Winston Graham
Marnie Postfazione di Anna Ferruta Traduzione di Hilia Brinis
La collana «La letteratura secondo Hitchcock» è curata da Matteo Battarra e Giuseppe Girimonti Greco. Sito & eStore – www.ilsaggiatore.com Twitter – twitter.com/ilSaggiatoreEd Facebook – www.facebook.com/ilSaggiatore © 1961 by Winston Graham © il Saggiatore S.r.l., Milano 2014 Titolo originale: Marnie
Marnie
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«Buonanotte, signorina» mi disse il poliziotto mentre scendevo le scale. «Buonanotte» risposi e mi chiesi se, avendo saputo che cosa c’era nella mia cartella, si sarebbe mostrato altrettanto cordiale. Ma non lo sapeva e io presi un tassì per tornare a casa. Denaro sprecato, visto che ci si arrivava benissimo anche in autobus, ma quello era un giorno speciale e qualche volta bisogna pur darsi alla pazza gioia. In fondo alla via congedai il tassista e raggiunsi a piedi il mio appartamento di due stanze. Alcuni pensano che sia triste vivere soli, a me non sembrava affatto triste. Avevo sempre una quantità di cose a cui pensare e, del resto, forse non sono molto socievole. Appena entrata mi versai un martini per brindare alla mia salute. Mentre lo bevevo, consultai l’orario ferroviario e vuotai un paio di cassetti. Poi feci un bagno, il secondo della giornata. Non so perché, ma dopo un bagno mi sentivo come purificata. Il telefono squillò. Mi avvolsi alla meglio in un asciugamano e mi diressi in soggiorno. «Marion? Sono Ronnie.» Avrei dovuto immaginarlo. «Oh, ciao.» «Mi sbaglio, o non sei molto entusiasta di sentirmi?» 7
«Non è un buon momento, stavo facendo il bagno.» «Che immagine… deliziosa. Peccato non si tratti di una telefonata con il video.» Ecco, questo era Ronnie. «Non hai per caso cambiato idea sulla partenza di domani?» «Senti, Ronnie, te l’avrò ripetuto almeno sei volte. Vado a Swindon da una mia compagna di scuola per il fine settimana.» «Allora lascia che ti accompagni in macchina.» «Ronnie, tesoro, non sappiamo cosa farcene di un uomo: vogliamo soltanto chiacchierare dei bei vecchi tempi tra noi ragazze. Ci vediamo talmente di rado.» «Ti fanno lavorare troppo in quell’ufficio, ho intenzione di andare a parlare con il vecchio Pringle prima o poi. Non vuoi darmi almeno il tuo numero di Swindon?» «Non credo che la mia amica abbia il telefono. Cercherò di chiamarti io.» «Promettilo. Domani sera.» «Non te lo posso promettere. Farò il possibile.» Finalmente mi salutò e io cominciai a vestirmi. Ogni capo che indossavo era nuovo: reggiseno, mutandine, scarpe, calze, abito. Non era soltanto prudenza da parte mia, era così che mi piaceva fare le cose. Sarà che ho una mentalità strana, ma mi piace che tutto sia come dovrebbe essere e mi piace che sia così anche con le persone. Per questo ero contenta di non vedere più Ronnie Oliver. Gli esseri umani… ecco, il fatto è che rifiutano di lasciarsi programmare, ti mandano all’aria tutti i piani. Ronnie, naturalmente, credeva di essere innamorato di me, anche se io continuavo a scoraggiarlo. Insomma, la solita vecchia storia. Riempii la valigia, poi feci il giro dell’appartamento. Cominciai dalla piccola cucina e ispezionai ogni angolo palmo a palmo. L’unica cosa che trovai fu una tovaglietta da tè da pochi soldi, l’avevo comprata subito dopo Natale, la presi e la sistemai con il resto della roba 8
in valigia. Poi controllai il bagno e, infine, la stanza da letto-soggiorno. Non volevo rischiare di dimenticare qualcosa come a Newcastle, dove avevo lasciato il soprabito. Dimenticare qualcosa era un vero peccato, dato che non potevo più tornare a riprenderlo. Infine, indossai cappotto e cappello, presi la valigia e la cartella e uscii di lì per l’ultima volta. All’Old Crown di Cirencester furono molto contenti di rivedermi. «Oh, signorina Elmer, sono passati tre mesi dall’ultima volta che è stata qui da noi! Certo che possiamo darle la sua solita stanza. Gradisce una tazza di tè?» Mi sentivo sempre più alta di qualche centimetro quando soggiornavo all’Old Crown. Dato che avevo fatto corsi di dizione, abbastanza spesso riuscivo a passare per una signora, ma quello era l’unico posto in cui riuscivo a convincerne anche me stessa. Il letto a baldacchino, la servitù e ogni giorno via alla fattoria Garrod per saltare in sella a Forio; mi fermavo a pranzo in qualche piccola locanda e tornavo a casa solo al tramonto. Quella sì che era vita! I giornali nemmeno li leggevo. Qualche volta pensavo alla Crombie & Strutt, ma così, a tempo perso, come se ci avesse lavorato un’altra, non io. E quel modo di pensare era sempre molto salutare. Ogni tanto mi chiedevo come avesse reagito al furto il signor Pringle e se Ronnie stesse ancora aspettando quella telefonata, ma non erano certo pensieri che mi facevano perdere il sonno. Dopo quattro settimane di vacanza, andai a casa da mamma per un paio di giorni. Poi tornai a Cirencester, scaricai tutti i miei bagagli all’Old Crown e passai la notte a Bath. Il mattino dopo acquistai una valigia nuova e un nuovo completo primaverile, mi feci tingere i capelli e mi procurai un paio di occhiali da vista. Nel pomeriggio presi un biglietto ferroviario per Manchester – che mi sembrava un posto adatto, visto che non c’ero mai stata – e una copia del Times, perché pensavo potesse servirmi a scegliere un nuovo nome. 9
I nomi sono importanti. Non devono essere né troppo comuni né troppo insoliti, la cosa migliore è un nome qualsiasi che, come un viso, possa mescolarsi tranquillamente tra la folla. E io sapevo per esperienza che il nome proprio doveva essere simile al mio, che è Margaret – o più spesso Marnie – altrimenti correvo il rischio di non rispondere quando mi chiamavano. Scelsi Mollie Jeffrey. E, alla fine di marzo, una certa signorina Jeffrey prese alloggio in un appartamento di Manchester e si mise alla ricerca di un impiego. Era una ragazza dall’aria tranquilla, con i capelli biondi tagliati corti e gli occhiali con la montatura in corno. Indossava abiti che le andavano sempre un po’ larghi e lunghi. Sapeva che era il modo migliore per non dare nell’occhio: se si fosse vestita con gusto, gli uomini l’avrebbero notata subito. Trovò un lavoro da maschera al cinema Gaumont fino a giugno. Poiché non usciva mai e diceva di occuparsi della madre invalida, le colleghe la compativano apertamente. In un certo senso le capivo, è vero che si è giovani una volta sola. Non condividevo però le loro idee sul divertimento: a loro piaceva andare a pattinare e a ballare, fare la fila per i saldi e ascoltare musica, e sempre in compagnia di un qualunque ragazzo brufoloso con un lavoro da poco. Alla fine si sarebbero ritrovate a spingere un passeggino tra le case a schiera di un quartiere popolare. Non che ci trovassi qualcosa di male, ma non mi interessava affatto. Un giorno venni a sapere che al cinema Roxy, non lontano dal Gaumont, cercavano una nuova cassiera. Il Gaumont mi diede buone referenze e ottenni il lavoro. Dopo tre mesi avevo diritto a una settimana di ferie e ne approfittai per tornare a casa. Mia madre abitava a Torquay, in Cuthbert Avenue. Ci eravamo trasferite là da Plymouth circa due anni e mezzo prima. Era zoppa da una gamba, ma se la cavava abbastanza bene con l’aiuto del basto10
ne. Era sempre inappuntabile e dignitosa. Diceva di essere la vedova di un ufficiale di Marina, ma in realtà, quando la sua nave era stata silurata durante la guerra, mio padre era un semplice macchinista. Diceva anche di essere la figlia di un pastore protestante e nemmeno quello era vero, sebbene credo che il nonno fosse un predicatore laico, il che è più o meno la stessa cosa. A quel tempo la mamma aveva cinquantasei anni e abitava con una donna di nome Lucy Nye, una piccola creatura sciatta e dalla dubbia igiene, con un occhio più grande dell’altro, ma gentile e di buon cuore. Quando arrivai, quel giorno, la mamma era in poltrona davanti alla finestra; non appena bussai alla porta scattò in piedi con l’aiuto del bastone. Sapevo che era un tipo strano; sebbene fossi la luce dei suoi occhi, non mi baciava mai con un sincero slancio d’affetto. «Marnie» mi disse «sei un po’ dimagrita. Spero che il signor Pemberton non ti faccia lavorare troppo.» Il signor Pemberton era una mia creazione. Lo avevo inventato circa tre anni prima, subito dopo essere andata via di casa. Era un ricco uomo d’affari che andava spesso all’estero accompagnato dalla sua segretaria. Con questo stratagemma potevo spiegare le mie lunghe assenze e l’impossibilità di lasciare un indirizzo. A volte avevo gli incubi al pensiero che la mamma potesse scoprire la verità. Si sarebbe scatenato l’inferno. «E non mi piace quel colore di capelli» aggiunse. «Sembra fatto apposta per attirare gli sguardi degli uomini.» «Be’, non è così.» «No, cara, lo so che hai buon senso. Lo dico sempre a Lucy.» «Dov’è Lucy?» «L’ho mandata a comprare gli scones. So che ti piacciono tanto.» Nel frattempo ci eravamo spostate in cucina. Ogni volta che ci trasferivamo, tutto si trasferiva con noi. L’arredamento non era mai cambiato né a Liskeard, né a Plymouth, né lì a Torquay. C’erano le 11
stesse tazze e gli stessi piattini, la stessa stampa religiosa incorniciata, la poltrona a dondolo con i braccioli imbottiti e l’orribile orologio. Non so perché, ma detestavo quell’oggetto. Aveva la forma di una cassa da morto, con il quadrante ricoperto da un vetro e la base dipinta con pappagallini verdi e rosa. Preparai il tè e intanto la mamma mi osservava con apprensione, come una gatta con il suo gattino. Avevo portato dei regali, una pelliccia per lei e dei guanti per Lucy. Ma prima di darle il regalo, dovevo aspettare che la mamma fosse dell’umore giusto. Doveva sembrare che fosse lei a farmi una cortesia nell’accettare il mio dono. L’unico rischio era che si insospettisse per il fatto che avevo troppi soldi a disposizione. Aveva incorniciato alcuni versetti della Bibbia e vi si atteneva parola per parola. Guai a trasgredire! Eppure io amavo mia madre più di chiunque altro proprio per la forza con cui aveva combattuto tutta la vita e per come aveva mantenuto le apparenze al di sopra di ogni cosa. Non potrò mai dimenticare la tremenda scenata che mi aveva fatto quando, a dieci anni, ero stata sorpresa a rubare. E la ammiravo anche per come mi aveva punita, sebbene non fosse servito a riportarmi sulla retta via, ma soltanto a rendermi più furba. «Il tuo vestito è di seta pura, vero, Marnie?» disse all’improvviso. «Deve esserti costato un occhio della testa.» «Dodici ghinee in saldo» risposi, sebbene l’avessi pagato trenta, in realtà. «Ti piace?» Non rispose. Sentivo il suo sguardo trapassarmi la schiena. «Sta bene il signor Pemberton?» si informò. «Sì, sta bene.» «Lo dico sempre alle mie amiche, Marnie è la segretaria di un milionario che la tratta come una figlia. E così, vero?» Coprii la teiera con un panno e rimisi la scatola del tè sulla mensola del camino. «È un uomo generoso, se è questo che vuoi dire.» «Ma è sposato…» «Ne abbiamo già parlato tante volte, mamma» replicai. «Non c’è 12
niente di male tra noi. Sono la sua segretaria, tutto qui.» In quel momento Lucy rientrò e appena mi vide si mise a squittire come un pipistrello. Ci baciammo e poi distribuii i regali. Mamma si guardava allo specchio un po’ a disagio nella pelliccia nuova. «Tuo padre non mi ha mai regalato niente di tanto bello. Marnie, tu proprio non badi a spese.» «Il denaro è fatto per essere speso, no?» «Certo, per essere speso saggiamente. Ma anche per essere risparmiato. Tienilo sempre a mente. La Bibbia dice che l’amore per il denaro è la radice di tutti i mali.» «Sì, mamma, e dice anche che il denaro è la soluzione per ogni problema.» Mi guardò con aria severa. «Non fare la spiritosa, Marnie. Non voglio che mia figlia si prenda gioco delle Sacre Scritture.» «No, mamma, non faccio la spiritosa. Guarda.» Mi avvicinai e le sistemai la pelliccia sulla schiena. «È così che si porta a Birmingham. Ti sta molto bene.» Dopo un po’ ci sedemmo di nuovo per prendere il tè. «Ho ricevuto una lettera da tuo zio Stephen» riprese. «È a Hong Kong. Ha trovato un lavoro al porto. Manda tanti saluti.» Lo zio Stephen era il fratello della mamma. Era l’unico uomo per il quale provassi affetto. Il tempo che trascorrevo in sua compagnia mi sembrava sempre troppo poco. Lucy Nye mi fissò al di sopra della tazza. «Ho fatto un sogno la notte scorsa» disse. «Ho sognato che Marnie era nei guai.» Il tono con cui lo disse mi fece venire i brividi, proprio come quando avevo dodici anni e lei mi svegliava dicendo: «Ho fatto un brutto sogno» e poi capitava sempre qualcosa, il giorno stesso o quello seguente. «Ho sognato che entrava in casa con il cappotto stracciato e piangeva» proseguì Lucy. «Tu e i tuoi stupidi sogni» brontolò la mamma. «Hai quasi sessan13
tasei anni e parli ancora come una bambina!» A Lucy tremarono le labbra. Era molto suscettibile riguardo all’età. «Non sono sogni stupidi. Ricordati che cosa sognai quella volta, prima che Frank rientrasse da…» «Chiudi la bocca» scattò la mamma. «Questa è una casa per bene…» «Be’» dissi io «non sono certo tornata per sentire voi due litigare. Posso prendere un altro scone?» L’orologio della cucina batté le cinque. Aveva uno strano suono, forte e inespressivo. Sospirai. «Perché non buttate via quel ferrovecchio? Mi fa venire i brividi.» «Ma perché, Marnie? Lo ha ricevuto tua nonna come regalo di nozze.» «Ve ne comprerò un altro» dissi. «E chissà che Lucy non la smetta di fare sogni strani.» Lavoravo alla biglietteria del Roxy tutti i giorni, ero libera una domenica sì e una no. La seconda cassiera si chiamava Annie Wilson, ci dividevamo i compiti: una delle due stava allo sportello, l’altra dava una mano. La biglietteria si trovava nell’atrio del cinema, l’ufficio del direttore era a sinistra, subito dopo l’entrata, e non era visibile dalla biglietteria. Tre volte al giorno il signor King, il direttore, veniva da noi, si assicurava che avessimo abbastanza spiccioli per dare il resto ai clienti e si portava via l’incasso. Ogni mattina alle dieci apriva la cassaforte, poi consegnava in banca il ricavato della sera precedente. Qualche volta, naturalmente, restavamo comunque a corto di moneta, allora una di noi andava nell’ufficio del signor King per rifornirsene. Una di quelle volte, a ottobre, ero da poco tornata in servizio e il signor King era a una riunione. «Aspetta» disse Annie Wilson. «Vado io. Il signor King lascia sempre un’altra chiave nel cassetto in alto dello schedario.» 14
La seconda settimana di dicembre avevamo in programma un film che aveva battuto tutti i record di incasso, Santa Clara, e la domenica sarei stata di turno io. Il venerdì dissi alla mia padrona di casa che sarei andata a trovare mia madre a Southport. Il sabato, di ritorno dal Roxy, cominciai a fare i bagagli quando accadde una cosa strana. Stavo usando una vecchia copia del Daily Express per incartare un oggetto fragile, e l’occhio mi cadde su un fatto di cronaca: riguardava una ragazza che avevo quasi dimenticato. «La polizia di Birmingham» diceva l’articolo «è ancora alla ricerca della graziosa Marion Holland, scomparsa dal suo appartamento la sera di lunedì scorso. Inoltre, si cerca di rintracciare mille e cento sterline in contanti, scomparse la stessa sera dalla cassaforte della ditta Crombie & Strutt, dove Marion era un’impiegata di fiducia. “L’abbiamo assunta perché sembrava una brava ragazza” ha detto il direttore George Pringle. “Era timida e riservata, un’impiegata modello.” “Per me è un incubo” ha confessato Ronnie Oliver, il telefonista che corteggiava Marion. “Sono certo che si tratti di un terribile equivoco.” «I connotati di Marion Holland, riferisce la polizia, corrispondono a quelli di una certa Peggy Nicholson, scomparsa l’anno scorso da una ditta di Newcastle con più di settecento sterline. La polizia non esclude che le due giovani possano essere la stessa persona. Ed ecco la descrizione della ragazza: età tra i venti e i ventisei anni, altezza uno e sessantatré, peso sui cinquanta chili e modi accattivanti. I capi del personale sono pregati di prenderne nota.» Non mi era mai capitato di leggere un resoconto tanto dettagliato. Naturalmente sapevo che non c’era nulla che potesse collegare Marion Holland di Birmingham con Mollie Jeffrey di Manchester, e meno che mai con Margaret Elmer che manteneva un cavallo purosangue nei pressi di Cirencester, tuttavia rimasi molto turbata. Per un po’ mi domandai se non fosse una sorta di avvertimento a non tentare un altro colpo. Ma alla fine superai quello sciocco timore. Se ci si ferma a pensare è la fine. 15
La domenica portai la valigia alla stazione e la lasciai al deposito bagagli. Dieci minuti prima delle quattro, orario d’apertura, ero al Roxy. Andai con il signor King nel suo ufficio e ricevetti la solita provvista di moneta. Lui mi seguì fino alla cassa. Mancavano ancora due minuti alle quattro e gli chiesi il permesso di allontanarmi per prendere un’aspirina. «Non si sente mica male, spero?» si informò appena tornai al mio posto. «No, no, grazie.» Sorrisi come facendomi coraggio. «Ora va meglio.» Verso le sette la sala era al completo e fuori c’era la coda. Ancora cinque minuti e il film sarebbe finito, poi un intervallo di dieci minuti avrebbe dato tempo alle persone in coda di entrare prima della successiva proiezione di Santa Clara. Non ricordo di essermi mai sentita nervosa quando arrivava il momento di agire. Mentre gli ultimi spettatori lasciavano la sala, chiamai tranquillamente il signor King. «Cosa c’è?» disse appena vide la mia faccia. «Mi dispiace tanto. Temo proprio di sentirmi male.» «Oh, poverina! Be’, non si preoccupi, prendo io il suo posto.» Agguantai la borsetta e uscii da dietro il banco barcollando. «Forse se mi sdraio per cinque minuti… Riuscirà a cavarsela da solo?» «Ma certo» rispose e s’installò alla cassa. Sempre barcollando entrai nell’atrio, mi diressi a destra – l’ufficio del direttore era a sinistra – e andai verso il bagno. Ma invece di entrare mi infilai nella sala. Una maschera mi puntò la pila in faccia, poi mi riconobbe. «Dov’è Gladys?» bisbigliai. «All’altra porta.» Continuai verso il fondo della sala. Gladys era impegnata nelle prime file, così la scusa che avevo preparato per essermi diretta da quella parte non mi servì. Uscii dall’altra porta, percorsi l’altro corridoio e mi infilai nell’ufficio del direttore. Chiusi la porta. Andai subito allo schedario e aprii il cassetto superiore. Sul fondo trovai un 16
paio di guanti. La chiave era in uno dei pollici, girò nella serratura senza sforzo. Oltre ai sacchetti di monete, nel cassetto c’erano pile di banconote: l’incasso della giornata più quello del sabato. Si può fare entrare una gran quantità di soldi anche in una borsa piccola, se te la porti in giro vuota. Chiusi la cassaforte e rimisi a posto la chiave. Poi uscii e tornai in sala. Stavolta Gladys mi vide. «Sei fuori servizio a quest’ora?» si meravigliò. «No, no, un minuto solo e torno» dissi, e mi avviai lungo lo spazio a metà platea verso l’uscita laterale. «Non è facile vivere come faccio io» disse l’uomo sullo schermo. «Sono disposta a tutto pur di stare con te» rispose la ragazza che gli era di fronte. Tutte sciocchezze senza senso. Imboccai l’uscita e me la filai.
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Un anno dopo il colpo al Roxy, risposi a un’offerta di lavoro della John Rutland & Co. di Barnet. Si trattava di un posto da vice cassiera. Non so, forse il destino esiste davvero, dato che tra le tante inserzioni avevo scelto proprio quella, ma io non avevo mai creduto al destino. A gennaio avevo cominciato a lavorare a Londra, presso l’agenzia di assicurazioni Kendall. Avevo capito subito che dalla Kendall non avrei ottenuto altro che buone referenze e soltanto per quello avevo deciso di restare. La lettera di risposta che mi arrivò dalla Rutland portava l’intestazione John Rutland & Co. Arti Grafiche. Ditta fondata nel 1869. Diceva: «Gentile signora, la ringraziamo per la sua cortese risposta. La aspettiamo per un colloquio presso i nostri uffici martedì prossimo alle undici in punto. S. Ward (direttore)». Il colloquio si svolse in una stanza piuttosto piccola, dove due uomini dietro una scrivania mi fecero le solite domande. Dissi che mi chiamavo Mary Taylor e che lavoravo all’agenzia Kendall di Londra da gennaio. Era il mio primo lavoro. A vent’anni mi ero sposata e avevo vissuto a Cardiff fino a quando mio marito non era rimasto ucciso in un incidente stradale, nel novembre dell’anno precedente. Avevo seguito corsi di stenografia, dattilografia e contabilità. Alla 18
Kendall facevo la dattilografa, ma miravo a un posto che mi offrisse maggiori prospettive. Intanto, avevo osservato bene i due uomini. Il signor Ward, il direttore, era un individuo sulla cinquantina, acido e rinsecchito, con occhiali dalla montatura d’oro. Aveva l’aria di chi ha fatto una lunga gavetta e detesta chi cerca scorciatoie. L’altro si chiamava Mark Rutland, era giovane, bruno, pallido, dall’aspetto un po’ fragile, con un ciuffo ribelle che avrebbe avuto bisogno di una pettinata. Era uno dei dirigenti della compagnia, di certo figlio di un pezzo grosso, e sembrava proprio il tipo che arriva direttamente in cima senza mai essere passato dai piani bassi. «È originaria di Cardiff, signora?» si informò il signor Ward. «No, vengo dalla costa orientale. Da Norwich. Ma mio marito faceva il progettista a Cardiff.» «E i suoi genitori vivono ancora a Norwich?» domandò il signor Rutland. «No, signore. Dopo il mio matrimonio si sono trasferiti in Australia.» Il signor Ward si agitò sulla sedia. «Non potreste darci qualche altra referenza, a parte quelle della Kendall?» «Be’… c’è la mia banca di Cardiff. La Lloyds Bank di Monmouth Street.» Il signor Ward grugnì e cominciò a farmi delle domande sulla gestione dei libri contabili. Infine aggiunse: «Bene, basta così, signora Taylor. Grazie». E anche se lo aveva detto controvoglia, dal suo atteggiamento mi resi conto di essere stata assunta. Era come se avesse ricevuto un cenno di assenso dal più giovane. In seguito, dopo aver preso servizio, cercai nell’archivio e mi accorsi che avevano scritto alla banca di Cardiff. La banca aveva risposto: «La signora Taylor è nostra cliente soltanto da tre anni, ma il suo conto è sempre stato in ordine, inoltre siamo rimasti favorevolmente colpiti dal suo modo di fare e dalla sua personalità». Aprire un conto in banca sotto falso nome non è cosa da poco, co19
munque ero riuscita nell’impresa tre anni prima, quando lavoravo a Cardiff. Di tanto in tanto ero andata a versare del denaro e un paio di volte avevo parlato con il direttore di cose poco importanti. Se si agisce con prudenza e attenzione, ci si può creare un passato credibile. Poi c’è il problema delle tessere del Fondo di Previdenza Nazionale, ma non è un’operazione complicata. Conosco un posto a Plymouth dove è possibile acquistarle, basta compilare un modulo con un nome e un numero di matricola. Poiché hanno una durata di dodici mesi, è importante lasciare il lavoro prima che la tessera scada. Presi servizio alla Rutland il lunedì successivo. Appena arrivata ebbi un colloquio con il signor Christopher Holbrook, il direttore generale. Era un uomo grassoccio, sulla sessantina, con un sorriso che si accendeva e si spegneva come una stufa elettrica. «La Rutland è più una famiglia che un’azienda, signora Taylor, e sono lieto di darle il benvenuto tra noi. Io e il signor Rex Newton-Smith siamo i nipoti del fondatore. Mio figlio, il signor Terence Holbrook, è un dirigente, come il signor Mark Rutland che lei ha già conosciuto. Abbiamo novantasette dipendenti e tutti si sentono parte integrante dell’attività, si sentono in famiglia.» Un sorriso gli accese il volto, che subito si riscaldò, poi il sorriso si spense e il suo viso tornò freddo. «Ci stiamo allargando, signora Taylor» proseguì. «L’anno scorso abbiamo aperto un punto vendita proprio di fronte. Per il momento lavorerà come cassiera al nuovo negozio, ma col tempo speriamo di averla qui in sede, con la signora Clabon. I lavori tipografici della Rutland sono noti in tutta l’Inghilterra, posso dirlo con cognizione di causa. Stampiamo un po’ di tutto: dalla carta da lettere ai cataloghi, ai menu, fino ai libri di testo e ai cartelloni pubblicitari. Sono certo che si troverà bene con noi, la nostra è una ditta che ha spirito d’iniziativa e gratifica sempre i suoi dipendenti.» Poi tacque, come se si aspettasse che qualcuno gli dicesse: «Bravo!», per cui aggiunsi: «Ne sono certa, signore». 20
Holbrook riaccese il sorriso e si alzò, così mi alzai anch’io. E proprio in quel momento entrò un uomo più giovane. «Ah, ecco mio figlio, il signor Terence Holbrook. Terry, questa è la signora Mary Taylor, è appena stata assunta.» Il giovane Holbrook venne a stringermi la mano. Aveva i capelli biondi piuttosto lunghi, il labbro inferiore sporgente e indossava abiti di ottimo taglio. «Molto lieto» disse. «Spero che si troverà bene qui da noi.» Mi portarono in giro nei diversi reparti dell’azienda, ma quel primo giorno non riuscii a rendermi conto della situazione con precisione: troppi rumori, troppe facce nuove. L’ufficio in cui si trovava la cassaforte mi piacque subito, però. Aveva una parete di vetro smerigliato che lo separava dalla stanza del centralino, dove c’era soltanto una telefonista con uno schedario. Dunque, si trovava in una posizione ideale. Con tutta l’esperienza che avevo, ormai la parte della nuova arrivata mi riusciva alla perfezione e non ci misi molto ad ambientarmi alla Rutland. Susan Clabon, la capo cassiera, fu un po’ fredda all’inizio, mentre Dawn Witherbie, che lavorava al negozio, fu da subito molto cordiale e soprattutto utile con la sua loquacità. «Allora, Mary, ora ti spiego. Quando cominciai a lavorare qui, il direttore generale era George Rutland, il padre di Mark. Alcuni anni dopo la sua morte, Christopher Holbrook prese il suo posto e Mark Rutland entrò a far parte dell’azienda. Il tè ti piace dolce? Quanti cucchiaini, uno o due? Adesso Holbrook se ne sta tutto il giorno in ufficio a darsi delle arie, ma sono i due giovani, Mark e Terry, a fare il grosso del lavoro. Pensa che Mark ha completamente rivoluzionato le cose quando è arrivato, il negozio è stato una sua idea e grazie a lui le vendite sono aumentate moltissimo in poco tempo. Oh, a maggio devi assolutamente venire al ballo! Sei così carina, gli accompagnatori non ti mancheranno. Prima del ballo c’è una cena, è una tradizione, ci vanno tutti, anche i direttori. L’anno scorso mancava solo Mark 21
che aveva perso da poco la moglie. Terry è simpaticissimo, con lui ci si diverte sempre, ma stai attenta perché ha un debole per le belle ragazze.» «Ha perso la moglie?» «Chi, Terry? No, Terry è divorziato. È Mark quello che ha perso la moglie.» «Forse per questo è così pallido.» «Che io ricordi è sempre stato pallido. Comunque la moglie aveva solo ventisei anni, poverina. Qualcosa ai reni, credo.» Poi ammiccò. «Ti sarai accorta che Mark e Terry non sono in buoni rapporti… anche se non ho idea del perché. Di solito se due uomini non vanno d’accordo c’è di mezzo una donna, ma non è il loro caso.» Non mi interessava affatto sapere perché quei due non andavano d’accordo, non avevo certo intenzione di restare a lungo. In ogni caso dovevo procedere con calma. Aprii un nuovo conto in banca e vi trasferii l’ammontare del mio libretto di Cardiff. Durante quel periodo evitai di andare a trovare mia madre. Aveva lo sguardo più acuto di una lince e spesso le sue domande mi innervosivano. Ero alla Rutland da circa due mesi, quando fui convocata per una specie di riunione al vertice con tutti i capi. C’era anche l’altro direttore, Rex Newton-Smith, un uomo grande e grosso con una vocetta stridula. Parlò quasi sempre il vecchio Holbrook e, come al solito, sembrò che stesse tenendo un discorso elettorale. Dopo un po’ mi resi conto che stava parlando di me, diceva che erano tutti soddisfatti di come avevo rimesso in ordine i registri contabili del nuovo negozio e volevano il mio parere sul modo di riorganizzare il sistema contabile dell’azienda vera e propria. Ero lusingata e anche un po’ sorpresa, perché in realtà al mio posto avrebbero dovuto convocare Susan Clabon. Espressi la mia opinione come meglio potei e, mentre parlavo, mi accorsi che Mark Rutland continuava a fissarmi. Capii che dietro tutta quella manovra c’era lui. 22
Sebbene Dawn Witherbie mi avesse avvertita, rimasi comunque colpita dalla latente ostilità che serpeggiava tra Mark e i due Holbrook. Newton-Smith più che altro fungeva da paciere. Proprio quando avevamo finito, suonò la campana che segnava l’intervallo per il pranzo. Mentre mi dirigevo in tipografia, Terry Holbrook mi raggiunse. «Complimenti, signora Taylor» disse. «Per la verità sono un po’ in imbarazzo: avreste dovuto convocare Susan Clabon al posto mio.» «Gli altri volevano, infatti, ma io mi sono opposto perché lei ha le gambe più belle…» Gli lanciai un’occhiata di sotto in su, come si fa in autobus quando qualcuno ti si poggia addosso con troppa insistenza. Lui riprese: «Tra un anno sarà lei la capo cassiera e tra due, chi lo sa, il suo avvenire è talmente brillante che le serviranno gli occhiali da sole». Continuammo a camminare tra i macchinari spenti. C’erano ancora parecchie persone che indugiavano prima di andare a pranzo. «Salve Tom» disse a un certo punto Terry rivolgendosi a uno degli impiegati. «Hai piazzato qualche buona scommessa sabato?» «Sì, una» rispose il ragazzo. «Su Eagle Star.» Eagle Star era un bel cavallo scuro con una macchia sul muso, mi ricordai di averlo visto correre a Manchester, all’Handicap di novembre. Quando Terry si voltò, notai che aveva una brutta voglia sul collo. Probabilmente era per quello che portava i capelli tanto lunghi. Non lo si poteva certo definire bello, con quel labbro sporgente, e aveva il sorrisetto furbo di chi non si fa scrupoli. D’improvviso l’intero edificio si svuotò e ci ritrovammo soli. Ebbi la sensazione che avrebbe tentato di mettermi le mani addosso. Mi allontanai. «Cosa pensa delle persone che lavorano qui?» mi domandò. «Per quel poco che ho visto finora, mi sembra tutta gente simpatica.» 23
«L’importante è saper scegliere gli amici giusti, non crede? Lei che tipo di amici cerca, Mary?» Non era difficile capire dove voleva andare a parare. «Be’, Terry» risposi, «sono passati soltanto pochi mesi da quando ho perso mio marito.» E con quello gli chiusi la bocca. Poi il mio sguardo si posò di nuovo sulla voglia che aveva sul collo e non so perché ma mi fece pena. Non avevo mai provato pena per nessuno in vita mia, né gli altri ne avevano provata per me. Diciamo che la situazione era piuttosto equilibrata. Eppure, in quel momento mi venne istintivo domandarmi se quella voglia non avesse rappresentato un problema per lui. Forse i compagni di scuola lo avevano deriso, forse le ragazze lo avevano evitato. Forse anche Terry era sempre stato ai margini come me. Ma non avevo alcuna intenzione di farlo sentire accettato con un’amicizia particolare. «Mi scusi, signor Holbrook» gli dissi. «Ora devo proprio andare a pranzo.» Ogni giorno, dopo la chiusura del negozio, l’incasso veniva portato nell’edificio principale e conservato in cassaforte. Non era mai depositato in banca perché serviva per le buste paga che si distribuivano ogni venerdì. Le buste paga ammontavano a un totale di milleduecento o milletrecento sterline, e gli incassi potevano variare tra le cento o le quattro, cinquecento sterline alla settimana. Il giovedì sera, prima che la banca chiudesse, si ritirava la differenza necessaria per raggiungere l’ammontare degli stipendi. Una volta trasferita dal negozio all’edificio principale, sarebbe toccato a me aiutare Susan Clabon a preparare le buste paga del venerdì. Erano tre le persone in possesso delle chiavi della cassaforte: il signor Ward, Mark Rutland e Christopher Holbrook. La settimana successiva, Mark entrò nell’ufficio del signor Holbrook e mi sorprese ad annusare le rose che si trovavano sulla scriva24
nia. Avevo fatto appena in tempo a chiudere il cassetto e a spostarmi dall’altra parte del tavolo. Arrossii e spiegai che avevo portato degli assegni da firmare al signor Holbrook ed ero rimasta incantata dal profumo delle rose. «Sono le prime della stagione» disse lui. «Mio padre era un grande coltivatore di rose, gli interessavano molto più dell’azienda, in realtà.» «Una volta ho avuto una pianta di roselline rampicanti, cresceva sopra il cancello della nostra casa di… di Norwich.» «Il mese prossimo ci sarà la mostra annuale della National Rose Society. Vale la pena di andarci, se le interessano le rose.» «Grazie. Me ne ricorderò.» Mentre mi avviavo alla porta, lui aggiunse: «A proposito, signora Taylor, venerdì prossimo c’è il nostro ballo annuale. Di solito ci vanno tutti i dipendenti, in particolare i nuovi arrivati, ma se non se la sente di partecipare per il suo recente lutto, me lo faccia sapere, lo spiegherò io allo zio». «Grazie» risposi con gli occhi bassi. «Glielo farò sapere.»
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Avevo sette o otto anni quando mi accorsi di essere molto più sveglia dei miei coetanei. Se finivo nei guai, riuscivo sempre a venirne fuori, e nella maggior parte dei casi non ci finivo affatto. A dieci anni ero stata sorpresa a rubare due volte, ma entrambe le volte era stata colpa della mia compagna che all’ultimo momento aveva avuto paura e aveva confessato ogni cosa. Imparai subito che era molto meglio non avere partner e da allora in poi non mi feci mai più trovare con le mani nel sacco. Anche la scenata che mi aveva fatto mia madre mi aveva insegnato molto. Me le aveva date di santa ragione con una bacchetta, ho ancora una piccola cicatrice sulla coscia. Non avevo mai visto mia madre tanto fuori di sé. Continuava a urlare: «Dio non mi aveva punito abbastanza, doveva darmi anche una figlia ladra! L’ho nutrita, l’ho vestita, l’ho educata, l’ho accudita e ora guarda cosa mi tocca vedere!». Soffocata dalle lacrime, non ero riuscita a spiegarle, né allora né in seguito, che in fondo avevo rubato soltanto per lei. Non mi mancava niente, certo, mia madre pensava al cibo, ai vestiti e al resto, ma si privava di troppe cose per me e io non riuscivo a sopportarlo. Quando papà era morto in guerra, nel 1943, io avevo sei anni e la mamma aspettava il secondo bambino. In poche settimane ave26
va subito la perdita del marito e quella della sua casa di Keyham, a Plymouth, distrutta dalle bombe. Ci avevano fatto evacuare a Liskeard e, quando le erano venute le doglie, il medico era occupato con pazienti più ricchi e la mamma fu costretta a partorire soltanto con l’aiuto della levatrice. Qualcosa andò male, il bambino morì e da allora lei cominciò a zoppicare. Ci fu anche un breve processo contro il medico, che naturalmente riuscì a cavarsela. L’anno dopo ritornammo a Plymouth, dove frequentai le scuole fino ai quattordici anni. Sulla mia scheda di valutazione la preside scrisse: «Margaret è molto dotata, sarebbe un peccato se dovesse abbandonare gli studi tanto presto. Temo, tuttavia, che le sue doti potrebbero portarla sulla cattiva strada, per questo è importante che frequenti compagnie adeguate. Mi auguro che saprà sfruttare al meglio tutte le sue qualità». E infatti le avevo sfruttate al meglio. Il ballo annuale della Rutland si teneva all’Hotel Stag e alla fine decisi di andarci. Il signor Holbrook fece un discorso che a tratti si perse tra i rumori del traffico provenienti dalle finestre aperte della sala. «Signore e signori» disse «sono lieto di prendere la parola per proporvi di…» Un pesante automezzo e quattro macchine. «… nel complesso un’annata veramente soddisfacente. Abbiamo avuto qualche momento di preoccupazione durante le controversie sindacali del giugno scorso, ma possiamo rallegrarci…» Tre motociclette. «… nel corso dell’anno abbiamo assunto quindici nuovi dipendenti. Diamo loro…» Macchine, in un senso e nell’altro. «… zarsi, per favore, così che possiamo vederli bene in faccia.» Un giovane impiegato accanto a me bisbigliò: «Anche tu sei nuova, Mary, alzati». Mi alzai con un sorriso incerto, mi guardai un po’ intorno e incontrai lo sguardo di Mark Rutland. Tornai a sedermi in tutta fretta. 27
Dopo cena, Terry Holbrook mi invitò a ballare. Era molto bravo e seguirlo era facile. Di solito non andavo alle feste, sia per mancanza di tempo, sia perché poi era difficile scrollarsi i ragazzi di dosso. Spesso, però, avevo sognato di balli in cui sfoggiare abiti vaporosi in un’atmosfera di eleganza, di luci tenui, di colori e di musica. Sono un’inguaribile romantica. «Te l’aveva mai detto nessuno che sei molto carina?» disse Terry. «Non saprei.» «Ma che modestia! Permettimi almeno di dirti che il tuo abito è delizioso.» L’avevo acquistato il giorno prima, mi era piaciuto subito perché era semplice e insieme raffinato e avevo creduto che nessuno si sarebbe reso conto che non si trattava di un capo dozzinale. Ma a quella volpe di Terry non sfuggiva niente… «E poi, Mary, balli in modo splendido.» «Grazie.» Per tutto il resto della serata ballai con altri cavalieri. Poi, verso le dieci, Terry si avvicinò e disse: «Sto invitando un po’ di persone a casa mia per bere qualcosa e fare due chiacchiere». Sapevo bene che in quei casi era molto più saggio mantenere una certa distanza, ma non sempre si fanno le cose con intelligenza. «Grazie, volentieri» risposi. Raggiunsi la casa di Terry nella Jaguar dei MacDonald, una disinvolta e ricca coppia londinese ospite della Rutland, e divisi il sedile posteriore con la mia collega Dawn Witherbie. L’appartamento di Terry era arredato con gusto moderno: moquette viola, pareti gialle e arancio, luci al neon e un angolo bar tutto in cuoio blu. Eravamo in dodici e tutti bevevano e chiacchieravano abbondantemente. Tutti tranne me: con la vita che facevo non era il caso che diventassi troppo loquace. A un certo punto Terry portò un tavolo in mezzo alla stanza e mi domandò: «Sai giocare a poker, Mary?». 28
«No, non gioco mai d’azzardo» risposi. Rise. «Ma è solo per divertirsi. Non è vero gioco d’azzardo. È facile, ti faccio vedere come si fa… Alistair, la puntata massima è di due scellini, vero?» «Terry, vecchio mio» sentenziò Alistair MacDonald «il piatto basso ammazza il bluff.» «Alistair, ragazzo mio» replicò Terry facendogli il verso «questa sera la compagnia è mista.» «Tesoro, non essere noioso!» disse Gail MacDonald rivolta al marito. «Non hai capito che Terry ci ha portato in visita nei quartieri bassi?» Poi si voltò verso di me e aggiunse: «Oh, non mi riferisco a te, cara, hai un vestito splendido… Terry, cucciolo, giocheremo come vuoi tu». E lo baciò. Alcuni di loro si sistemarono attorno al tavolo. Io non ne avevo voglia, ma Terry aveva deciso di insegnarmi a giocare a tutti i costi e, mentre lo faceva, una delle sue mani riusciva sempre a sfiorarmi da qualche parte: un momento me la sentivo attorno alla vita, l’attimo dopo me la trovavo sulla spalla. Ero contenta che i MacDonald si fossero offerti di riaccompagnarmi a casa. Prima di cominciare, finsi di non avere abbastanza soldi, così Terry mi prestò due sterline, ma non ebbi fortuna e, dopo averle perse, mi misi in disparte per osservare il gioco. In effetti, non era difficile. Pensai che chiunque con un po’ di tempo a disposizione avrebbe potuto calcolare le probabilità di vincere con determinate combinazioni di carte. Approfittando del fatto che gli altri erano distratti, tirai fuori un pezzetto di carta e mi misi a fare i conti. Verso le tre, due coppie se ne andarono, gli altri invece insistettero per continuare a giocare e mi costrinsero a partecipare di nuovo. Tirai fuori una sterlina e giurai che, persa quella, sarei tornata a casa anche a piedi. Le cose andarono diversamente. Mi fu utile tutto ciò in cui ero brava: la capacità di nascondere quello che pensavo, la velocità nei 29
calcoli e la passione per i soldi. Non che mi divertissi, intendiamoci, il gioco mi ha sempre fatto paura. L’unica volta che avevo puntato una sterlina su un cavallo, subito dopo mi era venuta la nausea per l’ansia. Verso le cinque, quando smettemmo, avevo vinto ventidue sterline. Ero sudata, intontita ed ero contenta che fosse finita. Dapprima non volevo nemmeno accettare il denaro. «Riprendetevelo» protestai. «È troppo.» «Ha giocato molto bene» mi disse Alistair MacDonald, dandomi una pacca sulla spalla. Era l’unico che avesse vinto oltre a me. «L’ultima candela è spenta e il giorno appare…» recitò la moglie con uno sbadiglio. Andammo in camera da letto per prendere i soprabiti. Mi accorsi che sulla manica del mio c’era una macchiolina e mi attardai un attimo tentando di mandarla via. Ci impiegai al massimo cinque secondi, ma quando tornai in soggiorno Terry stava salutando gli altri che erano già usciti. Notai che i soldi della mia vincita erano ancora sul tavolo. Li presi e li misi in fretta nella borsetta. Quando mi avviai alla porta, Terry mi sbarrò la strada, mi fece l’occhiolino e sorrise con quel suo strano labbro sporgente. «Resta ancora un minuto, dai.» «I MacDonald mi stanno aspettando.» «Ma no, se ne sono già andati. E non fare quella faccia preoccupata! Ti riaccompagno io tra poco.» Mi prese per un braccio e mi sospinse verso il soggiorno. «Che cosa avranno pensato gli altri?» protestai. «Che cosa avranno pensato?» Rise. «Su, andiamo, la regina Vittoria è morta da un pezzo.» Aprì le tende. «Vedi? È giorno ormai, il tuo onore è salvo.» Non risposi. Lui mi fissò dritto negli occhi. «Ascolta, dolcezza, è inutile andare a dormire a quest’ora. Tanto fra quattro ore si torna al lavoro. Non so tu, ma io muoio di fame, ho pensato che prima di portarti a casa potremmo fare colazione insieme.» Cominciai a raccogliere le carte da gioco. Con i vari Ronnie Oliver 30
sapevo bene come destreggiarmi, ma Terry era diverso, era un tipo molto più raffinato. Ed era il mio capo. Se volevo tenermi il posto, dovevo cercare di stare al gioco il più possibile. «Che cosa vuoi per colazione?» domandai. «Sapevo che eri la ragazza per me. Bacon e uova, ti va?» «D’accordo. Ma promettimi che subito dopo chiamerai un tassì.» Andai in cucina e cominciai a preparare le uova. «Mary, dolcezza» saltò su lui «non vorrai mica rovinarti il vestito! Aspetta, ti prendo un grembiule.» Naturalmente fu lui ad annodarmelo attorno ai fianchi e dopo ne approfittò per cingermi la vita con le braccia. «Al ballo ti avevo detto che sei carina…» disse. «Be’ non è vero: sei bellissima» e mi baciò sulla nuca. Tentai di allontanarmi. «Se non la smetti subito me ne vado a casa!» «Perché?» «Perché sono fatta così.» Era sempre lì, vicino a me. Troppo vicino. «Non sono sicuro di aver capito come funziona la tua testolina, Mary. Quale segreto si nasconde lì dentro?» «Non c’è nessun segreto. Sono una ragazza come tutte le altre.» «Oh, no, tu non sei come le altre. Vedi, dolcezza, le donne non sono esattamente un mistero per me. Ne ho conosciute parecchie. Tu sei diversa. La tua testa funziona in modo diverso.» «Ecco la tua colazione» tagliai corto. «Attento che scotta.» Tornammo nel soggiorno e cominciammo a mangiare. Lui continuava a guardarmi. Il suo viso non era bello, però era interessante: sfrontato, sfuggente e molto molto furbo. «Mary, posso dirti una cosa? Ti chiedo scusa, so che tuo marito è morto da poco e quindi non dovrei dirlo, ma… ecco, non hai l’aria di una vedova.» Mi alzai. «Bene, mi sembra arrivato il momento di andare.» 31
Si alzò a sua volta e fece il giro della tavola. «È meglio se mi colpisci sull’altra guancia. Questa qui è già abbastanza colorita.» Era la prima volta che accennava apertamente alla sua voglia. «Perché dovrei farlo?» dissi. «Alle donne di solito piace schiaffeggiare gli uomini dopo essere state baciate. Ho pensato che tu avresti preferito farlo prima.» Il cuore prese a battermi furiosamente. «Grazie, non ci tengo. Ora, per favore, mi chiameresti un tassì?» Mi strinse di nuovo a sé. Gli puntai le mani contro il petto e quando sentì che lo respingevo allentò la presa, ma non mi lasciò andare. A distanza ravvicinata, mormorò: «Dolcezza, tu mi fai proprio girare la testa. Concedimi almeno il bacio della buonanotte». Ci pensai un momento. «Poi mi chiamerai il tassì?» «Parola d’onore.» Sollevai appena il viso e sentii le sue labbra sulle mie. Il bacio si trasformò all’istante in qualcosa di molto più passionale e violento. Provai un senso di nausea, mi voltai di scatto e tentai di divincolarmi. Forse lo colpii al naso con lo zigomo, perché mi lasciò andare all’improvviso e per poco non caddi. Mentre si massaggiava il naso, mi guardò in un modo che mi fece accapponare la pelle. Afferrai il soprabito e la borsetta e corsi verso l’uscita. La porta si aprì, ero libera. Mi precipitai per le scale come una pazza, mi immersi nell’aria pungente del mattino e mi strofinai le labbra con il dorso della mano.
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