Luigi Manconi
con Valentina Brinis
La musica è leggera Racconto su mezzo secolo di canzoni
Per scrivere all’autore: luigi.manconi@gmail.com www.saggiatore.it (sito & eStore) Twitter @ilSaggiatoreEd Facebook il Saggiatore editore Š il Saggiatore S.p.A., Milano 2012
La musica è leggera a Giulia che ama Rihanna a Giacomo che ama gli Spacemen 3 a Davide che ama gli U2
Sommario
Prefazione di Sandro Veronesi
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Nota dell’autore
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Backstage
Introduzione. Tra collezionismo e mania Post Scriptum
20 23 31
PRIMA PARTE. Un’educazione sentimentale 1. Una vocazione precoce
35
I pueri cantores vanno a Lourdes
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Walter Chiari e un sidecar nel buio
43
2. Le due rivoluzioni. Gino Paoli e Domenico Modugno
48
3. Una gioventù sassarese. Ovvero Efisia e la storia
63
4. Elogio del liceo classico
78
CONTENUTI EXTRA
Ricky Gianco e il ritmo del tempo
92
5. L’epica della corsa campestre e l’epica del Piper
99
CONTENUTI EXTRA
L’urlo di Urgu 105 Sulla situazione del verde a Sassari 106 Suicidi immaginari e suicidi veri. Luigi Tenco, la tristezza, la speranza 111
6. Milano finalmente La Vetra, dove si incontrano i poeti Toponomastica urbana
7. Ragionare, cantare
117 119 123 126
CONTENUTI EXTRA
Intanto a Sanremo Sul buon uso di Celentano. Adriano e la metapolitica
130 137
8. Jimi Hendrix a Parco Sempione e il Potere operaio di Pisa 143 9. Innologia
151
CONTENUTI EXTRA
Lotta Continua e L’Internazionale
10. Canzoniere carcerario
161 165
CONTENUTI EXTRA
Franco Califano
11. Francesco De Gregori tra il telefono e il cielo
173 180
CONTENUTI EXTRA. Piccole memorie degli anni settanta
Antonello Venditti Corrado Sannucci Antonio Infantino
12. L’abbaglio della poesia in forma di canzone
197 199 202 205
CONTENUTI EXTRA
In rima baciata
13. Tracce di resistenza umana A Licola tutti nudi (o quasi) come vermi Da buoni amici sinceri: l’omosessualità tra le pieghe e le note Tracce di resistenza umana
213 220 220 225 229
SECONDA PARTE. Compilation 1. Fabrizio De André
255
CONTENUTI EXTRA
Premiata Forneria Marconi
259
2. Lucio Battisti
263
3. Franco Battiato
280
CONTENUTI EXTRA
Alice
4. Giorgio Gaber
294 297
CONTENUTI EXTRA
Operai, braccianti e contadini
315
5. Ivano Fossati
319
6. Eugenio Finardi
326
7. Lucio Dalla
329
8. Paolo Conte
337
9. Max Pezzali
343
10. Giuni Russo
347
11. Fiorella Mannoia
351
12. Pentimento
365
TERZA PARTE. Musica sacra e musica profana L’Azione cattolica, Zucchero e io
377
Alcune note sull’umorismo parrocchiale
377
Io c’ero, noi c’eravamo
380
QUARTA PARTE. Sul sentimental-kitsch Quel cattivo gusto sentimentale così tenero e violento Definizione Due variabili Il sentimental-porno Luttazzi, un anatomopatologo del desiderio e del potere Un monito morale, si fa per dire, a mo’ di conclusione
393 393 398 407 411 413
QUINTA PARTE. Superclassifica Show Playlist La canzone più bella del mondo Hit parade Top 201
417 417 428 430
Appendice. Dalla coperto di sale (quasi un’autobiografia al registratore)
443
Note
461
Indice dei nomi
481
Indice delle canzoni
497
Prefazione di Sandro Veronesi
Innanzitutto, la cosa più prodigiosa testimoniata da questo libro, e cioè: il potere di Luigi Manconi di incontrare per caso i cantanti a lui cari. In queste pagine Lucio Dalla, Fiorella Mannoia, Giuni Russo, Francesco De Gregori, Renato Zero e tanti altri vengono incontrati per caso all’aeroporto, in spiaggia, al ristorante, per strada, e da Manconi letteralmente abbordati e rimorchiati nella sua vita, con una frequenza che non ha dell’umano. Ho provato a pensare a quanti cantanti ho incontrato io, per caso, nella mia vita: Ivan Cattaneo, a Parigi, e stop – ed era lui a voler rimorchiare me. Tutti gli altri cantanti, cantautori e musicisti che conosco li conosco perché li ho cercati, o perché ci siamo trovati a partecipare insieme a un qualche evento, a qualche cena – insomma, non per caso. Va bene che anche se fosse successo non avrei mai avuto il coraggio di farmi avanti tendendo la mano e presentandomi come ha sempre fatto Manconi: ma evidentemente, malgrado un mio interesse ormai più che quarantennale, nel mio destino la musica popolare non deve essere così cruciale come lo è per lui. Affari di karma, insomma. Ed è sintomatico che questo «racconto autobiografico» dia così vistosamente conto di quanto il karma di Manconi, malgrado la precoce, profonda, accanita e inesausta passione politica che lo ha animato, sia soprattutto nel segno della musica che lui stesso chiama leggera. Mi viene voglia di chiedergli: quanti leader politici carismatici ha incontrato per caso passeggiando per strada, nella sua vita? Quanti scrittori prediletti mentre facevano check-in all’aeroporto? Quante donne della sua vita sedute accanto al baretto? Può anche darsi
12 La musica è leggera
che le risposte siano destinate a sorprendermi (non si può mai dire, nella vita), ma secondo me si ritornerebbe a una rarefatta normalità. E in ogni caso, in una lettura psicoanalitica che non è certo richiesta al prefatore – e me ne scuso –, viene da ipotizzare che il conflitto interiore tra donarsi alla politica e donarsi alla musica leggera (inclinazioni non tanto conciliabili, specialmente negli anni ’60 e ’70), debba essere stato in Luigi Manconi assai più lacerante di quanto lui stesso non confessi nelle pagine pur sincere di questo libro; e che la parte biograficamente soccombente, cioè la musica, abbia comunque resistito in lui non solo perché arroccata nei linfonodi del più elementare «bisogno di eroismo» (come lui stesso definisce l’attrazione verso calcio e canzonette che accomuna milioni di persone), ma anche grazie a questa sovrumana capacità di evocazione, per cui mentre una parte del cervello sta inconsciamente e irriducibilmente pensando a quanto fottuto sacrificio venga richiesto dalla fottuta lotta politica (tipo: altro che assemblea dei circoli Ottobre, in questo momento potrei essere un cantautore in sala di registrazione maledizione a inserire un assolo di sax di Mario Schiano nel finale del mio nuovo pezzo come ha fatto De Gregori nella sua versione di «Le storie di ieri» quella di De André essendo invece impraticabilmente piena di violini), zot, De Gregori gli si materializza davanti, ancora più alto e più bello di come lui arrivasse a sognarlo e con la misteriosa disponibilità a dedicargli un poco del suo tempo. Ammetterete che è plausibile; più plausibile che rinunciare aridamente a credere alla capacità evocativa di certi desideri e di certi sacrifici, e consegnarsi al gelido spartito del Caso. Tant’è, tutti questi incontri apparentemente casuali noi glieli invidiamo, anche se bisogna dire che essi non erano necessari per fare di Luigi Manconi lo spaventoso, raffinato, enciclopedico consumatore – e conoscitore, e catalizzatore – di musica italiana che ha scritto questo libro. Tra i suoi atti deliberati, insomma, e malgrado la precedenza sempre riconosciuta a quelli politici, egli ha fin dall’adolescenza riservato un posto molto importante a quelli «sonori», propri e altrui, ragion per cui di una cosa si ha davvero la certezza alla fine di questo libro: esso (il libro) sarebbe esistito quasi del tutto uguale anche se, in quei fatidici giorni l’autore fosse passato da quella strada mezz’ora dopo, o avesse preso l’aereo precedente, o fosse andato a cena in un locale diverso. L’inerzia, ecco, della sua vita era comunque già abbastanza fatalmente indirizzata verso quell’ac-
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cumulo di esperienze e conoscenze di cui il presente volume dà conto in modo così dettagliato, e che fa di lui, anche al netto della sua vita principale (quella politica) uno dei massimi esperti in materia. Questo mi sento di dirlo proprio perché costituisce la massa critica del presente volume, sulla quale poggia il suo dipanarsi tra decenni, generi musicali, classificazioni critiche, confessioni e gusti personali. Insomma, non è che lo sapessi di mio, l’ho letto qui dentro. Sapevo, come molti, che Luigi Manconi (il dirigente di Lotta Continua, il portavoce nazionale dei Verdi, sottosegretario di Stato alla Giustizia nel secondo governo Prodi) è un appassionato di musica e un sociologo molto attento alla tradizione musicale italiana, ma certo ignoravo quanto costantemente e capillarmente e incoercibilmente e schizofrenicamente questi suoi interessi siano stati da lui trattenuti nell’area formativa della sua vita – fino a far pensare che, se anziché un uomo egli fosse un tessuto, la politica ne sarebbe la trama, e le canzonette l’ordito. Chiamarle canzonette, poi, è un vezzo che lo stesso autore si concede più volte in questo libro, proprio mentre in realtà produce una piena e possente contraddizione di qualunque assunto liquidatorio nei loro confronti; forte dell’intreccio appena ricordato con la passione politica, il «racconto autobiografico» si sparge in lungo e in largo nella storia recente del nostro paese e cola in profondità nelle sue crepe, e quel vezzoso diminutivo ottiene retoricamente l’effetto opposto, tanto sul piano musicale quanto su quello sociale. Ma non è questa riabilitazione della musica leggera lo scopo dello sforzo raccolto nelle presenti pagine – non ce n’era nemmeno bisogno; essa ne è, per così dire, solo un inevitabile effetto collaterale. Il fuoco del ragionamento che funge da motore narrativo, ciò che lo alimenta costantemente rendendo possibili anche le frequenti e bellissime digressioni autobiografiche, è il ricorso all’aggettivo composito esibito fin dal sottotitolo come rivelatore di un concetto chiave: sentimental-kitsch. Un concetto assai evoluto, che sconfina nella categoria dello spirito, oltrepassando le consuete barriere dell’alto e del basso, del buono e del cattivo, e perfino del bene e del male, e riconduce la passione per la musica (per qualsiasi musica, come ci viene ricordato tramite una citazione di Proust) alla propria natura di pulsione primaria trasversale. Altro riguardo a questo concetto non cercherò nemmeno di dire, per non ingarbugliarmi in pericolose
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interpretazioni personali o per non ritrovarmi a fare un pesante copia-eincolla con le frasi molto chiare utilizzate al proposito dall’autore, nelle quali il lettore si imbatterà tra poco. Resta il fatto che, in tanti anni di militanza e scorribande nei territori della contaminatio, anche la più radicale, tra cultura alta e sottocultura, personalmente non mi ero mai imbattuto in una definizione così esauriente di ciò che ci attira tutti quanti (quasi tutti, via) nell’orbita delle canzonette – sia che ci si limiti ad ascoltarle sia che si ceda alla tentazione di scriverne una, una volta nella vita. Sentimentalkitsch. Niente male davvero. Piuttosto, vorrei qui fare una notazione quasi clinica a proposito della pazzesca erudizione esibita dall’autore riguardo alla musica italiana: essa deriva anche (anche, ho detto) da un deficit – ciò che l’autore stesso definisce la sua «tetragona, e peraltro insuperata, riottosità nei confronti della lingua inglese». Sì perché io, per esempio, che quella riottosità non ho mai conosciuto, sono stato al contrario risucchiato nello studio della lingua inglese dalla frequentazione, fin dall’adolescenza, della musica angloamericana – che dagli anni ’60 in poi è stata abbastanza unanimemente indicata come la porta principale per entrare nel territorio della cosiddetta cultura giovanile. Ingiusto quanto si vuole, ma era anche fatale che, dedicando tanto tempo e tanti soldini all’acquisto e all’ascolto dei Led Zeppelin e di Bob Dylan e dei Doors e di Lou Reed e dei Talking Heads e di Joni Mitchell e degli Smiths e di Stevie Wonder e dei Jefferson Airplane e dei Radiohead e dei Cure e dei Beatles e dei Rolling Stones e dei Beach Boys e di Jimi Hendrix e dei Nirvana e degli Who e di Tom Waits e dei Pink Floyd e di Nick Drake e dei Clash e di Carlos Santana e degli U2 e di Bonnie Raitt e dei Velvet Underground e di Al Stewart e dei Van Halen e di Van Morrison e dei Van Der Graaf Generator e dei Genesis e dei Rush e dei Black Sabbath e dei Procol Harum e dei Fugs e dei Gentle Giant e degli AC/DC e dei Devo e di Alice Cooper e dei Jethro Tull e di Leonard Cohen e degli Smashing Pumpkins e di Suzanne Vega e dei Fairport Convention e di Bert Jansch e dei Soft Machine e di Robert Wyatt e dei Poco e di John Martyn e degli Stooges e di Joan Armatrading e della Nitty Gritty Dirt Band e di John Mayall e dei Deep Purple e dei Traffic e dei Grateful Dead e dei King Crimson e di Robert Fripp e degli Eagles e di Don Henley e di Glenn Frey e di Joe Walsh e dei Police e di Sting e di Stuart Copeland e degli Everything but the Girl e di Ben Watt
Prefazione 15
e dei Pentangle e di John Renbourn e di Janis Joplin e dei Dire Straits e di Joe Cocker e di Kris Kristofferson e di Jerry Jeff Walker e dei Doobie Brothers e di Robert Palmer e dei Lynard Skynard e di Bruce Cockburn e dei Men at Work e di Steve Forbert e dei Tears for Fears e di Warren Zevon e dei Little Feat e di Mink De Ville e di Marvin Gaye e degli Aerosmith e dei Pretenders e dei Sonic Youth e degli Psychedelic Furs e di David Bowie e di Otis Redding e di Patti Smith e di Bruce Springsteen e di Tim Buckley e di Jeff Buckley e di Cat Stevens e di Emmylou Harris e di Woody Guthrie e di Donovan e di John Prine e di Eric Clapton e dei Cream e dei Roxy Music e di Brian Eno e di Brian Ferry e di Mike Oldfield e di Leo Kottke e di Randy Newman e degli Iron Maiden e di Jimmy Cliff e dei Television e di Ry Cooder e dei Ramones e di Jackson Browne e dei Weather Report e di JJ Cale e degli Steppenwolf e di Laurie Anderson e dei Seeds e dei Madness e degli Steely Dan e degli Steeleye Span e dei Joy Division e dei R.E.M. e dei Sex Pistols e dei Pearl Jam e di Crosby & Nash e di Crosby Stills & Nash e di Crosby Stills Nash & Young e di Emerson Lake & Palmer e di Ike & Tina Turner e di Simon & Garfunkel e di Mark & Almond e di Loggins & Messina e di Frank Zappa & the Mothers of Invention e di Nick Cave & the Bad Seeds e di Bob Marley & the Wailers e di Elvis Costello & the Attractions e di Prince & the Revolution e di Lloyd Cole & the Commotion e di Graham Parker & the Rumor e di Toots & the Maytals e di Country Joe & the Fish e di Derek & the Dominos e di Joe Strummer & the Mescaleros – ci si ritrovasse a trascurare Benito Urgu o Flavio Giurato. Ma, al contrario, pur armati della stessa passione, e però, a causa di una specie di – appunto – invalidità, dedicandosi molto poco alla musica angloamericana, ecco che si aprono delle prospettive inimmaginabili di conoscenza, approfondimento e appropriazione della musica italiana. Il gusto per dire mi piace o non mi piace ce l’abbiamo tutti: la conoscenza del fenomeno fin nelle sue manifestazioni più periferiche e la conseguente opportunità di ragionare, paragonare e classificare con un’intelligenza veramente complessiva delle cose – quella è caratteristica di pochi. Dopodiché bisogna dire che, nel suo narrare e argomentare, l’autore di questo libro mette in fila una lunga serie di riflessioni e di intuizioni capaci d’infilzare in un lunghissimo spiedo quasi tutti i luoghi e i protagonisti delle varie stagioni della musica leggera italiana. La crucialità di Gino Pao-
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li; il genio schizoide di Enzo Jannacci; il Celentano reazionario che dedica «Un albero di trenta piani» al Pirellone; Francesco Guccini e la tristezza come timbro, Franco Califano, il Johnny Cash italiano; la musica leggera tutta come la «Donna cannone» di De Gregori – pesante, in realtà, ma capace di volare; le canzoni «belle» di Antonello Venditti (cui io aggiungerei, dato che ne ho l’occasione, quella per me più bella di tutte, e cioè «Ora che sono pioggia»); il Folkstudio con tutti i suoi frequentatori, da Corrado Sannucci ad Antonio Infantino; la rima baciata di Jovanotti, Caparezza e David Riondino; il malumore, variante della tristezza, di Lucio Quarantotto; e via e via e via, compreso il doveroso, finalmente, e sacrosanto coming out su Lucio Battisti, evitato (ma non messo al bando) dalla sinistra degli anni ’70 per via della leggenda metropolitana che lo voleva tra i finanziatori di Ordine Nuovo, ma intimamente, almeno da Manconi, amato della più sentimental-kitsch delle passioni. A questo proposito, a Manconi che dà conto della proliferazione delle conferme date a quella leggenda metropolitana, degli avalli forniti da imprudenti colleghi musicisti e della lettura destrorsa dei testi di Mogol (il «mare nero», gli «oceani di braccia tese» e via dicendo), vorrei proporre una chiave di lettura che, secondo me, demolisce una volta per tutte ogni velleità di cavare prove di qualsiasi militanza dai testi delle canzoni di Mogol-Battisti. Anche questa è una leggenda metropolitana che è circolata in ambienti meno radicalmente politici, e si fa forte del fatto che si può applicare a quasi tutte (è impressionante) le canzoni-monumento di Battisti: che esse siano in realtà un criptico, struggente e ipertrasgressivo (altro che neofascismo) inno alle droghe pesanti. Ascoltate bene il testo dei «Giardini di marzo»: non sembra esserci dubbio, a parlare è un tossicodipendente. E quel «Sì viaggiare» di cui qui viene data una lettura finalmente onesta e apolitica, non sembra piuttosto riferito ai trip della droga (evitando le buche più dure)? E «Nessun dolore»? E «Prendila così»? E «le discese ardite e le risalite» di «Io vorrei… Non vorrei… Ma se vuoi…»? E «Vendo casa» – quando non ha più soldi per comprarla? E «io ti venderei» – quando, finiti anche i soldi della casa, decide di spacciarla? E l’anno di galera scontato all’inizio di «Fiori rosa fiori di pesco» («fiori nuovi, stasera esco / ho un anno di più»)? E la decisione di smettere di «Io vivrò (Senza te)»? E l’insopportabile agonia dell’astinenza di «E penso a te»? E «Ancora tu» quando ci ricasca? Non si finisce più, credetemi, ed è divertente, perfino comico
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giocarci sopra, ma la verità è che Lucio Battisti è il più inafferrabile, imperscrutabile e non-manipolabile dei nostri cantanti – ragion per cui la sincera confessione di quanto i giovani di sinistra dell’epoca abbiano abboccato all’amo del «Battisti fascista», fatta da uno dei loro leader, suona qui come una piena riabilitazione storica, con tante scuse. Ma a proposito di Battisti c’è anche da notare che Manconi si rivela essere uno dei pochi che abbiano avuto il coraggio di seguire il grande reatino nella svolta radicale impressa al suo lavoro col passaggio alla collaborazione con Pasquale Panella. E vivaddio io qui posso finalmente leggere, e non soltanto scrivere, pagine in cui la grandezza del binomio Battisti-Panella viene celebrata con la dovuta riconoscenza intellettuale per un guizzo che solo un ispiratissimo outsider-a-vita come Lucio Battisti poteva concepire, e che lo colloca, tuttora, parecchio avanti rispetto al mondo della canzonetta italiana. Un passo vertiginoso, e inaudito, nel sentimental-kitsch che verrà, o che magari non verrà mai, ma comunque da coniugarsi al futuro. Resta da dire della bella scrittura di Manconi, della sua cifra stilistica ricercata, con uno spettro linguistico molto ampio e senza la minima traccia né della legnosità che irrigidisce l’eloquio di molti eruditi né della deriva retorica che travolge quello di quasi tutti i politici. Colpiscono in particolare l’abbondanza e la forza degli aggettivi, che sembrano zampillare da una sorgente pressoché inesauribile e non vengono mai affiancati, né ripetuti. Non è facile scrivere così, aprendosi il cammino passo dopo passo contro ogni inerzia, e mantenendosi fedeli a uno stile. Non è affatto facile. Infine, un avviso: non mi permetto certo di anticiparla, ma mi sento in diritto di annunciare, qui, la notizia-bomba che, come se niente fosse, l’autore fa esplodere verso la fine del libro. Alla luce di quella notizia, sorprendente anche per l’autore stesso, e per questo scrupolosamente verificata e ricostruita, il libro si chiude nel più letterario dei modi, con lo scopritore che scopre se stesso all’interno della propria scoperta. E tutto acquista una leggerezza nuova, felice, eliogabalica: come quando il Barone di Münchhausen si tira fuori dalla palude arrampicandosi su per il proprio codino.
Nota dell’autore
Questo non è un libro di critica musicale né una storia della canzone italiana e nemmeno un saggio di sociologia dei consumi musicali. È esattamente ciò che dicono titolo e sottotitolo. Si tratta di un racconto, un percorso soggettivo (molto soggettivo), tracciato su gusti ovviamente opinabili e faziosi, attraverso mezzo secolo di musica leggera prevalentemente italiana, ma anche di canto popolare e politico; e attraverso le relazioni di quell’universo con i mutamenti della mentalità condivisa e degli stili di vita nel nostro paese. Tutto ciò a partire da una categoria, quella di sentimental-kitsch, che cerca di spiegare l’inspiegabile: ovvero «perché ci piace tanto la canzonetta» (e perché ci piacciono tanto anche altre forme di consumo «sentimentale», dal gioco del calcio alla pornografia). È per tale ragione che in questo libro si troveranno molti racconti e poche indicazioni bibliografiche. E tuttavia va ricordato almeno il volume pionieristico di Michele L. Straniero, Sergio Liberovici, Emilio Jona e Giorgio De Maria, Le canzoni della cattiva coscienza, Bompiani 1964; e vanno ricordati i recenti e indispensabili Il buio, il fuoco, il desiderio di Gino Castaldo, Einaudi 2008, Cosa vuoi che sia una canzone di Giuseppe Antonelli, il Mulino 2010, Musica sulla carta di Enrico de Angelis, Zona 2009, Effetto Tenco. Genealogia della canzone d’autore di Marco Santoro, il Mulino 2010, La musica che abbiamo attraversato, Almanacco Bompiani 2005, a cura di Ranieri Polese, Bob Dylan. Scritti 1968-2010, di Greil Marcus, Odoya 2011, e L’orecchio collettivo e il vissuto del cuore di Matteo Manzitti su www. abuondiritto.it, 2011. Per quanto riguarda il lavoro di Gianni Borgna, ri-
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mando a L’Italia di Sanremo, Mondadori 1998 e, con Luca Serianni, La lingua cantata. L’italiano nella canzone d’autore dagli anni trenta a oggi, Garamond 1994; infine con riferimento alle «nuove leve», è utile Cantautori novissimi di Paolo Talanca, Bastogi 2008.
Backstage Molti mi hanno aiutato a scrivere questo libro: Francesco Gentiloni, Silvio Di Francia, Tobia Zevi, Marino Sinibaldi, Bruno Paba, Antonio Stella, Luisa Bua Mulas, Enzo Paba, Giancarlo Porcu, Paolo Corciulo, Felice Liperi, Vittorio Dini, Mario «Celè» Grassi, Massimo Fregnani, Valentina Calderone, Cecilia Aldazabal, Azzurra Cantalupo, Carlo Casula, Paolo Dal Bon, Federica La Greca, Gioli Paoni, Camillo Minnai, Raffaele Porru e Maria Giovanna, Paola, Teresa e Anna Manconi. E ringrazio specialmente Nicola Piovani, Sandro Portelli, Andrea Pugiotto, Stefano Saletti e Stefano Arrighetti e l’Istituto Ernesto de Martino per aver consigliato, criticato, vigilato. E ringrazio Enrico de Angelis per aver consigliato, criticato, vigilato con particolare sollecitudine e intelligenza; e con lui il Club Tenco per quanto ha fatto, in questi decenni, per sostenere e valorizzare la canzone d’autore. Questo libro contiene alcuni termini in sardo riportati secondo una fra le tante, diverse lezioni e scritture correnti riscontrate.
Gli stili della musica non si cambiano mai senza cambiamenti nelle leggi pi첫 importanti dello Stato. Platone
Introduzione Tra collezionismo e mania
Al compimento del sessantesimo anno di età, il mio sregolato e incontinente eclettismo giunge a un punto di svolta. Per l’intera, o quasi, mia esistenza, dall’adolescenza fino all’età attuale, pur intorno ad alcuni interessi più robusti e per molti versi dominanti si sono affollati tanti altri motivi di curiosità, passione, collezione, archiviazione e classificazione e, ben inteso, godimento. Come accade, credo, a quasi tutti. E ciò per un lungo periodo di vita. Alcuni di quei centri di interesse – in primo luogo, quello che costituisce oggetto di questo libro – accompagnano l’intera mia vita, le sue molte svolte, le sue tante fasi contraddittorie, i suoi sviluppi, le sue regressioni, il suo scorrere fino a oggi. Altri interessi hanno un’esistenza sussultoria, si accendono periodicamente, si quietano, per poi riproporsi con maggiore vivacità e intensità a distanza di qualche tempo. Tra questi, l’interesse talvolta quasi ossessivo per quella categoria espressiva che possiamo definire col termine estensivo di comicità. È a questo interesse che devo, in ultima istanza, la decisione di scrivere questo libro. Una domenica mattina di settembre del 2008, da un bar in piazza Santa Maria in Trastevere a Roma, chiamo Silvio Orlando, premiato proprio la sera precedente con la Coppa Volpi per il film Il papà di Giovanna alla 65ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Mi presento con una domanda: «Quanti politici ti hanno chiamato finora?», pausa dell’interlocutore che non mi ha ancora riconosciuto, e poi: «Nessuno». E io: «Sono il primo, sono Luigi Manconi». Dall’altra parte una risata e la prevedibile e lusinghiera risposta: «Tu non sei un politico, sei un esse-
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re umano». Questo apprezzamento non è il cuore di quella conversazione ma la introduce perché assai generosamente Silvio Orlando si dilunga nel ricordare le nostre relazioni nel corso degli anni, per poi definire «momento di svolta» della sua carriera (niente meno) un incontro avuto con me all’aeroporto di Linate o di Fiumicino (non saprei dire) di vent’anni prima quando lui, attore che aveva alle spalle lo spettacolo teatrale Comedians, si guardava intorno per decidere che cosa fare. Durante quella conversazione, noi due seduti sulle sedie in plastica della sala d’attesa, Silvio disse che cercava un testo da cui ricavare uno spettacolo teatrale ma anche – aggiunse con molta cautela – un soggetto cinematografico, e di non sapere dove sbattere la testa. Io gli suggerii immediatamente la lettura del libro, uscito qualche mese prima, di Domenico Starnone, Ex cattedra, pubblicato da Feltrinelli. Mi ricordo che Silvio riportò su un foglietto, che mise in tasca, nome dell’autore titolo e editore e mi ringraziò molto. Dopo qualche mese, mi cercò dicendosi entusiasta della lettura e chiedendomi di metterlo in contatto con Starnone. Cosa che io feci. Nacque la collaborazione tra i due che produsse, come si sa, un testo teatrale, Sottobanco, e più di un film (La scuola, Auguri professore) e – parole, appunto, di Silvio Orlando – il «punto di svolta» nella sua carriera. L’episodio è, ovviamente, pressoché insignificante, il mio ruolo fu del tutto casuale, e non c’è dubbio che altri incontri e altri colloqui avrebbero potuto portare Silvio Orlando alla stessa opportunità, magari in tempi appena più lunghi. Ma ciò che conta, per me e quasi esclusivamente per me, è che quell’episodietto mi definisce in maniera perfetta. Quando frequentavo il ginnasio e il liceo Domenico Alberto Azuni (quello che ospitò nelle sue aule Palmiro Togliatti e Antonio Segni, Enrico, Giovanni e Luigi Berlinguer, Francesco Cossiga e Attilio Deffenu, Enrica Bonaccorti e Sebastiano Satta, Elisabetta Canalis e Guido Melis…) io svolgevo, in maniera dilettantesca e goffa, un’intensa attività teatrale, attraverso due compagnie da me promosse, la Compagnia di Ventura e il Gruppo della Canzone Nuova. Se ne parlerà più avanti. Ma quel ruolo di «capocomico» e di organizzatore teatrale mi era congeniale e mi rimarrà sempre caro, persino nella sua dimensione più tecnica: quella di chi mette insieme funzioni diverse (il chitarrista e il suggeritore, lo scrittore dei testi e il distributore dei programmi di sala, la scheda per i giornalisti e l’accensione delle luci). Pensate, poi – passato qualche decennio e cambiato lo scena-
Introduzione 25
rio – all’opportunità di trovare il soggetto per un’opera teatrale di Silvio Orlando e per alcuni suoi film. E tutto nasce da un istinto, un umore, una voglia: quella che appunto mi induce a inseguire il filo di una irresistibile passione espressiva. Di una comunicazione emotiva. Di un gioco di voci, gesti, movimenti. Io, Silvio Orlando, lo avevo conosciuto perché un giorno del 1985 presi un treno Roma-Firenze per andare a vedere Comedians dell’autore inglese Trevor Griffiths, con la regia di Gabriele Salvatores, in scena a Firenze. Goffredo Fofi, che lo aveva visto a Milano, me ne aveva parlato con prudenza – con la giusta cautela di chi aveva in sospetto la troppa enfasi che già circondava lo spettacolo – e soprattutto mi aveva segnalato quell’attore di cui io ignoravo fino ad allora anche il nome. Finita la rappresentazione, raggiunsi i camerini. Non dovetti faticare troppo. Allora per Claudio Bisio, Paolo Rossi e Bebo Storti non c’era una lunghissima fila: tanto meno per Silvio Orlando, che trovai avvolto in un gigantesco accappatoio giallo con cappuccio. Orlando, schivo e timido in forma quasi patologica, era, tra quei bravi (e, dopo alcuni anni, famosi) attori, il meno loquace e comunicativo (e parlava, e parla, a voce bassissima). Fu facile quindi cogliere l’opportunità di una lunga conversazione. Io, devo dire, già allora ne ero affascinato. Evidentemente perché quella vena comica così intensa e drammatica sollecitava in me una curiosità e un piacere che volevo condividere direttamente, partecipandovi in qualche modo e misura, standoci vicino e insieme. Per me, palesemente, quella frase di Silvio Orlando resta una delle onorificenze più gratificanti mai ricevute. Come – non scherzo e non esagero – la partecipazione ai cori in un album dei Modena City Ramblers e la pubblicazione di un mio disegno di legge sulla legalizzazione delle sostanze stupefacenti nella copertina di un cd dei Pitura Freska. Ma, a queste rare e pure preziose soddisfazioni, avrei voluto aggiungere altre e altrettanto felici opportunità: comporre per Vasco Brondi di Luci della centrale elettrica, per esempio, o scrivere testi per Antonio Albanese. Qui va fatta una premessa che merita di essere subito esposta. Alla domanda: ma ne saresti capace?, evidentemente non sono in grado di rispondere in modo del tutto affermativo. Si tratta essenzialmente di una fantasia, ma di una fantasia alla quale sono stato e resto affezionato. Nel primo caso come nel secondo, nello scrivere testi per canzoni o
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per gag comiche l’idea affascinante e travolgente è quella di «mettere le parole in bocca» a qualcuno: e sentirle ripetere, diffondersi e riprodursi. Nelle forme espressive più attraenti e accattivanti: quelle che evocano emozioni e suscitano il riso. Per questo avrei voluto e vorrei scrivere il testo di una canzone, che so, di Gino Paoli o una gag per il Massimo Boldi di trent’anni fa. Quest’ultimo non mi è mai capitato di incontrarlo, ma, molto tempo fa, qualcuno che lo conosceva (Antonio Ricci, mi pare) disse a qualcuno che mi conosceva che Boldi aveva assai apprezzato un mio giudizio su di lui. E come poteva essere altrimenti? Intervistato dall’Espresso e richiesto di un parere su chi fosse il migliore comico italiano di quegli anni (era la stagione del grande successo di una nuova generazione di attori), risposi senza battere ciglio: Massimo Boldi. L’affermazione non doveva suonare poi così paradossale per chi conoscesse la scena televisiva di allora. In principio era Antenna Tre, la madre di tutte le tv commerciali, dove Massimo Boldi e Teo Teocoli occupavano per ore e ore lo schermo, nella più sfrenata (e talvolta sgangherata) incontinenza comica. Lì, già nella seconda metà degli anni ’70, venne sperimentato il personaggio di Max Cipollino. Chiunque amasse il comico e avesse occasione di vedere quell’allucinato conduttore di telegiornale, ne rimaneva colpito. Io tra questi. Boldi, anche rispetto allo stesso Teocoli, lasciava intuire due qualità. In primo luogo, ciò che sembra costituire il fondamento stesso della vis comica: ovvero la puerilità. Il fatto, cioè, di rappresentare la persistenza dell’età infantile, della sua gestualità e del suo linguaggio, quale meccanismo essenziale del riso. E, poi, quella forza bruta – dunque elementare, primitiva, innocente – di una recitazione tutta corporale (facciale, piuttosto) e improvvisata, immediata ed eccessiva. Certo, va detto che si tratta di elementi riconoscibili in molti altri attori, ma in Boldi e nella sua creatura, Max Cipollino, apparivano allo stato puro. Per capirci: Boldi conficcato dentro un’incredibile struttura gommosa, riproducente un corpo palestrato, anabolizzato, dopato, fino a diventare mostruosamente muscoloso e abnorme, dalla cui sommità sbucava la sua minuscola testa, era un’esplosione di irrefrenabile allegria. Senza fare un gesto, senza dire una parola. Era inevitabile, dunque, che venisse voglia di partecipare a quel gioco infantile, anche perché risultava evidente che si era in presenza di
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un grande attore «male usato» (così Goffredo Fofi nel 2002). Da qui la fantasia di «scrivere per Boldi», per tirarne fuori il meglio e i tesori sepolti. Ma già allora sapevo che dietro quella fantasia c’era un vizio intellettualistico, come avrebbe chiaramente rivelato la controversia su Totò: è più grande il Totò di Steno o quello di Pier Paolo Pasolini? È meglio il Totò «selvaggio» o quello «educato»? Per tornare a Boldi (che ovviamente non è Totò), è meglio Max Cipollino o il protagonista di Festival di Pupi Avati? Il dilemma restava, e resta tutt’ora, senza una risposta unanime: ma non influenzava in alcun modo quello che era un innocente, e tenacissimo, hobby irrisolto e un’aspirazione mai soddisfatta. Ovvero, scrivere per un comico o per Gino Paoli, o per la Premiata Forneria Marconi. Con quest’ultimo gruppo, in effetti, ebbi molti incontri, legati alla loro partecipazione a iniziative politiche e al fatto che coltivavano una grande passione ambientalista. Fu così che con Franz di Cioccio della Pfm discutemmo persino di qualche progetto da realizzare e un giorno, timidamente, gli allungai due testi che pensavo potessero interessargli. Ovviamente non se ne fece nulla. Ma anche quell’occasione mancata conferma l’ostinazione di un orientamento e la continuità nella cura di una passione. Coltivata, quella passione, o attraverso il collezionismo – ma chi mai, oltre me, conserva i 33 giri di Beppe Chierici? – o attraverso una diretta frequentazione di persone, luoghi, eventi. Non cercandovi un ruolo da protagonista (non certamente in quegli ambiti, che sapevo benissimo non essermi congeniali) ma, al più, da figurante o comparsa (come, per altro, mi è capitato di fare in Un’anima divisa in due di Silvio Soldini, in Un delitto impossibile di Antonello Grimaldi e, infine, in La pecora nera di Ascanio Celestini) insomma, una sorta di esibizionismo ben temperato. O anche un ruolo da spettatore: magari di prima fila (ché si vede meglio) o, addirittura, nella semioscurità del dietro le quinte, o da fan meticoloso e famelicamente archivistico, o da occasionale confidente, o – in via eccezionale, sia chiaro – da consigliere per affari di cuore o di politica. All’origine, ovviamente, c’era il fatto che non potevo essere io il protagonista, per mille ragioni. Innanzitutto, la più semplice: perché non ero stato capace, ma anche perché, comunque, la mia vocazione principale era sempre un’altra. Eppure, così irresistibili erano state quelle due tentazioni, quella per la comicità (pronubo, come si vedrà, Walter Chiari) e quella per la musica leggera, che di esse sarebbero restate tracce
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robustissime e resistentissime in tutti gli anni successivi. Anche per empatia e per familiarità, vissuta o accennata (con Fabio Fazio, Paolo Rossi, Francesco De Gregori, Alessandro Bergonzoni, Moni Ovadia, Paolo Hendel, Daniele Luttazzi, Giuseppe Cederna). In altre parole, realizzavo, in quel modo sghembo e tuttavia intenso, qualcosa di meno di una vocazione, ma certamente di più (di molto più) di un interesse tra gli altri: e lo realizzavo non in forma amatoriale, quale attività dopolavoristica e dilettantesca (come quei magistrati che, la sera, fanno musica jazz in un localino: non avete idea di quanto siano numerosi), ma con un atteggiamento tra il voyeur e l’imbucato, tra il confidente e il consulente/consigliere spirituale. Con una differenza fondamentale: quest’ultima figura, in genere, si compiace del suo ruolo proprio per il ruolo in sé, a prescindere dal fatto che la persona al centro della scena sia Andrea Bocelli o Silvio Berlusconi, e a prescindere dalle rispettive qualità artistiche. Nel caso mio, no: quel rapporto di «prossimità» nasce, innanzitutto, da una passione smodata e indecorosa per il merito di quelle stesse qualità: le canzoni di Titanic o la rappresentazione di Adenoidi. C’è, in altri termini, un’identificazione «romantica» (emotiva, immaginifica, avventurosa) nel prodotto, che induce alla relazione – a una qualsivoglia relazione: stretta, se possibile – con l’autore. Ma l’autore resta un tramite, ovviamente il migliore, per la sua opera: e interessa, anche affettivamente, perché autore di quell’opera. Mi spiego meglio: mi fa piacere scoprire che Alessandro Del Piero è anche onesto, forse sensibile, addirittura intelligente. Ma gli voglio bene – attenzione: gli voglio bene, oltre che apprezzarlo enormemente – per ciò che fa con i piedi. Dunque, mi sarebbe piaciuto, mi piacerebbe essergli amico – telefonargli, ricevere le sue telefonate, uscire con lui e con la moglie, la cara Sonia Amoruso, conoscere i loro familiari, parlare di lui col suo amico più caro… – per meglio comprendere, anche emotivamente, la sua arte pedatoria, e non certo per sapere qual è il suo narratore preferito o quali sono le sue idee politiche. Un tale sentimento di appropriazione/immedesimazione, insieme intimo e parassitario, ha avuto la sua celebrazione e la sua insuperabile definizione come «categoria dello spirito» in un’irresistibile gag di Massimo Troisi. Intervistato da Gianni Minà sul suo stato d’animo dopo la conquista dello scudetto da parte del Napoli (1987), Troisi si esprime così:
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A me me piacesse esse’ proprio nu giocatore, a me me piacesse esse’ Bruscolotti, un giocatore intervistato Bruscolotti. Bruscolotti, Ferrara… aie capito un giocatore, ma non è possibile pecchè chiaramente nun aggiae giuca’. Guarda, pe’ esse’ dentro, a me me piacesse esse’ pure una moje di un giocatore, se io faceissei la moglie di Renica, mi faceissi cuontento. Io la invidio, signora io vi invidio, vi invidio Renieca, io vorrei essere sua moglie. Lui che torna a casa che mi dice sai, cara, Maradona che cos’ha detto? Che l’anno prossimo forse facciamo ancora… tutt’e piccole cose. Non la moglie perché so’ uomo e non offendendo, ma almeno l’amante di una delle mogli dei giocatori che mi dice sai mio marito m’ha detto che Maradona gli ha detto che l’anno prossimo… viverla, stare dentro insomma.
Ecco, perfetto. Ma, per quanto mi riguarda, con Del Piero l’approccio non è andato a buon fine. Anzi, non c’è mai stato. Con qualcun altro sì. Sta lì, forse, l’origine e la materia di questo racconto. Sarà stato il 1969 o 1970 quando, in un numero di Linus, trovai le vignette di Jules Feiffer. Quei disegni stilizzati e pure dettagliati, essenziali ma allo stesso tempo movimentati, furono per me una straordinaria scoperta. Feiffer, poi, era un radical che conduceva una spietata critica politica contro l’amministrazione americana. In una di quelle vignette veniva rappresentato un Richard Nixon che, appena eletto, esprimeva la sua incontenibile gioia con una serie di salti e piroette, accompagnati da espressioni di giubilo. La soddisfazione del neoeletto si manifestava attraverso l’entusiasmo per i privilegi che la carica di presidente degli Stati Uniti gli avrebbe assicurato. Al culmine di quel crescendo di eccitazione, ecco la considerazione finale, espressa con un ilare e innocentissimo sorriso: cielo, conoscerò tante ragazze. La battuta mi parve irresistibile e, per ragioni che ovviamente non sono mai riuscito a decifrare, mi è tornato in mente spesso negli anni successivi (e la riprenderò più oltre). Il meccanismo comico è semplice e classico: l’enormità del successo (l’elezione a presidente degli Stati Uniti) viene misurata, e ridicolmente rimpicciolita, dal confronto con la natura della soddisfazione che quel successo produce in chi lo ha ottenuto (conoscere tante ragazze). È vero, probabilmente, che si tratta di una dismisura solo in apparenza: e che tutti i desideri di potere si esprimono attraverso una pluralità di aspettative tra le quali molte sono di tipo infantile (o adolescenziale), legate al-
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la soddisfazione di pulsioni elementari: il «conoscere tante ragazze», con ciò che comporta (o che sperabilmente può comportare), è tra quelle pulsioni. C’è chi, poi, quelle stesse pulsioni, le soddisfa in maniera iperbolica, esaltando proprio la conoscenza di «tante ragazze» – ed è inevitabile evocare l’epopea erotica di Silvio Berlusconi – e c’è chi, invece, privilegia altre aspettative, ma tutte (o in gran parte) segnate dall’intreccio fra gratificazioni alte e basse, sofisticate e primitive, complesse ed elementari. Tutto ciò per dire che la notorietà si porta dietro un certo strascico di medi e piccoli privilegi e di medi e piccoli piaceri, che rappresentano appunto un sistema di gratificazioni. E, per restare al tema di questo libro, Flavio Giurato nel suo «manuale del cantautore» ricorda ironicamente come quel mestiere sia «buono per rimorchiare».1 Su tutt’altro piano, e relativamente a soddisfazioni di diversa natura, devo dire che anch’io, per un certo periodo, ho goduto di una qualche notorietà e che – pur senza «conoscere tante ragazze» – ho avuto le mie gratificazioni. Una tra le più eccitanti fu un singolare incontro su un volo RomaMilano. Mi trovavo in fila a cercare il mio posto quando il passeggero che mi stava davanti si voltò, si illuminò in volto e si rivolse a me con grande cordialità: «Buon giorno, onorevole Manconi». Anche io lo riconobbi immediatamente e, per chissà quale ragione al mondo, tradussi il nome e il cognome con cui tutti lo chiamano nei suoi veri dati anagrafici, esclamando: «Che piacere Antonio Lardera!». Ora, la domanda è questa: quanti, in Italia, sanno che il vero nome del grandissimo Tony Dallara è Antonio Lardera? Ovvero che questo è il nome anagrafico dell’uomo che alla fine degli anni ’50 ebbe un ruolo importante nell’introdurre un nuovo stile vocale? A saperlo, sono probabilmente Mario Luzzato Fegiz, qualche fan particolarmente appassionato, alcuni coetanei del mestiere e, per motivi appunto imperscrutabili, io. Questa imprevedibile agnizione da parte di qualcuno che Dallara identificava come «un politico», evidentemente lo colpì: cosicché, con mio grande piacere, trovò modo di sistemarsi vicino a me sull’aereo, subissandomi di ricordi e racconti e illustrandomi le gioie della sua nuova attività di pittore. Per molti anni ancora ricevetti puntualmente tutti i dépliant (in duplice copia) delle sue numerose mostre. Non ho mai incontrato invece – e me ne rammarico – il misterioso Ricky Shayne, «uno dei Mods», forse residente in Germania.
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C’è un’altra ragione, poi, per cui ho deciso di scrivere questo libro: ed è che mi capita di trovare canzoni dappertutto, per ogni dove, in ogni angolo e incontro ed esperienza della mia vita. E così ritengo che accada a moltissimi, che magari non vi badano. E quelle canzoni più di altre tracce, madeleines, libri e foto memorizzano – custodiscono e richiamano – malinconia e speranza, piacere e dolore, relazioni e furori, passioni e infelicità, adolescenza e turbamenti, giovinezza e languori, libertà e senilità. E, poi, il mangiadischi e il ciocorì, l’hula hoop e Adamo. La scatoletta promozionale della Simmenthal che, a muoverla, faceva mmuuuu, gli album piccoli e orizzontali del Grande Blek e di Capitan Miki. Gli Oscar Mondadori, il catalogo Bolaffi dei francobolli, la penna stilografica Aurora, il giradischi Readers Digest, il televisore Brionvega, la Lettera 22, la Polaroid, il Brandy Fundador, le bottigliette mignon, lo Scubidù, lo Yo yo, il Meccano, il Monello, l’Intrepido, Tex, Diabolik, SuperSex, Kriminal, Zagor, Lando, Michel Vaillant, Nembo Kid, Linus, la bicicletta Legnano, la Graziella, il Ciao e il jukebox… E le relazioni tra questi oggetti e i sentimenti. La vita, insomma.
Post Scriptum Io, quando canto, canto come Nanni Moretti nei suoi film. Preciso subito: lui è molto più intonato di me, ma la mia voce è più robusta e tiene meglio il ritmo (vorrei vedere lui, a cantare i diciotto versi di «Guapparia»). Fatto sta che Moretti canta benissimo e, soprattutto, interpreta benissimo le canzoni che canta, con un piacere incontenibile e con una compunta serietà che credevo di essere il solo a riservare all’attività canora in ambito domestico. Penso a «Ritornerai» in La messa è finita, a «Insieme a te non ci sto più» nella Stanza del figlio e a «Lei» nel Caimano. Queste due ultime canzoni compaiono in più di un film, insieme a decine di altre (da «Dieci ragazze» a «Sei bellissima», da «E ti vengo a cercare» a «Ragazzo fortunato»). Alcune fanno parte esclusivamente della colonna sonora, altre vengono cantate a voce dallo stesso Moretti, talvolta sopra l’esecuzione originaria, talvolta staccandosi da essa. Con quella serietà di cui ho detto e che penso dipende dal fatto che, grossomodo, Moretti assegna alla musica leggera la stessa importanza soggettiva e la stessa funzione socia-
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le da me attribuitele. E, infatti, ripensando al ruolo della musica leggera nei suoi film, trovo una notevole coincidenza – se posso permettermi – con ciò che questo libro cerca di dire e che si arriva addirittura a teorizzare nell’appendice dedicata al sentimental-kitsch: la canzone come forma perfetta di espressione di un’esperienza emotiva propria dell’adolescenza prolungata. In genere quelli che «io adoro i film di Nanni Moretti» sono soliti aggiungere: «ma certo deve avere un carattere insopportabile». Per me è l’esatto contrario: il carattere di Moretti, i tratti psicologici che sembra rivelare, il suo linguaggio e la sua gestualità, tic e fobie, nevrosi e paranoie, mi paiono assai interessanti e persino gradevoli, e condivisibili (in particolare l’ossessione per la parola): mentre i suoi film, alcuni, sì, li «adoro», altri meno. Ma lo considero un grandissimo attore comico. E la sua inclinazione al comico è un’altra versione del sentimentalismo che si nutre di musica leggera e che si esprime nella musica leggera. Roma-Milano-Alghero, 2008-2012