Pass il 1º novembre. Qui il giovane ufficiale aveva trovato una qualche consolazione per le sofferenze patite negli ultimi mesi: si era ricongiunto con il fratello minore, Alexander, dopo quasi quattro anni di separazione. Avendo seguito John nella carriera militare, Alexander era salpato dall’India qualche mese prima ed era appena arrivato alla frontiera con il suo reggimento per coprire il ritiro dell’esercito dall’Afghanistan. Data la loro giovane età – John Nicholson aveva diciannove anni, Alexander appena diciassette – e le difficili circostanze in cui si trovavano, il loro incontro dovette essere commovente, ma nessuno dei due ha lasciato un resoconto scritto. Dopo due giorni trascorsi insieme, i fratelli Nicholson si erano separati di nuovo: John era rimasto con la retroguardia, mentre Alexander era partito alla volta del Khyber Pass il 3 novembre con il suo reggimento per scortare una divisione dell’esercito diretta in India. John lo aveva seguito un giorno dopo. Fu così che John Nicholson si trovò a passare attraverso il Khyber Pass un giorno di novembre del 1842 nel corso dell’affrettato, angoscioso ritiro di un esercito vulnerabile. Una volta percorsi i cinquanta chilometri di questa famosa strada di montagna, sarebbe stato fuori dal territorio afghano e si sarebbe potuto riposare dopo due anni di guerra e prigionia. Sebbene breve, quella pista stretta, dominata dalle alture rocciose del Khyber Pass, era il tratto più pericoloso della strada per l’India, specie in tempo di guerra. Gli uomini delle tribù patane del Khyber erano famosi per la loro ferocia, anche in un paese di guerrieri, ed erano temuti per la loro capacità di sbarrare il cammino agli eserciti sgraditi, o almeno costringerli a pagare un prezzo molto alto. Fortini costruiti sulle vette sorvegliavano tutto il passo, semplici roccheforti che consentivano agli uomini delle tribù di tenere sotto tiro quasi tutto questo passaggio cruciale nei momenti di crisi. Situate in cima ai dirupi e raggiungibili solo con un’ardua scalata, segnalavano l’arrivo di intrusi nel Khyber e permettevano agli uomini di sparare sulla strada indisturbati. Nei tratti più angusti, dove la
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roccia color ocra incombe sulla strada, queste minuscole cittadelle dominavano il passaggio con particolare efficacia (fig. 1). Altrove, sempre sotto l’occhio vigile di questi fortini a forma di cubo, il passo si allarga e le maestose pareti rocciose si ritirano dalla strada fino a distanziarsi di oltre un chilometro. Qui le case sparse e le torri di guardia dovevano apparire meno minacciose a Nicholson mentre passava con il suo reggimento, la claustrofobia delle strettoie era forse attenuata dal cielo più vasto e forse il paesaggio aspro acquistava una sua fugace bellezza. Questa apertura era ingannevole, un sollievo momentaneo prima che il passo si richiudesse all’improvviso, come un muscolo contratto. Nicholson e i suoi uomini si dovevano sentire sicuramente molto vulnerabili ad Ali Masjid, vicino al centro del passo: le pareti a picco si ergono fino a duecento metri di altezza, lasciando solo pochi metri di spazio alla strada per sgusciarvi in mezzo. Le alture che dominano la strettoia di Ali Masjid ne fanno il punto più facile da difendere, un bastione da cui pochi cecchini possono trattenere agevolmente un intero esercito. In quell’occasione, la forza britannica non incontrò alcun ostacolo, ma dopo essere passati attraverso la strettoia di Ali Masjid, Nicholson e un suo compagno, il sottotenente Julius Dennys, scorsero la carne pallida di un cadavere europeo a una certa distanza. Ignorando il rigido ordine di non lasciare la via maestra, i due ufficiali andarono a controllare: evidentemente un reparto britannico era caduto in un’imboscata ed era stato annientato. Avvicinandosi al corpo, videro che era stato orrendamente mutilato e lasciato nudo sul terreno. Per una terribile combinazione, si trattava di Alexander. Gli avevano tagliato i genitali e glieli avevano ficcati in bocca secondo l’uso afghano. John Nicholson non ha descritto quello che provò nel ritrovare suo fratello – all’epoca vittoriana i militari non avevano l’abitudine di esprimere i propri sentimenti – ma possiamo immaginare che fu per lui uno shock terribile. I suoi compagni scrissero che era sopraffatto dal dolore mentre seppellivano il corpo nel Khyber. John Nicholson sarebbe arrivato al grado di generale, prima di morire eroicamente durante l’Ammutinamento indiano nel 1857; suo fratello non ebbe la stessa possibilità. Oltre centocinquant’anni dopo, mi trovavo ad Ali Masjid, vicino al luogo dove era stato ucciso Alexander Nicholson, e la mia mente andava alla truce reputazione del Khyber Pass; molti incidenti del genere in
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questo territorio ostile infusero negli inglesi un sacro timore del Khyber durante tutti gli anni del Raj. Inoltre, la sua importanza come storica via di accesso al loro prezioso impero indiano li rendeva perfettamente consapevoli che il possesso del Khyber Pass aveva un valore strategico senza pari. La lunga e angosciosa vigilanza della frontiera pose il Khyber in una categoria speciale dell’iconografia imperiale e il solo nome evocava immagini di montagne aspre, minacciose e d’importanza ineguagliabile come linea di difesa cruciale dell’India. Insieme allo Stretto di Gibilterra e al Canale di Suez, il Khyber Pass era una delle chiavi strategiche che sbarravano il mondo prima dell’epoca del volo, e divenne così un centro focale dell’interesse imperiale e dei piani militari. Entrò nell’immaginario popolare britannico come una preda romantica, leggendaria da difendere a tutti i costi. Il passo si estende per quasi cinquanta chilometri attraverso il Sefid Kuh – le «Montagne bianche» – dall’Afghanistan (a occidente) alle pianure di Peshawar (a oriente). Ora si trova interamente nella Provincia della frontiera di nordovest, la leggendaria frontiera nordoccidentale non solo del Pakistan, ma dell’intero subcontinente. Era la prima linea di difesa dell’India e perenne causa di preoccupazione per la minaccia rappresentata dall’Afghanistan e dalle terre retrostanti nel corso dei secoli. Oggi rimane una frontiera turbolenta, mentre i soldati americani e inglesi – insieme a quelli di molte altre nazioni occidentali – combattono in Afghanistan contro il risorgere dei talebani e dei loro alleati di al-Qaida. Per osservare questo scenario di guerra proseguii a ovest da Ali Masjid e mi fermai vicino al campo ordinato dei Fucilieri del Khyber a Michni e guardai giù verso il confine (fig. 2). Contemplando il magnifico panorama dell’imboccatura occidentale del passo – una vista grandiosa di rocce e di cielo – pensai alla fitta serie di incidenti e di attività che era passata attraverso questo stretto canalone di montagna nel corso degli anni. Situata nell’imboccatura appena un paio di chilometri da me, la città confinaria di Torkham segnava l’inizio del Khyber con un assortimento di piccoli edifici raccolti intorno al punto di attraversamento. La modesta cittadina sembrava composta dai detriti di una frana, sparsi intorno alla base della montagna e fra gli alberi sempreverdi che crescevano in fondo al passo. Una foschia sporca si levava dai fuochi delle cucine sopra la città, mescolandosi con la nebbia che avvolgeva le montagne sovrastanti.
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Proprio al limitare meridionale della città, la roccia marrone scuro si erge in una curva brusca e forma un crinale frastagliato che s’inoltra nelle montagne. Sotto questa lama fittamente seghettata, una ripida scarpata scende nella valle. La roccia è spolverata di rosso e durante gli inverni rigidi queste vette si coprono di neve. A destra, dalla parte opposta, il lato nord del passo sale più dolcemente fino agli stessi picchi impervi. La parete montuosa è segnata da due strade che aprono squarci grigiastri nella roccia verdognola. Più in alto corre la ferrovia, che si rintana così spesso nella montagna che i tratti visibili sono ben pochi. Retaggio dell’epoca britannica ma attualmente fuori uso, termina al confine. Sotto queste strade e linee ferroviarie, il fondo del passo si allarga una volta superata l’imboccatura; fra le grandi pareti di pietra, alberi e collinette punteggiano la distesa di terra color bruno grigiastro. Michni è appollaiata sopra questa scena e guarda verso i due enormi fianchi delle montagne che si protendono verso lo stretto varco di Torkham. Al di là della città potevo vedere l’Afghanistan: una successione di crinali ondulati che si perdono in lontananza oltre il confine, aumentando man mano di altezza, come onde che diventano sempre più alte andando verso il largo. Il Khyber Pass rappresenta più di un semplice confine, più di una linea su una mappa, presidiata da agenti che controllano i passaporti davanti a una barriera. È una vera frontiera, un antico tratto di terreno disputato, a lungo conteso e mai completamente in pace, incorporato di volta in volta entro imperi e stati, ma sfuggito sempre al controllo anche delle massime potenze. All’interno del Khyber vidi lunghe file di soldati pakistani in marcia durante le loro manovre montane e avvertii la tensione di una frontiera, un’inquietudine che affiorava ovunque e si manifestava con particolare evidenza negli uomini delle tribù sul ciglio della strada con un Ak-47 ad armacollo. Le continue rivalità fra le tribù amplificano quest’aria di violenza; i fucili non servono solo a fare scena. Questo senso di perpetuo presagio di sventura, di vita sul filo del rasoio, è evidente soprattutto nei pochi villaggi all’interno del Khyber: qui le case sono piccoli fortini, difesi e circondati da mura, spesso abitati da parecchie famiglie di parenti stretti. Bassi e squadrati, sono costruiti con mattoni di fango cotti al forno e hanno piccole feritoie al posto delle finestre. Tra questi fortini di terra non ho visto bambini giocare, né paesani fermarsi a scambiare due parole con i loro vicini. Nel Khyber la vita è chiusa dietro le fortificazioni.
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Mentre percorrevo il passo, immaginai che questa atmosfera tesa non fosse mutata da quando il giovane Alexander Nicholson venne ucciso e risalisse molto più indietro nel tempo. È marcatamente la conseguenza dei secoli d’instabilità e di scambio che caratterizzano questa regione di frontiera, un fertile collegamento fra eserciti e idee che è stato determinante per la formazione di imperi e la diffusione di religioni attraverso la barriera dei monti. Per una fortuita combinazione geografica, il Khyber Pass è stato testimone di un’interazione militare e culturale particolarmente intensa, che forma l’essenza della storia delle regioni che unisce. Nessun altro valico di montagna, strada strategica e via d’acqua vitale nel mondo ha visto passare una così ricca concentrazione di storia. Oltre agli inglesi, inquiete sentinelle lungo la frontiera indiana, altri popoli hanno dominato la regione, dai mauryani e dai parti dei tempi antichi ai sikh e ai patani di epoca più recente. Inoltre, il Khyber Pass è stato l’itinerario imprescindibile degli eserciti di persiani, greci, sciti, kushana, unni bianchi, turchi, mongoli, Moghul e afghani, che lo hanno attraversato per invadere l’India in momenti diversi nel corso dei secoli, creando imperi e gettando i semi di nuove culture sulla loro scia. Familiare e poco conosciuto al tempo stesso, il Khyber Pass fornisce una lente preziosa per osservare la storia in un mondo dove gli imperi continuano a sorgere e crollare e ci permette di studiare gli invasori che lo hanno attraversato per creare regni o distruggerli. Raccontando la storia del Khyber Pass dai tempi più antichi, spero di dimostrare come lo scambio militare e culturale lungo quello stretto corridoio abbia creato il mondo qual è oggi nelle regioni circostanti. Inoltre, tenterò di disegnare la ricca rete di collegamenti globali durante migliaia di anni, che mostra come la globalizzazione sia un fenomeno molto più antico di quanto si pensi. Verso la fine della mia prima visita al Khyber, presi la via del ritorno a Peshawar mentre il cielo imbruniva e mi fermai a contemplare gli ultimi due chilometri della leggendaria strada per l’India. Vidi basse colline che sorgevano alla rinfusa in primo piano e andavano sgretolandosi, i fianchi coperti di detriti di falda, in mezzo a cui la strada si snodava avanti e indietro, serpeggiando all’impazzata verso la stretta apertura in fondo alla gola, un fiume di asfalto che procedeva verso la pianura. Il terreno aveva un colore marrone muschioso, disseminato di cespugli e lampi di verde acceso dei pochi alberi che crescevano in fondo al passo. Più avanti,
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a nord e a sud due crinali si protendevano l’uno verso l’altro, declinando dolcemente. Non s’incontravano. Lo stretto varco fra gli archi delle montagne è l’estremità orientale del Khyber Pass: al di là si trovano le pianure, i fiumi, le popolazioni e le civiltà del subcontinente. Rimasi un po’ a contemplare questo panorama, l’allettante, fugace visione del grandioso obiettivo che ogni monarca, soldato e emigrante di passaggio ha sicuramente goduto nel corso dei secoli. Dopo un passaggio difficile attraverso montagne ostili popolate da tribù spietate, le pianure offrivano tranquillità e agi, il lusso e la ricchezza dell’India finalmente a portata di mano. Le conseguenze violente, creative e durature di molti di questi viaggi formano la storia del Khyber Pass. Il nostro racconto inizia 2500 anni fa, all’epoca dei primi persiani e della loro ascesa a potenza imperiale.
1. I primi persiani
Un’incisione del xvii secolo raffigurante le rovine di Persepoli
Io, Dario, grande Re re di re re in Persia re dei paesi Iscrizione di Bisotun
Il Khyber Pass emerge dal mito per entrare nella storia con l’ascesa dei persiani e del leggendario fondatore del loro primo impero. Quando Ciro il Grande nacque nel vi secolo a.C., come ci racconta lo storico greco Erodoto, i persiani erano un popolo sottomesso al dominio dei medi, una tribù cugina di ceppo iraniano. Il re Astiage governava la Media dalla sua capitale Ecbatana (l’odierna Hamadan) fino al Nordovest della Persia e si era fatto odiare per la sua crudeltà. I medi avevano instaurato il loro regno solo di recente, in una rivolta contro gli invasori sciti e muovendo guerra agli assiri; ora avevano esteso il dominio anche sui loro vicini in Persia. Secondo il ricco resoconto che ci fornisce Erodoto, un giorno Astiage fece un sogno inquietante in cui sua figlia Mandane urinava di continuo e così copiosamente da allagare Ecbatana, poi l’intera Media, poi il resto dell’Asia. Avendo chiesto al suo sacerdote d’interpretarlo, Astiage, allarmato, si sentì dire che il sogno era un presagio: il figlio di sua figlia avrebbe regnato su tutta l’Asia. Quando Mandane fu in età da marito, Astiage, ancora preoccupato per il sogno, non volle darla in moglie a un medo di alto rango e scelse invece Cambise, un nobile persiano. Sebbene di buona famiglia e di ottima indole, in quanto persiano era considerato di rango inferiore a un medo anche di condizioni modeste: i suoi figli non potevano diventare re. Mandane e Cambise erano sposati da meno di un anno quando Astiage fece un altro sogno, in cui una pianta rampicante cresceva fra le gambe di sua figlia e si spandeva su tutta l’Asia, ricoprendo rapidamente con i
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suoi viticci ogni parte del mondo conosciuto. Il sacerdote dichiarò che il sogno prediceva ancora una volta che il figlio di Mandane sarebbe diventato re dell’Asia. Dato che era incinta, Astiage decise di mettere fine ai suoi timori per il trono facendo uccidere il bambino appena nato. Ordinò a un parente fidato, Arpago, di prendere il bambino il giorno stesso della sua nascita, ucciderlo e liberarsi del corpo come meglio credeva. Nel giorno fatidico Arpago strappò il neonato dalle braccia della madre, lo avvolse in un drappo funebre e lo portò via segretamente dal palazzo. Forse commosso dall’ingiustizia, o forse timoroso di macchiarsi le mani di sangue reale, Arpago decise di non uccidere lui stesso il neonato, ma chiamò un servo di Astiage, un mandriano chiamato Mitradate, che viveva sulle colline nei dintorni di Ecbatana. Gli ordinò di portare il bambino sui monti, esporre la culla alle intemperie e sorvegliarla fino alla morte del bambino. Il caso volle che anche la moglie di Mitradate fosse incinta e, proprio il giorno in cui Arpago convocò Mitradate, partorisse un bimbo morto. Quando tornò alla sua capanna con il nobile neonato fra le braccia e trovò suo figlio morto, Mitradate raccontò alla moglie quale terribile compito gli fosse stato affidato. In lacrime, lei supplicò il mandriano di non uccidere il neonato regale ma di scambiarlo con il bimbo morto e allevarlo come fosse figlio loro. Così il neonato morto venne rivestito dei panni funebri regali e il piccolo principe avvolto in stracci. L’indomani Mitradate portò il proprio figlio morto ad Arpago e l’inganno fu completo. Tuttavia, dieci anni dopo, si scoprì che questo bambino – Ciro, anche se non si chiamava ancora così – era il nipote del re. Come figlio di Mitradate il mandriano, Ciro giocava con gli altri ragazzi del villaggio che, un giorno, lo elessero re durante un gioco. Il giovane Ciro si mise ad assegnare compiti ai suoi nuovi sudditi, nominandone uno ministro, un altro guardia del corpo e così via; il gioco finì quando frustò un ragazzo, figlio di un nobile, per disobbedienza. Questo ragazzo corse a casa da suo padre, che andò dal re a chiedere un risarcimento per l’offesa recata al suo rampollo dal misero figlio di un mandriano, e Mitradate e Ciro vennero convocati a palazzo. Quando Astiage rimproverò il ragazzo per aver maltrattato il figlio del nobile, Ciro difese con dignità i suoi atti, ma si dichiarò pronto a subire la punizione se così voleva il re. Il suo portamento regale e il discorso
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orgoglioso, ma soprattutto la somiglianza del ragazzo con lui fecero intuire al re la sua vera identità. Sforzandosi di contenere la collera e la paura crescente, Astiage fece accompagnare Ciro in un’altra stanza e minacciò di torturare Mitradate se non gli avesse detto la verità sul conto del ragazzo; il mandriano fu costretto a raccontare tutto. Concentrando ormai la sua rabbia silenziosa su Arpago, Astiage gli ordinò di venire a palazzo. Vedendo il mandriano presente e ritenendo che la franchezza fosse la sua migliore difesa, anche Arpago disse la verità sul suo ruolo nella vicenda, spiegando che aveva cercato di non macchiarsi dell’assassinio del nipote di un re incaricando dell’atto criminoso Mitradate, a cui aveva impartito accurate istruzioni sul modo di eseguirlo. Astiage raccontò per filo e per segno ad Arpago come Mitradate, mosso a compassione, avesse modificato il piano. Ostentando grande sollievo per la sopravvivenza del bambino e gioia per non avere più l’assassinio del nipote sulla coscienza, Astiage invitò Arpago a unirsi a lui quella sera per festeggiare il felice esito della vicenda. Il re gli disse di mandare suo figlio di tredici anni a fare visita al piccolo principe appena tornato. Arpago andò a casa di ottimo umore, contento di essersela cavata così a buon mercato considerata la fama di crudeltà del re, e mandò suo figlio a giocare con il principe come il sovrano aveva ordinato. Quando il figlio di Arpago arrivò a palazzo non venne condotto dal giovane Ciro, ma nel mattatoio delle cucine reali, dove venne ucciso, fatto a pezzi e preparato per essere servito a tavola. La testa, le mani e i piedi vennero messi da parte, in un piatto coperto. Variamente arrostita e bollita, la carne del figlio venne offerta ad Arpago quella sera al banchetto. A tutti gli altri ospiti, compreso Astiage, venne servito del montone cucinato in modo analogo. Arpago mangiò con gran gusto e quando fu sazio, Astiage gli chiese se il pranzo gli fosse piaciuto. Quando gli fu assicurato che il cibo era eccellente, Astiage ordinò che il piatto coperto contenente i piedi, le mani e la testa del ragazzo venisse presentato ad Arpago, che fu invitato ad assaggiare ancora un poco del cibo che gli era piaciuto tanto. Sollevando il coperchio e vedendo i miseri resti di suo figlio, Arpago non ebbe un collasso com’era da aspettarsi, ma finse di accettare la punizione del re. Raccogliendo i resti del figlio, li portò a casa per seppellirli. Erodoto non descrive i suoi sentimenti, ma possiamo immaginare la nausea, l’orrore e il
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violento, rabbioso senso di oltraggio che Arpago represse mentre lasciava con calma il palazzo per mettere a punto i suoi piani di vendetta. Così Astiage punì Arpago. Per decidere il fato del giovane principe, il re consultò nuovamente il sacerdote, il quale asserì che i sogni di Mandane si erano avverati: il ragazzo era stato re per i suoi compagni di giochi e non rappresentava più un pericolo per Astiage. Suggerì d’inviare Ciro nelle terre di suo padre in Persia per precauzione e, fatto ciò, Astiage considerò risolta la questione. La pazienza era una caratteristica di Arpago, che attese per anni l’opportunità di vendicare l’oltraggio che gli aveva recato il re. Nel frattempo, Ciro era diventato famoso in tutta la Persia. Noto per il suo coraggio e la sua saggezza fin da giovane, si stava guadagnando una buona reputazione e il potere che l’accompagna. Quando Arpago venne a saperlo, vide nel principe lo strumento perfetto per la sua vendetta; avendo subìto un grave torto da parte di Astiage, anche Ciro poteva covare idee di vendetta. Per attirare il principe dalla sua parte, Arpago cominciò ad accattivarselo con doni e lettere affettuose; inoltre, il rigido dominio di Astiage aiutò Arpago a reclutare personaggi di alto lignaggio in appoggio ai suoi piani. Infine riuscì a ottenere il loro consenso a sostituire Astiage con il principe persiano. Allertato da Arpago, Ciro riuscì a radunare l’esercito persiano e, messosi alla sua testa, marciò su Ecbatana. Astiage affidò ad Arpago il comando dell’esercito medo, dimenticando nel panico il torto che gli aveva fatto. Di conseguenza, quando le due forze s’incontrarono, non vi fu praticamente battaglia: i pochi medi che non facevano parte del complotto avevano scarse possibilità di vittoria dato che i compagni intorno a loro passavano dalla parte dei persiani. Astiage trovò il tempo di convocare il sacerdote (quello che gli aveva consigliato di mandare Ciro in Persia per impedirgli di nuocere) e farlo impalare, prima di essere egli stesso catturato dai persiani e dai medi ribelli. Fu così, ci racconta Erodoto, che Ciro il Grande divenne re dei medi. È impossibile avvalorare questa appassionante storia di torti vendicati e comode coincidenze, dato che Erodoto stava inaugurando una nuova strada con il suo resoconto scritto in un’epoca di tradizioni orali. Verità, opinioni, voci, mito e leggenda erano mescolati: fatti e immaginazione erano inscindibili.
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Erodoto non ce lo dice, ma altre fonti, come la Cronaca di Nabonedo, riferiscono che quando scoppiò la rivolta contro Astiage, Ciro era sul trono del regno vassallo di Persia, essendo succeduto a suo padre Cambise nel 559 a.C. Mentre Ciro era intento a costruire una nuova capitale a Pasargade, la nobiltà nella Media stava diventando molto irrequieta, così come la popolazione. La rivolta contro il re scoppiò nel 553 a.C. e il regno di Astiage terminò definitivamente quando Ciro conquistò Ecbatana nel 550 a.C. In un’epoca non certo rinomata per la compassione con cui venivano trattati i re catturati, Ciro dimostrò la sua clemenza, limitandosi a imprigionare il rivale sconfitto invece di ucciderlo in qualche maniera fantasiosa e sanguinaria. E non ordinò di radere al suolo Ecbatana (il trattamento riservato abitualmente a una città conquistata in guerra), ma ne fece la sua capitale insieme a Pasagarde. Questa munificenza sarebbe diventata una caratteristica del suo regno e gli meritò la fama imperitura di sovrano clemente e tollerante. Sconfiggendo Astiage, Ciro era diventato padrone di due reami e aveva unito due popoli iraniani per fondare quello che conosciamo come l’impero achemenide, così chiamato in epoca successiva per via del suo predecessore dinastico Achemene. Quale sarebbe stata la prossima mossa di un giovane sovrano abile e ambizioso? Il suo nuovo regno si trovava a cavallo di importanti vie commerciali che collegavano l’Asia Minore, il Mediterraneo e l’Egitto a ovest con l’India e l’Asia Centrale a est, offrendo vantaggi geografici strategici e grande ricchezza. Era ben piazzato e redditizio, ma ancora poco esteso; tuttavia, Ciro aveva sufficiente avidità e fiducia in se stesso per correggere questo deficit territoriale e seguì un’audace strategia espansionistica fin da quando iniziò a governare il suo impero con mano ferma. Inizialmente la sua intenzione era conquistare la costa mediterranea e assumere il controllo dei suoi grandi porti marittimi, snodi occidentali delle vie commerciali su cui aveva già un notevole controllo. Forse perché non si sentiva ancora abbastanza forte per affrontare Babilonia, la sua potente vicina occidentale, Ciro rivolse la sua attenzione al ricco stato della Lidia (nella parte occidentale della moderna Turchia). Questo regno era governato dal 561 a.C. da Creso, possessore di ricchezze leggendarie. Ciro si protesse il fianco occupando la Cilicia senza incontrare opposizione e poi, nel 547 a.C., marciò sulla Lidia e la conquistò rapidamente,
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risparmiando anche questa volta la vita al suo re; la Lidia divenne una satrapia dell’impero sotto un governatore persiano. Per completare la sottomissione dell’Asia Minore e procurarsi un buono sbocco sul Mediterraneo, Ciro dovette poi conquistare le colonie commerciali greche sulla costa ionica, propaggini degli stati greci sul continente dall’altro lato del mare Egeo. Erano possedimenti allettanti, ricche città commerciali con le loro flotte. Sembra che questi insediamenti greci avessero accettato Creso come sovrano; dopo la sua vittoria sulla Lidia, Ciro pretese che si arrendessero a lui come nuovo signore. Tutte, eccetto una, rifiutarono di sottomettersi e vi furono costrette separatamente, con la forza o con il tradimento: la ricchezza dei persiani, usata per corrompere funzionari e generali greci, era una potente alleata delle loro armi. La mancanza di unità fra le città greche e il vantaggio che la classe dei mercanti vedeva nell’unirsi al ricco regno persiano in espansione fecero sì che Ciro si trovasse ad affrontare solo una resistenza frammentaria. L’annessione di questi insediamenti greci da parte di Ciro il Grande nel 540 a.C. segnò l’inizio della lunga storia di tensione fra persiani e greci, che avrebbe raggiunto il culmine due secoli dopo con la feroce invasione della Persia da parte di Alessandro Magno. Avendo accresciuto notevolmente la sua potenza sul fianco occidentale, Ciro si rivolse a oriente, dove l’obiettivo era la sicurezza. Le steppe dell’Asia Centrale erano state per lungo tempo una fonte d’instabilità per via della moltitudine di tribù nomadi: cavalieri che apparivano all’improvviso e devastavano e razziavano gli insediamenti nelle zone civilizzate. A volte tornavano a casa con il loro bottino, ma altre volte rimanevano e si eleggevano a sovrani. Gli sciti, un popolo iraniano nomade lontano parente dei persiani, avevano fatto appunto questo nel vii secolo a.C., dilagando nell’Asia Minore, in Siria e in Palestina e saccheggiando ovunque passassero. Erano rimasti per decenni nel regno della Media, tenendolo sotto il loro controllo fino a che non venne liberato dal padre di Astiage, Ciassare. Popolazione equestre e quindi estremamente mobile, gli sciti nelle loro varie incarnazioni tribali erano giunti così a dominare un vasto tratto di territorio, dal fiume Osso a est fino alla Crimea e alla Russia meridionale a ovest. I cavalieri che razziavano il Medio Oriente nel vii secolo a.C. erano sciamati a sud attraverso le montagne del Caucaso per disturbare le antiche civiltà; altri a est tartassavano il Khorasan, il Nordest dell’odierno
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Iran. Il loro vasto raggio d’azione e la velocità di movimento gli consentivano di dominare grandi aree di territorio e la possibilità di lanciare assalti a sorpresa contro i loro obiettivi sedentari. Molti popoli educati secondo una tradizione ereditata dai greci e dai romani tendono a considerare i popoli nomadi, come gli sciti, semplici barbari. Eppure questi avevano molto da insegnare alle società stabili che incontravano, sicuramente nell’arte della guerra; durante la dominazione degli sciti sui medi, dicono che Ciassare avesse messo a frutto il loro esempio militare e appreso tattiche efficaci per il combattimento a cavallo, che in seguito aveva usato contro i suoi involontari maestri. Oltre alle loro stupefacenti doti equestri, gli sciti erano abilissimi nella lavorazione dei metalli, che faceva parte integrante della loro cultura: numerosi tumuli funerari trovati intorno alla costa del Mar Nero in Ucraina hanno fornito agli archeologi testimonianze dei loro costumi, stile di vita, abbigliamento e armi, specialmente perché inviavano i loro morti nell’aldilà con le armi e i vestiti che usavano da vivi. Un guerriero veniva sepolto abitualmente con l’arco, le frecce e la lancia; un re scendeva nella tomba con l’armatura, l’elmo, la spada, l’arco, le frecce, la lancia e talvolta persino con il suo cavallo. Queste tombe hanno preservato molti oggetti di metallo finemente lavorato in cui pantere, leoni, daini e altri animali sono incisi ad arte in materiali preziosi, compreso l’oro, per decorare spade, scudi e armature. Simili reperti hanno dimostrato la raffinatezza degli artigiani sciti e la profondità e la ricchezza della loro immaginazione. Basandoci su tumuli come questi, possiamo tracciare un ritratto immaginario e dettagliato dei guerrieri sciti: cavalieri aggressivi che scendevano dai passi del Caucaso o sferravano attacchi sulle pianure del Khorasan. Il guerriero a cavallo ha la barba e i capelli lunghi e la sua unica armatura è una fascia di cuoio con scaglie di ferro sull’addome. Dalla cintura pendono una spada di ferro e un’azza a manico corto con una lama lunga e stretta, per penetrare in profondità nelle membra dell’avversario. In una mano stringe una lancia con una punta elegante, affusolata; nell’altra tiene uno scudo fatto di strisce di osso fissate su un supporto di legno. La sua gualdrappa è stata ricavata, magari, dalla pelle di un prigioniero nemico scorticato: le mani e i piedi incartapecoriti e privati della carne e delle ossa penzolano tristemente sui fianchi del cavallo. Gli scalpi degli sconfitti decorano le briglie come prova di valore guerresco.
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Il re scita indossa per la battaglia un’armatura completa, formata da minuscole piastre di ferro cucite su una tunica di pelle, e un elmo di bronzo aderente al capo e fissato saldamente da un sottogola rivestito di ferro. Questo copricapo serve per proteggere e non per far scena. La sua azza e il fodero della sua spada di ferro sono finemente cesellati in oro con scene di animali fantastici: grifoni che scoccano frecce e pesci giganti che saltano sopra di essi. Tiene in mano uno scudo tondo di ferro, guarnito magari di una borchia d’oro con una pantera o una leonessa. L’oro è usato senza risparmio per decorare la briglia e il pettorale del cavallo e ricopre la sua faretra e il fodero dell’arco. Uomini come questi erano il pericolo che Ciro aveva dinanzi sulla sua frontiera nordoccidentale. Affrontando questa minaccia, giunse al Khyber Pass, conquistando una dopo l’altra l’Ircania, la Partia, la Drangiana, l’Aria, l’Aracosia, la Sogdiana e la Corasmia, portando il suo confine al fiume Iassarte (l’odierno Syr Darya). Tutto questo richiese parecchi anni di campagne, dalla regione a sud del Mar Caspio, attraverso gli attuali Khorasan e Seistan fino all’Afghanistan e Uzbekistan occidentali e meridionali. Al suo ritorno, Ciro si impadronì anche della Margiana (parte del moderno Turkmenistan). Da ultimo, sottomise la Battriana e la grande città di Battra (l’odierna Balkh) nell’Afghanistan settentrionale. Ora il suo territorio comprendeva le strade montane per l’India. Dopo parecchi anni di campagne sui suoi confini orientali, Ciro fu in grado di spostare l’attenzione su Babilonia nel 539 a.C. Il momento era propizio: il suo re, Nabonedo, era sempre più impopolare per la crescente ossessione contro il culto di antiche religioni, e molti elementi della popolazione erano favorevoli al re persiano. Le misure difensive furono trascurate, e quando Ciro avanzò sulla città questa si consegnò a lui senza opporre resistenza. Per quanto la roccaforte reale avesse tenuto duro parecchi giorni, infine Nabonedo fu catturato. Com’era sua abitudine, Ciro non infierì sul re imprigionato e, quando Nabonedo spirò di morte naturale un anno dopo, il nuovo re stabilì un periodo di lutto a cui lui stesso partecipò. La politica benevola e illuminata adottata da Ciro nei confronti di Babilonia e del suo popolo rispecchia l’approccio usato dagli Achemenidi su scala più vasta nei confronti delle terre conquistate. I paesi occupati non erano costretti ad adottare lo stile di governo o la cultura persiana. Le
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istituzioni religiose e governative rimanevano per lo più immutate: nuovi funzionari persiani affiancavano i loro colleghi locali e le credenze del luogo venivano rispettate. Abitualmente Ciro e i suoi successori avevano cura di governare in nome del dio locale ed erano generosi in fatto di leggi e tasse, a convalida della loro pretesa di successione legittima. Le città non venivano saccheggiate e i massacri non venivano usati come strumento di dominio. A Babilonia, Ciro restituì ai templi molti idoli che erano stati confiscati da Nabonedo e istituì la libertà di culto. Soprattutto, viene celebrato per aver liberato gli esuli ebrei, che erano stati tenuti prigionieri a Babilonia per quasi cinquant’anni dall’epoca di Nabucodonosor. Ciro organizzò il loro ritorno a Gerusalemme, dove ordinò che venisse costruito un tempio apposta per loro. Per questo è ricordato con onore nel Vecchio Testamento. In una certa misura, questa tendenza liberale era un’ammissione della superiorità culturale di molte nazioni sottomesse dai primi Achemenidi. I persiani erano ancora relativamente dei nuovi venuti nella comunità civile e quando si appropriarono delle culture progredite di Babilonia, dell’Egitto, delle città greche dell’Asia Minore e di parti dell’India, sarebbe stata una regressione distruggere queste civiltà per imporre la loro. Per i persiani era molto più proficuo lasciare intatte queste società che avevano raggiunto un alto livello culturale; la loro civiltà, una cultura che sarebbe diventata estremamente ricca e duratura, era ancora agli inizi. L’autonomia culturale e politica che gli Achemenidi garantivano aveva anche una dimensione pratica: data la vastità del regno persiano in rapida espansione, uno stretto controllo sulla vita dei popoli dal mare Egeo al fiume Indo sarebbe stato impossibile. Tuttavia questa politica pratica non era spietatamente pragmatica. La salvaguardia delle altre culture e la misura in cui il potere decisionale veniva lasciato ai locali possono spiegare perché alla morte di Ciro l’impero rischiò di crollare. Un governo del laissez-faire portò a uno stato instabile che subì convulsioni e fermenti nel decennio successivo alla morte del fondatore dell’impero. Come confederazione di regni soggetti, con i loro centri di autorità e con ambiziosi governanti locali ancora in carica, la presa degli Achemenidi sul loro regno era superficiale. Come vedremo, l’impero fu ricostruito solo grazie all’energia e all’ingegno di Dario. Ciro il Grande morì alla frontiera nel 529 a.C., combattendo contro i
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massageti, una tribù scita, nel tentativo di puntellare i suoi confini. Sotto la regina Tomiri, i massageti si erano radunati in gran numero e inflissero una dura sconfitta all’esercito persiano poco a nord del fiume Iassarte, la prima e unica sconfitta importante subita dall’imperatore. Gli autori classici forniscono resoconti diversi della sua fine. Secondo Ctesia, morì sul campo per una ferita mortale riportata in battaglia dopo aver nominato il figlio Cambise suo successore. Diodoro scrive che fu catturato dalla regina degli sciti, che lo fece crocifiggere. Erodoto dice che morì in battaglia e venne poi decapitato da Tomiri, che adempì alla sua promessa di saziare la sete di sangue del re persiano ponendo la sua testa mozzata in un otre pieno appunto di sangue. In contrasto con queste morti violente, Senofonte lo fa morire a casa, nel suo letto, circondato dalla sua famiglia. Quali di questi resoconti sia più vicino alla verità è impossibile sapere, ma possiamo affermare con sicurezza che morì alla frontiera, combattendo contro questa sua lontana parente per rafforzare i confini dell’impero che aveva creato. A Ciro succedette suo figlio Cambise, che aveva una reputazione meno nobile. Il suo regno breve e crudele terminò nel 522 a.C. quando il re morì in seguito a una ferita che si procurato da solo mentre era in preparazione un colpo di stato. Fu capeggiando un gruppo di nobili persiani che si erano ribellati all’usurpatore Gaumata che Dario il Grande si mise in luce. Membro di un ramo cadetto della dinastia achemenide, Dario si assicurò che il pretendente venisse ucciso – brandendo lui stesso il pugnale, secondo alcuni resoconti – e fu proclamato re due mesi dopo la morte di Cambise. La fine di Gaumata segnò l’inizio di due anni di ribellioni, che videro Dario combattere in ogni parte dell’impero per restaurare il dominio degli Achemenidi. Anche nel cuore stesso della Persia e della Media il nuovo re dovette imporre il suo dominio con la violenza. In tutto l’impero, fino al Khyber Pass, c’erano fermenti da soffocare e Dario combatté diciannove battaglie contro nove re ribelli. È questo periodo di violenza che Dario celebrò nel 519 a.C., facendo incidere un’orgogliosa iscrizione su una parete del monte Behistun (ora Bisotun), nell’odierno Iran nordoccidentale, lungo la Strada reale fra Babilonia e Ecbatana. Ardente zoroastriano, seguace della venerabile fede iraniana in cui la verità e l’inganno – la luce e il buio – lottano per la supremazia, invocò molte volte il nome del «Signore che sa», Ahura Mazda, a sostegno del suo regno. In tre
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Disegno di Bisotun eseguito da Henry Rawlinson
lingue – persiano antico, elamita e babilonese – il Re dei Re rivendicò il dominio sulla Terra, elencando le sue province e le sue popolazioni, che comprendevano la maggior parte del mondo conosciuto: Parla re Dario: sono queste le terre che mi pervennero, io ne fui re per volere di Ahura Mazda: Persia, Elam, Babilonia, Assiria, Arabia, Egitto, quelli del mare, Sparda, Yauna, Media, Armenia, Cappadocia, Partia, Drangiana, Aria, Corasmia, Battriana, Sogdiana, Gandara, Saka, Sattagidia, Aracosia, Maka. In tutto ventitré terre. […] queste (sono) le terre che mi pervennero. Per volere di Ahura Mazda erano mie suddite; mi portavano tributi. Ciò che ad esse era detto da me, di notte, di giorno, così era fatto.
Questi nomi significano poco nel mondo odierno: sono i termini antichi per indicare il suo vasto impero che comprendeva l’Iran, l’Iraq, la Giordania, Israele, l’Egitto, la Siria, la Turchia, l’Armenia, l’Afghanistan, alcune zone dell’India nordoccidentale e gran parte dell’Asia Centrale. Dario non lascia dubbi su chi dovesse essere considerato il padrone di questo immenso regno.
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Il monte Bisotun è una cima aguzza che si erge, improvvisa e imponente, sulla pianura; l’iscrizione è scolpita su una parete levigata della dura roccia marrone, si trova a cento metri d’altezza ed è larga una ventina di metri e alta sette. Su numerosi pannelli, scolpiti dagli artigiani achemenidi, la parola dell’imperatore è incisa in caratteri cuneiformi, formati da migliaia di minuscoli triangoli cesellati. Questi testi circondano un altorilievo che ritrae parecchie figure: Dario stesso è il personaggio dominante, raffigurato di profilo con un piede nudo sul corpo dell’usurpatore Gaumata, che aveva dovuto uccidere per conquistare il trono. Nella mano sinistra l’imperatore stringe l’arco, simbolo della sua prodezza militare e della violenza che era pronto a usare per mantenere il potere; l’arco poggia sul cadavere del pretendente. La sua mano destra è levata verso Ahura Mazda. Un gesto di devozione, ma anche di sottomissione: in piedi davanti a lui, i nove re ribelli legati l’uno all’altro per il collo hanno il capo chino, ma il volto sollevato in attesa di giudizio. Questi monarchi sediziosi, vassalli degli Achemenidi, avevano osato mettere in dubbio il diritto dell’imperatore a regnare su di loro e avevano pagato per la loro temerarietà: l’iscrizione racconta con macabra precisione come Dario li avesse messi a morte. Il numero e il diverso abbigliamento di questi re ribelli dimostra quanto fosse diffuso il malcontento che il nuovo Re dei Re dovette affrontare quando salì al potere. Dario stesso è vestito con un’ampia tunica che gli copre le spalle e arriva fino ai polpacci muscolosi. Porta uno zucchetto e la folta barba è intrecciata in stile persiano. I lunghi capelli sono acconciati in modo analogo e raccolti in una massa pesante sulla nuca. Sopra questa scena si libra il faravahar alato, simbolo della fede zoroastriana, che getta una luce sacra sul re. La sua posizione preminente ci dice quanta importanza Dario attribuisse all’approvazione divina. Inoltre, il fatto che l’iscrizione sia fuori portata, lassù sulle rocce, e non possa essere letta da terra, indica che era destinata a un uditorio celeste. Lo sforzo di scalare la parete per osservare l’opera da vicino avrebbe comportato un tale rischio che, fra i suoi sudditi, soltanto un curioso con tendenze suicide lo avrebbe affrontato. Dario si rivolgeva unicamente al «Signore che sa», Ahura Mazda. Il materiale scritto proveniente dalla Persia degli Achemenidi è raro; perciò, l’iscrizione di Bisotun ha un grande valore come documento
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storico e fornisce ai posteri notizie preziose sul periodo achemenide. Dato che le incisioni sono in tre lingue, ha avuto anche un ruolo importante nella decifrazione delle scritture antiche. Intorno al 1830, Henry Rawlinson, un giovane e intraprendente funzionario della Compagnia inglese delle Indie Orientali, riuscì a scalare la parete e copiò la grande iscrizione. Usando la conoscenza del persiano antico derivata dai testi zoroastriani, nel 1839 Rawlinson riuscì a decodificare il sistema di scrittura cuneiforme persiano. Con i testi annessi in elamita e babilonese finalmente decifrabili, Rawlinson aprì la strada all’interpretazione di scritti analoghi scoperti in tutto l’antico Medio Oriente. L’iscrizione di Bisotun svolse lo stesso ruolo nella decrittazione degli scritti cuneiformi di quello svolto dalla Stele di Rosetta in quella dei geroglifici dopo la sua scoperta in Egitto nel 1799. Che Dario dovesse combattere per conservare le terre achemenidi conferisce una particolare gravità alle parole scolpite nella pietra e alla raffigurazione dell’imperatore trionfante sui suoi nemici. Fu appunto per aver soffocato queste ribellioni in quasi tutto il mondo conosciuto, risollevando così le sorti dei sovrani persiani e avviandoli a un futuro glorioso, che il re divenne noto come Dario il Grande. Sotto di lui, il regno achemenide si estese ulteriormente in Europa e in India. Per costruire un simile impero, Dario doveva migliorare il sistema imperiale ad hoc che aveva ereditato e innanzi tutto riorganizzò i suoi satrapi: potenti governatori provinciali, in genere nobili persiani, spesso principi achemenidi. Ciro li installava occasionalmente in alcune zone del suo impero, ma non lo aveva mai fatto in modo sistematico; Dario divise l’impero in venti satrapie, ponendo un governatore reale in ognuna di queste province per accrescere il controllo centrale. In un’epoca in cui la comunicazione dipendeva in larga misura dal cavallo, questi personaggi potenti, anche quelli fedeli al potere centrale, dovevano avere la tentazione di distaccarsi e dichiarare l’indipendenza da un re lontano. Questa sarebbe stata una caratteristica del declino di molti imperi nei secoli successivi, quando i satrapi o i re vassalli intuivano la debolezza del sovrano e ne approfittavano. Dario era consapevole di questa possibilità (in fin dei conti, lo stesso Ciro il Grande era un vassallo) e, per contrastarla, affiancò ai satrapi una rete di comandanti militari che allo stesso modo rispondevano direttamente al re. Ognuno di questi generali era responsabile delle
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forze di quattro o cinque satrapie, riducendo così la possibilità di collusione proditoria fra satrapo e soldato. Un’altra innovazione destinata a rinsaldare l’impero fu l’istituzione di un sistema stradale. Vennero costruite Strade reali che collegavano la Persia con la costa dell’Egeo, e Ecbatana con l’Egitto passando per Babilonia, e che consentivano di coprire velocemente grandi distanze. Mentre le carovane dei mercanti impiegavano tre mesi per andare dalla Persia a Efeso nella Ionia, i messaggeri reali potevano percorrere la stessa distanza in una settimana, usando cavalli freschi forniti dalle stazioni di posta disseminate lungo un tragitto di oltre 2500 chilometri. Questo sistema stradale fu esteso fino alla valle di Kabul e in India quando gli Achemenidi si spinsero oltre la loro base nel Gandhara. Essenziali per un governo efficiente, le strade si rivelarono determinanti anche per lo sviluppo del commercio attraverso l’impero. Dario introdusse anche un conio regolamentato, un sistema fiscale organizzato e pesi e misure ufficiali. In verità, il suo interesse per gli aspetti commerciali e fiscali del regno era tale che Erodoto riferisce come i persiani definissero Ciro un padre, Cambise un tiranno e Dario un mercante. Lo scheletro abbandonato del grande palazzo di Persepoli rimane a testimoniare un’altra audace impresa imperiale. Appena ebbe finito di costruire un palazzo a Susa, Dario iniziò a costruirne un altro, una nuova grandiosa capitale a noi nota, attraverso i greci, come Persepoli, la Città della Persia. Vicino al fianco di una montagna a una cinquantina di chilometri dalla città di Shiraz, una grande terrazza isolata, tagliata nella roccia, serve da vasta piattaforma (oltre quindici ettari) per parecchi palazzi separati, tesorerie, stalle e caserme. Iniziata da Dario e continuata da suo figlio Serse e dai suoi successori, ora è in rovina, ma offre un quadro chiaro di come vivesse la corte achemenide. Una scalinata imponente porta alla terrazza principale e accanto c’è la Porta di Serse, custodita da tori alati in pietra, con testa umana, ispirati a quelli che proteggevano i palazzi assiri. Più avanti, in cima a un’altra magnifica scalinata, c’è l’Apadana, la sala del trono o delle udienze, il centro focale degli affari pubblici in questa sede del governo. Settantadue grandi colonne scanalate, alte come dodici uomini e sormontate da leoni e tori scolpiti, sostenevano un soffitto in legno di cedro di cui, purtroppo, non rimane nulla. Tuttavia, molte colonne sono ancora in piedi. Da un lato
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dell’Apadana c’è la Sala delle cento colonne, iniziata da Serse ma rimasta incompiuta fino alla sua morte. La scalinata dell’Apadana reca sul fronte una fila di soldati scolpiti nella pietra, pronti a proteggere il re (fig. 3). Sono la guardia reale, gli Immortali, chiamati così perché il loro numero non scendeva mai sotto i diecimila; un soldato o uno spettatore di passaggio veniva reclutato immediatamente se uno di loro moriva. Scolpita nella pietra accanto a loro, c’è una fila di cortigiani persiani e medi, pronti a eseguire i comandi del re. Segue una processione di uomini delle nazioni assoggettate, che salgono le scale recando doni dalle loro terre all’imperatore: animali rari, gioielli, tessuti fini. Anche l’arte religiosa ha un suo ruolo. Il faravahar, visto a Bisotun, viene usato anche qui per dimostrare l’attaccamento del re allo zoroastrismo e la sua pretesa di avere l’approvazione divina. La fede regale era già antica quando Persepoli venne costruita; il suo profeta era Zaratustra (Zoroastro per i greci), che visse intorno al 1200 a.C. Era un sacerdote del culto sacrificale politeistico delle tribù iraniane durante la prima età del bronzo, in cui l’acqua e il fuoco venivano venerati sopra ogni cosa. A trent’anni, Zaratustra ricevette una rivelazione e proclamò Ahura Mazda unico vero dio; il suo antagonista era Angra Mainyu, lo Spirito ostile che aveva scelto di promuovere il male. Zaratustra dichiarò che Ahura Mazda aveva creato il mondo come un campo di battaglia su cui combattere Angra Mainyu e affrettare l’inevitabile trionfo del bene: ogni uomo doveva quindi scegliere fra il bene e il male e partecipare alla grande lotta. Gli zoroastriani consideravano il fuoco particolarmente sacro in quanto dispensatore di energia e di luce nella lotta contro il male, e i templi dedicati al fuoco si trovano in molti siti degli Achemenidi. Servendosi del simbolismo zoroastriano, Dario cercò di usare la religione come alleata del suo potere. Persepoli è preziosa per la testimonianza storica delle sue iscrizioni, datate verso la fine del regno di Dario. Tali testi sono essenziali per comprendere il rapporto della Persia con l’India, giacché esiste una differenza importante tra essi e l’iscrizione più antica a Bisotun. Nell’elenco delle terre suddite dell’impero, è stata aggiunta una nuova provincia: l’Hindush, o come diremmo noi oggi, l’India. Erodoto menziona l’incursione persiana in India, ma senza entrare nei
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dettagli. Sappiamo che Dario ordinò di costruire una flotta di navi nella sua provincia di Gandhara, in una città chiamata Caspatiro (forse l’odierna Peshawar). Al comando di un navigatore greco, Scilace di Carianda, questa flotta salpò con il compito di esplorare il fiume Indo fino al mare e poi tornare in Persia, aprendo così una via marittima che collegasse le province orientali dell’impero con i territori centrali. Questa ambiziosa esplorazione durò trenta mesi, ma accrebbe notevolmente le conoscenze geografiche dei persiani. Ignoriamo i particolari della successiva annessione dell’India nordoccidentale da parte dei persiani («Hindush» qui sta a indicare l’India occidentale e la valle dell’Indo fino al suo sbocco nel mare Arabico e non implica la signoria su gran parte del subcontinente). Erodoto ci dice che Dario sottomise gli indiani: a un certo punto, fra l’intaglio della parete a Bisotun e le iscrizioni scolpite a Persepoli, un esercito persiano attraversò il Khyber Pass e conquistò l’Hindush. Immaginate gli Immortali che passano attraverso il Khyber con archi, faretre e lance a lama larga con l’impugnatura ornata di una melagrana. Con i capelli e la barba intrecciati e grossi cerchi di corda attorcigliati intorno al capo, pensateli mentre marciano attraverso le montagne diretti alle pianure dell’India con il portamento orgoglioso delle truppe fedeli alla casa reale, senza sapere che cosa li attenda, ma sicuri del loro potere imperiale. Esistevano molte valide ragioni per assorbire i territori indiani nell’impero, specialmente per un re amante del denaro come Dario; grazie ai legami commerciali di antica data e a mezzi come la spedizione di Scilace, i persiani erano sicuramente consapevoli della grande ricchezza che l’India offriva. Dario fece dell’Hindush la ventesima satrapia dell’impero, che versava somme immense in tasse. Il tributo annuale delle terre indiane ammontava a 360 talenti d’oro, equivalenti a 4680 talenti d’argento. Per contro, la seconda satrapia più ricca, Babilonia, pagava mille talenti d’argento; alcune pagavano molto meno, come il Gandhara, che ne versava solo 170. È estremamente difficile tradurre la moneta antica nell’equivalente moderno ma, a titolo indicativo, un talento d’argento rappresentava la paga di un artigiano per un periodo di almeno sedici anni. L’India era chiaramente un’aggiunta molto appetibile al regno achemenide. I persiani possono aver esteso i loro possedimenti in India alla ricerca di un profitto, ma l’impatto della loro annessione fu molto più consistente
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e duraturo di un aumento temporaneo delle loro entrate. Segnò l’inizio di una lunga interazione culturale fra il mondo persiano e quello indiano, che vide un ricco scambio di cultura materiale e intellettuale per molte centinaia di anni sotto successivi imperi e dinastie. Il Khyber Pass venne attraversato nelle due direzioni da poeti, artigiani, avventurieri e gente in cerca d’impiego, studiosi e religiosi, tutti speranzosi di partecipare a questa proficua transazione. Tassila, la città principale del Gandhara e vicina al Khyber Pass, era un punto d’incontro naturale fra culture: la città divenne un centro intellettuale di una certa notorietà e una meta per eruditi e predicatori erranti. Che il persiano sia ancora oggi una lingua diffusa in gran parte della regione è un’eloquente testimonianza dell’impatto che ebbe l’avanzata achemenide in India. In un certo senso, questo nuovo rapporto fra il popolo persiano e quello indiano era una riunione. Il ricongiungersi di due culture con radici ariane comuni, dopo una separazione di parecchi secoli, spiega forse la facilità con cui si mescolarono e la durata e la profondità del nuovo legame. Le analogie culturali residue dovevano essere evidenti. È molto probabile che all’alba del v secolo a.C., un persiano in India fosse considerato uno straniero e verosimilmente anche un barbaro perché ignorava il Rig Veda, gli antichi inni in sanscrito che costituiscono una delle basi della cultura indiana e della fede indù. Tuttavia, la lingua persiana era piuttosto simile al sanscrito e al pracrito, le lingue più diffuse nell’India settentrionale, tutte appartenenti alla famiglia indo-europea. Inoltre, i bramini indiani vedevano tracce degli antichi culti ariani del fuoco (che avevano un loro posto nel braminismo vedico) nello zoroastrismo dei persiani. Le conseguenze pratiche dell’annessione dell’Hindush furono varie e si manifestarono subito. Oltre al tributo in oro, soldati indiani combatterono nelle file dell’esercito di Serse nella sua campagna contro la Grecia. Migliaia di chilometri a ovest dell’Hindush (una distanza percorsa probabilmente a piedi) gli indiani contribuirono a decidere le sorti delle grandi civiltà classiche del Mediterraneo. Questo primo contatto era solo l’inizio. L’India diede all’Iran la sua musica, la matematica e la logica, la sua tradizione letteraria romantica, l’arte d’intagliare l’avorio e di tessere la seta. L’Iran diede all’India molte idee politiche e amministrative, un’importante raccolta di opere letterarie, una grande perizia nella lavorazione del metallo e nell’architettura,
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insieme alle tecniche per costruire edifici in pietra. In seguito, gli stimoli della sofisticata cultura urbana dell’Iran, più cosmopolita della sua vicina indù, furono essenziali per lo sviluppo indiano; e il Khyber Pass era il mezzo di trasmissione essenziale. Che lo scambio venisse accolto con piacere da entrambe le parti è indubbio: il persiano sarebbe diventato la lingua del governo e dell’élite sotto i sovrani musulmani che regnarono in India dal 1000 d.C. e abbracciarono istintivamente tutto ciò che veniva dall’Iran. È indicativo il fatto che le opere letterarie scritte in India in lingua persiana durante il periodo medievale e la prima era moderna superino di gran lunga quelle composte nello stesso Iran. L’influenza e l’impatto dei grandi re Ciro e Dario perdurano, quindi, nell’era moderna, ma dopo duecento anni di esistenza gloriosa e tormentata, l’impero achemenide avrebbe sofferto duramente per mano di uno dei più famosi conquistatori di tutti i tempi.