La rivoluzione libica

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Farid Adly

La rivoluzione libica Dall’insurrezione di Bengasi alla morte di Gheddafi Prefazione di Guido Olimpio


Il 50% dei diritti d’autore contribuiscono alla fondazione del primo circolo dell’Arci libica a Bengasi.

www.saggiatore.it (sito & eStore) Twitter @ilSaggiatoreEd Facebook il Saggiatore editore © il Saggiatore S.p.A., Milano 2012


La rivoluzione libica In ricordo del professor Guido Valabrega, maestro che ha illuminato il cammino della mia ricerca storica e sociale, e amico affettuoso che non si è mai risparmiato nel confortarmi nei momenti difficili, a causa delle note vicende e tragedie del Vicino Oriente.



Sommario

Prefazione di Guido Olimpio

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La genesi di una rivoluzione: la strage nel carcere Abu Selim

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1. La caduta del velo della paura

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2. La maledizione del petrolio

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3. Le peculiarità della dittatura Gheddafi

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4. Il terrorismo all’estero

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5. L’orizzonte della gioventù libica tra oppressione e povertà

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6. L’onda inaspettata: il 17 febbraio 2011

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7. L’organizzazione della rivoluzione

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8. Il ruolo delle donne

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9. La Libia è un paese tribale?

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10. Il cruccio di un pacifista

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11. Patrioti non vassalli

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12. Gli «amici» di Gheddafi

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13. La liberazione di Tripoli

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14. Lo scontro fondamentalisti laici

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15. Il tramonto dell’«eccezione araba»

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16. Lo scenario possibile per una nuova democrazia

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Appendici 1. Non lasciate solo il mio popolo!

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2. Occidentali, non vendeteci più armi!

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3. Appello contro il terrorismo

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4. Un intellettuale libico e l’accordo Roma-Tripoli per il rimpatrio dei migranti

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Indice dei nomi e dei luoghi

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Prefazione di Guido Olimpio

Popolazioni che si ribellano dalla Libia alla Siria. Movimenti popolari. Rivolte armate. Dittatori inamovibili strappati a forza dai loro troni. Vecchi sistemi di potere e relazioni stravolti. Un vulcano politico e sociale che non si è ancora spento. Una realtà non sempre facile da decifrare. Tanto per i diplomatici che per i giornalisti, costretti a inseguire processi repentini. Spesso brutali, con conseguenze tutte da decifrare. Sappiamo, forse, come sono iniziate molte di queste storie ma non possiamo dire come finiranno. Per questo è prezioso e vitale, quando si deve seguire crisi di queste proporzioni, avere un punto di riferimento. Una figura che racchiude molti ruoli: giornalista, analista, esperto, figlio di quella terra inquieta che è il Nord Africa. Con la non comune caratteristica di essere libico trapiantato da decenni in Italia. Farid Adly è tutto questo. Per me – e per il Corriere della Sera – Adly, oltre che essere un amico, è diventato una fonte preziosa. Che ti informa ma è pronta ad ascoltare. In uno scambio di idee che porta poi a risultati concreti, ti evita di scrivere imprecisioni, ti permette di avere quei particolari che possono fare la differenza e attirare l’occhio dei lettori più critici. In questi anni di collaborazione, continua e precisa, abbiamo discusso di tutto. Con passione, con senso critico e ricerca dei fatti. Un percorso giornalistico iniziato con la tragica pagina dell’11 settembre 2001 e che non si è mai interrotto. Farid Adly mi ha aiutato a interpretare articoli, a cogliere quelle sfumature così importanti della lingua araba, a scopri-


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re notizie nei lunghi interventi di capi estremisti e leader. La sua telefonata o l’email sono spesso arrivate prima del dispaccio di agenzia o della notizia lampo lanciata dalle tv. Un’allerta accompagnata dall’inconfondibile: «Controllo e ti dico». A volte il processo è scattato in senso inverso: «Guarda ho letto che…Vedi se c’è qualcosa in giro». Una richiesta d’aiuto mai caduta nel vuoto. Una risposta mai banale. Perché insieme alle news nude e crude – quelle che ogni reporter insegue – c’era e c’è un’annotazione. Un’idea su cui lavorare. Ma non un’imposizione. Ed è questo il bello di lavorare con Farid. Niente dogmi, nulla di scontato, grande prudenza nel decifrare gli eventi. A volte abbiamo messo insieme i pezzi dopo giorni di ricerca paziente. Io da una parte e lui dall’altra. E il nostro asse professionale è cresciuto – inevitabilmente – con l’insurrezione in Libia, la terra natale del collega. Il paese dal quale per anni è stato costretto a rimanere alla larga. Quando si sono accesi i primi lampi di rivolta abbiamo avviato un meccanismo che ricordava un’altra epoca del giornalismo. Quando non c’erano telefonini e computer. Allora c’era la «fissa», un appuntamento telefonico o al telex con l’inviato. Era il solo modo per comunicare. Ebbene, per mesi, ci siamo sentiti con due chiamate quotidiane. Io a Washington, lui in Italia. La prima nel mattino americano, per capire cosa era accaduto durante la notte e verificare le news apparse sui media. La seconda consultazione era quando in Italia si dormiva, per fare un bilancio. Tra questi due appuntamenti un mare di contatti, di email, di messaggi. Inseguendo quelle straordinarie e drammatiche giornate che hanno cambiato il volto della Libia. Sono nati così «pezzi» a quattro mani sullo status del regime, sugli sviluppi militari, sulle divisioni dei clan, su prospettive e pericoli. Ma con un approccio «laico». Farid Adly ha difeso le scelte dei suoi connazionali ma non ha mai avuto paura di rimarcare errori e iniziative pericolose. Un approccio giornalistico riconosciuto anche da tanti colleghi e osservatori. Appassionanti le ricerche – e le discussioni – su cosa avrebbe fatto Gheddafi, su cosa si agitava nella mente di un leader indecifrabile, se alla fine si sarebbe arreso. E poi i «lavori» sul denaro all’estero, sugli aiuti di altri paesi, sul flusso di mercenari. Non c’è aspetto che non sia stato affrontato e sviscerato. A volte per realizzare un articolo, altre solo per il gusto di archiviare dati importanti ed essere pronti al momento opportuno. Con l’autore di questo libro non condivido solo la passione per il mon-


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do arabo ma anche il metodo di lavoro. Che è sì giornalistico ma reso più profondo da un sistema – come si dice in gergo – di «scavo». Un metodo fatto di passi costanti: raccolta, archiviazione, analisi, verifiche. Ma con la voglia di essere un passo avanti nel mettere insieme i famosi tasselli del mosaico. Se poi non si tramuterà in un «pezzo» – ce lo siamo detti tante volte – non importa. Certi che prima o poi vi sarebbe stata un’occasione. E così è stato. A Farid Adly va poi riconosciuta l’obiettività. In questi mesi non ha mai smesso di mettere in guardia sull’ambiguità di alcune forze all’interno al movimento ribelle, sulle possibili infiltrazioni qaediste, sulle manovre poco chiare e sui tanti Gattopardi, abili nel cambiare pelle una volta che il tiranno è caduto. Una denuncia proseguita con le denunce degli eccessi e delle violenze compiute dalle milizie libiche nei confronti di migliaia di civili. Aver cacciato un despota non autorizza nessuno a ritorsioni e persecuzioni. E se ogni rivoluzione si porta dietro regolamenti di conti – purtroppo inevitabili – bisogna adoperarsi perché cessino il più presto possibile. E questo libro – La rivoluzione libica – è la ricostruzione rigorosa di mesi tumultuosi e pieni di incognite. Una catena di eventi dove il primo anello non è l’insurrezione popolare di Bengasi del 2011 ma qualcosa accaduto molto tempo prima: la strage nel carcere di Abu Selim nel 1996. Da qui si sviluppa un viaggio drammatico, appassionante e sconvolgente che si chiude con il crollo di un despota che sembrava imbattibile. Un finto matto capace di sopravvivere tra gli intrighi del Medio Oriente, furbo come pochi nel giocare su mille tavoli, spregiudicato nel dire una cosa e farne un’altra. Un leader che si atteggiava a padre dei libici e poi mandava i suoi agenti a eliminare gli oppositori all’estero. Predicava la pace e poi organizzava legioni straniere per combattere i rivali in Africa. Faceva affari con tutti e trescava con organizzazioni terroristiche, armandole e finanziandole. Episodi narrati con precisione dall’autore, in un racconto tra cronaca e storia. Nel libro si illuminano aspetti poco esplorati. Come il ruolo delle donne nella società libica, l’esistenza di realtà economiche difficili che sfatano la leggenda che in Libia sono «tutti ricchi», lo sfruttamento degli immigrati venuti dal cuore dell’Africa. E non mancano spunti polemici per chi in Occidente sembrava rimpiangere i bei tempi di Gheddafi, pronto a fare


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a pezzi i capi della rivolta. Non meno «calde» le riflessioni sui tanti amici del colonnello che aveva estimatori interessati nel nostro paese. Farid Adly affronta anche il tema dello scontro laici-religiosi, una costante delle rivoluzioni arabe, così come le difficili scelte per chi ha appena iniziato a gestire un sistema democratico. Con errori prevedibili e accettabili. Ma anche con comportamenti da rinnegare, come le vendette nei confronti di chi non ha abbracciato la nuova rivoluzione. L’autore non ignora questo lato oscuro, lo racconta, lo sanziona. Ma, a dispetto di scenari foschi e apocalittici, ha fiducia nelle capacità di un popolo che si è lasciato alle spalle decenni di terrore. Il libro si chiude con un sentito messaggio: «Auguri terra mia». Auguri che facciamo nostri e rilanciamo, sperando che la Libia trovi la sua strada sicura. Guido Olimpio Washington, 25 febbraio 2012


La genesi di una rivoluzione: la strage nel carcere Abu Selim

La prima volta che ho appreso «ufficialmente», ma indirettamente, della strage di detenuti nel carcere Abu Selim, un sobborgo a sudovest della capitale libica, è stato nella stessa sede centrale di Tripoli del Mukhabarat, il servizio segreto di sicurezza del regime. Ero andato per seguire la pratica del mio passaporto sequestrato alla frontiera libico-tunisina di Abu Jdeir, al momento del mio rientro nel dicembre 1996. Allora la Libia era sotto embargo Onu per l’attentato di Lockerbie e non c’erano voli diretti da e per il paese. Colonnello Mustafa. Così si è presentato, senza cognome, il personaggio che doveva delucidarmi sulle ragioni del sequestro del passaporto da parte della polizia. Dopo i soliti salamelecchi che si scambiano i libici ogni volta che si vedono, si è chiuso in un eloquente mutismo. Il viso contornato dai palmi delle due mani con i gomiti appoggiati sul tavolo, guardava assorto in un punto indeterminato dell’ampia stanza, senza profferire parola. Conoscendo l’ambiente, anch’io ho ricambiato con la stessa moneta. Dopo un interminabile, per me, lasso di tempo con uno scatto ha schiacciato un pulsante e nella stanza adiacente si sono sentiti il suono di un campanello, il rumore di una sedia e i passi di un uomo dagli scarponi militari. L’ufficiale entrato aveva tra le mani un dossier. Dalla confabulazione fra i due, pur in arabo, sembrava che usassero un codice per comunicare. Quando il mio fascicolo è stato posato sul tavolo del colonnello, l’ufficiale ha pronunciato le uniche parole a me comprensibili: «Non merita un trattamento alla Abu Selim!».


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L’accostamento non mi era molto chiaro. Della durezza del carcere speciale di Abu Selim, in Libia, tutti raccontavano aneddoti e storie al limite dell’impossibile. Ma le voci che giravano dalla precedente estate erano, a dir poco, allarmanti. Circolavano notizie, trasmesse dal tam tam popolare, su una rivolta dei detenuti politici repressa nel sangue, con molti morti. Uccisi nelle celle, si diceva. Non si scendeva nei particolari, non si facevano nomi. La radio e la tv di Stato non ne hanno mai parlato e la stampa scritta, tutta in mano al ministero dell’Informazione, men che meno. «Si mette male» ho pensato. In questi casi, la cosa migliore è quella di mantenere la calma e di non reagire alle provocazioni; si tradirebbe altrimenti uno stato d’animo debole. Ho continuato a fissare il dossier, poi, incrociando gli occhi del mio interlocutore, ho chiesto lumi sulla sorte del mio documento. Dopo aver consultato le carte, il colonnello ha iniziato un lungo ragionamento, prendendola da lontano. Un discorso sul potere, sull’affidabilità delle persone, sulla patria e sulla nostalgia, sulle forme pratiche della sovranità popolare, sul socialismo che non vuol dire povertà, ma neanche uguaglianza, sul privilegio di chi ha studiato e sulla riconoscenza che è sottomissione al potere del popolo. «Chi gode della fresca aria d’Europa, non dovrebbe dimenticare la calura dei nostri deserti» ha concluso in modo sibillino. Frasi scollegate che non formavano un discorso compiuto e non seguivano un ragionamento logico con premesse e conclusioni. Soprattutto non avevano nulla a che fare con la storia che vedeva il mio passaporto sequestrato come protagonista principale, e la cui eventuale mancata soluzione metteva in serio pericolo tutto il programma del mio breve soggiorno in Libia e il sicuro rinvio del viaggio di ritorno in Italia. Con tutto il self control del quale sono dotato ho indicato il fascicolo e ho chiesto esplicitamente se quel giorno stesso sarei potuto tornare a Bengasi con il mio documento. La risposta è stata lapidaria: «La pratica è lunga. Manca la firma». Non c’era da scherzare; la percezione che ho avuto era quella di una richiesta di collaborazione. «Torni tra una quindicina di giorni.» Seduta tolta. Il calvario durò tre lunghi mesi. I monologhi del colonnello si erano trasformati in discussioni. Non avevo nulla da perdere, avendo perso la speranza di vedere riconsegnato il mio documento di viaggio. Sapevano tutto


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sulla mia vita in Italia. Dalla direzione del movimento degli studenti libici alla solidarietà con i palestinesi, dall’occupazione dell’Ambasciata libica di Roma ai tempi dell’impiccagione degli studenti all’Università di Bengasi, nel 1977, alle manifestazioni contro la guerra nel Golfo, dall’andamento degli studi al lavoro a Radio Popolare, e soprattutto sapevano della trasmissione Radio Shaabi, in lingua araba. Non mancavano riferimenti alle frequentazioni di amici e fidanzate, con trascrizione dei loro nomi, in arabo, un po’ storpiati. Mi rendevo conto che parlando e discutendo non avrei aggiunto nulla alle loro conoscenze. Il gioco era ormai a carte scoperte, esplicito. Ho ripetutamente declinato ogni offerta, ma il mio interlocutore non desisteva. Elogi lusinghieri, «il paese ha bisogno dei suoi figli migliori», si alternavano con cupe prospettive, «perdere il comodo lavoro di giornalista, per di più in una bella città come Milano, sarebbe un vero peccato!». La confidenza era diventata tale, che i nostri dialoghi avevano assunto una dimensione culturale, non aspettata in un poliziotto, scoprendo passioni comuni per la poesia di Mahmoud Darwish e per il romanzo di Abdel-Rahman Munif Città di sale. Non so cosa fosse successo, ma a metà marzo mi riconsegnarono il passaporto. Quel giorno ebbi il coraggio di chiedere al colonnello Mustafa, del quale non ho mai saputo il cognome, una conferma delle notizie sull’uccisione dei detenuti nelle celle di Abu Selim. La sua risposta lapidaria, ma che per me suonò come una conferma indiretta, fu: «Se non lo sai, che giornalista sei?». Per otto lunghi anni questa frase mi ha ossessionato. Il tormento dei familiari dei detenuti era ancor più angoscioso e a volte drammatico. Le organizzazioni internazionali per la difesa dei diritti umani, allertate da quelle libiche all’estero e da alcuni coraggiosi familiari, non poterono ottenere nessuna risposta ufficiale. Le cancellerie voltarono la faccia e buona parte dell’informazione, che fa opinione a livello internazionale, si mise un cerotto sulla bocca. Non solo, ma la Libia di Gheddafi, dopo l’uscita dall’isolamento internazionale a suon di miliardi di dollari di indennizzi pagati alle famiglie delle vittime dell’attentato terroristico di Lockerbie, fu eletta, in rappresentanza dei paesi africani, alla testa dell’organismo Onu per i diritti umani con sede a Ginevra. Il 20 gennaio 2003, Najat Al-Hajjaji fu no-


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minata presidente della Commissione per i Diritti Umani, con trentatré voti a favore, soli tre contrari (Usa, Canada e Guatemala) e ben diciassette astenuti. Allora, il portavoce del ministro degli Esteri libico ringraziò «i paesi amici che ci hanno aiutato in questa vittoria che restituisce i diritti ai popoli oppressi»; e tra questi paesi citava Francia, Italia e Gran Bretagna. Nessun imbarazzo nelle cancellerie europee: qualcuno si nascose dietro il protocollo che prevedeva il candidato unico e che allora spettava al gruppo africano designare, ma non è mancato chi apprezzò il ruolo di Tripoli per la sua collaborazione nella lotta contro il terrorismo internazionale. Non era valsa a nulla l’opposizione delle organizzazioni libiche per i diritti umani, che inscenarono sit-in di protesta davanti alla sede ginevrina dell’Onu, in quel giorno d’inverno. Sono stati delusi anche da organizzazioni al di sopra di ogni sospetto, come Amnesty International, che prudentemente commentava, probabilmente per motivi di savoire faire, la decisione Onu introducendo un relativismo pericoloso nel campo del rispetto dei diritti umani, sostenendo in una dichiarazione di un alto dirigente di AI alla stampa che «è vero, i diritti umani in Libia non sono certo rispettati, ma anche gli Usa non hanno un curriculum da campioni in questo ambito. Il problema vero non è la Libia presidente della commissione: anzi, noi speriamo che questo serva a migliorare la situazione nel paese arabo africano». Ma gli auspici dell’esponente di Amnesty International non furono accolti dal governo di Tripoli e sulle vittime del carcere Abu Selim non era stato dato nessuno chiarimento che potesse rendere meno angosciante il dolore delle migliaia di genitori e parenti di detenuti che dei loro cari non sapevano nulla da anni. Sono state motivazioni politiche, invece, quelle che poi nel 2004 hanno portato alle prime ammissioni, da parte della famiglia Gheddafi, sulla gravissima strage del 29 giugno 1996. In un discorso dell’aprile 2004, lo stesso colonnello Muammar Gheddafi ha informato del massacro, sostenendo che le guardie avevano dovuto sparare per mantenere l’ordine. In quella fase, il regime libico era impegnato nel crearsi un’immagine pulita da primo della classe di fronte alle potenze occidentali, in seguito all’invasione anglostatunitense dell’Iraq e alla cattura di Saddam Hussein. Per la paura di trovarsi nel mirino della superpotenza americana guidata con virulenza dai neocon, il colonnello libico aveva voluto scrollarsi di dosso la patente reaganiana di «paese canaglia», svelando i propri programmi


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di armamenti nucleari, chimici e batteriologici, consegnando il materiale stoccato e aprendo gli arsenali, i laboratori e gli istituti di ricerca al controllo internazionale e specificatamente alla Cia. Una mossa che fu accolta a braccia aperte dall’amministrazione Bush Jr. perché avvalorava «la validità e la lungimiranza della guerra preventiva», come dichiarava la stessa segretario di Stato Usa, Condoleezza Rice. In un gioco delle parti ben costruito, il figlio prediletto e designato allora a ricevere l’eredità politica di Gheddafi, Seif Islam, mise in moto un meccanismo per tirarsi fuori dall’impasse di Abu Selim. Si doveva ammettere la strage, sminuirne il significato politico, bilanciare le responsabilità e depenalizzare il reato compiuto dai secondini e dai reparti di sicurezza. Questo piano passava per la trattativa separata e diretta con ogni famiglia, e offriva un indennizzo in cambio della firma di una totale e completa liberatoria. Un piano che contava, per garantirsi il successo, sulla necessità e sulla paura. La necessità materiale di famiglie che avevano perso il capofamiglia, unica fonte di reddito, e che da anni vivevano nell’indigenza, contando principalmente sull’aiuto dei parenti e sulla silenziosa e sotterranea azione di solidarietà sociale dei vicini di casa oppure di uomini di buona volontà organizzati clandestinamente attorno ad alcuni coraggiosi imam di moschea. Numerose testimonianze di questa splendida pagina di solidarietà umana mi sono state raccontate, in una forma che ha voluto assolutamente mantenere l’anonimato, anche di recente dopo la caduta del regime, perché – mi dicevano i protagonisti – «l’abbiamo fatto per incontrare, domani (nell’Aldilà), il viso di Dio sorridente». Affermazione che dà pienamente il senso dell’attaccamento del libico medio alla sua fede, anche in campo sociale. Il piano di uscita che voleva salvare capra e cavoli era stato affidato alla Fondazione Gheddafi, guidata da Seif Islam e che annoverava nel suo Consiglio d’amministrazione, anche se non in ruolo operativo, politici internazionali come l’ex premier e ministro degli Esteri italiano, Giulio Andreotti, uomini dell’entourage del premier britannico Blair, professori di prestigiose università internazionali ed esponenti dell’allora opposizione islamica libica ridotta al servilismo, come Ali Sallabi. Personaggi che, certamente, non avevano nessuna responsabilità operativa, né nella vicenda drammatica in sé, né nella gestione dell’operazione di chirurgia plastica per abbellire l’immagine del regime oppressivo e stragista.


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Nell’annunciare il suo piano pomposamente chiamato Libya AlGhad (Libia Domani), Seif Islam Gheddafi aveva messo in campo una serie di paletti, chiamati «linee rosse», che nessuno poteva travalicare: «Allah e Islam, sicurezza e stabilità della Libia, unità del paese e… Muammar Gheddafi». Nel quadro di questo piano strategico, che se fosse stato realizzato in tempo avrebbe salvato il regime della famiglia, si prevedevano una costituzione, libertà individuali, liberalizzazioni economiche, uno spazio di espressione politica, ma non la formazione di partiti (anche se non veniva dichiarato esplicitamente) e soprattutto una cornice per il Dialogo libico, una camera di compensazione per trovare soluzioni alle problematiche insolute accumulate nei decenni di potere incontrastato e incontrollato di suo padre, un potere che è stato mantenuto con una pratica che usava il bastone e la carota: la ricchezza petrolifera per comperare le coscienze, e la repressione criminale per piegare e tagliare le gambe a chi non si arrendeva. Nel quadro di questo fantomatico Dialogo libico si inseriva la vicenda delle vittime di Abu Selim. I Gheddafi, padre e figlio, hanno ammesso il crimine e la sua vasta portata. Seif Islam ha parlato di 1271 detenuti uccisi. Alle famiglie furono recapitate comunicazioni di morte che non riportavano né data, né luogo di sepoltura. Gli agenti dei servizi che provvedevano alla consegna intimarono alle famiglie di non rendere note pubblicamente le comunicazioni e che queste servivano soltanto per la procedura di definizione degli indennizzi. Un baratto condizionato dal ricatto. Per dare credibilità all’operazione si organizzarono incontri, dibattiti e convegni. Si voleva risolvere la questione cancellando il passato e le colpe degli aguzzini, di chi aveva dato l’ordine e di chi si era assunto la responsabilità politica della gravissima strage. Infatti, non è stato reso pubblico nessun nome dei responsabili dei servizi segreti che hanno predisposto l’operazione repressiva. Si pretendeva un totale perdono per gli assassini. La serie di incontri pubblici (che all’inizio venivano trasmessi in diretta tv) è stata bloccata quando molti parenti hanno preso coraggiosamente il microfono e hanno pronunciato due parole magiche: «verità e giustizia». Molte famiglie, costrette dal bisogno, hanno accettato l’indennizzo valutato da una commissione unilaterale, designata dalla Fondazione, in


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centoventimila dinari per i celibi e centoquarantamila per i coniugati. Cifre irrisorie, tenendo conto del cambio di valuta nel mercato interno libero e soprattutto in paragone agli indennizzi che lo Stato libico aveva pagato ai familiari delle vittime degli attentati terroristici nei quali erano state riconosciute responsabilità dei servizi di Gheddafi (dieci milioni di dollari per ciascuna vittima). Ma la maggioranza delle famiglie ha detto no e ha avanzato una serie di rivendicazioni: l’assunzione della piena responsabilità da parte del potere politico e degli organi dello Stato che hanno predisposto e messo in atto quel crimine; rendere pubblico il nome degli esecutori materiali della strage; mettere sotto processo, davanti a una corte indipendente, tutti i responsabili e portare avanti una trattativa collettiva con i familiari, in presenza di un giudice terzo, per definire l’importo e le modalità dell’indennizzo. Per rafforzare le loro rivendicazioni, queste famiglie si sono riunite in comitati locali e hanno dato mandato a un giovane avvocato, Fathi Terbil, che poi diventerà uno dei principali protagonisti della Primavera libica, per sporgere denuncia giudiziaria presso la procura generale della Jamahiriya. Una mossa azzardata, perché era noto che i margini di autonomia del potere giudiziario in Libia erano minimi e che in quarant’anni di dittatura non c’erano stati processi per crimini politici che avessero portato all’assoluzione degli innocenti. Molti giudici corrotti, per paura o per peculato, hanno emesso, per lunghi anni della loro carriera, sentenze di condanne suggerite dalle veline recapitate dal capo dei servizi di sicurezza di turno. Più per la necessità di rispondere agli appelli internazionali degli organismi di difesa dei diritti umani, con Amnesty International in testa, quella volta un giusto processo c’è stato. La magistratura libica ha dato ragione ai familiari ricorrenti. La sentenza è stata però anche questa volta «politica». Faceva parte di quella pantomima messa in scena per creare un clima che sembrasse di lotta tra «il giovane rinnovatore» e «la vecchia guardia» conservatrice arroccata al potere. Un braccio di ferro solo di facciata, che nella realtà dei fatti non esisteva. La sentenza infatti non ha trovato mai un braccio esecutivo. Una delle trovate geniali per far avanzare il piano di Dialogo libico nella questione Abu Selim è stata la formazione di una commissione d’inchiesta, affidata a un giudice monocratico designato guarda caso dallo stesso Seif Islam (presumibilmente con il tacito e sotterraneo consenso del padre).


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Mentre l’enfant prodige si esercitava con queste trovate propagandistiche, pubblicizzate al massimo dalla sua stampa, il rullo compressore dei servizi di sicurezza provava a distruggere la volontà di resistenza dei familiari con arresti, visite notturne e minacce, velate ed esplicite. Un giornalista coraggioso, che aveva sfruttato quel minuscolo spazio di libertà di stampa concesso su Internet, fu ferito in pubblico. Un avvocato è stato condotto in commissariato nel cuore della notte e tenuto sotto interrogatorio per quarantott’ore. Interveniva poi, bontà sua, Seif Islam Gheddafi e tutto si risolveva. L’avvocato veniva liberato con annesse scuse di chi lo aveva praticamente torturato e il giornalista veniva visitato in ospedale dal rampollo di famiglia che, in cerca di una perenne presenza in video, gli esprimeva solidarietà. Il danno e la beffa. Molti di coloro che avevano aderito ingenuamente al progetto Libya Al-Ghad si sono ricreduti, dopo il passare degli anni senza vedere né uno straccio di Costituzione, né il ristabilimento di regole certe per la definizione di diritti civili, politici e sociali. L’impasse del movimento dei familiari delle vittime di Abu Selim ha trovato un suo sbocco fuori da quello schema truffaldino. È stato escogitato un metodo di lotta pacifista e nonviolenta per dare visibilità alle loro rivendicazioni e per spezzare l’isolamento al quale erano stati ridotti: sono stati organizzati sit-in silenziosi, con le foto dei loro cari assassinati e con cartelli di protesta, di fronte alle sedi del potere. Per la Libia non era una consuetudine vedere manifestazioni di strada contro il governo. Dall’inizio del 2008, ogni sabato a Bengasi un gruppo di familiari si riuniva davanti alla Questura, di fronte al Tribunale oppure nei pressi della sede dell’Ufficio popolare libico, sede del governo. In silenzio, i partecipanti portavano cartelli scritti soltanto in arabo con slogan che non lasciavano dubbi sulla loro determinazione: vogliamo verità e giustizia! dove sono finiti i nostri figli, fratelli o mariti? chi sono gli assassini?. Sono principalmente donne, per evitare le manganellate della polizia; alcune con il foulard sulla testa, altre con i capelli al vento. Tutte accomunate da un fatto: essere mamme, mogli, sorelle o figlie di detenuti scomparsi dal carcere Abu Selim, vicino a Tripoli, nel lontano giugno 1996. Le notizie di questi sit-in di protesta non sono apparse su alcun gior-


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nale libico governativo, ma soltanto sul quotidiano indipendente Libya Alyoum. Il quotidiano ha intervistato alcuni parenti. Un padre piange il figlio scomparso nel 1995 e del quale non ha saputo più nulla. «Quante volte mi sono recato a Tripoli, ma non sono mai riuscito a incontrarlo. Mi dicevano che stava bene, ma non era giunto il momento del permesso per le visite. Soltanto nel 2007 mi hanno comunicato il suo certificato di morte, senza data e senza luogo del decesso. Voglio sapere chi ha ucciso mio figlio e quale condanna subirà. Non vendo il mio silenzio sui crimini dello Stato» ha detto Hajj Taleb Yunis. Un’altra giovane donna racconta che suo marito non ha mai visto suo figlio, che al momento della protesta aveva tredici anni. «Abbiamo saputo soltanto qualche mese fa che mio marito è morto» dice stringendo il figlio al petto. Un’anziana signora dice che per dieci anni è andata ogni mese al carcere Abu Selim (distante da Bengasi oltre mille chilometri) per portare al figlio cibo e vestiario che lasciava alle guardie. «Storie strazianti» scriveva Libya Alyom «che richiedono una risposta civile, per salvaguardare il paese da future violenze». Parole profetiche. L’avvocato Fathi Terbil, che assisteva le famiglie in questa loro causa contro lo Stato libico, ha confermato più volte che: «I servizi segreti hanno offerto a ogni famiglia risarcimenti irrisori per chiudere i loro casi e rinunciare a ogni rivendicazione. Alcune famiglie hanno accettato, più per bisogno, ma la maggioranza si è opposta». L’avvocato Terbil, dopo la prima manifestazione, è stato convocato nella sede dei servizi di sicurezza e, dopo due giorni di interrogatorio, è stato rilasciato. All’inizio non erano in tanti questi coraggiosi familiari: una cinquantina il primo sabato, ma poi via via il loro numero è andato crescendo e la cosa ha cominciato a preoccupare la polizia segreta. Non è tardata la risposta intimidatoria. Nel luglio 2009, la casa della famiglia SwueidanMsheity (avevano due figli detenuti ad Abu Selim) è stata perquisita all’alba del giorno dopo uno dei numerosi sit-in riusciti, e due giovani della famiglia sono stati fermati per dodici ore e sono stati rilasciati soltanto dopo l’intervento di una delegazione di notabili della città. Il governo centrale, da Tripoli, ha nominato un negoziatore, il dottor Faez Bujwary, per evitare il fallimento della mediazione in corso e per tentare di chiudere i dossier della carneficina di Abu Selim entro il mese di agosto, prima del quarantesimo anniversario della rivoluzione gheddafiana, il colpo di Sta-


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to che il 1° settembre 1969 destituì la monarchia senussita e portò al potere i militari. La vicenda del carcere Abu Selim risale al 29 giugno 1996, quando reparti speciali della sicurezza soffocarono nel sangue una manifestazione di protesta dei detenuti (in maggioranza islamisti) uccidendo, in una sola giornata, oltre milleduecento persone. Dalle testimonianze raccolte, un dato è assodato senza alcun dubbio: i detenuti accettarono di ritornare in cella, dietro la promessa di un miglioramento delle razioni di cibo e la garanzia di cure mediche all’altezza dei bisogni reali, invece di pastiglie uguali per tutte le malattie. La strage è stata compiuta dopo la resa dei detenuti e il loro ritorno nelle celle. I secondini affiancati dalle truppe speciali hanno sparato con mitra contro i prigionieri rinchiusi e indifesi. Un terrore durato tre ore. Per otto anni il governo ha mantenuto il silenzio, poi nel 2004 sono cominciate ad arrivare le prime ammissioni, in seguito all’assunzione da parte libica della guida della Commissione per i Diritti Umani e dopo la rinuncia del regime al programma degli armamenti nucleari e chimici. Nel biennio 2006-2007, a circa seicento famiglie sono stati notificati, in fasi diverse, certificati di morte dei loro parenti ex detenuti. Nel 2008 i familiari si sono rivolti alla magistratura libica per rivendicare il diritto di sapere la sorte dei loro cari e hanno vinto la causa. Ma i servizi di sicurezza non hanno mai ottemperato alla sentenza. Con la mediazione della Fondazione Gheddafi, guidata dal figlio, Seif Islam, allora disegnato alla successione del padre, è stata avviata una trattativa per mettere fine alla vicenda con vari indennizzi. Ma con l’allontanamento volontario di Seif Islam a Londra, i servizi segreti sono tornati alle minacce e al ricatto, sfruttando anche il bisogno di molte famiglie povere. Ma questi mezzi repressivi non funzionavano più, anche in una società che per quaranta anni aveva vissuto sotto una dura repressione del dissenso. All’inizio del 2010, le manifestazioni si sono rinnovate e rinvigorite. Ecco il resoconto pubblicato su un sito dell’opposizione all’estero: «I partecipanti non si sono limitati al sit-in davanti al Tribunale, ma si sono mossi in una manifestazione che ha percorso il centro di Bengasi, con slogan ritmati e poesie in dialetto che chiedevano un processo e una giusta punizione per i seviziatori del carcere Abu Selim. Un even-


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to inaudito mai successo nella Libia di Gheddafi». L’avvocato Terbil ha affermato che non ci sarà nessuna trattativa sugli indennizzi prima di una chiara risposta del governo sulle rivendicazioni dei familiari: come sono andati veramente i fatti di sangue, la restituzione dei corpi o l’indicazione del luogo di sepoltura, chi sono i responsabili e l’avvio di un processo penale e civile. Sul caso Abu Selim si sono mosse molte organizzazioni umanitarie libiche (di residenti all’estero) e internazionali. Sul tema si sono distinte in particolare le organizzazioni di esuli libici residenti a Londra, Berlino e Ginevra… e per il 31 agosto 2010, a Berlino, Amnesty International ha indetto un sit-in davanti all’ambasciata libica per chiedere una commissione internazionale di indagine. In Svizzera, il 1° agosto, il quotidiano Libya Alyoum ha organizzato un convegno dal titolo eufemisticamente allusivo: «Le sparizioni coercitive di Abu Selim», con la partecipazione di esperti del diritto, familiari degli scomparsi ed esponenti delle organizzazioni umanitarie. Secondo l’avvocato libico residente in Germania Sharef Gheriany gli indennizzi non potevano essere minori di quelli pagati per i cittadini europei e statunitensi assassinati a Lockerbie. Parallelamente a questi sviluppi, si sono registrati anche passi avanti nella trattativa tra il governo, nella veste della Fondazione Gheddafi, e i detenuti di Abu Selim, appartenenti al Gruppo islamico combattente (Gic). La trattativa serviva per garantire un clima di riconciliazione tra la famiglia regnante in Libia, i Gheddafi e i gruppi islamici che di fatto hanno rappresentato l’opposizione più organizzata negli anni passati. Quella trattativa ha portato alla dissociazione dalla lotta armata di un folto gruppo di dirigenti e militanti del Gic in cambio della liberazione. Alla vigilia dei festeggiamenti per il quarantesimo del colpo di Stato, il mediatore Ali Salabi (ex membro del Gic libico), ha consegnato uno studio teologico preparato dai detenuti islamisti intitolato: «Studio di rettifica sui concetti di Jihad». Una dissociazione che è stata premiata con la liberazione, nel gennaio 2010, di circa centotrentasei ex jihadisti libici, molti dei quali reduci dall’Afghanistan. Il 16 febbraio 2011 un altro gruppo di detenuti islamisti è stato liberato, nell’inutile tentativo di calmare le piazze, con la rivoluzione già in corso. La lotta delle famiglie dei detenuti è stata la scintilla che ha infiamma-


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to la Libia nel 2011. La caduta del velo della paura, dopo le vittorie delle rivoluzioni in Tunisia ed Egitto, definite dalla stampa internazionale Primavere arabe, ha incoraggiato l’opposizione libica all’estero a organizzare una giornata di protesta contro i quarantadue anni di dittatura. Il grido delle masse tunisine ed egiziane «il popolo vuole la cacciata del presidente» è diventato un jingle di tutte le piazze arabe. Il giorno prescelto era il 17 febbraio, quinto anniversario della repressione e dell’uccisione dei manifestanti, avvenute a Bengasi davanti al Consolato italiano: nel 2006 erano scesi in piazza per protestare contro l’apparizione in tv del ministro italiano, il leghista Roberto Calderoli, con una maglietta raffigurante una delle cosiddette «vignette sataniche» anti-Maometto. In quell’occasione, le forze di sicurezza libiche usarono la mano pesante uccidendo undici manifestanti. Nella quinta ricorrenza di quella strage è stata indetta quella che doveva essere una prova di forza, per misurare la capacità di reazione della popolazione libica al vento del cambiamento che scuoteva la regione. Alla vigilia della mobilitazione, le forze dell’opposizione in esilio hanno lanciato un appello per la fine del regime e le dimissioni di Gheddafi e dei suoi parenti. «Noi firmatari – organizzazioni politiche, organismi per i diritti umani e personalità indipendenti libiche […] – mentre seguiamo con interesse le notizie delle rivoluzioni dei popoli arabi vicini, Tunisia, Egitto e altri paesi, che hanno messo fine alle dittature […] vogliamo partecipare a delineare per il nostro paese un futuro nel quale sia affermato il diritto alla libertà d’espressione con mezzi pacifici […] vogliamo che questo cambiamento ineluttabile sia civile e che elevi il nostro popolo a migliori condizioni sociali e che metta fine alla discordia.» Il documento è stato firmato da esponenti dell’opposizione all’estero e attivisti degli organismi dei diritti umani libici, oltre che da intellettuali e professionisti residenti negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, Francia, Germania e Olanda, ma anche nei paesi arabi. Dal dibattito intercorso sui siti dell’opposizione ho avuto la percezione che molti firmatari di quell’appello del gennaio 2011 non credessero affatto nella riuscita dell’azione. Ma quella loro percezione si è rivelata sbagliata. L’incalzare delle manifestazioni del Cairo e le dimissioni del presidente egiziano Hosni Mubarak hanno infuso coraggio in migliaia di giovani libici. Le manifestazioni in Libia non hanno avuto la portata


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di quelle gigantesche del Cairo, ma i libici hanno squarciato il velo della paura. Le forze di sicurezza del regime avevano, invece, compreso in tempo il rischio che stavano correndo e hanno deciso di agire in contropiede. Un documento della centrale della polizia politica, diramato da Tripoli e reperito nel commissariato di Bengasi dopo la sua occupazione da parte dei manifestanti, dava conto dei timori dei servizi segreti. Il 15 febbraio 2011, due giorni prima della data prestabilita, la polizia ha arrestato l’avvocato Fathi Terbil, difensore delle famiglie di Abu Selim, per chiedergli di annullare le manifestazioni. Richiesta che il giovane avvocato non era nelle condizioni di soddisfare, semplicemente perché non era lui l’organizzatore di quelle mobilitazioni. La stessa sera del suo arresto sono partite in anticipo le manifestazioni per chiedere la sua liberazione. La Giornata della collera, indetta per il quinto anniversario della strage di Bengasi, il 17 febbraio 2011, ha visto molte manifestazioni in tutto il paese. A Tripoli i Comitati rivoluzionari, il partito unico di Gheddafi, hanno organizzato contromanifestazioni. Migliaia di studenti sono stati condotti contro la loro volontà nelle strade di Tripoli con gigantografie del leader libico e guidati da militanti dei Comitati vestiti con un’uniforme verde, ritmando slogan contro le emittenti satellitari e contro quelli che loro definivano «agenti dello straniero». Per la tv di Stato le uniche manifestazioni avvenute quel giorno inneggiavano al regime. Nessuna notizia né sugli scontri, né sulle vittime. Bengasi, capoluogo della regione che una volta si chiamava Cirenaica, è stata il centro della protesta. A manifestare sono scesi anche gli avvocati, con sit-in davanti al Tribunale per chiedere la liberazione dei mediattivisti arrestati. Per tutto il giorno, i manifestanti si sono scontrati con le forze dell’ordine, spalleggiate dai rivoluzionari gheddafiani e dai mercenari. Una delle tecniche sperimentate nel paese è quella a opera dei pro-Gheddafi di provocare il dissenso. Un documento dei servizi di sicurezza, firmato dal generale Hassan Abdelsalam Al Khudairy, capo del Dipartimento di Sicurezza nazionale, impartiva ordini in tal senso. Al punto 6 infatti si leggeva: «Scegliere gruppi di giovani fidati che abbiano influenze nei quartieri: cinquanta elementi esterni alle forze di polizia


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per ogni commissariato». Come deterrente per sconsigliare alla gente di partecipare alle manifestazioni, la società di telefonia mobile Libyana ha mandato sms agli abbonati per metterli in guardia dal trasgredire: «Non superare le quattro linee rosse». Il riferimento è alle già citate quattro linee rosse delineate da Seif Islam Gheddafi. Malgrado questo, la gente è scesa in piazza, in tutto il paese. La scintilla dei moti, prima pacifici e che in reazione alla violenza spietata del regime si sono trasformati poi in lotta armata, è stata data proprio da quel coraggioso gruppo di familiari delle vittime di Abu Selim. Contro tutte le teorie del complotto che sarebbe stato ordito dalle superpotenze internazionali, teorie caldeggiate da molte parti interessate.


1. La caduta del velo della paura

In ogni città araba liberata si dovrebbe fare un monumento a Mohamed Abu Azizi, il giovane avvocato tunisino, di mestiere venditore ambulante, del villaggio di Sidi Bouzid, che si è dato fuoco dopo che la polizia gli ha sequestrato la mercanzia. Mohamed è il simbolo della disperazione della gioventù araba vittima della corruzione e delle sbagliate scelte economiche liberiste delle classi dirigenti, politiche e imprenditoriali dei paesi arabi. Il suo disperato gesto è stato la dimostrazione concreta, in campo sociale, della non linearità dei sistemi complessi, il cosiddetto butterfly effect del fisico Edward Lorenz. I dieci giorni che hanno sconvolto la Tunisia (dal 4 gennaio 2011, giorno della morte del giovane Mohamed, al 14 gennaio 2011, giorno della fuga del presidente tunisino Ben Ali) hanno portato in tutto il mondo arabo una nuova aria, un «vento della rivoluzione e della speranza», che sta spazzando via, una dopo l’altra, le cariatidi dei vari poteri dittatoriali. L’esperienza tunisina si è collocata su un percorso in crescendo di mobilitazioni e rivendicazioni mirate, grazie alla presenza di un’opposizione democratica, di sinistra e islamista, determinata e organizzata, e grazie anche al radicamento sociale del sindacato. L’apparente neutralità degli alti gradi dell’esercito, già marginalizzati dal clan benalista, ha dato respiro alla protesta popolare che, malgrado la repressione, non è stata soffocata. L’epilogo della vicenda tunisina è stato reso possibile dalle divergenti opzioni delle potenze internazionali, Stati Uniti e Francia in primis. No-


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nostante la sua presenza massiccia in termini di investimenti, l’Italia ha contato poco nel disegnare la svolta, per via del sodalizio tra Silvio Berlusconi e Ben Ali, e della brutta figura provocata dalle dichiarazioni del ministro Franco Frattini: l’elogio al dittatore poco prima della sua fuga. Molte altre realtà arabe si sono incamminate lungo questo percorso. Oltre all’Egitto anche Algeria, Yemen, Giordania, Sudan, Libia, Marocco, Siria, Bahrein hanno mostrato e mostrano condizioni simili, e hanno vissuto mobilitazioni popolari di una certa importanza. In Giordania è stato cambiato più di una volta in pochi mesi il governo; in Yemen si è proceduto a una riforma costituzionale che dovrebbe impedire la trasmissione ereditaria del potere e il presidente Ali Abdullah Saleh, dopo lunghi mesi di abbarbicamento alla poltrona, sostenuto dalle monarchie del Golfo, ha dovuto mollare i remi con la garanzia di una immunità totale per lui e politica per i suoi. In tutti i paesi della regione sono stati avviati, da parte dei vari governi, provvedimenti a sostegno di salari e stipendi, mirati a ridurre l’inflazione e ad attenuare, anche se soltanto momentaneamente, i disagi di una popolazione sempre più povera e senza prospettive. La situazione egiziana si presenta tra le più complesse, anche se molte sono le somiglianze con quella tunisina: povertà, dittatura e corruzione. L’Egitto ha una posizione strategica e una storia peculiari, oltre al peso demografico dei suoi quasi ottantacinque milioni di abitanti; è il baricentro della politica mediorientale e il centro principale della cultura che lega tutti i parlanti di lingua araba, senza voler sminuire le peculiarità delle altre realtà nazionali. Il Cairo dà la direzione al processo in corso e il grado di riuscita della sollevazione egiziana sarà fondamentale per misurare quello delle altre rivoluzioni. In Egitto la miccia della rivoluzione è stata accesa da un gruppo di giovani delle classi medie, culturalmente preparati e fortemente impegnati nei nuovi mezzi di comunicazione: il loro movimento è nato con una pagina di Facebook. L’orientamento della maggior parte di questi giovani è genericamente liberal o di sinistra (appartengono a Giovani per il Cambiamento, Kefaya, Giovani 6 Aprile, Kulluna Khaled Said); non hanno un programma politico o una struttura organizzativa ben definita; alcuni sono legati alle lotte operaie e hanno riferimenti chiari al socialismo; quelli vicini alla fede islamica non hanno nessun legame con i


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fondamentalisti Fratelli musulmani, ma sono portatori di idee illuminate e laiche. La spontaneità del movimento non ha impedito, dopo i primi giorni di smarrimento dinanzi all’inaspettata grande risposta di popolo, la formazione di un coordinamento allo scopo di definire obiettivi che andassero oltre la richiesta di democrazia politica e diritti civili, nonché i mezzi per realizzarli. Un’organizzazione inizialmente rudimentale che ha permesso al potere, nella prima fase, di escludere questi giovani dal dialogo trattando invece con i partiti legali (il liberale Wafd e Tagammu, di sinistra) e con i Fratelli musulmani, non riconosciuti ufficialmente. Le parole d’ordine della prima manifestazione, quella del 25 gennaio 2011 – democrazia, libertà e giustizia sociale – si sono così trasformate in richieste chiare, concrete e immediate: l’abdicazione di Mubarak e la fine del regime, processi per i crimini e la restituzione al popolo del maltolto dalla corruzione. È questa posizione che ha portato dapprima al fallimento del tentativo di mediazione tra il regime e i partiti tradizionali, e poi alla cacciata di Mubarak. La dura repressione, che ha portato alla morte di circa trecento persone inermi e a oltre mille arresti nel solo primo giorno di mobilitazione, ha scosso le basi del potere e portato al collasso le famigerate forze di sicurezza, un apparato di trecentocinquantamila agenti aventi la massima libertà di azione repressiva, anche quella di uccidere sotto tortura in commissariato (come era avvenuto ad Alessandria d’Egitto al giovane Khaled Said, il 7 giugno 2010). Il tentativo di un giro di vite contro l’informazione (con gli arresti di giornalisti stranieri, l’oscuramento delle tv satellitari, la chiusura di Internet e delle reti di telefonia cellulare) e l’uso dei baltajieh (sicari privati) contro i manifestanti hanno dimostrato la debolezza del regime e lo hanno ampiamente screditato di fronte alla gente semplice come alle diplomazie internazionali. Le immagini atroci delle esecuzioni in piazza da parte della polizia hanno tolto ogni fiducia nelle promesse di «cambiamento nella continuità». Il tappo è saltato e l’onda della protesta è diventata incontenibile. È stato così subito scardinato il sistema ereditario che la famiglia Mubarak aveva sapientemente congegnato e che doveva portare a «eleggere» il figlio Jamal a successore del vecchio e malato «monarca». Il ruolo dell’esercito è stato determinante nell’evitare che il Venerdì della collera (28 gennaio 2011) finisse in un bagno di sangue. Ma non è


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stata un’azione gratuita. Gli alti gradi dell’esercito non avevano mai caldeggiato la successione del figlio Jamal Mubarak e lo avevano detto chiaramente al padre, chiedendo a lui di presentarsi alle elezioni allora programmate per l’autunno 2011, nonostante l’avanzata età (ottantaquattro anni portati male). Lo scenario che si presentava il 28 gennaio era quello di uno scardinamento totale dello Stato, con forti pericoli di derive di tipo iracheno: una minaccia alla sicurezza nazionale e, di conseguenza, la perdita dei privilegi riservati alla gerarchia militare, garantiti dagli aiuti statunitensi. Per contenere la rivolta sono stati messi in atto piani elaborati in lunghe telefonate tra Washington, Tel Aviv, Riad e Il Cairo. Il minimo dei cedimenti con il massimo della disponibilità verbale. Mentre le diplomazie internazionali si riempivano la bocca di parole come democrazia e passaggio ordinato dei poteri, Israele forniva alla polizia egiziana, secondo attendibili rivelazioni della stampa indipendente del Cairo, moderne armi con sistema di puntamento laser per gli omicidi mirati e raccomandava ai suoi diplomatici di spiegare ai governi che contano l’importanza di Mubarak, per la «pax israeliana» in Medio Oriente. L’Arabia Saudita avvisava gli Usa che, in caso di blocco degli aiuti militari all’Egitto, il regno avrebbe provveduto a compensarli. Per salvare il monarca sono stati evocati impegni internazionali (gli accordi di Camp David) e la necessità di contenimento dell’Iran. Tutti pretesti che non avevano messo in conto le sofferenze di ottantacinque milioni di egiziani che, malgrado le potenzialità del paese, vivevano in grandi difficoltà e senza speranze, e soprattutto non era stata presa in considerazione la determinazione della gioventù egiziana a non continuare a subire. La caduta di Mubarak si è resa possibile quando gli alti comandi militari, suoi compagni d’armi e suoi complici in tutte le nefandezze tra corruzione e privilegi, si sono accorti che l’arroganza del loro presidente li avrebbe portati al bivio, insostenibile, tra l’uso della forza contro le masse, provocando stragi e infangando il buon nome dell’esercito nazionale, e il rimanere travolti e perdere ogni privilegio. La rivoluzione egiziana, anche se è scoppiata in forme spontanee, ha le sue radici nella povertà dilagante. Secondo il settimanale di sinistra Al Ahali cento famiglie egiziane detengono il 90% della ricchezza del paese. I trent’anni di liberismo sotto Mubarak sono stati anni di rapina delle risorse statali. La ricchezza della sola famiglia Mubarak è valutata dall’organo


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del Wafd in 275 miliardi di sterline egiziane (che sono cinquanta miliardi di dollari): frutto di commissioni sulle armi e di operazioni immobiliari e turistiche. Malgrado il tasso di sviluppo del Pil nel 2009 e nel 2010 sia stato del 4,7 e del 5,3%, nel paese rimangono oltre ventuno milioni di disoccupati (un quarto della popolazione). Nel solo 2010 il prezzo del pane, principale alimento della popolazione, è balzato da cinque piastre a venti (+ 300%). La repressione politica, la soppressione delle libertà di parola e di organizzazione, le violazioni dei diritti umani si sono unite alla povertà diffusa e all’allargamento della forbice tra la condizione dei pochi grandi ricchi e quella di grandi masse ridotte alla fame. Il crescendo di mobilitazioni di piazza, avvenuto in tutto il paese, raggiungendo anche i piccoli centri e le zone rurali, ha portato al coinvolgimento dei lavoratori, che dopo la prima settimana si sono uniti al movimento con scioperi e blocchi stradali. Questo sviluppo ha rappresentato un salto di qualità: ha dato al movimento anche un carattere di classe, fecondo di importanti prospettive. Anzi già subito dopo la caduta del monarca le rivendicazioni dei lavoratori hanno registrato una maggiore determinazione, nella consapevolezza del cambio di registro da parte del potere. La scoperta delle dimensioni spropositate della ricchezza accumulata dalla cricca capeggiata dal presidente e dal figlio ha portato tutti a vedere il re nudo. Soltanto se si riuscirà a unire la lotta per la democrazia e le rivendicazioni dei lavoratori e degli strati poveri della popolazione, e a far tornare i militari alle loro caserme potrà aprirsi un reale orizzonte di cambiamento. Il vulcano sul quale erano seduti Mubarak e Ben Ali, a garanzia della stabilità degli interessi dei paesi industrializzati in Medio Oriente e nella zona del Golfo, è ancora in piena eruzione. A metà dicembre 2010, tutto questo non era previsto né dalle analisi specialistiche né dalle centrali dell’intelligence, malgrado i dati disponibili sulla situazione economica e occupazionale, sulla profonda corruzione che lacerava quelle società e sulla soppressione di ogni forma di libertà sostanziale. Tre elementi che i ripetuti rapporti degli organismi Onu sullo sviluppo hanno sviscerato e reso espliciti a chiunque, indicando anche alcune soluzioni a lungo termine per evitare il collasso. Nessun politico lungimirante si è accorto del baratro verso il quale stava andando tutto il sistema marcio di questi regimi. Tutti hanno contato sull’ancestrale disposizione delle masse arabe alla ras-


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segnazione e alla sottomissione al potere costituito. A nessuno è balenato nella mente il dubbio che la pazienza della gente potesse esaurirsi. Si deve dare il merito all’attuale presidente tunisino Moncef Marzouki di aver preconizzato, in un confronto televisivo, nella primavera del 2010 e cioè un anno prima delle rivolte in corso, la caduta di questi regimi per mano di una spallata popolare. «La gente non ce la fa più. Questi regimi finiranno nella pattumiera della Storia!» aveva gridato in faccia al suo interlocutore, uno squallido giornalista fanatico di Ben Ali. Ci si chiede il perché di questo sviluppo straordinario proprio in questa fase. Molti hanno enfatizzato il ruolo di Internet e dei social network. Non sono d’accordo. Sicuramente la comunicazione diretta, spontanea e immediata che questi mezzi hanno offerto alle nuove generazioni ha avuto un ruolo nell’accelerare il processo, ma non è il fattore determinante. Da una parte perché gli strati sociali raggiunti da questi mezzi sono ancora numericamente marginali in tutti i paesi arabi (in Libia sono addirittura esigui) e dall’altra, poiché le rivoluzioni delle tante piazze Tahrir sono continuate anche nel momento delle ritorsioni dei regimi con l’oscuramento di Internet e il blocco delle comunicazioni della telefonia cellulare. Ricordo con simpatia un cartello di un manifestante egiziano con la scritta nassbook per dire che questa è la rivoluzione della gente (nass). Era caduto il muro della paura. La gente che era scesa in piazza in difesa della propria dignità non aveva nulla da perdere e aveva interiorizzato non solo che la misura era colma, ma anche che il potere tirannico si alimentava e traeva linfa dal silenzio di molti. Il punto di unione tra l’esperienza di piccole avanguardie organizzate e sperimentate in decenni di repressione e le larghe masse di diseredati è stato proprio questa consapevolezza, per dirla con le parole del grande timoniere non più ascoltato neanche nella sua Cina: il potere è una tigre di carta. La morte di Abu Azizi è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Dopo il 14 gennaio (Tunisia) e l’11 febbraio (Egitto) nulla sarà come prima, malgrado i risultati elettorali deludenti per i giovani che hanno avviato e organizzato la mobilitazione, sopraffatti alle urne da partiti collaudati da un’esperienza decennale e da disponibilità finanziarie e mezzi di comunicazione non indifferenti. «È la Democrazia, bellezza!»


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