Pier Paolo Pasolini
La Nebbiosa A cura di Graziella Chiarcossi Prefazione di Alberto Piccinini
L’editore ringrazia Silvia De Laude per la preziosa collaborazione. Sito & eStore – www.ilsaggiatore.com Twitter – twitter.com/ilSaggiatoreED Facebook – www.facebook.com/ilSaggiatore © il Saggiatore S.r.l., Milano 2013
l’opera – Novembre 1959. Poco dopo l’uscita di Una vita violenta, Pier Paolo Pasolini esplora Milano con la stessa furia, la stessa passione con cui nei primi anni cinquanta aveva esplorato Roma: è la sorprendente trasferta di un vorace aggressore di città, impaziente di appropriarsele fisicamente e linguisticamente. Accompagnato da alcuni giovani milanesi teppisti quanto basta, Pasolini gira per trani, le vecchie bettole milanesi, e per bar luccicanti di corso Buenos Aires, perlustra ritrovi di teddy boys e i nights del centro; frequenta balere di periferia; si spinge a Metanopoli; guarda da fuori le ville neoclassiche lambite dall’espansione della città e si avventura nell’hinterland, tra Novate e Bollate. Nasce così La Nebbiosa, sceneggiatura non utilizzata dai registi che la commissionarono e opera letteraria qui per la prima volta edita integralmente, con la sequenza degli episodi rispondente alla prima stesura scritta da Pier Paolo Pasolini. La Nebbiosa è un noir picaresco e disperato ambientato a Milano nella notte di capodanno. In cerca di avventure, il Gimkana, il Teppa, il Rospo, il Contessa, Mosè e Toni rubano due auto e si mettono per strada; nella chiesa di Bollate trafugano i gioielli alla statua della Madonna: una lunga collana di pietre bianche, un’altra di pietre nere, poi un’altra ancora, e una quarta, e il diadema, gli orecchini, due tre braccialetti, due tre anelli, ma con i gioielli, falsi, addobbano la regina delle barbone, una vecchia che cammina sola per strada nella notte. Poi si precipitano a sconvolgere la borghesia milanese infiacchita in una casa in periferia, trasformando la festa in un’orgia. È un’avventura, la loro, ma l’avventura finirà male. Sullo sfondo di una skyline dominata da sagome di grattacieli, tra cui il Galfa e il Pirelli, si susseguono le scene
in un caleidoscopio di personaggi che corrono insieme ai teddy boys: gli ubriachi nei trani che cantano da spaccare i timpani, la fattucchiera pallida e profetica, la grassa Nella, ex soubrette della compagnia di Macario, il maggiordomo dei marchesi Valtorta che intrattiene la banda con vari travestimenti. Con prepotenza − ma inesorabilmente, e a riprova di un ininterrotto dialogo a distanza − la Milano della Nebbiosa appare come una variante della Milano di Giovanni Testori, che negli stessi anni andava raccontando le periferie, i giovani, la malavita, gli amori, il cinismo e insieme il lirismo che anima la realtà della Milano popolare, vecchiotta, alle prese con tentazioni neocapitalistiche. La Nebbiosa è la sceneggiatura di un film mai girato, ma è anche l’inchiesta in presa diretta sui giovani milanesi del boom economico. Il romanzo nero di una Milano disperata e violenta.
l’autore – Pier Paolo Pasolini (Bologna, 1922 – Roma, 1975) è stato poeta, giornalista, regista, sceneggiatore, attore e scrittore italiano; uno dei maggiori artisti e intellettuali italiani del xx secolo.
Sommario
Il lato teddy boy di PPP di Alberto Piccinini 9
La Nebbiosa
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Nota al testo di Maria D’Agostini 187 Dossier iconografico 193
Il lato teddy boy di PPP
Nel novembre del 1959 Pier Paolo Pasolini è a Milano. Scrive dal vero la sceneggiatura di un film ambientato nel mondo dei teddy boys. «Venti atroci giorni chiuso in un alberghetto a lavorare come un cane» ricorderà l’anno successivo su Paese sera quando il film è fermo e lui ha strappato soltanto «la prima metà del prezzo pattuito». «La seconda metà» si chiede rassegnato «l’avete vista voi?» 1 Non sappiamo per quali vie avesse incrociato il produttore Renzo Tresoldi, un industriale milanese «di famiglia ricca e onorata, da far conoscere a Gadda»,2 il cui nome appare per la prima e unica volta in ambito cinematografico. I giovani registi Gian Rocco e Pino Serpi sono invece «due ispirati», detto con sarcasmo nel ricordo di quell’impresa fallimentare su Paese sera. All’epoca Rocco e Serpi avevano firmato un solo lavoro, Carosello spagnolo, di stile turistico-documentario. Milano nera, questo il titolo finale del film per il quale Pasolini era stato chiamato a scrivere la sceneggiatura, uscì nel settembre 1963 in un’unica sala del capoluogo lombardo, per cinque giorni soltanto. Un flop. Gian Rocco sarebbe tornato al cinema nel 1967 con Giarrettiera Colt, spaghetti western girato a Oristano che ha guadagnato di recente uno status 9
di culto per via della protagonista femminile (caso unico nel genere) interpretata dall’attrice Nicoletta Machiavelli, ispirazione per il personaggio di Uma Thurman in Kill Bill di Quentin Tarantino. Di culto, a suo modo, è anche Milano nera: per il titolo così in anticipo rispetto ai «poliziotteschi» anni settanta, per il ritardo nei confronti di certi giovanili biker movies di serie B, per il suo essere un film fuori genere, sghembo e sbagliato. Cult una volta appurato che lo sceneggiatore (e anche qualcosa di più), quasi tirato per la giacca nei titoli di testa, è Pier Paolo Pasolini. Bisognerà attendere il 1995 perché qualcuno si accorga di Milano nera. Complice il fortunoso ritrovamento della sceneggiatura originale che lo stesso Pasolini, forse per non buttar via del tutto due mesi di lavoro, aveva inviato a Edoardo Bruno, direttore di Filmcritica, autorizzando la pubblicazione di qualche scena. Della rivista romana Pasolini era saltuario collaboratore: vi pubblica parte del suo copione della Notte brava, analizza La dolce vita, commenta i propri film in lunghe e dense conversazioni e così via. In generale, alla fine degli anni cinquanta il rapporto tra lo scrittore e il cinema ha un’improvvisa accelerazione. Il soggetto e la sceneggiatura della Notte brava di Mauro Bolognini sono ispirati a Ragazzi di vita nei personaggi, nell’ambientazione e nello schema narrativo: l’azione copre una notte intera, come accadrà pure nella Nebbiosa. Due anni prima le medesime storie erano state abbozzate nella collaborazione con Federico Fellini per Le notti di Cabiria, e in quello stesso 1959 Pasolini aveva fornito al regista riminese alcune scene per La dolce vita. Consulente «di strada» per i dialoghi è – in entrambi i casi – Sergio Citti. Ma il materiale per Fellini fu scartato durante la lavorazione del film. «Ormai sono proprio a Roma» commenta Pasolini in un pezzo ironico su quell’esperienza.3 Del 1959 è la collaborazione, anch’essa sfortunata, a 10
Morte di un amico di Franco Rossi. Ancora la storia di un «pappone», ispirata alle gesta di un ragazzetto della Garbatella che Pasolini conosce da qualche anno e ha rivisto di recente. «Uno degli eterni adolescenti romani […] con tutta la sua allegria da giovane malandrino […]. Era proprio il suo destino morire» ricorderà poi.4 Sempre con l’aiuto di Citti scrive una sceneggiatura «dura, forte, tetra», già vicinissima ad Accattone. La morte finale di uno dei protagonisti, aggiungiamo, sarà anche il «colpo di teatro» della Nebbiosa. Ma il produttore non l’accetta, e dopo una scenata isterica ci fa rimettere le mani da un altro sceneggiatore. Pasolini ritira la firma, poi si sfoga: «Tutto era stato involgarito, sfatto, smussato, addolcito». 5 Il film è un flop. Un’altra collaborazione che vale la pena ricordare è quella per Le notti dei teddy boys con gli sceneggiatori Elio Petri, Tommaso Chiaretti e il regista Leopoldo Savona. Il film esce nelle sale in quei giorni. In fase di sceneggiatura Pasolini, lo ricorda lo stesso regista, aveva fornito «delle idee, qualche paginetta con lo schema dei personaggi, il loro nome e il loro background sociale».6 In un celebre saggio, già articolo uscito su Vie nuove, Pasolini scrive: Si è tenuto recentemente a Venezia un congresso di «uomini illustri» sul problema della gioventù traviata; da questo congresso è risultato chiaro perché esistono i teddy boys: voglio dire non dai lavori e dalle discussioni del congresso, ma dal congresso stesso, dalla sua presenza: tanta presunzione pedagogica, tanta cecità reazionaria, tanto sciocco paternalismo, tanta superficiale visione dei valori, tanto represso sadismo, non possono che giustificare l’esistenza, in molte città italiane, di una gioventù insofferente e incattivita. Con simili padri ideali – perché è chiaro che la media dei padri è fornita dalla 11
media dei partecipanti a quel triste congresso – i figli non possono che nutrire disprezzo per la morale vigente: disprezzo non critico, naturalmente, e quindi anarchico, improduttivo, patologico. Alla superficialità rispondono con la superficialità, alla crudeltà con la crudeltà. In effetti sono proprio i teddy boys i figli reali dei nostri avvocati, dei nostri professori, dei nostri luminari».7
La lunga citazione spiega bene qual è il punto di vista di Pasolini poco prima di mettersi a lavorare «sul campo» a Milano. I teddy boys italiani sono selvaggi piccolo borghesi, figli di ex fascisti, esemplari d’avanguardia della stessa omologazione che continuerà a raccontare e analizzare negli anni successivi con angosciata e crudele precisione. Vivono nelle città del Nord, non in quelle del Sud. Spiega ancora lo scrittore, con il puntiglio del sociologo: Il ragazzo traviato con caratteristiche tipiche e moderne ha il suo modello a Londra, a New York, nei paesi scandinavi: ossia in società puritane, e ad alto livello civile. Già il teddy boy francese è una variante meno perfetta (se vogliamo guardare le cose con distacco scientifico): in quanto appartiene a una società di alto livello sì, ma cattolica.8
Tanta precisione classificatoria, tuttavia, non nasconde una specie di lontana simpatia dello scrittore per quella «gioventù insofferente e incattivita». Un’attenzione verso i figli, non certo verso i padri gli consente di tornare nei luoghi che più gli stanno a cuore: le borgate romane. La definizione «teddy boy» era iniziata a circolare nei giornali italiani attorno ai primi anni cinquanta per descrivere le gesta criminali della banda di Paolo Casaroli, spietato bandito ventitreenne, ex della Decima Mas con 12
un debole per Nietzsche, D’Annunzio e Sartre. Alla fine del decennio, la «delinquenza giovanile» di stampo metropolitano è diventata un problema sociale più che politico, o almeno viene percepita come tale da giornali e osservatori, al punto da attirare l’attenzione del governo. Ecco le parole del ministro di Grazia e Giustizia Guido Gonella, democristiano, nell’annunciare un disegno di legge per la repressione del fenomeno, presentato proprio alla fine dell’estate del 1959: «Anche l’abito fa il monaco; la blusa nera e i calzoni d’oltreoceano costituiscono una specie di immunizzazione morale di questo esercito di gaglioffi».9 Contemporaneamente, l’emergere del rock’n’roll anche in Italia conferisce alla figura del teddy boy una luce più lieve e sdrammatizzante, quasi un tocco da commedia riflesso al cinema nei primi musicarelli come I teddy boys della canzone di Domenico Paolella. Teddy Girl è il titolo di una canzone di Adriano Celentano scritta nel 1959 dal paroliere Luciano Beretta, e contemporaneamente eseguita dai Due Corsari, Giorgio Gaber e Enzo Jannacci. Il rock’n’roll aiuta a stemperare i toni: «Oh Teddy Girl pupa in technicolor/ Oh Teddy Girl c’è un juke box nel tuo cuor». Pasolini ama Celentano, e quei versi finiscono di peso nella sua sceneggiatura. Secondo una testimonianza mai confermata avrebbe anche incontrato il cantante in quei giorni passati a Milano per convincerlo a partecipare al film, senza però trovare un accordo. È certo invece che anni dopo andò a trovarlo assieme a Ninetto Davoli – quasi un pellegrinaggio – per proporgli un film ispirato al Ragazzo della via Gluck, mai realizzato e passato nel novero delle leggende dalla cultura pop italiana. Così una didascalia nella Nebbiosa inquadra la citazione di Teddy Girl: «Nella macchina davanti, mentre il Teppa guida, Toni canticchia una canzone da urlatore».10 E subito sopra: «Visio13
ni di Milano, inquadrate dalle macchine in corsa. Rapide, fulminee. È l’ultima notte dell’anno».11 Il Teppa, Toni detto «Elvis», il Contessa, Mosè, il Gimkana, Rospo che della banda è il capo, il suo fratellino Cino. I teddy boys della storia, i loro nomi almeno, sono tutti veri. Appena arrivato a Milano, Pasolini ha chiamato suo cugino Nico Naldini che l’ha messo in contatto con Umberto Simonetta, autore di rivista e futuro paroliere per il Giorgio Gaber del Cerutti e dei Trani a gogò. Perché Simonetta ha un amico teddy boy: Giuseppe Pucci Fallica detto Gimkana, diciottenne. Questi, con l’amico Paolo Uguccione detto «El Lobo», ventenne, introduce lo scrittore negli ambienti di cui è curioso, risalendo la città dalla periferia al centro, dai trani del quartiere Ortica alle sale giochi di Porta Venezia. Ben presto Pasolini chiede ai due ragazzi di collaborare alla stesura dei dialoghi: trasferisce così a Milano gli schemi di presa diretta del parlato che aveva già collaudato a Roma, con Sergio Citti. Tanta ricchezza di sfumature e registri nei dialoghi (dallo slang al dialetto al birignao borghese) forse al produttore e ai registi interessava fino a un certo punto. A lui invece sì. Furono gli stessi Pucci Fallica e Uguccione, dopo la pubblicazione della sceneggiatura nel 1995, a farsi vivi col Corriere della Sera per raccontare altri particolari di quei venti giorni milanesi, fino ad allora trascurati nelle biografie dello scrittore. Di notte in giro per bar, di giorno nei mercatini: «Ci chiedeva sempre di portarlo alla fiera di Sinigallia: era un collezionista di ex voto che, diceva, per lui rappresentavano la vera arte» ricordava uno di loro.12 Per completare il lavoro, poi, Pasolini chiede il permesso ai genitori dei ragazzi di portarli con sé a Roma, e lo ottiene. Un incidente con la sua 1100 verde gli fa momentaneamente cambiare program14
ma. «Mi lasciò l’auto da portare a riparare» ha ricordato Pucci Fallica «e partì solo con Paolo.» «Facemmo varie tappe» è il racconto di quest’ultimo. «A Bologna Pasolini doveva tenere una conferenza. Era un pubblico di comunisti sfegatati e il suo linguaggio pacato li deluse. Si andava a cena dai suoi amici e nessuno mi presentava. Semplicemente imponeva la mia presenza, senza dare spiegazioni. Tutti mi trattavano con riguardo, senza fare domande. Discuteva di filologia, o delle liriche greche che stava traducendo. Per me era più importante Little Richard.»13 Il terzetto si ricompone qualche giorno dopo a Roma. Alcuni elementi del viaggio, la lunga osservazione partecipata del mondo dei teddy boys, la reazione chimica – diciamo così – tra questi e la mondanità borghese si possono leggere facilmente nella sceneggiatura della Nebbiosa. Che risulterà per questo piena di vezzi d’autore, dialoghi molto al di là della superficialità spettacolare nei confronti del «disagio giovanile», poco adatti – probabilmente – alla spiccia macchina-cinema italiana di quegli anni. toni (eludendo la discussione con una certa volgarità) Ma dai, piantala lì, cosa vuoi che me frega a me del comunismo, fascismo, democrasia… Per me possono andare a buttarsi nel naviglio tutti quanti!...
rospo (ostinato) Perché, io ti ho mica visto alla festa dell’Unità? Lì, a spellarti le mani a applaudire quegli esaltati che stavano urlando là dentro…
toni Ma va, che io sono andato lì a ballare, a sentire il Celentano, cretino!14
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È davvero curiosa l’immagine di questo terzetto – Pier Paolo Pasolini, il Gimkana ed El Lobo – che per un mese intero frequenta cene e occasioni sociali romane con Moravia e la Morante, Giorgio Bassani, Alberto Arbasino, Elsa De Giorgi, Adriana Asti, Tomás Milian. Lo scrittore non dimentica neppure di avventurarsi con loro nelle borgate, e non è chiaro quale dei due fosse il contesto più straniante. Comunque non passano inosservati. Dagli archivi, ancora di recente, spuntano interi servizi fotografici dimenticati. Ne nasce persino uno scandaletto a sfondo promozionale, questo almeno il sospetto di un sempre più esasperato Pasolini nei confronti della produzione del film: «Il bello è che i due ispirati hanno fornito a un giornale scandalistico del materiale fotografico del film in cui c’erano dei ragazzi che io avevo appena conosciuto: dei teddy-boys, appunto, pregiudicati e in attesa di giudizio. Uno è finito in prigione per precedenti reati: e, dalle didascalie, risultava che a metterlo sulla cattiva strada ero stato io, che avrò passato in sua compagnia sì e no quattro ore per “mimarlo” nella sceneggiatura».15 A Roma, alloggiati in albergo a spese della produzione – così almeno immagina Pasolini – i teddy boys passano le giornate in casa dello scrittore a Monteverde. Ricorda Uguccione: «Lavorava con una risma di fogli bianchi davanti. Scriveva, appallottolava e si lanciava la carta alle spalle. Sua madre, silenziosa, girava con un cestino dietro e raccoglieva quelle pallottole di carta sparse. Poi ci preparava da mangiare. Noi mimavamo le scene o recitavamo i dialoghi».16 La Nebbiosa viene scelto da Pasolini come titolo definitivo della sua sceneggiatura. Ma gli appunti nel manoscritto conservano altre idee: La rovina della società, La ballata del Teppa, La notte del Gogna, Il Rospo si diverte, I romanici, I goti, La polenta con le sevizie. Nico Naldini ricorda ancora un altro titolo, Polenta e Sangue. «Me lo spiegò così: questi ragazzi sono dei sanguinari pur essendo dei polentoni.»17 16
La storia è ambientata in un notte sola. La più «brava» di tutte, quella di Capodanno. In un turbinare di motociclette e macchine rubate, la ghenga di teddy boys fa festa a modo suo. Costringono a un brutto quarto d’ora una coppietta – ricco commerciante e segretaria – sorpresa a far l’amore in macchina in un prato. Rubano i gioielli che addobbano la madonnina di una chiesa di campagna e li regalano a una barbona di passaggio. Vanno a trovare un amico maggiordomo in una villa di signori, e fanno una grande mangiata. Rapiscono tre signore impellicciate, le coinvolgono in un’orgia spaccona e ubriaca. Ballano il rock’n’roll al night. Caricano in macchina un omosessuale di passaggio, per poi spogliarlo e e bruciare i suoi abiti. Teppa muore infine mentre due degli amici stanno suonando uno spiritual per la sua ragazza, colpito da un proiettile sparato per sbaglio dal giovanissimo Cino (il finale del film Milano nera è diverso, ugualmente drammatico, e si svolge dentro il catino vuoto di San Siro coi teddy boys sugli spalti alle primi luci del mattino). Pasolini non ama Milano quanto Roma, ma non ne sottovaluta le potenzialità cinematografiche. È già regista, non solo sceneggiatore. Le indicazioni di regia della Nebbiosa hanno un tono poetico, ispirato. Nella futuribile Metanopoli, dalle vetrate del bar dove si riunisce la banda si gode «un panorama crudele di file di luci e palazzi di vetro, simili a globi di chiarore». In una scena successiva, i grattacieli Galfa e Pirelli fanno da sfondo lontano alle viuzze del Naviglio: il nuovo skyline di Milano si va componendo. I grattacieli «sono immagini stupende: sfolgorano di luci come giganteschi diamanti, come colossali fantasmi pietrificati». Il dialogo di tre signore di via Montenapoleone, successivo alla didascalia, recita così:
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voce di signora (F. C.) Stupendi, neh! voce di seconda signora grassa (F. C.) Eh, anche il progresso c’ha le sue bellezze… L’accento è milanese, ma sofisticato: da signore di via Montenapoleone. Ecco, contro la straordinaria visione, si disegna la voce di una terza signora.
voce iii signora (F. C.) Sembra un Braque… No, anzi, un Léger…18
Pasolini sembra divertirsi a giocare al contrasto tra una Milano luccicante, ricca, cialtrona, orrendamente borghese dove «se cadi, non ti aiuta nessuno», secondo il luogo comune del tempo, e la disperata vitalità dei «suoi» teddy boys. In una delle scene finali, questi fanno irruzione in un night club. Recita la particolareggiata didascalia: «Davanti all’elegante pubblico che ascolta, divertito più che per altro per dovere, la cantante Laura Betti canta una delle sue canzoni intellettuali. Sui suoi capelli biondi, di giaguara, splende la luce del riflettore: ed essa, con nevrotica dolcezza, con concentrata nonchalance, canta i versi di una canzonetta di Moravia».19 La scena irride alla doppia stupidità dei commenti del direttore del night («Questa è la democrazia») e di un portinaio povero cristo («Eh, gaverèven bisogn de un pu de bott!») di fronte alla gang di motociclisti. In fondo, è anche un piccolo scherzo da sceneggiatore giocato ai suoi stessi amici. Laura Betti di fronte a quell’inclusione nel film cadde dalle nuvole. In tanti anni di frequentazioni, Pasolini non gliene aveva mai parlato. Ma neppure dell’avventura di Milano nera parlò più, 18
e preferì dimenticare l’ennesimo fallimento col quale terminava il suo periodo di apprendistato nel mondo del cinema. Interessante resta il tentativo di tenere insieme i registri dell’osservazione sociale, del rock’n’roll, ma pure dell’obbligata e crudele satira verso la Milano del boom. Oltremodo affascinante, infine, la storia del viaggio a Milano e Roma coi teddy boys. Tanto che un progetto sia pure abortito come La Nebbiosa arricchisce ulteriormente la figura dello scrittore in quegli anni. Strappa tanto moralismo che affligge come un tarlo l’eredità dei suoi scritti e delle sue analisi, per restituirci un artista capace di attraversare con curiosità, entusiasmo, spericolatezza tutta la realtà contemporanea, affrontata ogni volta – anche la più apparentemente banale – con l’azzardo di una specie di viaggio iniziatico. Il lato teddy boy di PPP. Alberto Piccinini
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Pier Paolo Pasolini, «Cronaca di una giornata», in Paese sera, 2-3 dicembre 1960, poi in Storie della città di Dio, Einaudi, Torino 1995, pp. 143-155; ora in Romanzi e racconti I, Mondadori, Milano 2006, pp. 1585-1598. 2 Pier Paolo Pasolini, Romanzi e racconti I, cit. 3 Pier Paolo Pasolini, «La lunga strada di sabbia», in Successo, luglio-settembre 1959, p. 33; cit. in «Pierpaolo Pasolini sceneggiatore» di Gaetano Gentile su frameonline.it [ora disponibile su http://www.pasolini.net/saggistica_PasoliniSceneggiatore.htm], al quale rimando per una storia dell’apprendistato cinematografico di Pasolini; Pier Paolo Pasolini, La lunga strada di sabbia, Contrasto, Roma 2005. 4 Pier Paolo Pasolini, «Puzza di funerale», in Reporter, 16 febbraio 1960. 5 Pier Paolo Pasolini, «Puzza di funerale», cit. 19
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Stefania Parigi, «Su Pasolini sceneggiatore», in Lino Miccichè (a c. di), Il bell’Antonio di Mauro Bolognini, Lindau, Torino 1996, pp. 191-205. 7 Pier Paolo Pasolini, «La colpa non è dei teddy boys», in Vie nuove, n. 4, 10 ottobre 1959; poi in Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 1999, pp. 92-98. 8 Pier Paolo Pasolini, «La colpa…», cit. 9 Intervista a Oggi, settembre 1959; cit. in Guido Crainz, Storia del miracolo italiano, Donzelli, Roma 2005. 10 Pier Paolo Pasolini, La Nebbiosa, il Saggiatore, Milano 2013, p. 41. 11 Ibidem. 12 Testimonianza raccolta da Gian Paolo Serino, in «Le nostre notti brave con Pasolini», in la Repubblica, 13 gennaio 2007. 13 Testimonianza raccolta da Elisabetta Rosaspina, «Noi ragazzi di Pasolini nel trani a gogò», in Corriere della sera, 14 febbraio 1996. 14 Pier Paolo Pasolini, La Nebbiosa, cit., p. 74. 15 Pier Paolo Pasolini, «Cronaca di una giornata», cit. 16 Pier Paolo Pasolini, «Noi ragazzi di Pasolini nel trani a gogò», cit. 17 Testimonianza resa all’autore, «Milano nera», in il manifesto, 7 febbraio 1996. 18 Pier Paolo Pasolini, La Nebbiosa, cit., pp. 83-84. 19 Pier Paolo Pasolini, La Nebbiosa, cit., p. 169.
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la nebbiosa
bar metanopoli Interno. Sera. Un luccicante bar della zona Metanopoli: splende il neon sulle vernici, sui metalli. Dalle grandi invetriate si vede l’esterno: un panorama crudele di file di luci e palazzi di vetro, simili a globi di chiarore. Un ragazzo si avvicina al telefono, a una parete violentemente maiolicata, astratta. È il Rospo. Un ragazzo biondiccio, coi capelli corti corti sulla faccia quadrata e intelligente: un solo spizzico di ciuffo sulla fronte. Ha la sigaretta “incollata” tra le labbra. Non è quello che si dice un fusto: ma solido, quadrato e scattante, nella sua narcisistica calma. Fa un numero al telefono: l’obiettivo inquadra in primissimo piano la sua faccia, che compare così in tutta la sua evidenza. rospo Pronto, Gimkana, te sì ti?… Hoi, qua siamo in bellezza, stasera! La sua faccia esprime compressa soddisfazione, canagliesca decisione. 23
casa gimkana Interno. Sera. Col microfono in mano, accanto a un umile mobile famigliare, l’obiettivo inquadra in primissimo piano Pucci, chiamato il Gimkana. Ha una faccia pallida, torbida, segnata, con gli occhi cerchiati: l’aspetto è quasi di bravo ragazzo, riservato, educato: ma c’è insieme, in lui, qualcosa di terribile, che fa pensare ch’egli sia capace di tutto. gimkana (afferrando al volo il senso delle parole del Rospo) Sono andati via i vecchi? Eh? Allora andiamo subito a prendere le sbarbate, e veniamo lì da te.
bar metanopoli Interno. Sera. Un’ombra quasi di malumore e di rabbia è negli occhi del Rospo, che tuttavia, senza perdere la calma, da “capo”, replica: rospo No, no, macché sbarbate! Per quelle c’è sempre tempo, prima andiamo a fare un po’ di macello! Arriva veloce, dai!
casa gimkana Interno. Sera. Il Gimkana ha una rapida smorfia, ma non si scompone; e risponde rauco, rapido: gimkana Mi tiro dietro la spicciola, e vengo! 24
bar metanopoli Interno. Sera. Il Rospo chiude la comunicazione e forma rapidamente un altro numero: il chiamato tarda a rispondere, e il Rospo attende impaziente, staccando e riattaccando la sigaretta spenta alle labbra.
casa contessa Interno. Sera. Il telefono trilla su una scrivania dove ci sono in disordine dei libri e delle carte. L’obiettivo inquadra, sempre in primissimo piano, il Contessa che viene a rispondere al telefono. Alto, pesante e nel tempo stesso femminile, pur nella sua segnata faccia di cariatide gotica, il Contessa ha un’aria ineffabile, urtante, quasi odiosa. In realtà anche lui è nel fondo un bravo ragazzo convenzionale, fin troppo ordinato e conformista. Che possa essere anche lui un “teppa” è nel tempo stesso impossibile e fin troppo spiegabile, con quella sua faccia barbarica. contessa (dopo aver ascoltato l’invito del Rospo) Io veramente ciò a casa i vecchi dei vecchi: son venuti per passare le feste in famiglia, come faccio adesso a sganciarli!
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bar metanopoli Interno. Sera. Il Rospo è già quasi infuriato. rospo Cià, fa la canzone a tua madre e a tutti i vecchi, e squagliati, che cosa aspetti, stazzo! Non sta neanche a sentire cosa risponde il Contessa, e depone con rabbia il ricevitore: e fa subito un altro numero.
baretto periferia Interno. Sera. Tra un juke-box silenzioso e un calcio balilla deserto, contro la sporca parete d’un baretto, è appeso un telefono, che suona. Chi va a rispondere, sempre inquadrato in primissimo piano, è Gianni, detto il Teppa: è vestito in divisa di teddy, lo si vede dal colletto rialzato del giubbotto di cuoio nero, dalla sciarpetta vivace e sporca che gli fascia il collo, dal berrettino con la visiera, da fantino, calato sugli occhi: è un bel ragazzo, bruno, fortissimo, una specie di giovane e armonioso gigante: la faccia è da canaglia, ma anch’essa fondamentalmente buona e generosa, com’è quella dei forti. teppa Era ora che i tuoi sloggiassero: è un mese che ce lo prometti: li hai mandati in vita? C’è qui il Toni che ti manda un accidente! Con un tranquillo sorriso passa il microfono al suo compagno, che è lì, subito inquadrato anche lui in primissimo piano. È Toni, detto Elvis, in onore di Elvis Presley: è il compagno inseparabile del Teppa, forte e alto come lui, ve26
stito come lui: solo che anziché il berrettino, ha un ciuffo spettacoloso, che gli sporge un palmo buono sulla fronte, di capelli nerissimi. Ha un viso dolce ma segnato, di timido e buono, che se compie delle azioni violente è solo per una specie di disperazione. toni Uhei, mi raccomando, fa minga il stupit, propri stasera che l’è il capodàn! (Ascolta un po’) Ti conosciamo te, va là!
bar metanopoli Interno. Sera. Ancora un volta il Rospo si accende di rabbia: rospo Ma crepa! Depone il ricevitore e fa un ultimo numero.
ufficio ditta mosè Interno. Sera. Stavolta il telefono è s’un tavolo di lavoro, con degli attrezzi. Primissimo piano di Mosè che telefona: è un biondo con nella faccia i segni d’una psicologia patologica: lo si direbbe un eredoluetico. Il mento pronunciato, la bocca storta in una smorfia crudele e grossolana. Però c’è in lui anche una certa simpatica, aitante baldanza. mosè Te sì ti, Rospo?… (Sta a ascoltare la telefonata, annuendo, duro) Hè… hè… hè… Buona! 27
Sempre duro, senza cambiare espressione, depone il ricevitore. Dissolvenza.
casa rospo Esterno. Sera. La casa del Rospo è un piccolo grattacielo, abbastanza di lusso: sorge isolato, oltre un fosso, in mezzo alla campagna, nuda, stillante, con le lontane, ragnate file di pioppi. Ma, al di là della strada, ecco il caos di luci di Metanopoli, all’ingresso dell’autostrada del Sole. Arrivano, a tutto gas, su una motocicletta, il Teppa e Toni, nelle loro rozze, vistose divise di teddy boys. Raggiungono sparati, per la statale, la stradicciola appena costruita che porta all’isolato grattacielo: vi si fermano davanti con una frenata da acrobati. Lasciano la motocicletta davanti al grattacielo, sul ghiaino appena sparso lì davanti, fino all’orlo fangoso dei campi, e entrano.
casa rospo. ingresso Interno. Sera. È chiaro che il grattacielo è ancora in parte disabitato: solo alcuni appartamenti sono affittati e occupati. Delle scale e degli altri attrezzi sono lì a testimoniare che i lavori di rifinitura sono ancora in corso. Il Teppa e Toni imboccano, con la “camminata” le scale. teppa Sgancia una paglietta! 28
Toni tira fuori dal taschino dei blue-jeans strettissimi un pacchetto di sigarette, e l’allunga. toni Uhei! Ma ti a cumpret mai, ti? So’ minga il tabachìn! Si accendono le sigarette, e, in cima alla seconda rampa di scale, imboccano un lungo corridoio. In fondo, sono fermati da un richiamo: gimkana Uhei, dannà! Aspettatemi! Arriva su dalle scale, di corsa, impallidito dal fiatone, il Gimkana, e si affianca agli altri due. Così, insieme, arrivano davanti alla porta, semiaperta, dell’appartamento del Rospo. Si sentono uscire, dall’interno, degli acuti strilli e dei lamenti; dalla voce si direbbe un bambino. Gridi di bambino. I tre entrano decisamente.
appartamento rospo Interno. Sera. L’appartamento del Rospo è in pieno disordine di trasloco: degli angoli e delle pareti sono completamente vuoti e bianchi: altri angoli e altre pareti sono invece pieni di casse e di mobili appoggiati provvisoriamente. Nel corridoio d’ingresso si sentono più forti i gridi del bambino. Gridi di bambino. 29
gimkana (alludendo a quei gridi disperati) Il Rospo si diverte! Entrano, aprendo una porta con elegante e pigro colpo di spalla, in una prima stanza. Qui ci sono il Rospo e suo fratello Cino: la stanza, malgrado il disordine, ha l’aria di essere la camera matrimoniale dei genitori: un grosso letto di legno, un comò, e il solito confuso disordine che regna nella casa di gente benestante. Il Rospo, per passare il tempo in attesa dei compagni, ha legato il fratellino piccolo, un rospetto sui dieci undici anni, alla sponda del letto, e, accucciato sul pavimento, davanti a lui, gli sta soffiando contro, con violenza, da una cerbottana, che è evidentemente del piccolo, dei proiettili di carta con un aguzzo spillo per punta. Si diverte a sfiorarlo, alla Guglielmo Tell, ma qualche volta lo colpisce sul serio, e allora gli strilli di Cino salgono al cielo. cino (strilla piangendo) I tre, entrati nella stanza, per qualche istante osservano, staccati e leggermente ironici lo spettacolo delle sevizie, in profondo, e quasi placido silenzio. Il Rospo li sogguarda appena, e continua, ostinato e crudele, il suo gioco. toni Beh, sei dietro a andar fuori di matto? Ti pèdel sbusàll, puoi bucarlo, non lo vedi? E poi ti mandano al Beccaria, bauscia! Dette appena queste parole, con tono saggio e didascalico, piano piano si mette anche lui davanti al Cino, all’altezza del Rospo, e tira fuori da una saccoccetta dei blue-jeans un coltello a serramanico.
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Lo fa scattare e prende la mira. Il Cino, terrorizzato, urla ormai pietosamente: cino No, mamma, mamma, aiuto! Toni tira il coltello, colpendo la sponda del letto a una ventina di centimetri dal bambino. teppa (osservando il tiro poco brillante) Te se scars! Va alla sponda del letto, stacca il coltello, fa qualche passo indietro, prende la mira e lo lancia, infilandolo molto più vicino al Cino che grida. Il Rospo si rivolge al Gimkana: rospo E tu non tiri? Il Gimkana, freddo e spento, alza le spalle. gimkana Ci tirerei se lì legata ci fosse la cameriera che avevi una volta! Col gogna lì (indica il bambino) io non mi diverto! Portami la cameriera, e poi ti faccio vedere come vi straccio tutti! Ed ecco che entrano, insieme, il Contessa e Mosè, salutando appena. contessa Salve, ragazzi. Va dritto alla cerbottana, che il Rospo ha posato per terra e, calmo calmo, si siede con le gambe incrociate, e comincia a tirare gonfiando le guance da signora, da lucertolone.
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contessa Bei tempi, quando giocavamo anche noi con queste! (Alza la cerbottana) Il Mosè tace, con una faccia terribilmente seria e quasi inferocita: a un tratto sbotta: mosè Ehi, stiamo qui a fare i pagliacci? Dai, facciamo qualcosa. Il Rospo strappa la cerbottana dalle mani del Contessa, e la butta ai piedi del ragazzino. rospo Dai, andiamo di là. (Si sofferma un istante a guardare il fratello) Questo lo lasciamo qui: così non ci viene a rompere le scatole dietro. Va verso l’altra stanza, seguito dagli altri. Il Cino, che si era calmato un po’, ricomincia a gridare disperatamente: cino Slegami… Non lasciarmi qui… aiuto, aiuto, slegami…
appartamento rospo. stanza rospo Interno. Sera. Anche la stanza del Rospo è nello stato del resto della casa: e, in più, tutta la confusione tipica di un ragazzo come Giancarlo il Rospo. Il Rospo si rivolge subito a Mosè: rospo A grana come viaggi? mosè (duro) Se avevo della grana non stavo qua! 32
Leva dalla tasca cinquecento lire, e le appoggia su una cassetta rovesciata piena di libri stracciati e altri attrezzi misteriosi. mosè Ecco qua, cinque gambe. gimkana (a Mosè) Huè, lercio capitalista, chi te l’ha mangiata la grana? (Si rivolge agli altri, ironico) Cià una ditta, con due tre sbarbati che gli lavorano, e poi va a dire che non ha i soldi! mosè (senza accusare il colpo, deciso) Non sono venuto con la piena, io, per poi regalare la grana a voi! rospo (tagliando corto con la discussione) Beh, andiamo piatti, qua, facciamo alla svelta… Stasera ci vuole un monte di grana. Io ciò un paio di sacchi… Li appoggia sulla cassetta. Di là vengono più forte i gridi di Cino. rospo (urlando) Muchela! (Si rivolge al Teppa e a Toni) Voi due, naturalmente, più di un paio di gambe per uno non ce l’avete… toni Nanca quei! Il Teppa, sorridendo, mette sulla cassetta tre quattrocento lire. gimkana Io un paio di chili ce li avrei: comunque chi è in piena qua è il Contessa. Dai Contessa, è meglio che sganci subito ’sti soldi…
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Intanto depone circa duemila lire sulla cassetta. contessa Eh già, tocca sempre a me! Sborsa i soldi, scontento, ma anche abbastanza orgoglioso. Il Rospo gli prende dalla mano cinque seimila lire, le mette insieme agli altri soldi, e conta il tutto, rapidamente. La sua bocca si piega in una smorfia amara, un lampo di disgusto passa sui suoi occhi: la cifra che sta contando è veramente miserabile. rospo (finendo di contare con aria amara e sprezzante) Merda! E con rapido gesto ributta sulla cassetta i soldi come se gli sporcassero le dita. mosè Allora andiamo a far qualcosa, che bisogna trovare ’sti soldi. Il Mosè è deciso, pronto a tutto. Il Rospo guarda in faccia prima lui e poi gli altri. È una specie di sfida, ch’egli lancia con quello sguardo. rospo Vogliamo farsi la Madonna di Bollate? Tutti tacciono per un attimo: la proposta lanciata dal Rospo, lo sanno, è temeraria. gimkana Cristo, anche il clero volete fognare? contessa (prudente) Ma facciamo qualcosa che puzza di meno: è troppo pericoloso!
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Ma, a vincere ogni titubanza, con quel suo sorriso calmo, di forte, è il Teppa. teppa Dai muchela, dannato, andèm! Il Rospo ha ragione! Son tre mesi che ci balliamo intorno, a questo affare: adesso è la volta buona. ’Dem! E, senza aspettare altro, si avvia alla porta, seguito dal Toni: vinti dalla sua balda e leggera sicurezza, gli altri piano piano gli vanno dietro. Ultimo a uscire dalla stanza è il Rospo. Egli infatti alza la cassetta, e ne tira fuori degli strani oggetti: una catena di bicicletta, un rasoio, un bastone avvolto con degli stracci e, infine, una rivoltella che, prima di intascare, controlla per vedere se è carica. È carica. Di là il fratellino grida e piange, disperato. Pianto di Cino. Dissolvenza.
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