La Dissoluta

Page 1

Alexandra Lapierre La Dissoluta Libertina, adultera, bigama. La duchessa di Kingston

Traduzione di Cinzia Poli



Alla temerarietà di Elizabeth Chudleigh che ebbe l’ardire di inventarsi il suo destino, come nessun romanziere avrebbe osato fare


Meglio essere troppo audaci che non esserlo abbastanza. Caterina ii, imperatrice di Russia


Sommario

Preludio. Cittadina del mondo

9

1721-1744. In barba a tutto! Da un fidanzato segreto a un marito nascosto

15

1744-1752. L’errore di gioventù

43

1752-1769. Il più bell’uomo d’Inghilterra

77

1769-1774. La duchessa bigama

139

1774-1776. Da duchessa a contessa o da Scilla a Cariddi

177

1777-1788. La libertà e il perdono

223

1788-1793. Il testamento

245



Preludio. Cittadina del mondo

Il suo nome, alla nascita, era Elizabeth Chudleigh. Di origine britannica, fece la sua comparsa in Russia nell’agosto 1777, all’età di cinquantasei anni. Arrivò a vele spiegate, a bordo del suo panfilo, un’imbarcazione grande come un vascello da guerra, di un lusso inaudito. Mai su nessun oceano si era vista veleggiare una nave simile. Soprattutto mai si era vista una nave simile a disposizione di una donna. Con impertinenza, l’aveva battezzata con il proprio nome, o meglio con il titolo e il nome che la legge inglese le vietava di portare. Si chiamava La duchessa di Kingston. La duchessa di Kingston – la proprietaria – arrivava da Calais. Appassionata di orticoltura, aveva solcato i mari con i suoi alberi e le sue piante ornamentali, i suoi semi esotici e il suo capo giardiniere, un paesaggista geniale che aveva disegnato i parchi dei suoi castelli nel Nottinghamshire. Navigava portandosi al seguito il cuoco francese, il cappellano anglicano e un prete cattolico… L’orchestra napoletana e il gruppo di suonatori di flauto irlandese… 9


Le quattro dame di compagnia, che lei, come ogni regina, chiamava le sue «dame d’onore»; le otto scimmie, i pappagalli e i cani. Si raccontava che alla sua tavola potesse ospitare fino a trenta persone. L’aveva ornata con enormi cartoni di arazzi, quattro scene di caccia provenienti dalla bottega di Rubens. L’organo, che si ergeva nella sala della musica, allietava le serate in mare. I dipinti del Rinascimento italiano, che ornavano la sala da ballo, distoglievano il suo sguardo dagli orizzonti infiniti. I busti romani e le statue antiche, che conducevano ai suoi appartamenti, davano la misura della sua gloria. Lei stessa riposava in un letto monumentale, drappeggiato di damasco rosso e coronato da piume. Vicino alla cabina si era fatta allestire un boudoir, una Galleria degli Specchi in miniatura… E inoltre un bagno con ritirata e vasca dorata, due accessori inusitati su un vascello. * L’imperatrice Caterina ii, sedotta da tanta audacia, divertita dal fascino, dal carattere e dalle ricchezze della viaggiatrice, l’accolse come un’amica. Mentre il principe Potëmkin, onnipotente ministro russo – che secondo le dicerie era il marito dell’imperatrice –, in occasione delle cerimonie ufficiali, faceva sedere la duchessa alla sua destra. E si intratteneva faccia a faccia con lei per discutere sull’organizzazione degli svaghi nella sua nuova tenuta di Ozerki. Alla duchessa di Kingston non mancava niente per affascinare Potëmkin. Emanava un profumo di lucro e lussuria che inebriava i sensi, stregava l’immaginazione e faceva battere il cuore agli uomini. ­10


Il principe Potëmkin e i suoi aiutanti di campo non furono i soli a lasciarsi sedurre. Il principe Radziwiłł, nobile polacco, organizzò magnifiche feste in onore della duchessa di Kingston, mise la sua fortuna ai piedi della donna e la supplicò di sposarlo. Dinnanzi a un simile successo, le grandi dame del Palazzo d’Inverno si interrogarono. Interpellarono i mariti. Incalzarono gli amanti: cosa trovavano di speciale in lei? I signori, imbarazzati, ricorsero alla stessa espressione, una perifrasi che non significava niente per le rivali della duchessa. Eppure tutti avevano scelto la parola che secondo loro riassumeva l’essenziale: «Il temperamento… Ella ha temperamento!». Perfino Casanova, che aveva incontrato Elizabeth Chudleigh nel suo splendido palazzo londinese e la trovò in seguito nelle sordide locande e nelle bische di Napoli, le riconosceva fegato da vendere, temerarietà ed estro. Nonostante i nobili natali – già damigella d’onore della principessa di Galles, discendeva fra gli altri da George Villiers, primo duca di Buckingham –, suscitava scandalo ovunque passasse. Un’avventuriera di alto rango. Una grande seduttrice. * In quello scorcio del xviii secolo, tutti gli ambasciatori di stanza in Russia, ma anche tutta l’aristocrazia di tutte le corti europee e l’alta società di tutto il mondo conoscevano di persona Sua Grazia, la duchessa di Kingston. Quattromila persone erano perfino andate ad assistere al suo processo. 11


Ciò era avvenuto appena un anno prima, nell’Inghilterra di re Giorgio iii. Allora la Camera dei Lord l’accusava di un crimine che avrebbe potuto costarle la vita. Rischiava l’impiccagione. Nella migliore delle ipotesi: il marchio a fuoco. Principesse russe, marchese francesi, contesse prussiane, baronesse belghe, tutte le sue «amiche» avevano attraversato la Manica per non perdersi lo spettacolo del secolo. L’udienza si teneva nella Westminster Hall, luogo in cui solo le più grandi figure della Storia erano state giudicate. E condannate… Il cancelliere Tommaso Moro. Gli amanti di Anna Bolena. Il re Carlo i. E Miss Chudleigh, duchessa di Kingston. Nove mesi dopo, cenava alla destra di Caterina ii e chiacchierava allegramente con Sua Maestà Imperiale, a testa alta, con la chioma adorna di smisurate penne di struzzo, il collo, le orecchie e i polsi inondati di perle e diamanti… Come era possibile? Era questa la domanda che tutte le donne sedute a quella tavola si ponevano, tutte senza eccezioni. Come era possibile, dopo una simile umiliazione? La contessa di N. – la più ingenua e la più caritatevole fra le curiose del gran mondo – nel suo diario scriveva: «Stanotte ho rivisto la duchessa di Kingston: la Corte e la Città parlano di lei, e tutte ci ricamano sopra. Probabilmente il rigore dei suoi costumi è molto discutibile e la decenza dei suoi princìpi molto opinabile. Non evocherò nemmeno la debolezza del suo discernimento. Ma forse il Cielo vuole che le persone dotate di facoltà superiori scontino in altro modo i loro privilegi? Comunque sia, la sua esistenza è una delle più romanzesche che si narrino. Quanto vorrei conoscere la verità su tutto ciò […]. Non ho mai incontrato nessuno con un’aria tanto aristocratica. ­12


Non rammento un saluto più nobile e grazioso della sua riverenza. Ha un portamento maestoso quasi come quello dell’imperatrice. Cammina come una dea. E pensare che le malelingue sostengono abbia sessanta primavere! Ne dimostra venti di meno […]. Qual è il suo segreto? Quella donna deve averne molti, per essere riuscita a mantenersi così dignitosa e bella. Nonostante tutto. L’eterna giovinezza, la potenza, la gloria e la ricchezza… in barba a tutto!».



1721-1744. In barba a tutto! Da un fidanzato segreto a un marito nascosto

Di origine nobile, sì, ma senza titolo. Orfana di padre dall’età di cinque anni. Un unico fratello, morto in guerra. Una madre sfinita da sette gravidanze e quasi altrettanti lutti. Una madre vedova, priva di bellezza, di fortuna e di speranze. Risultato: non ancora adolescente, Miss Elizabeth Chudleigh aveva capito che avrebbe potuto contare solo sul Cielo per assicurarsi un futuro. E così faceva affidamento sul Cielo. In secondo luogo sulla rete dei legami familiari e mondani della numerosa parentela. E in ultimo sulle sue formosità. Non sarebbe mai stata abbastanza ricca da permettersi di vivere a Londra? Nessun problema! Solo una vita in campagna, solo un’esistenza di fatica e risparmi le avrebbero permesso di sostentarsi senza cadere in rovina? Perfetto! Adorava l’aria aperta. Grande ottimista e dotata di un’incrollabile gioia di vivere, confidava nella sua buona stella. Perfino i contadini del Devonshire, contea dove era cresciuta, la definivano ammaliatrice. Senza che li chiamasse, gli animali la seguivano formando intorno a lei un branco pacifico che l’ac15


compagnava negli spostamenti. Come il pifferaio attirava i topi, lei incantava le bestie… Perché non i mariti? Eccellente amazzone a dieci anni, ottimo fuciliere a dodici, montava con passione gli stalloni più ombrosi, cacciava la volpe e sparava al fagiano meglio dei vecchi squires, i gentiluomini dei dintorni di Hall, il maniero scalcinato dei Chudleigh. Quando passava al galoppo sotto la fustaia, ai loro occhi incarnava Diana, la dea della caccia e della castità. Su quest’ultimo punto, la castità, Miss Chudleigh era ancora indecisa. Di bassa statura, con il seno prosperoso, la bocca sensuale, una lunga chioma bruna, la pelle bianca come il latte, enormi occhi azzurri: a tredici anni, non le mancavano i pretendenti. La nutrice raccontava a destra e a manca che era sviluppata da un pezzo e il signorotto che se la fosse presa senza dote l’avrebbe avuta in quattro e quattr’otto. D’altronde tutti i gentleman farmers si dicevano innamorati di lei. I più giovani minacciavano addirittura di uccidersi se «Miss Lizzie» non avesse corrisposto al loro ardore, tanto erano violente le emozioni che le sue grazie suscitavano fra i maschi della regione. Lei arrossiva per i discorsi che le facevano, prometteva tutto ciò che le chiedevano, fuggiva turbata, si ritirava emozionata, perdeva il sonno, talvolta anche l’appetito, ma non si lasciava prendere dalla fretta. Intuiva forse che, una volta sposata, sarebbe finita al terzo posto nel cuore dello sposo? Dopo i cavalli? Dopo i cani? Lei però aspirava alla prima posizione. Nei cuori, nelle menti, nella natura, nel mondo: la prima… O nulla. Né sognatrice né saccente, non avvertiva quel principio come una filosofia, nemmeno come un desiderio o una volontà. Era un istinto. Ovunque, sarebbe stata la prima… E l’unica. Né più né meno. ­16


Tuttavia si rimproverava svariati difetti: intanto una propensione all’ira capace di trasformarla in una furia. In quei momenti diventava così rossa che solo dopo essersi gettata diversi catini di acqua in faccia riusciva a tornare in sé. La fortuna – ai suoi occhi una sciagura – voleva che fosse di umore instabile e che in lei il risentimento svanisse con la stessa rapidità con cui si scatenavano le ire. Odiava sentirsi triste, detestava la propria scontentezza, di conseguenza non sapeva tenere il broncio né vendicarsi. Si rimproverava anche questo, perché avrebbe voluto mostrarsi tenace nella rivincita. Perfino la madre, sconvolta dalla sua ribellione alle contestazioni e scandalizzata dai suoi crucci incontrollati, la riteneva incapace di serbare rancore. Quanto al resto, per la propria formazione, Miss Chudleigh si affidava a un unico motto, composto di tre aggettivi. Questa massima l’aveva ricamata a quindici anni su tutti i fazzoletti: veloce, divertente, sorprendente. Al compimento dei diciotto, il Cielo, o meglio la Provvidenza si presentò sotto forma di un vecchio satiro, spuntato dalla boscaglia. Si chiamava William Pulteney. Era a capo del partito dei Whig e l’anno seguente sarebbe diventato conte di Bath. Gli avversari politici ne temevano l’eloquio, inoltre lo consideravano scaltro e crudele. Secondo gli amici era colto, spiritoso e astuto. La moglie, i contadini e i creditori gli attribuivano un’unica qualità e un unico difetto: era tanto ricco quanto avaro… Ma amava le donne intelligenti, che in genere corteggiava per corrispondenza, preferendo decisamente, e contro ogni aspettativa, le grafomani intellettuali, cerebrali e pedanti. Miss Chudleigh stava domando una puledra in una radura, quando le apparve davanti questo individuo di età avanzata, in abiti da caccia, con il moschetto in mano e la parrucca di sbieco. Lo riconobbe subito: era un amico dello zio, il più temibile e famoso tra i vicini di Hall. 17


Lui, invece, non avendola vista crescere, ebbe l’impressione di essere stato trafitto da una freccia: «Signora» le disse con lo stesso tono solenne che usava alla Camera «felice è il mortale che esce dal bosco per imbattersi nella Divinità!» Il dardo che la Divinità scoccò in replica non fu tramandato ai posteri. Ma la risposta – veloce, divertente, sorprendente –, lo fece ridere a crepapelle. Ed era da un pezzo che Pulteney non rideva… Dalla scomparsa dell’amata figlia, che aveva curato con tutto l’amore prima di seppellirla… Sorpreso da siffatta freschezza, sedotto da tanta impertinenza, si nominò d’autorità mentore della damigella. L’istruzione di Miss Chudleigh lasciava a desiderare? Le avrebbe impartito lezioni di greco e latino, insegnato qualche concetto di filosofia e alcune nozioni di matematica. Del resto lui, grande sapiente e appassionato di cultura classica, aveva studiato a Oxford. Le conoscenze del maestro non andarono completamente sprecate, tuttavia Pulteney incontrò non poche difficoltà a trasformare la sua protetta in una sorta di erudita, come sognava. La giovane si dimostrò incapace di ragionare in astratto. Peccava di scarsa attenzione. La verità era che lo studio non l’attraeva per niente e non sarebbe mai diventata una letterata. In compenso, era portata per la musica e aveva molto orecchio. E una memoria di ferro. Non le mancava una buona dose di acume, per non parlare del talento nell’individuare i dettagli interessanti in una conversazione. E il dono, ancor più sorprendente, di riproporli in modo personale. Elaborava con originalità il discorso più insignificante, reinventando a piacimento ciò che aveva sentito. Dotata di un certo mimetismo, accumulava frammenti di un sapere eclettico utile in società. In poche parole, a contatto con Pulteney si dava un tono tale da impreziosire le ­18


sue chiacchiere. Anche il pigmalione cadeva in trappola. Lei riusciva a stupirlo sempre per la rapidità nel controbattere, l’agilità nel parlare e le battute pronte ricche di umorismo… E continuava a farlo ridere. Lo illudeva di conoscere innumerevoli cose, di saperne parlare adeguatamente e all’occorrenza di aver molto altro da aggiungere. Per esempio era in grado di recitare l’Eneide e lasciava credere di parlare latino a menadito, mentre non capiva un’acca di quel che declamava. Pulteney aveva qualche sospetto che Virgilio non fosse proprio nelle sue corde, ma preferiva non rivelarglielo e cercava di inculcarle altri valori. In primo luogo le insegnava quanto fosse importante conservare i beni e necessario accrescerli. Costruire. Ingrandirsi. Acquistare… Avere discendenti e insediarsi ovunque. Celebrava l’orgoglio di estendere le radici, le trasmetteva il rispetto della proprietà fondiaria e l’amore per la terra, una passione che Elizabeth condivideva per istinto. Su questo si intendevano alla perfezione. Non è dato sapere se Pulteney avesse desiderato spingere oltre la loro intimità. Le malelingue e gli invidiosi sostenevano che Miss Chudleigh fosse diventata la sua amante. Lei smentiva. Lui stesso negava. Quell’autocontrollo però gli costava caro, ammetteva, e trattenendosi di fronte a tanta bellezza dava prova di grande virtù. Adesso la sua protetta contava venti primavere. Incarnava la grazia. La gioia. Il calore. La vita. Sprizzava allegria e ardore da tutti i pori: lo sguardo, la risata, il portamento… Una meraviglia. Sì una meraviglia, squattrinata però. Pulteney, consapevole dell’importanza del denaro, valutava molto seriamente l’entità del disastro… 19


Imprigionato fra il canile e la scuderia, quello splendore sarebbe rimasto nel maniero di Hall ad allevare galline. Nella migliore delle ipotesi, galli da combattimento… Non pensava di assegnarle una dote, ma si ingegnava per trovarle un’altra sistemazione nel mondo. Pulteney – ormai Lord Bath – era a capo dell’opposizione e contrastava i ministri di Sua Maestà Giorgio ii. Per i comuni interessi era quindi legato alla consorteria del principe di Galles, il primogenito del re, che odiava il padre e cercava, se non proprio di ucciderlo, quanto meno di cacciarlo e prenderne il posto. Lord Bath poteva approfittare di questa comunione d’intenti per scambiare qualche favore con il principe, di cui si era fatto paladino in Parlamento. Mirava a ottenerne alcuni appoggi per la sua clientela e conquistò esattamente ciò che desiderava. Miss Chudleigh sarebbe diventata damigella d’onore al servizio di Sua Altezza Reale Augusta di Sassonia-Gotha, principessa di Galles, sposa dell’erede al trono d’Inghilterra. Elizabeth non si aspettava certo un simile miracolo ma lo accolse come un dato di fatto. In segno di gratitudine saltò al collo del benefattore, bevve tre pinte di birra alla sua salute. Per la gioia cantò in piedi sul tavolo e ballò la sarabanda fin nella camera della madre, senza farsi alcuna domanda sui cambiamenti che le avrebbe riservato la nuova vita, né sulla società che avrebbe dovuto affrontare. Con armi e bagagli, sbarcò a Londra l’11 marzo 1743, passando direttamente dalla diligenza di Hartford a Leicester House, la dimora dell’erede al trono nonché il palazzo più elegante dell’intero West End. Naturale. Senza titolo né fortuna, spuntò dall’oscurità della campagna per presentarsi sotto le luci della corte d’Inghilterra. ­20


Naturale. Senza fare sosta nemmeno da una vecchia zia che avrebbe potuto insegnarle i rudimenti dello stare in società, ottenne l’accesso diretto e quotidiano a tutta la nobiltà inglese. Semplicemente naturale. Avrebbe frequentato la famiglia reale giorno e notte. Avrebbe conquistato il diritto di farsi chiamare Honourable. E ricevuto una rendita annua di duecento sterline… Nessun’altra poteva aspirare a quella sinecura, nessun’altra poteva neppure sognarsela, a meno che non fosse la figlia di un duca, di un conte o discendente di un Lord della Camera dei Pari; a meno che non possedesse migliaia di acri di terreno, svariati castelli nei tre regni ed enormi rendite capaci di permetterle un certo tenore di vita a corte. L’altezza di quella straordinaria posizione le diede le vertigini solo quando ne valutò la grandezza, la singolarità e l’assoluta inverosimiglianza. Soltanto allora si spaventò fino ad ammalarsi. Troppo tardi. Nuotare o affogare. Nuotò. «Come un pesce nell’acqua» avrebbe presto raccontato la principessa di Galles «Miss Chudleigh si sistemò da noi. Una volta ripresa dallo stordimento, fece furore. Appena comparve, si circondò di numerose amiche e ancor più di ammiratori. Per parte mia, mi affezionai subito.» *** Il suo primo colpo fu un colpo da maestro. Veloce, divertente, sorprendente, centrò subito il segno. La giovane si era insediata alla corte della principessa di Galles da meno di una settimana quando diede un bacio 21


che avrebbe segnato il suo destino: conquistò il cuore di James, sesto duca di Hamilton. Uno dei più bei ragazzi del regno. Uno dei più ricchi. E uno dei più titolati. Di origini scozzesi, educato al Winchester College, laureato in legge a Oxford, Jamie aveva appena ereditato la fortuna e tutte le cariche del padre, il quinto duca, morto a marzo. Quella scomparsa gli permise di soddisfare ogni appetito. Nel giro di tre mesi, il gioco, il vino e le ragazze ne dipinsero un ritratto morale piuttosto dettagliato. Nessuna bisca di Londra gli era sconosciuta. Manteneva svariate attrici, e aveva una certa tendenza a compromettere tutte le giovani che avvicinava. Aveva il sangue caldo. Tutte le voluttà che si offrivano ai suoi capricci gli facevano girare la testa. In Miss Chudleigh, però, colse la promessa della felicità assoluta. Attratto dalla sua arguzia, dimenticò di colpo l’inclinazione al vizio e l’amò con foga e sincerità giovanili. Aveva tre anni meno di lei. Si innamorò alla follia. «Giuro solennemente di vivere solo per voi, Elizabeth!» «Preferirei soffrire, piangere giorno e notte, piuttosto di non poter più contare sulla vostra amicizia.» «Assieme a me non verserete mai una lacrima.» Nonostante il temperamento carnale e sensuale, Elizabeth non aveva mai conosciuto l’amore. Era perfino rimasta curiosamente casta. Una specie di avventura con il cugino non l’aveva soddisfatta. Le galanterie di Pulteney l’avevano lusingata senza emozionarla… Perché avrebbe dovuto cedere a modeste tentazioni che immaginava le avrebbero provocato solo miseri coinvolgimenti? Tutto o niente. I pretendenti dello Hampshire le piacevano solo in parte: aveva quindi rifiutato le loro avance. Accettando gli omaggi del duca si abbandonava al ­22


primo vero trasporto. Si infiammarono l’uno dell’altra. Elizabeth non aveva conosciuto l’amore. Scopriva la passione fra le braccia di quel giovane scozzese che amava la vita impetuosamente quasi quanto lei. Nastri rubati, fazzolettini dimenticati, teneri biglietti e scambi di poesie: non indugiarono a lungo nei soliti rituali. Passarono dagli sguardi alle mani, dalle carezze agli abbracci per finire in fondo al parco dove, fra il gorgogliare dei giochi d’acqua, si abbandonarono a confidenze meno caste. Non erano gli unici a spingere l’idillio fino ai limiti della decenza. La frivolezza e le avventure galanti, il gusto per lo sport e il gioco regnavano sovrani nell’ambiente in cui era appena arrivata Elizabeth. Ne accettava le regole, ne rispettava intuitivamente gli artifici e la leggerezza. Ma attenzione: all’ombra delle Diane e delle Pomone, le damigelle della principessa di Galles non concedevano niente. Nel vocabolario di Elizabeth, quel principio assoluto non aveva il significato tradizionale: voleva dire quasi niente o pochissimo. Per il resto, i suoi compiti si riducevano al minimo. Apriva le tende dell’alcova principesca al mattino, vestiva e svestiva Her Royal Highness, l’accompagnava a passeggio, leggeva per lei, con lei faceva una partita a whist e assieme condividevano i numerosi piaceri notturni. L’opera. La commedia, il ballo… Gli obblighi di corte, le piccolezze degli intrighi, il giogo del protocollo, tutto avrebbe dovuto pesarle a Leicester House. Lei che amava tanto la natura… Che aveva così bisogno d’aria… Che faceva fatica a domare le passioni e nascondeva l’entusiasmo solo a costo di enormi sacrifici… Come avrebbe potuto sopravvivere in quell’universo chiuso, dove ogni singola emozione serviva solo a creare le illusioni e il trionfo delle apparenze? Come tollerare la 23


menzogna, l’ipocrisia, la gelosia? Errore: nessuno di quei vizi la infastidiva né le provocava il benché minimo smarrimento. Nei dedali e tra i labirinti del parco, nelle false prospettive delle gallerie, nelle quadrature dei soffitti, in ogni trompe-l’œil del palazzo, aveva trovato il paradiso. E, culmine del paradosso, la scoperta più dolce era stata l’affetto sincero che la legava alla principessa di Galles. Coetanea delle tredici damigelle che le erano state imposte, Augusta aveva appena festeggiato il ventitreesimo compleanno. Di origine tedesca, si era sposata a sedici anni e, nove mesi dopo, piena di energia aveva seguito il marito che l’aveva strappata dal letto del palazzo di Hampton Court. La poveretta, in preda alle doglie, stava per partorire il primo bambino. Il principe l’aveva scaraventata in carrozza, rischiando di uccidere lei e il figlio. Mentre la levatrice e le dame d’onore tamponavano l’emorragia a forza di fazzoletti, lui la portava a Londra al gran galoppo. Con quella macchinazione intendeva privare i suoi – il re e la regina d’Inghilterra – della gioia di veder nascere l’erede sotto il loro tetto. Augusta, già madre di due femmine e due maschi, era di nuovo incinta. Le gravidanze non le impedivano però di mantenersi agile, giocare a cricket e ballare ogni notte fino allo sfinimento. Di indole comprensiva, accettava di buon grado le numerose infedeltà del marito. Pretendeva soltanto che le amanti di Federico non la privassero della presenza del suo sposo, e per questo voleva che vivessero insieme a loro. Il principe, che non chiedeva di meglio, sembrava felice della vita coniugale. I rapporti disastrosi con il padre avevano rafforzato il suo matrimonio, creando attorno alla coppia un clima ribelle e di fronda, che incontrava l’approvazione della gioventù scozzese, irlandese e inglese. Gli irriverenti dei tre ­24


regni si raggruppavano nella piccola corte di Leicester House, dove disobbedivano a tutto, si opponevano a tutto e contravvenivano in tutto agli ordini e ai gusti di re Giorgio ii. Il re aveva scarsa sensibilità estetica, odiava la letteratura e si interessava poco alle arti? Per reazione il principe di Galles proteggeva gli artisti, ospitava il pittore JeanBaptiste van Loo, si circondava di incisori, architetti e autori drammatici. Il «suo» poeta aveva composto apposta per lui Rule Britannia, musicato dal «suo» compositore. Quel canto patriottico, diventato celeberrimo nell’arco di qualche anno, gli serviva per propagandare le sue idee sulla potenza marittima inglese, una delle fissazioni condivise anche da Pulteney. Inoltre, dato che lui stesso era un magnifico violoncellista, sosteneva l’Opera della Nobiltà contro il King’s Theatre. La compagnia di Lincoln Inn’s Field contro quella di Drury Lane… Bononcini, Porpora, Farinelli e tutti i musicisti italiani contro Händel. In ambito musicale, Elizabeth poteva seguire i nuovi maestri senza grosse difficoltà. Conosceva le arie alla moda, aveva una voce graziosa e suonava discretamente il clavicembalo. Amavano soprattutto sentirle suonare l’arpa, uno strumento che le permetteva di scoprire la caviglia quando portava avanti il piedino da sotto la gonna. Ammiravano anche la rotondità del braccio e – quando si chinava in avanti per pizzicare l’ultima corda – le grazie della scollatura. Giorno dopo giorno, l’insieme guadagnava consensi. Senza ripensamenti né tristezze, sempre entusiasta e creativa, si rivelava un vero gioiello nel vivacizzare ogni divertimento. «Faceva morire dal ridere quando imitava le stravaganze dei vecchi rimbambiti», i cortigiani del re a Saint James Palace. La battuta pronta, che aveva attratto 25


Pulteney, le era valsa la reputazione di donna spiritosa, che ormai nessuno osava contestare. Per farla breve, nel giro di appena un anno l’«arguta» Miss Chudleigh era diventata la damigella più brillante e l’incarnazione stessa della giovane corte. Ovviamente le avventure galanti con un partito molto agognato le attiravano qualche antipatia. Le altre erano tutte ricche, nobili e titolate: non potevano non considerare le frequentazioni di quella Miss Chudleigh un affronto ai privilegi della loro nascita e fortuna. Non potevano non sentirsi offese dalla concorrenza di quella Miss Chudleigh nella corsa al matrimonio. Nessuna tuttavia osava lamentarsi. E a buon diritto! Miss Chudleigh si era garantita l’appoggio delle tre dame più spiritose e influenti di tutte: Miss Charlotte Dives, già fidanzata con Lord Masham, Miss Lucy Boscowen, futura Lady Frederick, e Miss Catherine Hyde, promessa al duca di Queensbury. Quelle tre grazie, divertite dalla sagacia, commosse dalla povertà e attratte dalla differenza della giovane, le prestavano denaro per giocare a whist, le regalavano nastri, le cedevano fronzoli, ma in primo luogo difendevano la sua reputazione con lingua tagliente e indole maliziosa. Le quattro insolenti messe insieme formavano una squadra con cui era meglio non avere a che fare. Unico neo: l’onnipresente Lady Archibald Hamilton che in casa comandava a bacchetta e si riprometteva di far abbassare la cresta alla giovane Chudleigh senza temere rappresaglie. Lady Hamilton aveva quarantadue anni e dieci figli. Era la zia di James, sesto duca della casata. Era anche Mistress of the Robes della principessa di Galles, ma soprattutto era l’amante del principe di Galles. La preferita ufficiale da quasi un decennio. Nemmeno la principessa Augusta tollerava quella tiranna e l’invasione dei discendenti Ham­26


ilton che Lady Archibald si portava dalla Scozia. Sbarcavano così numerosi che le amiche della principessa si divertivano a chiamare «Mr Hamilton» o «Mrs Hamilton» tutti gli sconosciuti che incontravano a palazzo. Lady Archibald mandava le impertinenti a quel paese e si ingegnava per favorire i matrimoni di figlie e nipoti. Fra i parenti, solo Jamie avrebbe ricevuto l’eredità. La zia stava quindi in allerta: nemmeno per sogno l’avrebbe lasciato correre dietro a un’«avventuriera»! Ma lui aveva deciso: per nessun motivo avrebbe perso Miss Chudleigh. «Da quando cercano di separarmi da voi, vi amo sempre più! Ma…» Ma il duca di Hamilton era minorenne: aveva diciannove anni. Non gli restava che obbedire alla famiglia, la quale cercava di interrompere le sue avventure spedendolo sul continente. Avrebbe fatto il Grand Tour, un viaggio sulle tracce della cultura greca e latina indispensabile per l’educazione di un Lord. Avrebbe visitato la Francia, l’Italia, si sarebbe spinto fino ad Atene e Costantinopoli, restando lontano per più di un anno. «Mi dimenticherete» sospirava Elizabeth, giocando la carta del realismo e della filosofia. «Dimenticarvi! Come potete aggiungere offesa al dolore? Voi non potete capire quanto soffro! Se non vi vedo non desidero niente, se vi vedo desidero solo voi. Vi amo da morire!» «E io, allora? Credete che possa vivere senza di voi?» «Elizabeth, attorniata come siete da corteggiatori, da amici che vi cercano, avrete la pazienza di aspettarmi?» «Mi dimenticherete, vi dico. E non vi biasimo… Davanti a tutte le meraviglie che incontrerete, non avrete altra scelta… L’oblio. La povera Elizabeth vi sembrerà così brutta, lontana e pallida! Me lo sento, fra meno di un mese non mi amerete più. E vostra madre, vostra zia…» 27


«… Resteranno con un palmo di naso. Vi giuro che non cambierò mai opinione su di voi. Giuro sulla Bibbia di amarvi per l’eternità. Vi scriverò una lettera ogni giorno per testimoniarvi la mia fedeltà. Ovunque sarò, Elizabeth, per mare o per terra, nel vento o nella tempesta, a Parigi o a Roma, su ogni cammino, in ogni locanda, a ogni stazione di posta, giuro che vi scriverò. Lo farò ogni mattina e ogni sera, dilapiderò la mia fortuna in messaggeri, ma riceverete la mia lettera tutti i giorni, e io resterò al vostro fianco, vi do la mia parola… Promettetemi lo stesso: una lettera al giorno. Ci apparterremo, nonostante lo spazio e il tempo, nonostante la terribile separazione che ci impongono… Al mio ritorno, Elizabeth, vorrete sposarmi? Accettate di diventare la sesta duchessa di Hamilton, la mia amatissima moglie? Consacrerò tutta la vita alla vostra felicità! Posso contarci al mio ritorno?» Si lasciarono nel febbraio del 1744, e ognuno mise al collo dell’altro un anello fatto con i loro capelli intrecciati – un ciuffo castano che lui avrebbe conservato sul cuore, uno biondo che lei avrebbe portato in grembo –, il pegno davanti a Dio del loro fidanzamento segreto. Il duca di Hamilton lasciava Miss Chudleigh in preda a una malinconia e a un bisogno di solitudine molto insoliti per lei. Inappetente e priva di insolenza, sembrava addirittura aver perso il senso dell’umorismo. Non riusciva a fare a meno di sognare il matrimonio con il duca e diventare Sua Grazia, la duchessa di Hamilton. Non amava Jamie solo per interesse, ma la passione, ormai inseparabile dal desiderio di grandezza, la infervorava e l’assillava. Si rinchiudeva nella mansarda dove non faceva che scrivere: sfuggiva alla frenesia epistolare solo per informarsi dell’ora in cui partivano i corrieri… e per fare pressioni sui cavalieri perché consegnassero le missive a Sua ­28


Grazia prima dell’imbarco… Andando di gran carriera, quanto ci vorrà per arrivare a Dover? E da Calais a Parigi? E da Parigi a… Una settimana? Un mese? Contro ogni aspettativa, l’aria assente di Elizabeth la rese ancor più affascinante agli occhi degli ammiratori. Cantava il lamento di Didone con una sensibilità che faceva venire la pelle d’oca e ballava il minuetto con un languore che esaltava tutto il suo fascino. La vaghezza e l’amore si accordavano alla bellezza. In realtà, nella primavera 1744, la gloria mondana di Miss Chudleigh raggiunse l’apice. Da quando sembrava irraggiungibile, era ancor più corteggiata. Chi l’avrebbe strappata al buon Hamilton? Se lo chiedevano tutti, e tutti si mettevano in fila: ognuno sperava di conquistarla. Le scommesse erano aperte. Quanto al fidanzamento segreto, perfino Sua Maestà Giorgio ii sapeva che una protetta del suo nemico, l’avaro e infame Pulteney, una damigella squattrinata al servizio della nuora, riceveva le attenzioni del giovane duca scozzese… La scellerata lo aveva incastrato al punto che quel pazzo le aveva promesso di sposarla. La madre e la zia del duca si davano un gran daffare per impedire tale unione. «La sposerà?» «Non la sposerà?» Anche alla corte di Saint James, la corte reale, le scommesse erano aperte. Quanto poteva durare la costanza di un Hamilton? E la fedeltà di quella Miss Chudleigh? I primi tempi Jamie superò se stesso: i messaggeri arrivavano a Leicester House se non una volta al giorno, almeno due volte alla settimana. Le carrozze con lo stemma ducale nei viali, i postiglioni con la livrea ducale nelle gallerie, le bisacce con i colori ducali per le scale… Elizabeth, lusin29


gata da tanto trambusto, adorava trovarsi al centro di conversazioni e di bramosia. A marzo le lettere diminuirono un po’… Per forza! Lo sciagurato aveva attraversato la Manica. Ad aprile invece arrivarono da Versailles, più numerose che mai. La presenza del duca di Hamilton alla reggia di Luigi xv sarebbe potuta sembrare incongrua: la Francia e l’Inghilterra stavano entrando in guerra e le relazioni fra le due corti volgevano al peggio. Le origini scozzesi potevano spiegare un’accoglienza così favorevole? Certo. La Francia, sempre diabolica, appoggiava le rivendicazioni degli Stuart – anch’essi di origine scozzese – contro la dinastia degli Hannover che regnava in Inghilterra… Ma che importa? Gli intrecci storici non destavano l’interesse né i sospetti di Elizabeth. Erano altri i racconti che potevano preoccuparla. Alcuni viaggiatori riferivano che l’impetuoso duca di Hamilton fosse di nuovo in gran forma, che lungo il cammino avesse recuperato certe buone vecchie abitudini e, a quanto pareva, si divertisse parecchio con le cameriere delle locande. Dicevano poi che rischiasse grosso e avesse vinto somme ingenti da una duchessa francese legata alla cerchia di Madame de Châteauroux, l’amante del re. «Fortunato nel gioco, sfortunato in amore»: Elizabeth fingeva indifferenza verso quella sorta d’adagio che i cugini dell’assente le propinavano. Dal canto suo, Lady Archibald Hamilton non la finiva più sull’aria buona del continente, che aveva tanto giovato al caro Jamie. Appena il duca partì per l’Italia, le notizie si interruppero di nuovo. Ricominciarono, più sporadiche, solo a giugno, quando arrivò a Genova. * ­30


In quel periodo, la cerchia di Leicester House lasciò Londra e si disperse. Come ogni estate, le damigelle d’onore tornavano in famiglia. Elizabeth andò in villeggiatura da un cugino grande amico di Pulteney, a cui era morta la moglie da poco. Non poteva soggiornare da sola in casa di uno scapolo, benché si trattasse di un vedovo molto più anziano, si fece quindi accompagnare da una zia, uno chaperon a detta sua. Mrs Hanmer era un’anziana signora molto vitale e garbata, abile e curiosa, una di quelle che suscitano ammirazione. Una meravigliosa vecchietta. O, a seconda dei punti di vista, una vedova ricca sfondata stupida e temibile. Comunque sia, la zia Hanmer non aveva niente della megera. Si raccontava perfino che in gioventù fosse stata corteggiatissima: una vera e propria bellezza. Energica e senza peli sulla lingua, aveva altri aspetti in comune con la nipote: era piccolina, aveva gli occhi azzurri e il piglio determinato. E qui finiscono le somiglianze, perché Mrs Hanmer era grassa e camminava a piccoli passi. Sebbene corpulenta e malata d’enfisema, si intrufolava dappertutto. Dai tempi dei suoi successi, conservava numerose relazioni che coltivava assiduamente. Anche lei apparteneva alla razza inaffondabile dei Villiers. Aveva alle spalle un matrimonio di gran lunga inferiore al suo rango: si era sposata un negoziante che non presentava mai a nessuno. Quell’unione plebea le aveva fruttato una fortuna considerevole che lei fingeva di disprezzare, ma l’aveva privata del ruolo di primo piano che avrebbe tanto desiderato. E a questo non si era mai rassegnata. «Campagnola finché vuoi» le piaceva ripetere alla nipote per educarla… «Borghese, mai!» Più appassionata di titoli e genealogie, più informata sulle abitudini della nobiltà, più mondana della zia di 31


Jamie, Lady Archibald Hamilton – figlia di un’amica d’infanzia che si era sistemata benissimo –, Mrs Hanmer sosteneva di conoscere vita, morte e miracoli delle due corti. Non le sfuggiva niente delle tresche della nipote. Tanto snob quanto realista, giudicava con severità le ambizioni di Elizabeth. Da fonte sicura sapeva che il duca di Hamilton non l’avrebbe mai sposata. La povera Elizabeth non aveva speranze, perdeva tempo prezioso. La povera Elizabeth era una zitella di ventitré anni che faceva castelli in aria. La povera Elizabeth doveva ingegnarsi a trovare un buon partito. E anche in fretta! Elizabeth partì da Londra, con l’angoscia di non riuscire a ricevere le lettere di Jamie nello Hampshire. Aveva preso ogni precauzione affinché i messaggeri del duca potessero raggiungerla, e non a caso aveva scelto il maniero di Lainston: un’importante rete stradale attraversava la regione in lungo e in largo, e la vicina Salisbury contribuiva a renderlo reperibile. Durante il viaggio, Mrs Hanmer insisteva sui molteplici svaghi che avrebbero avuto a casa del cugino. Il grazioso castello di Lainston era, a detta sua, il luogo di ritrovo per eccellenza della gentry. Si susseguivano balli e cene frequentate dal fior fiore dell’aristocrazia. In occasione poi delle grandi gare di cavalli a Winchester, le elegantissime corse di luglio, anche i vicini organizzavano feste. E le splendide proprietà limitrofe – Mrs Hanmer indicava i comignoli che spuntavano dai boschetti – si riempivano di affascinanti giovani provenienti dalle migliori famiglie. Quando la carrozza si inoltrò sotto i grandi olmi del viale, Elizabeth scorse la vecchia residenza nobiliare rosa che cingeva l’orizzonte: alla vista di quella robusta costruzione immersa tra gli alberi, fu colta da un moto di gioia: ­32


la prima felicità, il primo slancio non suscitati dalle lettere del duca. Balzò fra i cani che saltellavano sulla scalinata, e salì contenta i gradini rovinati. Ritrovava i rumori, gli odori, le stesse sensazioni di Hall, la casa dell’infanzia. Eppure pensava di aver completamente dimenticato i sapori di un tempo… Si sentì di nuovo a casa, rassicurata. Impressione ingannevole. In quel luogo troppo poetico, avrebbe commesso l’errore della sua vita. *** «Vedi che avevo ragione!» affermava ogni giorno la zia, con espressione trionfante. L’anziana donna non si spingeva oltre, ma a Lainston tutti sapevano che si riferiva al silenzio dell’innamorato; nessuna lettera era mai arrivata al maniero. «Vedi che avevo ragione!» Su richiesta di Elizabeth, il cugino John Merrill si era garbatamente informato. Il duca di Hamilton aveva studiato a Winchester dove aveva conservato alcuni rapporti: qualcuno aveva incontrato un postiglione con l’uniforme ducale? Il buon Merrill si informò nelle varie stazioni di posta e, a proprie spese, fece interrogare tutti gli osti nei dintorni di Salisbury… Ma niente. Nessun viaggiatore con i colori del duca, nessun cavaliere che portasse delle lettere. Nemmeno a Londra né a Leicester House, niente. Le missive di Elizabeth passavano da lì, visto che la generosa principessa Augusta aveva ordinato di trattare la posta della damigella al pari della sua. Mentre le lettere di Elizabeth partivano per il continente senza impacci – una lettera al giorno, le prime intessute di domande e tempestate di esclamazioni, le seguenti inondate di accuse e suppliche – lei in risposta riceveva soltanto un silenzio assordante. Jamie si 33


era ammalato in Italia? Stava per morire? Gli concesse a lungo il beneficio del dubbio. Eppure lo conosceva: se avesse voluto inviarle anche cattive notizie, lei le avrebbe ricevute. Ricco, potente e cocciuto, era abituato a far cedere la realtà davanti ai propri capricci. Se avesse voluto vincere gli ostacoli, lo avrebbe fatto. Elizabeth doveva arrendersi all’evidenza. «… Vedi che avevo ragione!» Non solo non le scriveva il messaggio quotidiano come promesso, ma non le scriveva assolutamente niente… Nemmeno una riga! «… Vedi che avevo ragione!» Non si curava neppure di dare spiegazioni. La giovane conosceva la sua fama di dissoluto. All’occorrenza poi, c’era la zia a rinfrescarle la memoria. Giocatore, attaccabrighe, libertino. Un pessimo individuo, la cui parola valeva meno di zero. Come aveva infranto quel giuramento, avrebbe infranto anche tutti gli altri. … Un vile seduttore che si era divertito a metterla nel carniere. «Elizabeth, non sei la prima né sarai l’ultima!» Si era preso gioco di lei. Non l’aveva mai amata. «Vedi che avevo ragione! Non ti sposerà.» Elizabeth reprimeva il dolore. «Ti ha compromessa e ridicolizzata… E adesso?» Lei aveva smesso di scrivergli. Di punto in bianco: nemmeno una lacrima per Jamie, né una parola, un rimprovero, nessuna domanda. Sembrava averlo cancellato dalla sua vita. «E ora? Cosa faremo, piccolina?» ripeteva la zia. Il tono non era più trionfante. E l’aspetto di Mrs Hanmer si scuriva sempre più, dando la misura della situazione. La «piccolina» si dava un gran daffare per fingere indifferenza. Neppure il cugino John, spedito in lungo e in largo e consapevole della sua delusione, sospettava quanto ­34


soffrisse e si sentisse umiliata. Elizabeth si sforzava di dominare i sentimenti a testa alta nella tempesta scatenata dal silenzio del duca. Non capiva. Provava dolore. Rabbia. Stizza. Doveva reagire. Odiava quella tristezza. Non voleva soffrire più. Convinta che è meglio far invidia che pietà, cercava di conquistare l’attenzione in ogni modo. E così rideva troppo, cantava a voce troppo alta, spingeva il cavallo troppo oltre o troppo in alto rispetto all’ostacolo, e si lanciava in qualsiasi attività mondana a Lainston con una veemenza che avrebbe dovuto far intuire il suo stato d’animo… Civettuola senza volerlo, ma con frenesia, aveva dietro una nuova schiera di spasimanti. Per le rivali – mogli, fidanzate, sorelle – era una seduttrice che ricorreva alle armi più volgari. Lusingava, faceva smancerie, provocava. La casa non era mai vuota. Gli amici del cugino John la cercavano e percorrevano svariate leghe, solo per prendere un tè con lei. Che importa? sospirava la zia. Tutti sposati. Gli scapoli, invece… Chi vorrebbe una ragazza senza dote, nel fiore degli anni, con una reputazione così compromessa? Queste cose, Mrs Hanmer non le diceva a voce alta, ma ostentava un’espressione così preoccupata mentre guardava la poveretta offrire il tè a quei signori che finì per incrinare il coraggio di Elizabeth… La paura cominciava a prendere il sopravvento. *** «Ma cosa c’è che non va nel tenente Hervey? Secondo me è affascinante! Non troverai mai di meglio, piccola mia!» Augustus Hervey aveva vent’anni. Essendo il cadetto della famiglia, era stato obbligato a cercare fortuna in marina. Con il grando di tenente, aveva la modesta paga di cinquanta sterline annue: un quarto di quanto prendeva Elizabeth a Leicester House. 35


Perché mai la zia era così entusiasta? Ebbene, il tenente era un Hervey; la famiglia Hervey apparteneva a una stirpe così antica, famosa e singolare che Dio creando il mondo si diceva avesse creato gli uomini, le donne e gli Hervey. Queste battute non divertivano Mrs Hanmer. Il tenente apparteneva al ramo dei conti di Bristol, che erano pari d’Inghilterra nonché una delle casate più influenti del partito dei Whig. Girava voce che il secondo conte di Bristol, il fratello maggiore, erede del titolo e dei beni, stesse molto male. Durante le feste a Winchester, le amiche di Mrs Hanmer mormoravano addirittura che non avrebbe superato l’inverno. In altre parole: il tenente Hervey della Royal Navy sarebbe diventato a breve il terzo conte di Bristol. Da un punto di vista sociale, per Elizabeth incarnava il cavalier servente ideale. Fisicamente non poteva sognare di meglio. Di altezza media, snello e ben proporzionato, con polpaccio, ginocchio e coscia perfettamente cinti negli alti stivali di cuoio, indossava a meraviglia l’uniforme blu della marina reale. Sotto il tricorno aveva un’espressione vivace. Con quel nasino, gli occhi sfavillanti, la bocca rotonda e sensuale piaceva alle donne. E lui le adorava e ci sapeva fare… Pur avendo vent’anni, il suo carniere era già piuttosto impressionante. Mrs Hanmer si era informata e conosceva i nomi delle signore che avevano ceduto al suo fascino a Londra, Portsmouth, Salisbury e Winchester. Anche secondo lei era irresistibile. E visto che Elizabeth amava i seduttori e i conquistatori… A differenza dell’altro, beveva poco e al gioco perdeva con giudizio. A quanto pare, non aveva debiti. Dicevano fosse gentile, allegro e generoso… Certo, non sarebbe mai diventato duca. Secondo la zia Hanmer, però, la nipote doveva abbassare la cresta. Al mo­36


mento non era nemmeno conte. E, in effetti, era anche squattrinato. Ma se Elizabeth l’avesse sposato, sarebbe diventata una Hervey. E se i Chudleigh, gli Hanmer e i Merrill avessero avuto in famiglia una Hervey, contessa di Bristol e pari d’Inghilterra, avrebbero riacquisito la posizione e il lustro di un tempo. Mrs Hanmer non staccava gli occhi dai ballerini. Guardava la nipote aprire le danze con il tenente Hervey, un uomo decisamente di suo gusto. Una bella coppia. Elizabeth non era mai sembrata affascinante e serena come quella sera. L’abito bianco le stava benissimo. Era sorridente. Perfino raggiante. Lui pareva ammirato, ma non intimidito. La conduceva con autorità e grazia insieme… Si prendevano, si lasciavano, si salutavano, si giravano intorno per poi riprendersi… Il minuetto dell’amore. Gli spettatori erano tutti d’accordo. Quei due erano fatti l’uno per l’altra. Le malelingue aggiungevano anche che, quanto a facezie e seduzione, Miss Chudleigh si era trovata un maestro. Un incontro fra due professionisti della galanteria. L’indomani di quel memorabile ballo, il tenente invitò le signore nella sua carrozza, le condusse fino al porto, e le accolse amabilmente sulla Victory, perla della flotta inglese, ormeggiata a Portsmouth… Mrs Hanmer ricambiò la cortesia invitandolo a rendere loro visita a casa del nipote, a Lainston. Il giorno seguente lui era già là. Ci andò. Ci tornò. Ci tornò di nuovo. Ci rimase. Faceva una corte serrata a Elizabeth, che non sembrava affatto dispiaciuta. Lo lasciava parlare. L’idea di essere amata la rassicurava. L’ostinazione con cui lui glielo ripeteva la lusingava. Si sentiva di nuovo viva… Felice, addirittura. Lui capiva perfettamente che, nonostante l’aria frivola, 37


lei non si lasciava sedurre. Era tuttavia certo di farla sua. E invece niente. Schermaglie amorose a parte, lei non concedeva nulla. Né un bacio. Né un abbraccio. Evitava perfino di restare sola con lui e se lui voleva aiutarla a salire in barca o a saltare un fosso, lei non gli stringeva il braccio né gli abbandonava la mano. Non era abituato a subire rifiuti. La desiderava con maggior ardore. Era ossessionato e impazziva al pensiero che fra dieci giorni la nave avrebbe levato l’ancora e lui sarebbe partito senza aver ottenuto niente, sarebbe mancato per due anni e l’avrebbe persa irrimediabilmente… Doveva sposarla per averla? Se lo chiedeva seriamente. La zia Hanmer l’aveva acciuffato nell’angolo del corridoio e il suo messaggio era stato chiaro: senza matrimonio, niente Elizabeth. E dire che il tenente fremeva dal desiderio quando le si avvicinava. Partite di caccia, di pesca con il cugino John e gli invitati, cavalcate… E di ritorno da una di quelle uscite, le chiese la mano. Avevano lasciato i cavalli nelle scuderie e, mentre risalivano lentamente, chiacchieravano in disparte, dietro al gruppo. Attraversarono il prato diretti a casa. Il sole del crepuscolo illuminava le vetrate della chiesetta gotica in fondo al giardino, che era stata sconsacrata dopo la morte di Susana, la moglie del cugino. Hervey le propose di andarla a vedere. Elizabeth accettò. Appena entrata, capì che non avrebbe dovuto farsi trascinare lì. Si sentì addosso il freddo e l’umidità, tremava. Lui chiuse la porta alle loro spalle. Nell’oscurità della navata, la prese per un gomito: «Vi avevo detto che probabilmente non sarei rimasto a lungo in Inghilterra». Aveva il cuore in gola per l’emozione e, dal tono della voce, lei comprese tutto. Chinò la testa. La domanda che ­38


le avrebbe fatto l’angosciava. Non sapeva cosa rispondere. Voleva fuggire all’irreparabile. «L’ho appena saputo. Salperemo martedì… Volete diventare mia moglie?» Senza alzare lo sguardo, lei balbettò: «È impossibile… Mi dispiace». E scappò via. Appena raggiunse le sue stanze, la zia le piombò in camera. Dalla finestra li aveva visti entrare in chiesa. «Allora, ci siamo? Si è deciso? Ti ha parlato? Vuole sposarti?» «Sì.» «Sia lodato Dio!» «La sua nave salpa all’inizio di agosto.» «La settimana prossima? Ma non è possibile!» «Prima è, meglio è.» «Come, meglio? Non mi dire che…» Era pietrificata dal terrore… «L’hai rifiutato?» «Zia, non lo amo.» «… Rifiutato?» La reazione dell’anziana zia la disse lunga sulla vera natura dei legami con la nipote. La donna divenne paonazza. Ebbe un’esplosione di rabbia paragonabile alle violente crisi di Elizabeth a Hall. Diede il meglio di sé. Dopo una raffica di rimproveri e accuse, le sferrò il colpo di grazia. Quell’Hamilton con cui Elizabeth sicuramente credeva di essere ancora fidanzata, quell’Hamilton di cui sicuramente aspettava ancora le lettere, il suo Hamilton, in Italia si era innamorato di un’altra, e le aveva chiesto la mano. Quella aveva accettato e si erano sposati. Di colpo la sfuriata si interruppe per abbandono dei 39


contendenti. Miss Chudleigh era svenuta e Mrs Hanmer lottava con una crisi d’asma. Dopo la visita del medico e qualche salasso si calmarono e poterono riprendere il discorso. Mrs Hanmer iniziò placata: «A febbraio, il duca di Hamilton all’inizio del Grand Tour aveva soggiornato in Scozia, ti ricordi?». Se ne ricordava eccome. «Era andato nelle sue terre per rimettere ordine negli affari» proseguiva la zia tranquilla. «Ha trovato una situazione disastrosa: il padre gli aveva lasciato solo debiti… Ha dovuto prendere i provvedimenti del caso. E ha sposato un’ereditiera… In realtà non ha avuto scelta.» «E voi come fate a saperlo?» «Lo so da tanto, piccola mia, da quando mi ha scritto la mia amica Lady Abercorn. Non te ne volevo parlare. Perché torturarti ulteriormente? Il silenzio del duca era già abbastanza eloquente… Non avere rimpianti, Elizabeth: avresti sprecato la giovinezza ad aspettarlo. La madre non gli avrebbe mai permesso di sposare una della piccola nobiltà, senza dote, senza fortuna né speranze. L’Honourable Mr Hervey, invece… Ah, l’Honourable è tutta un’altra storia! Si comporta con correttezza. Ti ama. Ti vuole sposare. Da’ retta, tesoro, non lasciarti sfuggire un’occasione così. Alla tua età e nella tua situazione, dubito seriamente che possa ricevere un’altra proposta tanto vantaggiosa. Elizabeth, ricordati che hai ventitré anni! Non rifiutare il tenente Hervey. Te l’ho detto e te lo ripeto: non troverai mai di meglio!» Come poté lasciarsi convincere? Perché accettò di sposare un uomo che conosceva a malapena e non amava? Il tradimento di Jamie l’aveva privata a tal punto dell’istinto? Forse. All’improvviso diffidava di se stessa, delle sue scelte e delle sue certezze. Non si fidava più dell’intuito. ­40


Se Hamilton, in cui aveva riposto tanta fiducia, l’aveva abbandonata, significava che non aveva capito niente della vita, che si era sbagliata su tutto! Non capiva niente, no… O meglio, capiva fin troppo bene: contano solo il rango, la fortuna, l’appartenenza… Ricordava gli insegnamenti di Pulteney. Conservare i beni. Accrescerli. Insediarsi dappertutto. Combatteva ugualmente. Continuava a resistere. Tentava di ribattere le argomentazioni della zia con altre, secondo lei, più concrete, più pratiche addirittura. «Se i genitori del tenente scoprono che ha sposato una ragazza senza dote, lo diseredano… Fra l’altro ha vent’anni, è minorenne.» «Qual è il problema, tesoro? Il vostro matrimonio può rimanere segreto finché lui non sarà maggiorenne.» «Ma se la principessa di Galles scopre che mi sono sposata, mi escluderà dal suo seguito e mi caccerà via. Le damigelle devono essere nubili. Quando si sposano, se ne vanno… Perderò duecento sterline all’anno.» «Non ci vorrà molto a nascondere il tuo matrimonio: il tenente Hervey deve riprendere il mare… Perché dovresti privarti di un’entrata che ti serve per sostentarti, quando lui non può assicurarti il tenore di vita a cui sei abituata? Visto che non sarà a Londra, per due anni non abiterà con te. La cosa importante, Elizabeth, è che tu sia sua moglie il giorno in cui diventerà conte di Bristol. Allora farai valere i tuoi diritti e occuperai il posto che ti spetta. Fidati: conosco il mondo meglio di te.» Elizabeth chiudeva gli occhi. Ciò che temeva era accaduto. Hamilton si era sposato. Ogni speranza di felicità era svanita… Tanto valeva sposare Hervey e farlo subito! Le nozze dovevano essere celebrate prima della partenza. Prima che anche quella famiglia potesse opporsi… L’even41


tuale dissenso degli Hervey, anziché distoglierla, la incoraggiava verso il matrimonio. Sapere che la giudicavano – lei, donna di così bassa estrazione sociale –, la feriva nell’orgoglio. Negli ultimi tempi il suo amor proprio era già stato maltrattato abbastanza e lei non intendeva subire un nuovo affronto. La zia era l’unica che volesse il suo bene, l’unica che cercasse di proteggerla, che sapesse come era meglio procedere… Elizabeth cedette all’istante. Bisognava agire in fretta. Farla finita. Se gli scommettitori di Leicester House e quelli di Saint James Palace avessero saputo che l’arguta e spiritosa Miss Chudleigh, nemmeno sei mesi dopo essersi fidanzata con l’amore della sua vita, si sposava con un tenentello di marina, conosciuto appena quindici giorni prima; se avessero saputo che gli giurava fedeltà di notte, senza neppure la benedizione della madre, di nascosto dalla principessa di Galles e dalla famiglia del marito; se avessero saputo poi che lo derideva e non ne era affatto attratta… non avrebbero potuto crederci. Troppo assurdo per essere vero. Eppure, la notte del 4 agosto 1744, il reverendo Thomas Amis, parroco del paese vicino, attendeva la coppia nella cappella del maniero.

­42


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.