Miles Davis - La storia illustrata

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MILES DAVIS la storia illustrata Sonny Rollins, Bill Cosby, Herbie Hancock, Ron Carter, Clark Terry, Lenny White, Greg Tate, Ashley Kahn, Robin D.G. Kelley, Francis Davis, George Wein, Vincent Bessières, Gerald Early, Nate Chinen, Nalini Jones, Dave Liebman, Garth Cartwright e Karl Hagstrom Miller con

Fotografie dagli archivi di Francis Wolff, William Gottlieb, Bob Willoughby, William “PoPsie” Randolph, Lynn Goldsmith e altri


Immagine promozionale dell’agenzia Shaw Artists, attorno al 1955.


Sommario introduzione

Running the Voodoo Down . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 6

capitolo 1

il giovane artista 1926–1948 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 10

capitolo 2

Gli esordi di Ashley Kahn Tanto tempo fa... di Clark Terry

Birth of the Cool 1949–1953 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 40

Miles negli anni ’40 e nei primi ’50 di Sonny Rollins Lo stile di Miles di Bill Cosby

capitolo 3 Hard Bop 1954–1958 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 68

capitolo 4

Kind of Blue 1958–1963 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 94

capitolo 5

Miles, Tony Williams e la strada per Bitches Brew di Lenny White Miles acustico di Karl Hagstrom Miller

Caduta e risalita 1975–1985 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .176

capitolo 8

Miles e il Quintet degli anni ’60 di Ron Carter e Herbie Hancock Miles e le ballate di Francis Davis

Bitches Brew e oltre 1969–1974 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .142

capitolo 7

Miles, Newport, e il business del jazz di George Wein

Una nuova energia 1964–1968 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .120

capitolo 6

Miles in Francia di Vincent Bessières Love for Sale di Robin D.G. Kelley

Miles e le donne di Nalini Jones Miles Davis sul ring di Gerald Early

Tutu e sipario 1986–1991 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .192

Miles negli anni ’80 di Greg Tate Tempismo di Dave Liebman

postfazione La seconda vita di Miles di Nate Chinen . . . . . . . . . . . . . . . . . . .214 Indice analitico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .220



Introduzione

Running the Voodoo Down

Uno scherzoso Miles, 1955. Pictorial Press Ltd/Alamy

A oltre vent’anni dalla sua scomparsa, Miles Davis rimane un musicista indefinibile e dirompente, una forza straordinaria nel paesaggio sonoro e culturale internazionale. Dal fan occasionale che acquista Kind of Blue perché gli hanno spiegato che è la colonna sonora ideale per una serata intima, all’amante dell’hardcore jazz che gira il mondo a caccia di bootleg dal vivo e registrazioni in studio con questa o quella formazione, non c’è ascoltatore che rimanga indifferente ai prodigi che l’uomo con la tromba estrae dal cilindro. Miles Davis si è conquistato da tempo un posto nel pantheon artistico del XX secolo. È una di quelle rare figure surclassate dalla loro stessa fama. Anzi, tra il grande pubblico sono in molti a identificare il jazz con Miles: non perché sia il musicista che ascoltano di più, ma perché associano il suo nome a un genere (prevalentemente) afroamericano e (prevalentemente) strumentale così come citano Leonardo da Vinci a chi domanda loro di fare il nome di un pittore famoso. Il fatto che nessun disco di Miles abbia mai eguagliato il successo commerciale immediato di un Louis Armstrong o un Herbie Hancock (persino il predominio di Kind of Blue nella classifica dei suoi album più venduti è un fenomeno relativamente recente) rende solo più evidente quanto indelebile sia l’impronta che ha lasciato nel jazz. Se si trattasse di un’impronta lasciata soltanto dalla sua musica, allora potremmo domandarci come la sua musicalità abbia potuto toccare un pubblico tanto vasto. E difatti ha toccato – e continua a toccare – milioni di ascoltatori in tutto il mondo, ma la musica non era che un ingrediente della sua fama. Per essere un uomo così piccolo Miles Davis proiettava un’ombra enorme, e con la sua sola presenza incarnava in ogni loro sfumatura due concetti nuovi e delicati come quelli di cool e blackness. Il distacco e lo sdegno supremo per chiunque altro o quasi contribuirono a creare un personaggio che in molti avrebbero (purtroppo) imitato in seguito. Il coraggio nell’affrontare l’establishment bianco americano – la polizia di New York, i dirigenti delle case discografiche, i razzisti che inorridivano vedendo la bellissima francese Juliette Gréco fra le sue braccia – lo rese un’icona del Potere Nero, per quanto fosse sostanzialmente disinteressato alla politica: a Miles importava solo di Miles. Persino le molteplici ricadute nel tunnel delle droghe pesanti aggiungevano un tocco di fascino equivoco al personaggio pubblico: i giornalisti abituati a concentrarsi sulle disavventure di un Keith Richards o di un Iggy Pop decantavano Miles come un tossico «duro e puro» armato di tromba.

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iles era un mito già prima di morire. «Picasso del Jazz» e «Principe delle Tenebre» sono i più memorabili fra i titoli di ogni genere che osservatori e colleghi musicisti gli affibbiavano. Tentare di descrivere Miles e il vudù sonoro che sapeva creare è come tentare di fermare l’acqua di un fiume. Per quanti sforzi si facciano, il linguaggio rimane sempre uno strumento inadeguato. Chi lo conosceva di persona ne descriveva il carattere, non la musica. Il figlio Gregory Davis scrisse una pessima biografia intitolata Dark Magus. A volte Miles era davvero un mostro, ma per quanto si comportasse in modo discutibile la sua musica rimane un monumento alla creatività, all’emozione e alla bellezza umana. Questo non significa che ogni nota emessa dalla sua tromba abbia un valore artistico: al contrario, i suoi oltre quarant’anni di carriera jazz sono costellati di fiaschi, di esecuzioni mediocri e pure di qualche produzione fredda e cinica. Ma il nucleo dell’opera di Davis non smette di affascinare e merita di essere ascoltato e riascoltato. Miles Davis non riposava mai sugli allori. Per tutta la vita nutrì un desiderio sfrenato di mettere alla prova se stesso e i suoi ascoltatori e, grazie a un intuito implacabile e alla capacità di circondarsi di giovani musicisti talentuosi, ci riuscì più e più volte. Per molti versi incarnava gli ideali più alti degli Stati Uniti: l’energia, la capacità continua di reinventarsi e di ricominciare da capo, creando qualcosa di assolutamente nuovo. Con la sua

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• INTRODUZIONE

arroganza e i suoi eccessi, tuttavia, incarnava anche i peggiori difetti del Paese. Per quanto criticasse l’ipocrisia americana, Miles era un artista americano fino al midollo. Non ho mai avuto occasione di conoscere Miles, né di vederlo in concerto. Possiedo solo le sue registrazioni che mi affascinano sin da quando mi impossessai del vinile di Kind of Blue, la cui copertina dell’epoca mostrava Miles che soffiava nella tromba con i bicipiti gonfi e una canottiera bianca. Era la copertina di una ristampa, un’immagine adatta all’era di Rambo, ma quando posai la puntina sul vinile sentii una musica talmente carica di malinconica tenerezza e di appassionata intelligenza che non ho più smesso di ascoltarla. Chi poteva fare una musica del genere? Da dove arrivava? Dove andava? Quasi trent’anni dopo, continuo a pormi le stesse domande. Come se le pongono, ne sono convinto, tutti coloro che amano ascoltare Miles. Questo libro è una mappa, per così dire, per trovare la strada nella bellezza, nella brutalità e nel genio di Miles Dewey Davis III. Garth Cartwright, giornalista e critico pluripremiato, collabora regolarmente con il Guardian, il Sunday Times, Roots e il sito web della BBC. È autore di Princes Amongst Men: Journeys with Gypsy Musicians e More Miles Than Money: Journeys Through American Music.


Locandina del Belga Jazz Festival, Bruxelles, 29 ottobre 1987.

INTRODUZIONE • 9



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C A P ITO LO

Il giovane

artista

1926 –1948

Una delle prime fotografie conosciute di Miles Davis in concerto, attorno al 1947. Michael Ochs Archives/Getty Images

Miles Dewey Davis III nasce il 26 maggio 1926 ad Alton, Illinois, sul fiume Mississippi. Tuttavia, invece di conoscere i campi di cotone e le capanne dei mezzadri come tanti altri capostipiti del blues, cresce in una famiglia dell’alta borghesia: il padre dentista e in seguito proprietario terriero; la madre, una pianista bellissima e altezzosa; tra gli zii un giornalista, un impresario di pompe funebri, un pastore di fama nazionale e un presidente della naacp. Nel 1929, sapendo che avrebbe giovato alla propria professione medica, il padre trasferisce la famiglia a East St. Louis dove Miles, la sorella maggiore Dorothy e il fratello minore Vernon hanno a disposizione una cuoca e una domestica. Non che la vita sia sempre facile. I genitori di Miles litigano in continuazione (talvolta in modo violento) e la discriminazione razziale getta ancora una tetra ombra sulla città. Pur saldamente radicata nel Midwest, St. Louis è situata sul Fiume Mississippi, e in quanto tale meta privilegiata di chi emigra dagli Stati del Sud in cerca di lavoro, compresi parecchi musicisti d’eccezione: all’inizio del secolo vi si è era stabilito Scott Joplin, il pianista ragtime texano, mentre dal fiume erano sbarcati numerosi jazzisti e bluesmen tra i quali Jelly Roll Morton e il giovane Louis Armstrong. Ciononostante, il razzismo del quale ancora si avvertono gli effetti è, anche quello, particolarmente violento, del Profondo Sud.

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Cartoline di East St. Louis, Illinois.

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in dalla più tenera età, Miles mostra tratti caratteriali che lo avrebbero contraddistinto per tutta la vita: la passione musicale, l’amore per la moda (sempre eleganti, i genitori si assicurano che anche i figli abbiano un guardaroba impeccabile), l’abitudine di parlare chiaro e la consapevolezza che i soldi rendono la vita più facile. Di statura modesta, Miles concentra le sue energie non nello sport – per quanto sia appassionato di pugilato e vada fiero del fatto che il padre ha giocato a golf con Joe Louis, campione dei pesi massimi – ma nello studio della tromba. Innamorato delle fotografie dello strumento impugnato dai trombettisti, a dieci anni dichiara di volerlo suonare. Guardare non significa certo imparare, quindi Miles si dedica a studiare la tromba con la disciplina necessaria, in una città già nota per le marching band di ottoni afroamericane.

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• CAPITOLO UNO

Il suo primo maestro è il nero Elwood C. Buchanan, fautore di una disciplina inflessibile. Deciso a migliorare la tecnica, Miles inizia quindi ad attraversare il Mississippi fino a St. Louis una volta alla settimana per mezz’ora di lezione con Joseph Gustat, primo trombettista della St. Louis Symphony Orchestra. Inizialmente Gustat dichiara di non aver mai sentito un trombettista peggiore, ma Miles lo prende come stimolo a impegnarsi ancora più a fondo. Gustat insisteva perché i propri allievi non si lasciassero trascinare dal vibrato allora tanto di moda e una simile tecnica classica avrebbe poi dato suoi frutti quando Miles, ormai adulto, svilupperà la sua sonorità trombettistica straordinariamente squillante.


«Erano davvero tanti gli gli ottimi musicisti che suonavano sui battelli fluviali in navigazione sul Mississippi da New Orleans a St. Louis. [...] St. Louis è anche vicina a Chicago e Kansas City, così la gente che si muoveva portava a East St. Louis i modi di vivere e di pensare delle altre grandi città.» —Miles Davis, Miles: L’autobiografia

«Ricordo pure com’era la musica giù nell’Arkansas quando andavo a trovare il nonno, specialmente quella del sabato sera in chiesa. [...] Se ben ricordo avevo sei o sette anni. La sera camminavamo su queste strade di campagna tutte buie, e improvvisamente si sentiva una musica che veniva da chissà dove, forse da quegli alberi un po’ inquietanti dove tutti dicevano che si aggirassero i fantasmi. [...]Ricordo che qualcuno suonava la chitarra alla B.B. King. E ricordo anche un uomo e una donna che cantavano e si incitavano a darci dentro! Cazzo, quella musica era davvero speciale, in particolare la tipa che cantava. Penso che quella roba mi sia rimasta dentro, capite cosa voglio dire? Quel genere di sound, quella specie di misto fra blues, musica da chiesa e funk di campagna, quel ritmo e quel suono del Sud e del Midwest. Credo che cominciò a entrarmi nel sangue allora, in quelle strade di campagna popolate di spiriti subito dopo il crepuscolo, quando le civette uscivano a fischiare.» —Miles Davis, Miles: L’autobiografia

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iles si mette in cerca degli ultimi 78 giri jazz e comincia a suonare in formazioni improvvisate con gli amici. Negli anni trenta il jazz è la musica da ballo più in voga in America ma, al di là di Louis Armstrong e Duke Ellington, le band più gettonate sono quelle bianche guidate da figure come Benny Goodman, Glenn Miller, Tommy Dorsey e Gene Krupa. Gli americani di colore preferiscono il jazz-funk di Fats Waller e Cab Calloway, la sublime sofferenza di Billie Holiday, il juke-joint blues e i gorgheggi vocali del gospel: tutti generi di cui Miles ricorderà con affetto le prime esperienze mentre, da bambino, faceva visita ai nonni nella campagna dell’Arkansas. «Se ben ricordo avevo sei o sette anni. La sera camminavamo su queste strade di campagna tutte buie, e improvvisamente si sentiva una musica che veniva da chissà dove [...] un uomo e una donna che cantavano e si incitavano a darci dentro! [...] Quel genere di sound, quella specie di misto fra blues, musica da chiesa e funk di campagna [...]. È per questo motivo che quando iniziai le prime lezioni di musica avevo già una certa idea di come volevo che fosse la mia musica.» Tecnica classica, carattere blues, una granitica fiducia in sé: il giovane artista comincia a prendere forma. Eppure Miles non rincorre il successo commerciale. Mentre nelle classifiche R&B spopolano cantanti gutbucket blues neri quali Roy Brown e Wynonie Harris, Miles si rifugia nel bebop, un genere colto incentrato su tecnica e improvvisazione, apprezzato da appassionati e intellettuali più che dalle masse. È interessante osservare come anche la più celebre creatura musicale di St. Louis fosse nata nel 1926: il genio di Chuck Berry univa vivaci brani hillbilly a ritmi blues e testi spiritosi. Tutt’altro che un privilegiato come Miles, quando comincia a registrare dischi nel 1955 Berry ha già lavorato in fabbrica e scontato una condanna in carcere per rapina a mano armata. I due maestri di St. Louis ebbero modo di incontrarsi? Non esistono prove e Miles non nomina mai Chuck. Viceversa, nel classico hit Rock and Roll Music del 1957, Berry canta: I’ve got no kick against modern jazz, Unless they try to play it too darn fast And lose the beauty of the melody

Louis Armstrong non fu il primo cornettista e trombettista jazz, ma la sua entrata in scena – in particolare con gli Hot Five e gli Hot Seven di Chicago, nei tardi anni Venti – cambiò il jazz per sempre, trasformandolo in una forma d’arte solista dominata dall’improvvisazione.

A giudicare da questi versi, Berry deve aver ascoltato il bebop senza rimanerne entusiasta. Insomma, pur condividendo età, città e razza, i due maestri di St. Louis non potrebbero essere più diversi: Chuck è uno spilungone musicalmente autosufficiente e geniale nella sua ricerca del successo; Miles, un outsider piccoletto che suona con musicisti scelti accuratamente. Eppure, ciascuno a modo proprio, sono due visionari che lasceranno un’impronta indelebile nella musica moderna. Ma la differenza cruciale è un’altra: Berry non si allontana mai dallo stile che lo ha reso famoso, Davis si spinge continuamente in nuove direzioni. E sarà proprio la decisione di superare l’ortodossia bebop dei suoi mentori Dizzy Gillespie e Charlie Parker a consentirgli di ritagliarsi un ruolo nella storia.

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gli esordi di

Ashley Kahn

Ashley Kahn è l’autore di Kind of Blue e A Love Supreme: storia del capolavoro di John Coltrane, due volumi acclamati dalla critica. Grazie alle sue note di copertina ha ottenuto tre ASCAP/Deems Taylor Awards e due nomination ai Grammy.


«Al liceo ero il miglior trombettista del corso di musica. Lo sapevo io e lo sapevano tutti gli altri; ma alla fine il primo premio nelle varie competizioni scolastiche andava sempre a qualche ragazzino dagli occhi azzurri. La cosa mi faceva talmente infuriare che decisi di sbaragliare con la mia tromba tutti i compagni bianchi. Forse, se non mi fossi trovato davanti a questo tipo di pregiudizi, non sarei stato così motivato nel mio lavoro.» —Miles Davis,l’intervista a Playboy, 1962

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’è una storia che Miles Davis amava raccontare e che raccontò per tutta la vita. Un giorno, durante i tre semestri di studio alla prestigiosa Juilliard School of Music, un’insegnante spiegava come il blues nascesse dalle sofferenze dei neri americani. Miles riferirà l’episodio nell’autobiografia: «Se ne stava davanti a tutta la classe ribadendo che la ragione per cui i neri suonavano il blues era che erano poveri e dovevano raccogliere il cotone. Quindi erano tristi e da qui nasceva il blues: dalla loro tristezza. Alzai la mano e subito scattai in piedi: “Io vengo da East St. Louis, mio padre è ricco, è un dentista, eppure suono il blues. Mio padre non ha mai raccolto un solo fiocco di cotone e io stamattina non mi sono svegliato triste e ho cominciato a suonare il blues. C’è molto di più”». (Miles Davis, Miles: L’autobiografia, p. 78) Sorvoliamo pure sul fatto che il trombettista adolescente, allievo di uno dei migliori conservatori del paese in un’epoca assai più razzista e ingiusta della nostra con un exploit simile abbia rischiato di compromettere il proprio avvenire. Eppure un simile semplice scambio di vedute in classe riesce a descrivere in maniera più che eloquente l’uomo che avrebbe cambiato il futuro della musica. Miles era smisuratamente orgoglioso, sicuro di sé e dotato di un’intelligenza straordinaria per la sua età. Di carattere sensibile, a volte fin troppo, era particolarmente irritato dagli stereotipi musicali e da quelli razziali. Era bravissimo a inquadrare le persone e non esitava a metterle in difficoltà: un’abilità affinata col tempo che avrebbe sfruttato per diletto e per proteggersi, ma anche per stringere i migliori sodalizi musicali e ottenere il massimo dalle leggendarie formazioni che metteva insieme. Naturalmente, Miles era anche di una schiettezza brutale. Le circostanze personali esposte alla sbigottita insegnante della Juilliard erano vere, e contribuirono non meno della città e dell’epoca in cui era nato a fare di Miles ciò che era e che sarebbe diventato.

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ituata sulla riva orientale del Mississippi di fronte a St. Louis, nella prima metà del Novecento East St. Louis era una fiorente città industriale che offriva lavoro stabile e una ricca vita culturale. Era ben nota agli afroamericani: nel male in quanto teatro delle sommosse razziali del 1919, tra le più sanguinose della storia del paese; nel bene in quanto culla di una scena musicale intrisa del sound dei molteplici stili blues e jazz che dal Sud affluivano da New Orleans. All’apogeo della Jazz Age, East St. Louis era una meta privilegiata per i battelli carichi di orchestre da ballo o in tournée. Nel 1927, quando Miles Davis aveva un anno, Duke Ellington ottenne il suo primo grande successo con il brano «East St. Louis Toodle-Oo», dando ulteriore risalto alla città. Il padre di Miles Dewey Davis III era un facoltoso dentista e allevatore di maiali laureato al college; la madre Cleota Henry Davis, altrettanto istruita, una violinista ed ex insegnante d’organo. Nato il 26 maggio 1926, Miles abitava tra il fiume e la scuola, entrambi raggiungibili a piedi, in un quartiere medio-borghese di East St. Louis a composizione razziale mista. Un’istruzione rigorosa era una necessità indiscussa, e Miles cominciò gli studi mirando al college e alla laurea. Dal padre – un orgoglioso e autentico race man, per usare il gergo dell’epoca – Miles imparò la coscienza di razza e a non considerarsi svantaggiato per il colore della pelle. Alla madre – con la quale litigava spesso una volta raggiunta l’adolescenza – Miles attribuiva il proprio spirito indipendente e la passione per i vestiti. Fu lei, inoltre, a regalargli due 78 giri che Miles adorava, uno di Duke Ellington e uno di Art Tatum. I primi ricordi musicali erano il blues e il gospel che Miles ascoltava quando faceva visita al nonno paterno nelle campagne dell’Arkansas e gli hit neri che le radio dell’epoca trasmettevano la sera tardi: vale a dire – siamo nei primi anni trenta – le big band e lo swing, le note di Fletcher Henderson e Louis Armstrong.

Miles (sesto da sinistra nell’ultima fila seduta) suonava la tromba nelle bande scolastiche.

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«Suonare con Eddie Randle si sarebbe rivelato uno dei passi più importanti della mia carriera. È stato con la band di Eddie Randle che ho cominciato sul serio ad allargare i miei orizzonti di musicista, mi sono messo a scrivere e a fare arrangiamenti.» —Miles Davis, Miles: L’autobiografia, 1989

Gli Eddie Randle’s Blue Devils (noti anche come Rhumboogie Orchestra) erano una famosa orchestra da ballo degli anni quaranta. Pur facendo base a St. Louis, si esibivano in tutta la regione. Appena diciassettenne, Miles suonò con i Blue Devils per quasi dodici mesi. Qui è seduto in seconda fila, il primo da destra, durante un concerto nel 1944 al Rhumboogie Club, dentro l’Elks Club, nel centro di St. Louis. Frank Driggs Collection/Getty Images

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• CAPITOLO UNO


Già in tenera età Miles era dotato di un orecchio straordinario. Preferiva gli stili raffinati a quelli elementari – ma non avrebbe mai perso la passione per il blues – e considerava il talento musicale al di sopra di qualsiasi altra caratteristica, razziale e non. «Riconoscevo la differenza fra il sound di una band nera e quello di una band bianca» avrebbe dichiarato nel documentario The Sound of Miles, ammettendo di apprezzare numerosi trombettisti come Harry James e Bobby Hackett che il caso voleva fossero bianchi. A dodici anni la fortuna arrise a Miles, che ormai aveva fatto della musica il suo interesse principale: il padre gli comprò una tromba nonostante le obiezioni della madre, che per il figlio avrebbe preferito il violino. Negli anni trenta, uno studente di tromba non avrebbe potuto desiderare un ambiente migliore dell’area di St. Louis, essendo la città già famosa per la sua ricca tradizione di suonatori di ottoni. La posizione geografica lungo il fiume che scorreva da New Orleans era un vantaggio per tutti, e alcuni prendevano lezioni da un pugno di immigrati tedeschi, profondi conoscitori dello strumento, che qui si erano stabiliti. La robusta tradizione delle parate pubbliche condotte dalle marching bands, inoltre, offriva ai trombettisti la possibilità di suonare allenando i muscoli e la resistenza. Il caso voleva, poi, che il signor Elwood Buchanan, un paziente del padre, fosse uno dei più rinomati insegnanti di musica di East St. Louis e lavorasse alla Lincoln High School, alla quale Miles si era appena iscritto. L’influenza di Buchanan ebbe un impatto fondamentale sugli esordi musicali del giovane: fu lui a convincerlo a evitare il vibrato (tipico di Harry James) per sviluppare invece una sonorità nitida nel registro medio della tromba. Miles fece quindi la conoscenza di Clark Terry, un caro amico di Buchanan, e trovò in lui un nuovo modello da imitare e seguire.

«La prima volta che sentii Miles, avevo due alternative. In realtà tutti i musicisti della band volevano andarsene quando assunsi Miles. Ma io vedevo le sue potenzialità, e dissi: «Caspita, e chi lo ferma più questo ragazzino?» e gli altri dissero: «Be’, hai l’opportunità di prendere quell’altro tipo pieno d’esperienza». E io dico: «Be’, quello ha l’esperienza ma non andrà da nessuna parte, è come me. Suona bene, nient’altro». E dissi che quel giovanotto non lo fermava più nessuno. E così siccome ero il capo, per quanto mi dispiacesse contrariarli, non mi lasciai dissuadere. Ed ero orgoglioso di aver dato quell’opportunità a Miles.»

«La sensazione più fantastica che abbia mai provato nella vita, intendo dire con i miei vestiti addosso, è stata quando ho sentito per la prima volta Diz e Bird suonare insieme a St. Louis nel Missouri nel 1944. [...] Quella roba ti si ficcava nelle ossa. La musica se ne andava su per tutto il corpo, ed era esattamente questo che volevo sentire.» —Miles Davis, Miles: L’autobiografia

Nel 1944 Miles vide per la prima la band di Billy Eckstine, con Dizzy Gillespie alla tromba e Charlie Parker al sassofono, al Club Plantation o al Riviera Club di St. Louis. All’epoca suonavano nella band di Eckstine anche Lucky Thompson, Art Blakey, Gene Ammons e Buddy Anderson.

—Eddie Randle, 1971

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Billy Eckstine, meglio noto come «B», attorno al 1944.

«La band di B cambiò la mia vita. Decisi allora di punto in bianco che dovevo lasciare St. Louis e andare a vivere a New York dove stava tutta questa marmaglia di musicisti.» —Miles Davis, Miles: L’autobiografia


«Dizzy a quei tempi era il mio idolo. Cercavo di suonare tutti gli assolo di Diz dell’unico suo album che possedevo [Woody’n You]. Ma mi piacevano un casino anche Clark Terry, Buck Clayton, Harold Baker, Harry James, Bobby Hackett e Roy Eldridge. Più tardi Roy divenne il mio idolo. Ma nel 1944 era sicuramente Diz.» —Miles Davis, Miles: L’autobiografia

Dizzy Gillespie, attorno al 1946.

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«A quei tempi Bird suonava gli assolo di otto battute, ma ciò che riusciva a fare in quelle otto battute era davvero qualche cosa di diverso. Suonando in quel modo gettava semplicemente nella polvere chiunque altro. Su quel palco io mi dimenticavo di suonare, ma ricordo benissimo che anche gli altri musicisti rischiavano di non entrare a tempo perché stavano ascoltando troppo intensamente Bird. Se ne stavano lì sul palco con la bocca spalancata. Maledizione, come suonava Bird, allora.» —Miles Davis, Miles: L’autobiografia

Nel giro di quattro anni, Miles divenne un promettente membro della comunità musicale di St. Louis: di giorno andava a lezione, il pomeriggio e la sera studiava musica, nel fine settimana si esibiva in concerti improvvisati nei bar e nei locali. Autodidatta, ricorderà una conversazione sul palco che lo aveva convinto a imparare le scale cromatiche e ad arricchire il repertorio. «Quando avevo intorno ai quindici anni», rivelò poi al critico Ben Sidran (Talking Jazz, pp. 9-10) «c’era un batterista con cui stavo suonando un pezzo al Castle Ballroom di St. Louis: era una band di dieci elementi, con tre trombe, sai. Quello mi chiese: “Piccolo Davis, perché non suoni quello che hai suonato ieri sera?”. Io risposi: “Cosa? Di cosa parli?”. Lui disse: “Non lo sai?”. E io: “No, non lo so”. “Hai suonato qualcosa che partiva per la tangente a metà del motivo.” Io dissi: “Non so cos’ho suonato”. E lui: “Se non sai cosa suoni, allora non sei nulla”. Be’, mi colpì come una rivelazione, BAM! E così cominciai a procurarmi di tutto, qualsiasi libro che potessi trovare per imparare la teoria.»

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oiché Miles era ancora molto timido, fu la sua ragazza Irene – dalla quale avrà tre figli – a telefonare al leader di una band locale in cerca di un musicista per chiedergli di sottoporlo a un’audizione. Entrare nella Rhumboogie Orchestra (nota anche come Blue Devils) del trombettista Eddie Randle si rivelerà «uno dei passi più importanti della mia carriera» (Miles Davis, Miles: L’autobiografia, p. 42). Le esibizioni regolari con una delle formazioni più affermate di St. Louis in una delle migliori sale da ballo della città permettevano al giovane trombettista di entrare in contatto con una serie di musicisti di professione, molti dei quali gli offrivano consigli e lezioni estemporanee. Grazie a questa esperienza Miles migliorò tecnicamente e affinò le

Charlie Parker, attorno al 1946.

proprie doti di compositore e arrangiatore. Alla fine divenne il direttore musicale di Randle, incaricato di organizzare le prove e reclutare i musicisti, conquistando così la stima di parecchie importanti figure a livello locale e nazionale. I sassofonisti Lester Young, Benny Carter e Sonny Stitt e i trombettisti Kenny Dorham, Roy Eldridge e Fats Navarro sono fra le maggiori personalità che Miles ricorderà di aver conosciuto mentre suonava con Randle. Una sera Clark Terry si precipitò a dirgli quanto era rimasto impressionato da ciò che aveva sentito. E Miles ancora rammentava l’insolenza con cui aveva replicato al suo mentore: «“Sì, stronzo. Ora vieni a dirmi tutte queste stronzate mentre al nostro primo incontro non mi avresti nemmeno rivolto la parola. [...]”. E così ci mettemmo a ridere e diventammo grandi amici» (Miles Davis, Miles: L’autobiografia, p. 59). Miles stava rapidamente conquistando una propria autonomia, in ogni senso. Nel 1944 si diplomò al liceo e diventò padre per la prima volta; pur non essendo sposato con Irene, dichiarò di voler provvedere a lei e alla bambina. Nonostante la madre premesse per la Fisk University, decise inoltre di partire per New York e fare un’audizione alla Juilliard, anche se gli sarebbe toccato aspettare fino a settembre. Per ingannare il tempo continuava a suonare con la Rhumboogie Orchestra, ansioso come molti giovani della sua età di imbarcarsi nella fase successiva della sua vita. È importante osservare che Miles continuò a collaborare con Randle fra il 1943 e il 1944, un periodo cruciale nel quale intervennero numerosi cambiamenti sociali e culturali a livello nazionale. Il Secondo conflitto mondiale – una guerra dalla quale il giovane Miles ancora minorenne venne risparmiato – era a un punto di svolta. Quasi tutti gli uomini maturi erano in uniforme e perciò le big band come quella di Randle erano costrette ad assumere musicisti più giovani. Inoltre, i gruppi in tour che facevano tappa in città cercavano spesso musicisti locali per completare l’organico: insomma, le opportunità fioccavano per un giovane musicista di St. Louis munito della tessera sindacale.

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«A quei tempi, il posto per gli aspiranti jazzisti era il Minton’s; non è vero che fosse la Strada, come cercano di far credere oggi. Era da Minton’s che un musicista poteva davvero affilare i denti, e soltanto dopo poteva andare giù alla Strada. La Cinquantaduesima Strada era tranquilla in confronto al Minton’s. Si andava sulla Cinquantaduesima per fare soldi e per farsi vedere dai critici musicali bianchi e dai bianchi in generale.» —Miles Davis, Miles: : L’autobiografia

Il Minton’s Playhouse sulla Centodiciottesima era la culla del bebop. In piedi di fronte al club, da sinistra, Thelonious Monk, Howard McGhee, Roy Eldridge e Teddy Hill, settembre 1947. William P. Gottlieb Collection/Library of Congress

Sfrenati balli jazz nella notte di Harlem. Library of Congress Negli anni quaranta Harlem era il centro dell’universo jazz con club quali il Minton’s Playhouse e lo Small’s Paradise, e teatri quali il Savoy e l’Apollo. Il rivoluzionario stile musicale che qui vide la luce prese subito il nome di rebop o bebop.

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• CAPITOLO UNO

A FIANCO: Gli esperimenti pianistici di Thelonious Monk al Minton’s nel 1947. William P. Gottlieb Collection/Library of Congress



«Questa era la vera ragione per cui ero venuto a New York: per succhiare tutto quello che potevo da questi posti; la Juilliard era una specie di cortina fumogena, una scusa, una copertura che mi serviva per portarmi più vicino possibile a Bird e Diz. [...] Merda, potevo imparare molto di più in una sola session al Minton’s che in due anni alla Juilliard. [...] Stavamo cercando tutti quanti di guadagnarci una laurea e un dottorato all’Università del Bebop del Minton’s sotto la guida dei professori Bird e Diz.» —Miles Davis, Miles: L’autobiografia

La Cinquantaduesima di Manhattan era nota come «Swing Street» o semplicemente «Street». Negli anni quaranta e nei primi cinquanta era piena di jazz club come il Three Deuces, l’Onyx, il Kelley’s Stable, il Club Samoa e, più tardi, il Famous Door, il Bop City, il Birdland e il Down Beat Club. William P. Gottlieb Collection/Library of Congress

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Inoltre, com’era naturale, la musica nera si stava evolvendo. Nei primi anni quaranta vari gruppi – guidati da figure del calibro di Lionel Hampton e Louis Jordan – elaborarono una cadenza ritmica più vigorosa, dando vita a un ibrido ballabile che getterà le basi del futuro rhythm and blues (o più semplicemente R&B) degli anni cinquanta. Nel frattempo, dentro il calderone creativo di una grande band capitanata dal cantante Billy Eckstine – della quale facevano parte anche Sarah Vaughan e Art Blakey – nuovi picchi di raffinatezza musicale venivano raggiunti da Charlie Parker (sax contralto) e Dizzy Gillespie (tromba), che piegavano le convenzioni ritmiche con la loro tecnica stupefacente e manipolavano intrepidamente vecchie strutture canore per creare melodie nuove e modernes. In un batter d’occhio, «Bird» e «Diz» diventarono i giganti della nuova musica nera. Presto i critici battezzarono «bebop» questo nuovo genere dell’era post-nucleare: frenetico e imprevedibile, un’arte per solisti raffinati che esigeva molta attenzione invece di confinarsi a un garbato sottofondo come altri stili musicali allora in voga. Il bebop prefigurava la transizione del jazz – termine generico applicato solo in seguito alla tradizione della musica improvvisata negli spacci clandestini di liquori e nei bordelli di New Orleans – dal ruolo di accompagnamento per il ballo al moderno status di musica colta. Nel 1944, facendo tappa a St. Louis in cerca di un trombettista, la band di Eckstine reclutò Miles, che nel giro di due settimane vedrà spalancarsi le porte del futuro. «Dopo aver ascoltato e suonato con Charlie Parker, Dizzy Gillespie [...] Art Blakey, Sarah Vaughan e lo stesso B, sapevo che dovevo andare a New York, dove c’era il movimento», scriverà. «Lasciai East St. Louis per New York all’inizio dell’autunno del 1944. Dovevo superare l’audizione per entrare alla Juilliard e la passai alla grande. [...] Dizzy e Bird mi avevano detto di andarli a trovare se capitavo nella Grande Mela. Sapevo benissimo di aver ormai imparato tutto quello che c’era da sapere lì a St. Louis, ed era tempo di muoversi» (Miles Davis, Miles: L’autobiografia, pp. 66-67). La Juilliard School era forse un sotterfugio per scucire ai genitori i soldi necessari a per raggiungere quella mecca del jazz che New York City era diventata negli anni quaranta? Inizialmente no. Pieno di grinta giovanile e affamato d’esperienza, Miles era pronto a imparare tutto e suonare con tutti.

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e fu rapido a ritagliarsi uno spazio nella scena musicale newyorkese, lo fu meno a trovare Charlie Parker. Non era solo nella sua ricerca e, quando finalmente ebbe la possibilità di incontrare il sassofonista e unirsi alla schiera di iniziati che desideravano suonare con il capostipite del modern jazz, più che una lezione fu un’audizione informale quella che affrontò: «La prima volta che suonai là non fu un granché, ma feci del mio meglio nello stile che conoscevo, che era molto diverso da quello di Dizzy, anche se a quei tempi ero influenzato dal suo modo di suonare. La gente spiava Bird e Dizzy, e se quando finivi loro sorridevano, voleva dire che suonavi bene» (Miles Davis, Miles: L’autobiografia, pp. 79-80). I due maestri sorrisero, e Miles iniziò a esibirsi regolarmente con loro. Quando Diz non c’era, la prima tromba era lui. Suonava fino all’alba, poi si trascinava alla Juilliard per le lezioni del mattino, durante le quali si sforzava di immaginare dove avrebbe trovato Bird e Diz quella sera e decideva dove andare a mangiare cinquanta centesimi di zuppa per mantenersi in forze, e come vestirsi. Le fotografie dell’epoca lo mostrano vestito di tutto punto, gli abiti eleganti quasi abbondanti sul fisico ancora asciutto. In molte si nota un accenno di baffi, e Miles sembra messo in ombra dai musicisti più grandi. Per guadagnare il loro rispetto e trasmettere un senso di maturità e concretezza, recitava la parte del giovinastro volgare e scafato. «Miles è sboccato, dice parolacce di ogni tipo» racconterà Gillespie allo storico del jazz Dan Morgenstern. «[Ma] la sua musica riflette il suo vero carattere [...] Miles è timido. È timidissimo. Sono in molti a non crederci, ma io lo conosco da tanto, tanto tempo.»

Diz con il suo tipico basco. William P. Gottlieb Collection/Library of Congress

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«Conoscevo tutto quello che suonava Dizzy. Credo che fosse per questo che Bird mi assunse, oltre al fatto che voleva una sonorità trombettistica diversa nel suo gruppo. C’erano cose che faceva Dizzy che ero in grado di suonare e altre che mi risultavano assolutamente impossibili. Perciò evitavo le cose che sapevo di non poter suonare; capii molto in fretta che dovevo trovare una mia voce, qualsiasi voce fosse, su quello strumento.» —Miles Davis, Miles: L’autobiografia

Miles diventò il primo trombettista di Bird quando Diz uscì dal gruppo, o quando Diz cacciò Bird, a seconda di chi racconta la storia. Dizzy era frustrato dall’inaffidabilità e dai sempre più gravi problemi di Bird con la droga. In questa immagine del 1948, Miles suona al Three Deuces con Bird al sax, Tommy Porter al contrabbasso, Duke Jordan al pianoforte e Max Roach alla batteria. William P. Gottlieb Collection/Library of Congress

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Lo sfavillio del Three Deuces sotto la corona al neon. William P. Gottlieb Collection/Library of Congress

Gilbert J. Pinkus era famoso come portiere del Three Deuces ed eclettico ambasciatore della Swing Street. William P. Gottlieb Collection/Library of Congress


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entre prendeva dimestichezza alla Juilliard con la teoria musicale, col pianoforte e il dettato, Miles non tardò ad apprendere anche la geografia musicale della città. Quasi tutti i club – vale a dire le possibilità di lavorare e suonare – erano sulla Cinquantaduesima, la famosa «Street», e ad Harlem c’erano altri bar e club che offrivano altre opportunità per esibirsi e socializzare a notte tarda. Le differenze tra i due quartieri erano evidenti. La Street, frequentata soprattutto da bianchi jazzomani, musicisti dilettanti e turisti, proponeva un’ampia varietà di generi musicali, dal trad jazz allo swing, dal cabaret al bebop. Essendo il pubblico di Uptown più interessato alla performance, la musica era più raffinata e moderna, specie al Minton’s Playhouse, dove l’evoluzione del bebop era in pieno corso. Fu al Minton’s che Bird presentò Miles a Thelonious Monk, il pianista del club, le cui innovazioni armoniche stavano codificando il bebop e gettando le fondamenta dell’intero movimento modern jazz. L’uso dello spazio negli assolo di Monk esercitò un impatto immediato sul giovane trombettista; col tempo, il loro sodalizio produrrà alcuni dei momenti musicali e storici più memorabili della carriera di Miles.

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Oltre a Monk, Miles fece amicizia con una serie di giovani musicisti che condividevano i suoi gusti, appena arrivati o nati a New York. Insieme formavano quella che potremmo definire la setta del bebop, gravitante attorno a Parker e/o Gillespie: i batteristi Max Roach, Kenny Clarke e Art Blakey; i trombettisti Howard McGhee e Fats Navarro e il trombonista J.J. Johnson; i contrabbassisti Oscar Pettiford e Curly Russell; e il trombettista Freddie Webster, che diventerà grande amico e spalla di Miles. L’amico più intimo era però Bird, tanto che Miles ospitava il sassofonista nel suo appartamento. L’abuso di narcotici e la sregolatezza del suo idolo, tuttavia, mettevano a repentaglio sia la pazienza, sia gli effetti personali di Miles (Bird sloggerà all’arrivo di Irene con la piccola Cheryl). Miles non si accontentava di suonare con lui, voleva imparare, ma Bird non era un insegnante canonico: «Era suonare con Bird che mi faceva davvero migliorare. Con Dizzy potevo sedermi e parlare e mangiare e andarmene a zonzo perché lui è veramente un tipo piacevole. Ma Bird... lui era davvero uno stronzo avido. Non abbiamo mai avuto molto da dirci. Ci piaceva suonare assieme e questo era tutto. Bird non avrebbe mai detto che cosa suonare. Imparavi da lui guardandolo e cercando di rifare la roba che faceva. Non parlava mai molto di musica, in privato» (Miles Davis, Miles: L’autobiografia, p. 84).


Miles poteva ormai definirsi un bandleader. Negli anni a venire, i sidemen della lunga serie di formazioni che metterà insieme racconteranno di un maestro di poche parole che incuteva timore, dal quale imparavano a suonare intuitivamente ricevendo (nel migliore dei casi) pochissime indicazioni. Miles attribuirà a Dizzy il merito di avergli aperto gli occhi sulla musica – spiegandogli la struttura dei brani, spronandolo a studiare il pianoforte per comprendere meglio l’armonia – ma l’esperienza più decisiva per la sua carriera fu quella con Bird. Novembre 1945: Miles era amico di Bird da un solo anno e frequentava ancora la Juilliard quando il suo idolo lo convocò in uno studio vicino a Times Square per registrare tre leggendari brani bebop: «Billie’s Bounce», «Thrivin’ on a Riff» e «Now’s the Time» di Parker. Nell’ultimo pezzo, alla fine dell’assolo di Bird, ha inizio il famoso intervento di Miles, dapprima esitante e via via più sicuro, un’improvvisazione profondamente diversa dai ghirigori trombettistici nel registro acuto di Gillespie e degli altri accoliti bebop: blueseggiante, priva di fronzoli, dal fraseggio economico. Il seme dello stile che porterà Miles al top aveva già germogliato.

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metà del secondo anno alla Juilliard, Miles e i suoi docenti avevano ormai ben chiaro che un diploma non avrebbe influito in alcun modo sulla sua carriera. Gran parte del tempo e delle energie le dedicava a suonare e bazzicare la Cinquantaduesima, oppure Uptown Harlem. Verso la fine del 1945, Miles prese un’altra decisione cruciale e tornò a casa. «Mi resi conto che per rimanere ancora alla Juilliard avrei dovuto suonare come un bianco», ricorderà, «perché c’erano certe cose che dovevi fare, o un certo modo in cui dovevi suonare per entrare là dentro, per stare insieme a loro, e io non ero arrivato da St. Louis per suonare in un’orchestra di bianchi. [Il problema era che] dovevo comunicare a mio padre che volevo lasciare la Juilliard. Così presi il treno ed entrai nel suo studio. Lui alzò gli occhi e disse: “Cosa cazzo ci fai qui?”. Stava curando un paziente [...] quando finì gli dissi: “Questa musica è moderna, la Juilliard non lo è, e io me ne sto per strada dove tutto è moderno. Non solo, giù in strada metto a fuoco ciò che voglio fare molto meglio che alla Juilliard”. [...] Così gli dissi: “Puoi risparmiare i tuoi soldi”» (Ben Sidran, 1986). Intimandogli di evitare di suonare come chiunque altro – un ammonimento più inutile che mai – il padre di Miles gli concesse il suo benestare. Fu l’ultima volta che il trombettista chiese il permesso prima di scegliere quale strada imboccare.

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