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ALAN LOMAX
L’anno piÚ felice della mia vita Un viaggio in Italia 1954-1955
A cura di Goffredo Plastino Con un testo di Anna Lomax Wood Presentazione di Martin Scorsese
ilSaggiatore
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Redazione Livia Sorio Impaginazione CReE
www. saggiatore.it I testi di Alan Lomax sono stati tradotti da Goffredo Plastino. © Anna Lomax Wood (per i testi e le fotografie di Alan Lomax) © Martin Scorsese (per la Presentazione) © il Saggiatore S.p.A., Milano 2008
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Sommario Presentazione Martin Scorsese
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Il doppio solitario Anna Lomax Wood
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Un sentimento antico Goffredo Plastino
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L’anno piÚ felice della mia vita
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Note sulle fotografie e i testi
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Ringraziamenti
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Presentazione
Sono sempre stato attratto dalle immagini dell’Italia di un tempo. Fa parte di una mia eredità privata, che devo alle relazioni con mio padre e mia madre, con le mie zie e i miei zii, con i miei nonni. Quello era il mondo dal quale provenivano. Dopotutto, è il mondo dal quale provengo anch’io. Meraviglioso e delicato, questo libro mi ha emozionato infinitamente. Il modo in cui Alan Lomax abbraccia le diverse realtà italiane, i paesaggi e la gente è sincero, non è scontato né predeterminato. Lo si sente nelle sue parole e nelle sue fotografie: dai pescatori di tonno ai musicisti campani, da un suonatore di flauto di pan a Bottanuco a un cuntastorie a Palermo. Si sente la sua gratitudine e la sua gioia per essere stato in grado di vagare tra tante magnifiche culture locali, antiche eppure intensamente vive. MARTIN SCORSESE
New York City
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Il doppio solitario
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Cosa può sapere una bambina di suo padre,di un padre che è stato a lungo uno straniero in tutto tranne che nella sua immaginazione? Alan era il suo lavoro:conoscerlo significava conoscere il suo lavoro,e viceversa.Come aveva spiegato a mia madre e dopo anche a me,non avrebbe potuto fare quello che faceva e avere una vita familiare, e così ne dimenticò le gioie e la serenità. Dopo che sparì alla nostra vista sulla scaletta della Liberté che, nel 1950, salpava per la Francia,mi scrisse raramente.Io mangiavo poco e diventavo volubile. Quando il centralino inoltrava una chiamata transatlantica mi emozionavo e il mio cuore batteva forte. Una volta, era il Natale del 1953, arrivò una scatola dall’Inghilterra piena di piccoli giocattoli e aggeggi di ogni tipo,ma tutto quello che ricordo erano gli articoli di giornale e le fotografie a colori dell’incoronazione della regina:Elizabeth,come mia madre,Elizabeth,la regina che aveva superato Nefertiti in bellezza e nell’orgogliosa immobilità. I miei genitori avevano una qualità della quale oggi non si sente parlare molto: la nobiltà di spirito.Considerando le assenze di mio padre e la disperazione di mia madre prima della sua partenza,le lettere che si scrivevano erano stranamente piene d’amore (l’amore dei grandi amici),di rispetto reciproco, di preoccupazione per il benessere altrui, e di perenne ansietà riguardo alla mancanza di soldi.Improvvisamente,o almeno così mi sembrò, si decise che avremmo raggiunto mio padre a Parigi e che dopo saremmo andati a vivere in Italia,mentre lui registrava lì della musica. Mia madre avrebbe scritto,mio padre avrebbe lavorato,io avrei imparato l’italiano.Una sera di marzo del 1954 la scuola che odiavo,il nostro appartamento freddo e tetro,la nostra vita difficile e le lacrime di mia madre si mescolarono con lo skyline di New York,che scompariva al tramonto.Ero totalmente felice. Non rimpiangevo niente e nessuno. Andavo a vivere con mio padre. Faceva ancora molto freddo quando arrivammo a Parigi. Mio padre non era più il giovane snello e arruffato che ricordavo,mi sembrava più robusto ma con le occhiaie:aveva tanti amici importanti e parlava un francese eccellente, espressivo. Al mattino andava al Musée de l’Homme, dove 9
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ascoltava le registrazioni dall’Africa e dall’Asia con il suo adorato Gilbert Rouget; il pomeriggio di solito telefonava alla Bbc,e poi andava in giro a cercare apparecchiature,o per le riparazioni alla macchina.La vecchia e quasi distrutta Citroën venne infine sostituita con un furgone Volkswagen che era la sua gioia:ci poteva mettere dentro passeggeri,scatole di nastri, la grande valigia del Magnecord,il microfono e i cavi,il generatore,scatole di documenti,libri e quaderni,e un portemanteau di cuoio con dentro un vestito blu spigato,una cravatta e un assortimento disordinato di indumenti,articoli da bagno,mappe e ancora libri. «Guardate,care – ci potremo accampare ovunque,in Italia!» ci disse con orgoglio.Mia madre sorrise un po’ minacciosa e mio padre non dormì in macchina fino all’inizio del suo viaggio di ricerca.Ma fu la minaccia dell’insolvenza a essere uno dei principali argomenti di discussione tra i miei genitori.Vivendo di fatto separati,devoti alle rispettive vocazioni,andavano avanti da un impegno all’altro aiutandosi reciprocamente,senza troppi conflitti o rimproveri. Lasciammo Parigi alla metà di aprile,viaggiando fino a tardi ogni giorno, e passammo il confine con l’Italia a Chambéry, scendendo poi da Torino verso la costiera ligure. Indifferente alle temperature della stagione mio padre si fermò di fronte alla prima spiaggia che trovammo, si tolse la camicia e i pantaloni e si mise a nuotare nel mare gelato con bracciate regolari;poi venne fuori,con l’acqua che gli sgocciolava dai capelli neri e dalle sopracciglia,guardando stupito verso di noi,esortandoci a seguirlo. Mentre scendavamo girovagando verso Roma in quella che sarebbe stata la nostra ultima vacanza in famiglia, divenne evidente quanto il furgone fosse adatto al suo incrollabile capitano, che stava al volante sbirciando distrattamente le mappe, mangiando pane e formaggio, bevendo vino e gesticolando mentre guidava e parlava. «Senti, praticamente ho guidato più io di qualsiasi altra persona sulla faccia della terra» rispose una volta, indignato,a mia madre,mentre ritornavamo bruscamente sulla carreggiata dopo una delle sue improvvise deviazioni. Il viaggio era pieno della sua loquacità, che ci avvolgeva e ci portava nei campi e per le strade in un flusso di sogni, aneddoti, commenti sul paesaggio e la gente – e per 10
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me,canzoni e racconti.Con grande entusiasmo confessò a mia madre e a me le sue ultime idee e decisioni, tra le quali quella di essere davvero scientifico nell’approccio alla sua ricerca italiana.Avrebbe scritto le sue note più dettagliate e sistematiche. «Devi scrivere un diario» mi esortò «devi fare disegni e mappe di ciò che ti colpisce di più, buttare giù i tuoi sogni appena sveglia!» Dopo la Spagna, aveva l’impressione che l’Italia sarebbe stata il laboratorio ideale per mettere alla prova una sua nuova teoria,secondo la quale lo stile della voce cantata codificava alcuni profondi segreti dell’umanità. Avevamo appuntamento con Diego Carpitella alla fine del molo di Civitavecchia, o di un posto lì vicino. La sua tenerezza, i suoi occhi profondi e addolorati, il suo gentile senso dell’ironia e la sua solitudine esistenziale attraevano immensamente Alan e lo mettevano a suo agio. A vederli camminare insieme con le teste vicine, uno basso e l’altro alto, gesticolando in perfetta sincronia,sembravano fatti davvero l’uno per l’altro – infatti rimasero amici per tutta la vita.Diego ci accompagnò a una pensione vicino all’Aurelia,dove le nostre valigie e i nostri passaporti furono immediatamente rubati dal furgone mentre eravamo all’accettazione. Quando i miei genitori sparivano per ore ogni giorno, cercando di rimediare alla situazione, io venivo salvata dalla mia solitudine da Adelaide, la figlia e assistente della cameriera,che mi portava a giocare e a mangiare un piatto di spaghetti profumati a casa sua,un appartamento stracolmo di fratelli e sorelle che saltavano come grilli, urlando, da un letto all’altro.Allora capivo già un po’ di italiano e potevo rispondere alle domande insistenti della famiglia.La lingua italiana si era rivelata un pomeriggio durante una passeggiata a Roma quando, improvvisamente, l’eco delle urla dei bambini che giocavano in una strada divenne intelligibile – o così mi sembrò. Fu con la famiglia di Adelaide che capii per la prima volta le devastazioni e i problemi lasciati dalla Seconda guerra mondiale,che in Italia non erano minimamente superati. Per vivere vicino al mare,in una comunità più tranquilla abituata agli artisti e agli stranieri eccentrici,ci trasferimmo a Positano,dove rimanemmo da maggio a gennaio mentre mio padre finiva il suo lavoro. Dopo che ci 11
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sistemò a pensione in due stanze, da un’espatriata tedesca bruciata dal sole e sposata con un ex fascista, e nonostante ogni sua buona intenzione,lo vedemmo due o tre volte.Ma quasi subito fummo contente: lavoravamo,leggevamo,studiavamo,nuotavamo e andavamo per scale interminabili.Mia madre aveva qualche contatto con la «società» locale e diventò intima amica della piccola,dolce principessa Laura Capaccio.Una volta sognai di volare sopra il mare illuminato dalla luna verso il paese scintillante di luci,accompagnata da un grande leone giallo. Alan apparve con Diego una sera di agosto,venivano dalla Calabria e stavano andando in Puglia. Registrarono allora le canzoni dei lavoratori e dei mulattieri di Montepertuso,e di notte una tarantella di pescatori,che suonavano nacchere, tamburelli, conchiglie. Mio padre rimase con noi due o tre giorni, mi fece un esame di italiano e di storia locale e ci portò in gita a Paestum.Mentre aggiravamo i promontori andando a sud,le baie si aprivano davanti a noi nella luce del mattino, una alla volta, con la splendente regolarità di un sonetto di Shelley: era una visione di serenità che nascondeva un paesaggio tumultuoso.Io conoscevo ormai i bambini del paese e avevo imparato alcune parole segrete (secondo l’alfabeto farfallino),delle quali mio padre volle sapere tutto.Mi insegnò un gioco di famiglia,un doppio solitario,e mi ammonì di impararlo bene,così avrei potuto batterlo quando sarebbe ritornato a settembre. Anna Lomax a Paestum (Salerno). Agosto 1954.
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A settembre mio padre era in Friuli. Il clima cambiò all’improvviso, portando onde enormi e un freddo umido.Mia madre mi iscrisse alla scuola statale, dilapidata quanto la mia vecchia scuola a New York. Era su un promontorio: il vento scuoteva le finestre alte mentre intonavamo,come in una cantilena,le lezioni imparate a memoria.Io ci andavo a piedi ogni giorno con due sorelle e il garzone (quasi uno schiavo) della pensione a gestione familiare nella quale adesso vivevamo.Il padre giocava d’azzardo e guidava una macchina sportiva, mentre la madre (l’«angelo»), anemica e pallida, stava rinchiusa in quella grotta che era la cucina della pensione.I due figli servivano a tavola,le due figlie rifacevano le stanze e il povero garzone,con il naso e gli occhi arrossati e i pantaloni logori,doveva rispondere a ogni cenno o chiamata dei clienti. Per me questa fu un’altra lezione sull’ingiustizia e sull’umiliazione,anche perché le ragazze erano diventate mie amiche durante l’inverno. Mi vergognavo della mia vita privilegiata fatta di studio e divertimento,di fronte alla loro servitù risentita e alla miserabile esistenza del garzone,che era un orfano.Mi piaceva il teatro della scuola,ma un senso di noia e di depressione calò su di me – mia madre aveva conosciuto qualcuno, era spesso fuori – e stavo seduta per ore esercitandomi al solitario,aspettando. A ottobre una delle più grandi tempeste del secolo colpì Positano,causando una enorme frana e annegando più di trenta pescatori,che vennero deposti in fila sulla spiaggia per il riconoscimento,davanti al mare giallo. Alan chiamò e disse che sarebbe stato con noi a Natale. Mio padre adorava il Natale. Aveva un spirito dickensiano per le gioie,la liberalità e gli eccessi natalizi. Prendeva solennemente a cuore tutte le cerimonie: gli piaceva andare in giro a cantare, gli piacevano la calza con le sorprese,i giocattoli per i bambini,il punch,l’abbondanza di cibo e la compagnia.Ma la sua vocazione di ricercatore lo spinse a registrare le canzoni e le cerimonie delle persone con le quali stava «lavorando». Se qualcuno diceva: «Alan,senti,questa notte si andrà in giro a cantare», partiva all’istante. Non ritornò in tempo per il suo Natale,anche se gli dispiaque molto. Quell’anno se ne andò a registrare zampognari. Mia madre,al contrario,non amava quella festa (da bambina durante un Natale aveva assistito a una scena terribile, che aveva portato all’improvvisa 13
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scomparsa di suo padre), e divenne inevitabilmente arrabbiata e malinconica,e così trascorremmo un giorno davvero triste.Quando Alan ritornò,mi portò con lui a Capri per registrare la festa di capodanno organizzata dal sindaco.Era ormai il crepuscolo quando raggiungemmo l’isola. Grazie a un uomo che ci aiutava a trasportare il generatore e le apparecchiature, camminammo verso la Piazzetta passando vicino al ristorante Da Giorgio, dove rimanemmo sbalorditi guardando un’anziana signora che banchettava con circa venti cani, mentre alcuni ragazzi affamati e vestiti di stracci la osservavano immobili dalla strada.Un grande gruppo folkloristico era disposto a semicerchio nella piazza, rivolto verso il mare. Al segnale del direttore incominciarono a suonare e cantare; andarono avanti così fino a mezzanotte.Ero abituata ai richiami degli ambulanti e le canzoni d’amore che risuonavano per le strade in pietra di Positano, e provai antipatia per quelle voci napoletane «educate» – almeno fino a quando due anni dopo a Londra,le ascoltai di nuovo mentre aiutavo mio padre a riordinare i suoi nastri italiani. Se ne andò dopo un giorno o due, e ritornò a Napoli per fare delle registrazioni. Mentre andava in giro verso Caggiano, per incontrare e registrare i famosi zampognari del paese, qualcuno entrò nel furgone che aveva parcheggiato e prese soltanto la borsa con le sue note.Gli rimasero due quaderni,quello siciliano e quello che stava usando in quei giorni.Fu un colpo terribile,perché li aveva scritti con cura sperando di farli diventare un libro straordinario, mettendoci dentro mesi di preparazione,combattendo ogni giorno contro semplici necessità quali mangiare, bere e riposarsi dalla stanchezza accumulata in mesi di spostamenti con il furgone e di intensa ricerca sul campo.Questo fu l’ultimo atto del viaggio in Italia. Era distrutto, senza soldi e quasi senza più nastro magnetico.Ci rincontrammo a Roma:mio padre doveva fare una copia delle sue registrazioni,curare la regia delle trasmissioni radiofoniche per la Bbc e realizzare i dischi per la Columbia;mia madre e il suo nuovo compagno (poi suo marito) si preparavano ad andare in Spagna, dove avrebbero scritto un romanzo etnografico sulla vita in un paese spagnolo dopo la guerra civile.
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Alan non si stancò mai di ripetere che il paesaggio sonoro che aveva scoperto in Italia era il più ricco,il più sorprendentemente vario e originale da lui mai incontrato,e fu sempre molto fiero delle sue registrazioni.Inoltre la realtà musicale italiana rappresentò uno dei principali modelli (insieme a quello spagnolo) nei suoi studi sullo stile vocale degli anni cinquanta. So che lavorare con gli italiani, a ogni livello, lo aveva divertito molto: gli erano piaciuti l’acume intellettuale, il senso del tragico e del comico,l’ironia e la capacità di superare ogni ostacolo che aveva trovato in tanti amici – cantanti, musicisti, ricercatori come lui. La sua amicizia con Diego Carpitella non diminuì con il passare degli anni,e fino alla fine ha continuato a volergli bene e ad apprezzarlo per il suo lavoro.Fino alla fine ha continuato a far scorrere il nastro di quelle registrazioni,a ritornare così in Italia.
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