Le origini del MoMA

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Sybil Gordon Kantor

Le origini del MoMA La felice impresa di Alfred H. Barr, Jr.

Traduzione di Costanza RodotĂ

ilSaggiatore


Prefazione L’opera d’arte è un simbolo, simbolo visibile dello spirito umano in cerca di verità, libertà e perfezione.1 Alfred H. Barr, Jr.

Soltanto l’eccezionale spirito ribelle, l’intuito visionario e la straordinaria disciplina consentirono ad Alfred Barr (1902-1981) d’imbrigliare quel cataclisma che fu l’arte moderna, al cui interno la sua posizione di fondatore e direttore del Museum of Modern Art, la più ammirata tra le istituzioni similari, gli assicurò una posizione di primo piano. Tuttavia, poiché è difficile discernere tra adulazioni e critiche che circondano la sua figura leggendaria, nella maggior parte delle storie del Museo si è trascurato di valutare in profondità le sue credenziali di studioso. Nessuno, per esempio, ha mai tenuto nel debito conto il ruolo unico, centrale che Barr svolse nell’elaborare i dettami critici e filosofici del moderno nelle arti visive della prima metà del xx secolo.2


Prefazione

Durante gli studi all’Università di Princeton, Barr acquisì la prospettiva storica; quindi, a Harvard, l’abilità del connoisseur capace di valutare le caratteristiche tecniche dell’opera d’arte. I movimenti artistici degli anni venti – costruttivismo, dadaismo, surrealismo, De Stijl, nonché l’attività del Bauhaus incentrata sulla macchina – erano parte integrante del tessuto culturale dell’epoca. Nell’istituto tedesco, cinema, fotografia e design industriale erano equiparati a pieno titolo alle «belle» arti e divennero elementi costitutivi del programma intellettuale elaborato in piena autonomia da Barr, che a essi avrebbe intitolato diverse sezioni all’interno del Museum of Modern Art. Barr operò tuttavia una distinzione tra gli scritti teorici dei nuovi internazionalisti – i manifesti programmatici sia del «materialismo» sia dello «spiritualismo» – e l’arte stessa. Nel 1927, dopo aver visitato il Bauhaus, aggiunse il nome di Gropius all’elenco di coloro che più lo avevano influenzato, sebbene il suo punto di vista propendesse verso un formalismo che si discostava significativamente da quello di Gropius. Anziché seguire il concetto di «funzionalismo», appreso durante il viaggio in Europa nel 1927, Barr riaffermò la necessità di esaminare le peculiarità intrinseche all’opera d’arte e risultanti dagli stili e dalle tecniche usati. Consapevole della commistione tra le arti, Barr avvertiva l’impellente necessità di procedere alla descrizione formale dell’opera. Era incline a una prospettiva libera da ogni soggettività o interpretazione, dove l’accento non cadesse sul contenuto, sulla rappresentazione o sulla imitazione della realtà, bensì sulla forma, sul linguaggio attraverso cui è esplicitata e sulla struttura che le dà corpo. Questo modo di concepire le cose lo sospinse inevitabilmente verso un mondo in perenne espansione, definito da un ordine universale in cui la scienza era modello di ogni pensiero. Barr elaborò soltanto i criteri più ovvi di storicità, qualità e flessibilità iscrivendoli in un programma di valenza pressoché scientifica. Nella mia analisi mi propongo di seguire le tracce dell’approccio di base del formalismo – concetto spesso usato indiscriminatamente – quale Barr lo apprese, lo applicò, lo contraddisse e lo pose a fondamento della critica. Il gusto di Barr era classico, e intransigente fu la sua volontà di precisione. L’epistolario rivela che non faceva mai un’affermazione, per

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quanto banale, senza possederne le prove a sostegno. Il suo estremo rigore non si trasformava mai in pedanteria soltanto grazie al tocco di poesia che troviamo sempre presente ai margini della sua visione e grazie all’ironia, che talvolta era diretta verso se stesso, talaltra sfiorava l’ostilità. In questo volume esamino nei particolari due mostre fondamentali del 1936, Cubism and Abstract Art e Fantastic Art, Dada and Surrealism; mostre che mettono in piena evidenza gli elementi essenziali della filosofia estetica di Barr. Egli era solito ideare schemi – ovvero diagrammi la cui struttura era sincronica e basata sugli accostamenti anziché lineare – allo scopo di rafforzare il proprio sistema evolutivo formalistico e di mettere ordine nella caotica espressività dell’arte d’avanguardia sintetizzando tutte le informazioni relative a data e luogo di creazione dell’opera, all’artista e allo stile. Sebbene fosse partecipe della componente umana del mondo, il suo senso dell’ordine escludeva qualsiasi contingenza storica, più o meno sostanziale, che avrebbe complicato la precisa sequenza dei diagrammi. Queste sue sintesi di stile coprono diversi periodi storici, rappresentati in forma di genealogie. Utilizzando frammenti dell’arte del passato in quanto oggetti portatori di un’influenza e non quali simboli di trascendenza o di cultura, Barr avvalorò l’idea che l’arte contemporanea fosse profondamente radicata nella tradizione storica occidentale. Malgrado l’attrazione che provava per l’elemento razionale, oggettivo e classico, Barr era parimenti affascinato dall’irrazionale, dal mistico e dall’assurdo. Sebbene la tensione tra nuclei d’interesse e tendenze contrapposti generasse talvolta una contraddizione, che per molti spiriti critici era difficile da ricomporre, a posteriori possiamo dire che essa costituì per Barr un forte stimolo creativo. Egli analizzò con lucidità i misteri del surrealismo, l’inconscio e l’evanescente, riuscendo infine a comporre la lacerazione che avvertiva dentro di sé tra oggettività classica e irrazionalità del mito. Ciò gli consentì di cogliere il modernismo3 come fenomeno «aperto» che andava oltre l’astratto modernismo purista fino a comprendere al proprio interno l’arte surrealista, nazionalista, realista ed espressionista. In qualità di direttore del Museum of Modern Art, Barr ebbe il compito di integrare l’arte nata dalla cultura americana con quella di provenienza europea in una proporzione che fosse favorevole a entrambe.


Prefazione

Applicando in maniera rigorosa e sistematica a tutte le attività del Museo i peculiari standard qualitativi da lui stesso stabiliti, Barr promosse le espressioni artistiche di matrice americana che soddisfacevano quei criteri e diede grande rilievo nelle diverse sezioni del Museo alle arti preminenti in America: architettura, cinema e arti industriali. Ha scritto Terence Riley, curatore capo della sezione Architettura nel Museum of Modern Art, che «lo Stile internazionale è divenuto pressoché sinonimo della storia del modernismo in America».4 Le scelte operate da Barr nel costruire le collezioni e le esposizioni del Museo, dotandole di ciò che egli considerava importante in ambito artistico, posero di fatto le fondamenta per l’affermazione di un «modernismo alto» all’interno del dibattito critico nel mondo dell’arte: nondimeno, il suo metodo finì per essere considerato riduttivo da personalità a lui ostili, che pure appartenevano a quel mondo. Profondamente convinto del personalissimo criterio antidogmatico adottato, era forse ovvio che Barr trascurasse il clima politico rivoluzionario degli anni trenta. I cataloghi del Museo – per decenni gli unici strumenti di studio disponibili in forma di libro – mostrano con precisione scientifica il metodo di analisi strutturale seguito da Barr e la sua resistenza a integrarvi idee che avrebbero potuto illuminare ulteriormente l’opera d’arte ma sarebbero state esterne a essa. Certo è che quei cataloghi imposero al dibattito coevo i temi fondamentali dell’arte moderna. Le sale del Museo – utopistici white boxes concepiti per esposizioni multimediali – ospitarono una narrazione del modernismo che dava spazio all’esegesi. La coesistenza di sezioni distinte all’interno del Museo spianò la strada alla futura esplosiva interazione tra i vari media e alla stessa fine del modernismo. Quando l’irruzione del postmoderno e del multiculturalismo mise sotto attacco il formalismo, il credito di Barr fu a rischio, quasi egli fosse stato miope nel non prevedere tali sviluppi. Il suo rifiuto di ogni ideologia o interpretazione trascendente l’arte fu considerato una sorta di sofisma critico che rasentava l’estetismo. L’estetica di Barr si fonda su due idee: l’affidamento sulla qualità, essenziale nel determinare lo stile, e il modernismo in quanto forma aperta, non essendo stato ancora adottato il termine «pluralismo». In una

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disciplina che considera il dilettantismo una debolezza, la fiducia riposta da Barr nel metodo empirico, per definire la qualità in tutte le arti, escludeva ogni visione trascendente il singolo oggetto: posizione retta, questa, che gli valse molti nemici. Egli evitò il preziosismo grazie alla fiducia nel processo produttivo, nella tecnologia e negli oggetti del quotidiano. Dal suo punto di vista, un manifesto o un tostapane erano soggetti alle stesse leggi di logica formale che sono sottese a un quadro o una scultura. Diffidava dell’arte considerata «decorativa»; nel valutare l’opera d’arte, aveva come linee guida il nuovo, lo sperimentale, il «difficile». Secondo la filosofia estetica di Barr, fondata sulla libertà di espressione in campo artistico, il giudizio critico non conosce valori permanenti. Seguendo il metodo praticato dagli storici dell’arte ottocenteschi nell’analizzare la forma e classificare gli stili, Barr codificò il modernismo a partire dai postimpressionisti fino a Picasso e Matisse negli anni quaranta, ponendo così le basi per l’espressionismo astratto degli anni cinquanta e per la critica formalista di Clement Greenberg. A mio modo di vedere, quello che è solitamente considerato un concetto originale di Greenberg è invece da ricondurre alle innovazioni realizzate da Barr nel Museum of Modern Art. Di entrambi fu apprezzato il gusto artistico e tenuto in grande considerazione l’orientamento storico. Tuttavia, se Greenberg auspica che ogni arte rimanga fedele al proprio mezzo espressivo, Barr trova sicurezza nell’ubiquità dello stile. La precisione e la capacità di sintesi di Barr nel descrivere e classificare i diversi movimenti del periodo modernista e la sua abitudine ossessiva di esplicitare ogni minuzia consentono di avvicinarsi al suo ragionamento in ambito estetico e di esplorare a fondo il suo complesso sistema di pensiero. Questi stessi tratti salienti collocarono i pionieristici cataloghi del Museum of Modern Art in prima linea nella storiografia delle avanguardie. A detta di molti contemporanei, Barr sembrava contemplare l’opera d’arte con l’intelletto più che con i sensi. Eppure, dietro quell’atteggiamento imperscrutabile in modo quasi snervante, egli celava un vivo coinvolgimento, un sorriso nascosto, non dissimile da quello delle sculture della Grecia arcaica, che spesso traeva in inganno coloro che lo osservavano.5 La preoccupazione di trovare la parola o il termine esatto per


Prefazione

descrivere un particolare momento nel percorso creativo di un artista non derivava soltanto dalle insufficienze della critica contemporanea, ma anche dal coinvolgimento e dalla passione con cui egli conduceva la sua impresa. Per il pubblico, Barr fu un maestro; per gli artisti, un critico; per i collezionisti e i mecenati, uno storico e un connoisseur. Sebbene nella classificazione degli stili egli facesse apparentemente ricorso ai metodi propri dell’archeologia, in lui era sempre presente una sfumatura di ironia e ottimismo. Barr diresse il Museo come un’università, con un programma di ricerca, pubblicazioni e corsi di studio. Si avvicinò all’avanguardia radicale muovendo dalla prospettiva della formazione accademica, e riuscì in tal modo a documentare e istituzionalizzare il lavoro degli artisti presenti nel Museo. Tuttavia non abbandonò mai la visione romantica dell’artista quale genio. Nonostante qualche perplessità transitoria, fu guidato in primo luogo dalla convinzione che l’arte riflettesse le multiformi verità della vita e pertanto che l’arte moderna riflettesse quelle della vita moderna. Il fascino di Barr nasce dall’ambiguità della sua persona. Egli riuscì a superare le resistenze confidando in un rigoroso senso di giustizia, esente tuttavia da moralismo. Vi riuscì anche grazie alla capacità di imporre a chi era più potente di lui la propria ferma volontà e alla determinazione con cui concretò il programma predisposto per il Museo, nonostante i duri attacchi dei membri del Consiglio d’amministrazione in disaccordo con lui. L’impresa intellettuale di Barr trovò un punto di forza nell’ostinazione con cui egli seppe fronteggiare controversie e malintesi. Lo sprazzo difensivo, il riserbo che lo caratterizzarono – un severo silenzio fu il tratto più genuino della sua personalità – mascheravano, tra altre cose, una certa irresolutezza. L’intima e contraddittoria complessità dell’uomo – sicuro di sé ma timido e misurato; ribelle ma legato alla storia, scrupoloso eppure capace di manipolare – avevano radici nella sua storia personale, nel suo percorso formativo e nel sistema di convenzioni prevalente all’epoca. Egli sembrò predisporsi fin da principio ad assumere un ruolo senza precedenti e, sebbene facesse parte di un gruppo che si muoveva nella sua stessa direzione, ne prese il comando grazie alla passione mirata

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e al coraggio incrollabile con cui riuscÏ a disegnare il percorso teleologico del modernismo. Una domanda rimane aperta: che cosa spinse un ragazzo timido e studioso ad abbandonare il sentiero tracciato della storia per imboccare quello selvaggio ed estremo dell’arte moderna?

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6. Il modernismo si afferma in America Gli anni venti furono un periodo di crescente fermento nel panorama dell’arte moderna americana, inaugurato dalla notevole impresa, a opera degli artisti Katherine Dreier, Marcel Duchamp e Vasilij Kandinskij, della fondazione della Société Anonyme, alla quale fecero seguito diverse mostre di arte d’avanguardia allestite in gallerie e musei.1 Tutti aspetti che avrebbero giocato un ruolo più o meno diretto nella fondazione del Museum of Modern Art. Tuttavia, i più importanti antecedenti del Museo – fondato il 7 novembre 1929 – furono il Newark Museum, nato inizialmente come biblioteca nel 1909; il Wadsworth Atheneum a Hartford, nel Connecticut, del quale A.E. Austin venne nominato direttore nel 1927 e la Harvard Society for Contemporary Art, fondata nel febbraio del 1929. Nel ricostruire la storia dei primi dieci anni del Museum of Modern Art, il suo primo presidente, A. Conger Goodyear, riuscì a ricondurne le origini ancora più indietro nel tempo rispetto a quei frammentari esperimenti degli anni venti, attribuendone la genesi all’entusiasmo suscitato


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dall’Armory Show del 1913 e, in particolare, all’attività di uno degli organizzatori dell’evento, l’artista Arthur B. Davies.2 Davies esercitò infatti una profonda influenza su Lillie Bliss, e fu proprio seguendo i suoi consigli che Bliss decise di ampliare la sua collezione di opere dell’artista, iniziata nel 1907,3 con l’acquisto di altre opere d’arte moderna provenienti dall’Armory Show, al quale ella interveniva quotidianamente.4 Nel 1922, in seguito alla morte della madre, che aveva disapprovato l’arte moderna, Bliss poté smettere di celare la sua collezione. Incoraggiata da Davies, si trasferì in un appartamento più grande, il che le permise di esporre la sua collezione di arte moderna in un ambiente assai più consono – una galleria a tre piani appositamente progettata.5 Nonostante le molte chiacchiere sulla doppia vita che Davies conduceva, dividendosi come faceva tra due case diverse, il profondo legame tra lui e Bliss probabilmente non trascese mai i confini dell’amicizia.6 Bliss, abile pianista, spesso suonava per lui nel suo studio, ascoltando attentamente mentre lui le parlava del proprio sogno di fondare un museo d’arte moderna. La dedizione di Davies a questa missione crebbe ulteriormente, fin quasi a diventare ossessiva, quando nel 1924 morì John Quinn e la sua importante collezione di arte moderna fu smembrata. Alla cerchia di Davies appartenevano anche Mary Quinn Sullivan e Abby Rockefeller, due care amiche che beneficiarono dei suoi consigli artistici. Sullivan, artista dilettante e insegnante d’arte, nel 1931 aprì una galleria d’arte con la propria collezione di arte moderna. Alla morte di Davies, Rockefeller scrisse al figlio di lui: «Sento di dover molto [a tuo padre], poiché mi ha sempre consigliato e incoraggiato ad acquistare dipinti moderni; senza il conforto della sua approvazione non avrei mai osato avventurarmi nel campo dell’arte moderna».7 Nel corso di lunghe conversazioni con le tre amiche, Davies aveva spesso propugnato l’idea di istituire un museo d’arte moderna, e la leggenda vuole che alla sua morte, avvenuta nel 1928, Rockefeller, Bliss e Sullivan decisero di realizzare il suo sogno. La storica decisione di istituire il Museum of Modern Art venne presa quello stesso inverno, quando Rockefeller incontrò casualmente Bliss in Egitto, e fu poi confermata poco dopo da Sullivan e Rockefeller quando queste ultime si ritrovaro-

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no insieme sulla stessa nave tornando in patria dall’estero. Il corso di tale eventi, che potrebbe apparire del tutto casuale e fortuito, fu in realtà guidato dall’opera di tre donne ambiziose e socialmente consapevoli, consce della grande lacuna del sistema museale americano rappresentata dalla sostanziale mancanza di opere d’arte moderna europee. Era una risposta a un’aspirazione condivisa e largamente promossa da gran parte del mondo artistico newyorkese. Gli organizzatori dell’Armory Show, Davies, Walt Kuhn e Walter Pach, avevano sostenuto la creazione di un museo d’arte moderna, come avevano fatto McBride su Dial e Forbes Watson su Arts, e tutti loro concordavano sul fatto che l’importante collezione Quinn potesse costituire il cuore di una tale istituzione. Nel ricordare l’Armory Show a distanza di venticinque anni, Kuhn racconta di come lui e Davies avessero incoraggiato Lillie Bliss a istituire una sede permanente volta all’esposizione di opere d’arte contemporanea, aggiungendo che Bliss non seguì il loro consiglio se non dopo la morte di Davies. Bliss chiese allora a Kuhn di «prendere le redini» dell’impresa, ma egli declinò l’offerta.8 Nonostante il ruolo chiave della collezione Bliss nell’istituzione della collezione permanente del Museum of Modern Art, furono in realtà l’entusiasmo, il tatto, il denaro e, non ultima, la collezione di Abby Rockefeller a far venire alla luce l’istituzione dedicata al modernismo per antonomasia. La sua autorevole presenza, spesso relegata dietro le quinte per sua stessa volontà, si faceva sentire sull’intero personale del Museo, ma fu Barr a esserne specialmente influenzato. Ella diventò la sua più grande alleata, e lo stesso Barr avrebbe affermato che fu Abby Rockefeller (più che le altre due donne) ad aver avuto un ruolo cruciale per il successo dell’istituzione.9 Il compositore Virgil Thomson, membro marginale del circolo di Harvard, con il suo solito tono pungente definì il Museum of Modern Art un «istituto Rockefeller»,10 il che non era del tutto inesatto. Sin dai primi anni furono infatti molti i Rockefeller a sedere, a vario titolo, nel consiglio di amministrazione, e essi, da consiglieri interessati, donarono alla collezione permanente diverse opere d’arte. La fondazione del Museo smentiva la convinzione comune che la famiglia Rockefeller, in quanto epitome della ricchezza americana, dovesse coltivare gusti conservatori.


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Sebbene John Jr., il marito di Abby, in effetti non condividesse il suo interesse per l’arte moderna, tuttavia non mancò di metterle a disposizione una somma di denaro per sostenerlo. Istituendo il Museo, Abby Rockefeller appagò la sua naturale inclinazione per le intraprese creative fornendo al contempo un significativo beneficio sociale alla comunità. La sua attività di benefattrice andava oltre la semplice volontà di istituire un museo per ospitare la nuova arte, ed ella dichiarò che il suo intento era di aiutare gli artisti moderni americani a conquistare un pubblico riconoscente e a dare alle generazioni future maggiori possibilità rispetto a quelle passate. Pensando alle opere d’arte tradizionali che aveva collezionato insieme al marito, sostenne che esse non avrebbero avuto alcun valore per l’attuale generazione di collezionisti e artisti. Scrisse a Goodyear: «Così ho rivolto i miei pensieri all’arte del presente, e a coloro che la stavano portando avanti».11 Nel 1924, durante un viaggio in Europa, che la porta attraverso la Germania e a Vienna, Abby Rockefeller ebbe la fortuna di avere per guida William Valentiner, il nuovo direttore del Detroit Institute of Art, che divenne suo amico nonché nuovo maestro nel campo dell’arte moderna, in particolare di quella tedesca. Valentiner, emigrato in America dalla Germania nel 1908, aveva iniziato a collezionare opere di espressionisti tedeschi nel 1920, e nel 1923 organizzò presso la galleria Anderson la prima mostra di espressionisti tedeschi a New York,12 i quali, a suo parere, erano stati «accolti favorevolmente».13 Nel 1924, divenuto direttore del Detroit Institute of Art, acquistò per il museo alcune opere degli espressionisti tedeschi. Una delle prime opere acquistate da Abby Rockefeller su consiglio di Valentiner fu un dipinto dell’espressionista tedesco Erich Heckel. Anche Valentiner appartiene al coro di quanti la incoraggiarono a fondare il Museum of Modern Art.14 Nel corso degli anni trenta, con l’aiuto di Edith Halpert, che nel 1928 aveva aperto la Downtown Gallery, e di Holger Cahill,15 curatore del Newark Museum, Abby Rockefeller raccolse una significativa selezione di opere realizzate tra il 1915 e il 1925 da giovani artisti statunitensi emergenti. Dorothy Miller, che sarebbe divenuta assistente di Barr e moglie di Cahill, giudicò la collezione «non proprio di pezzi da museo»,

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ma la trovò dotata di una certa piacevole «informalità».16 Erano presenti dipinti a olio, acquarelli, disegni, sculture e manifesti di diversi artisti, tra cui Charles Demuth, George «Pop» Hart, Charles Burchfield, John Marin, Maurice Prendergast, Max Weber e William Zorach. Come Bliss, Abby Rockefeller aveva sistemato la galleria all’ultimo piano di casa per esporre la propria collezione d’arte moderna evitando le osservazioni pungenti del marito. Nel 1928, la signora Rockefeller si entusiasmò per il lavoro di «Pop» Hart e raccolse una serie completa di suoi acquarelli e pastelli, che espose poi nella sua galleria all’attico. Cahill scrisse una monografia dell’artista pubblicata da Halpert, il quale commentò: «Il fatto che la signora Rockefeller [...] sia ora così interessata all’arte americana è di grande importanza per il pubblico, che non è ancora abituato ad apprezzare l’arte locale. Sta poi dando un eccellente esempio nell’allestire a casa sua una galleria privata per esporre le opere degli artisti americani».17 210

Precedenti importanti Negli anni venti, nonostante l’interesse per l’arte moderna si fosse acceso in alcuni importanti circoli di New York, esistevano ancora pochi spazi dove gli artisti americani potessero esporre i propri lavori. Perciò quando John Cotton Dana, direttore del Newark Museum, cominciò a intraprendere l’acquisizione e l’esposizione di opere di artisti americani contemporanei, l’istituzione sull’altra sponda dell’Hudson attirò rapidamente l’interesse del mondo dell’arte. Nel 1926, su richiesta di Dana, Cahill allestì una mostra scegliendo tra le opere di un gruppo di artisti americani affiliati piuttosto liberamente alla Society of Independent Artists, per la quale egli aveva lavorato. Vennero esposti quaranta dipinti e una dozzina di sculture, sia d’avanguardia sia tradizionali, e nel corso della mostra Walter Pach e Jerome Myers tennero alcune conferenze.18 Oltre un decennio prima, nel 1912, Dana aveva organizzato una pionieristica esposizione di arte industriale tedesca negli Stati Uniti, anticipando di vent’anni il Museum of Modern Art. A fianco di ogni oggetto


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di uso quotidiano egli aveva esposto un’opera d’arte, secondo una filosofia che avrebbe esplicitato diversi anni più tardi in The Gloom of the Museum: Col tempo ciò verrà riconosciuto […] il dipinto a olio non possiede un legame altrettanto stretto con lo sviluppo del buon gusto e della raffinatezza quanto quello che possono vantare innumerevoli oggetti di uso quotidiano. In futuro il genio e l’abilità profusi nell’abbellimento e nel perfezionamento dei comuni oggetti domestici riceveranno lo stesso riconoscimento tributato oggi al genio e all’abilità nella pittura a olio. Ai dipinti non verrà più riservata una parte indebitamente grande di spazio né tantomeno una quota indebitamente grande del budget annuale di un museo. Non credo che un qualsiasi singolo mutamento nei principi generali di gestione di un museo d’arte possa aumentarne tanto l’influenza quanto il mettere nella giusta relazione il dipinto a olio con gli altri oggetti. 19

Su invito di Dana, Karl Ernst Osthaus, direttore del Deutsches Museum für Kunst in Handel und Gewerbe di Hagen, e il Deustcher Werkbund selezionarono le opere per una mostra. Per la prima volta, il pubblico americano ammirò le stampe di Käthe Kollwitz, Wilhelm Lehmbruck e Carl Hofer, le ceramiche di Ernst Barlach, oltre a tessuti, tappezzeria, opere in vetro, metallo e cuoio, arte pubblicitaria e libri. Anticipando il Bauhaus, la mostra comprendeva fotografie delle più recenti opere architettoniche tedesche. Dana riconobbe che «il movimento moderno nelle arti decorative è davvero un movimento verso l’arte delle macchine».20 Barr era troppo giovane per assistere a questa prima mostra di arte industriale tedesca, ma forse ebbe notizia della seconda che venne inaugurata a Newark nel 1922, mentre era a Princeton. Fu in occasione di questa seconda mostra che Cahill cominciò a lavorare al Newark Museum. Nel 1927, Cahill ampliò la collezione di sculture del museo e organizzò un’eccezionale mostra di artisti americani viventi, tra i quali figuravano Jacob Epstein, John Flanagan, Gaston Lachaise e William

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Zorach. Cahill considerava Dana «il direttore di museo americano più aperto e lungimirante della sua epoca, e anche il più coraggioso».21 Per la seria valutazione dei manufatti in quanto oggetti di design, l’acquisizione di opere di artisti americani contemporanei e la creazione di un programma formativo, il Newark Museum può essere visto come una sorta di pionieristico antecedente del Museum of Modern Art, sebbene la prospettiva globale di Dana non fu mai tanto completa o profonda quanto quella di Barr. Il modernismo non era il fondamento del museo di Dana. Nell’autunno del 1930, dopo aver notato la presenza di oggetti di arte popolare negli studi di alcuni artisti all’avanguardia come gli Zorachs e Robert Laurent a Provincetown, nel Massachusetts, nonché a Ogunquit, nel Maine, alla fine degli anni venti, Cahill allestì una mostra di arte popolare. A questo proposito scrisse che gli artisti moderni avevano «salvato vecchi dipinti e sculture dalle soffitte delle fattorie e dalle cantine dei robivecchi. Gli artisti avevano raccolto queste opere non perché le considerassero vecchie, curiose o ingenue, ma per la loro autentica qualità artistica, e perché vi avevano scorto una sorta di parentela con i propri lavori».22 Cahill aveva precocemente intuito l’esistenza di una relazione complessa, che necessitava di ulteriore approfondimento, tra l’arte primitiva americana e l’arte contemporanea americana, analoga a quella tra l’arte africana, e quella del Pacifico del Sud, e l’arte europea. All’incirca nello stesso periodo, Edith Halpert scoprì l’arte popolare nelle case dei suoi amici artisti a Ogunquit e dedicò a essa una sezione della sua Downtown Gallery. Dal momento che anch’ella vi scorgeva una delle fonti dell’arte americana, suggerì ad Abby Rockefeller di collezionare opere d’arte popolare quale retroterra della sua collezione di arte moderna. Cahill e Halpert dettero vita a uno stretto sodalizio lavorativo e riuscirono a portare l’arte popolare alla ribalta, tanto a livello accademico quanto commerciale. Con Cahill e Halpert come consiglieri, e dotata di una sensibilità storica inusuale per l’epoca, la signora Rockefeller affiancò le sue famose collezioni di arte popolare a quelle di arte americana contemporanea.23


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La Harvard Society for Contemporary Art L’istituzione della Harvard Society for Contemporary Art a opera di Lincoln Kirstein nel dicembre 1928 viene spesso considerata una sorta di apripista al Museum of Modern Art, fondato nove mesi dopo dallo stesso Kirstein e con il compagno di studi Alfred H. Barr alla direzione. A tal proposito pare che Monroe Wheeler, membro del Consiglio d’amministrazione del Museum of Modern Art sia stato udito affermare: «Non ingannatevi, il Museum of Modern Art è iniziato a Harvard».24 Con tutta probabilità il modernismo era maturo per essere importato dall’Europa, e al cuore di questo movimento c’erano giovani appassionati come Kirstein e Barr. Certamente i moderni allestimenti concepiti alla galleria di Harvard furono una sorta di inconsapevole prova generale per quelli del più ambizioso Museum of Modern Art: gran parte delle mostre allestite alla Harvard Society riapparvero, nel giro di un anno, al Museum of Modern Art. Prima che venisse fondato il Museo, la signora Rockefeller fece visita alla Harvard Society e disse a Paul Sachs di voler emulare a New York «en gros ciò che loro stavano facendo».25 Kirstein riconobbe a Barr e a Jere Abbott il merito di aver supplito all’«entusiasmo un po’ sprovveduto [della Society] con un’ampia varietà di puntuali informazioni»,26 compresi i dati per i cataloghi nonché suggerimenti per future mostre. Barr e Abbott, per quanto non fossero direttamente coinvolti nelle attività della neonata istituzione, avevano comunque l’occasione di osservare le difficoltà che gli inesperti aspiranti curatori incontravano per organizzare le esposizioni, e così facendo, raccontò Kirstein, impararono le tecniche per «ottenere prestiti e ingraziarsi i proprietari delle collezioni».27 Ciò nonostante, come per Hound & Horn, fu Kirstein la principale fonte ispiratrice, nonché il benefattore, della galleria; come ebbe modo di scrivere: «Hound & Horn costa preoccupazioni, duro lavoro e denaro, ma ne avanza comunque abbastanza per la Harvard Society of Contemporary Art».28 Invece che promuovere l’arte «moderna» – termine che, per Barr, connotava un ordinato senso storico – Kirstein aveva come obiettivo dichiarato l’arte «contemporanea», che rispondeva al

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suo interesse circa «la differenza tra “originalità”, “personalità” e “qualità” e qualunque legame esistesse tra queste nel contesto attuale». 29 Nondimeno, poiché Kirstein tendeva a paragonare l’arte visiva contemporanea a opere tradizionali come quelle, per esempio, di Hans Holbein, Corneille de Lyon e Jean-Auguste-Dominique Ingres, non poté che pervenire a un giudizio di inadeguatezza dell’arte moderna, ed egli avrebbe infine disertato le fila dei ribelli. 30 Kirstein attribuiva il suo interesse nella promozione dell’arte visiva alla cartella Living Art di Dial, che egli possedeva.31 Per aiutarlo a creare la galleria reclutò alcuni compagni di corso, tra cui Edward M. M. Warburg, un amico di famiglia che sarebbe poi divenuto suo decennale collaboratore. Warburg, rampollo di una famiglia di banchieri, trascorse gran parte della sua vita dedicandosi alla filantropia. Dopo aver sostenuto Kirstein, prima aiutandolo con la Harvard Society e poi finanziando la fondazione della compagnia di balletto che Kirstein lanciò a Hartford nel 1933, egli continuò a patrocinare le arti, entrando infine a far parte del Consiglio d’amministrazione del Museum of Modern Art. Così Warburg riassume l’istituzione della Harvard Society: «Kirstein si era preso un anno sabbatico prima di entrare a Harvard. Con le sue conoscenze in campo artistico e letterario era anni luce avanti a noi (e alla maggior parte della facoltà, del resto). Fu lui a suggerire di dare vita alla h.s.c.a; ne era la forza motrice. Lo aiutai a raccogliere il denaro e a trovare membri e, lavorando fianco a fianco con Lincoln, imparai più di quanto abbia mai ricavato dai miei corsi».32 Il terzo membro del «triumvirato» impegnato a portare l’arte moderna a Harvard era John Walker iii, che sarebbe divenuto assistente di Berenson ai Tatti e, in seguito, direttore della National Gallery of Art a Washington Walker faceva parte di una cricca di ragazzi di Harvard autosoprannominatisi «the Lads» (i giovanotti). Erano tutti ricchi e di buona famiglia, e Kirstein ne era attratto, affascinato da quello che definì il loro «senso di superficiale autocompiacimento».33 Kirstein sfruttò le conoscenze di Walker presso coloro che contavano a Harvard per perorare la causa della nuova galleria. E, come scrisse Warburg, «Walker era un serio studioso d’arte e conosceva i collezionisti, i mercanti e le politiche del mondo dell’arte».34


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Il comitato esecutivo della Harvard Society for Contemporary Art era composto da Kirstein, Walker e Warburg. Ben presto Agnes Mongan entrò a far parte di questo ristretto circolo che si incontrava quotidianamente al ristorante Schrafft in Harvard Square durante l’inverno del 1928-1929. Mentre Walker veniva solo di tanto in tanto, Mongan era una presenza fissa; trovava Kirstein e Warburg «inebrianti»,35 e si rivelò molto utile a Kirstein, introducendolo al «metodo completo di Berenson [dell’abilità del connoisseur]».36 In quel periodo, Mongan frequentava il corso di museologia di Sachs e di lì a poco sarebbe diventata sua assistente di ricerca, il che la mise in grado di consigliare Kirstein nei suoi rapporti con il professore. Quando Kirstein e i suoi amici si lamentarono con Sachs dell’arretratezza del Museum of Fine Arts di Boston nel campo dell’arte contemporanea, in confronto alle istituzioni di New York e Chicago, Sachs li sfidò a creare loro stessi una galleria, ma non poté, o non volle, concedere loro uno spazio al Fogg Museum.37 Il 20 dicembre 1928 apparve dunque sullo Harvard Crimson un trafiletto che riportava la notizia di una cena che si era tenuta a casa di Sachs a Shady Hill, a cui avevano preso parte curatori di musei, collezionisti, pittori e studenti, e nel corso della quale era stato formulato un piano per l’istituzione della Harvard Society of Contemporary Art.38 La galleria, dedicata alle ultime novità in campo artistico, aprì i battenti nelle due stanze sopra al negozio della Harvard Cooperative Society (la Coop), lo spaccio degli studenti universitari. Il manifesto dell’inaugurazione dichiarava la galleria il risultato della reciproca e feconda collaborazione tra «addetti ai lavori» di Harvard, Princeton, New York e delle principali città europee interessati all’«arte moderna e all’arte decorativa». Come ebbe a scrivere Barr su Arts quello stesso anno, la galleria era stata «elegantemente ristrutturata con un soffitto argentato, sedie d’acciaio e austeri e lucidissimi tavoli con il piano metallico».39 Nell’articolo, Barr lodava i direttori del Fogg per il loro sostegno «coraggioso ed energico» all’arte contemporanea alla Coop. Al contempo, con il suo caratteristico tatto, accettava la loro spiegazione per non aver esposto in prima persona opere d’arte contemporanea, cosa che per loro sarebbe equivalsa a sostenerla. Stranamente, Barr la considerò una posizione accettabile

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per un museo, tale da evitare di «emettere con troppa frequenza giudizi su opere d’arte, il cui valore è molto probabilmente destinato a essere transitorio».40 È tuttavia assai più probabile che tale ostracismo sia stato dovuto all’influenza di Denman Ross, associato sia con il Museum of Fine Arts di Boston sia con il Fogg in qualità di insegnante, membro del Consiglio d’amministrazione e generoso finanziatore, che era un veemente oppositore dell’arte moderna. Dedito alla ricerca di regole universali per le forme d’arte, Ross non poteva tollerare la rottura di tale regole e non sorprende che egli lottò contro l’inclusione dell’arte moderna al Fogg. Nel libro Painter’s Palette (1919), Ross illustrò la logica alla base del suo dissenso: «A parte l’interesse e le idee, è l’Arte della pittura; con i suoi materiali, le sue modalità, i suoi metodi, e le sue leggi. Tradendo l’Arte così come è stabilita, utilizzando materiali strani, seguendo metodi e modalità mai utilizzate in precedenza, disobbedendo alle regole e alle leggi dell’Arte, non si esprime se stessi nell’Arte ma si sperimenta insieme a essa, forse con l’idea di cambiarla. Ciò si potrà rivelare più o meno degno di considerazione ma, nel frattempo, l’Arte della pittura è la stessa per ogni pittore, per ogni artista».41 Ricordando Ross, John Walker osservò che egli era «determinato quanto Hitler a scongiurare la diffusione di quella che considerava arte decadente».42 Per aggirare lo scoglio rappresentato da Ross e venire in parte incontro alle pressioni degli studenti per avere accesso all’arte moderna, Sachs e Forbes offrirono assistenza alla Society nella raccolta di fondi, garantendo per i prestiti e mettendo a disposizione il personale del Fogg Museum per imballare e spedire il materiale per le esposizioni della Coop. Sebbene avesse bisogno dell’aiuto dei direttori del Fogg, Kirstein non riusciva a legare con Paul Sachs, e con condiscendenza lo descrisse in questi termini: «La bassa statura [di Sachs], insieme all’intelligenza iperattiva, lo rendevano goffo; odiava essere ebreo. Affabile, sospettoso, non si è mai curato di me: lo disprezzavo sgarbatamente per la sua timidezza e la sua mancanza di disinvoltura».43 Kirstein venerava invece senza remore il guru di Boston Forbes: «Edward Waldo Forbes, d’altro canto, era il nipote di Ralph Waldo Emerson. Quando ero studente, era come se ciò lo


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avvolgesse in un manto di eredità imperiale […] un connoisseur puritano, ma un caro amico […] Fondò un laboratorio per la conservazione e il restauro che fece molto per controbilanciare l’estetica dell’“apprezzamento” di Ruskin e Pater che imperava precedentemente al museo».44 Attraverso Sachs, tuttavia, Kirstein riuscì ad avvicinare i grandi collezionisti il cui interesse per il modernismo era stato risvegliato dall’Armory Show. Sebbene la collezione di John Quinn fosse stata smembrata e quella di Albert Barness fosse indisponibile, molte altre erano alla sua portata, comprese quelle di Duncan Phillips e Adolph Lewisohn. A sua disposizione vi erano anche le collezioni di alcuni membri del Consiglio d’amministrazione della Harvard Society come John Nicholas Brown, laureato nel 1922, facoltoso discendente di un’antica famiglia di Providence e grande collezionista di stampe. Nel Consiglio figuravano anche Edward Forbes e Philip Hofer, la cui collezione di libri e disegni l’avrebbe in seguito portato a ricoprire una posizione da curatore alla Morgan Library e poi a creare la sezione dedicata a Stampa e arti grafiche alla Harvard Library. Altri consiglieri della Harvard Society erano Arthur Pope, professore popolare a Harvard, Paul Sachs, Arthur Sachs (che condivideva gli interessi del fratello) e Felix Warburg, padre di Edward. A parte Felix Warburg, che era un amico di Sachs, tutti avevano frequentato Harvard. Durante il secondo anno di vita della Harvard Society, A. Conger Goodyear, già coinvolto nel Museum of Modern Art, si unì al Consiglio d’amministrazione. Kirstein aveva in programma di esporre opere d’arte provenienti da diversi paesi. Tre le arti decorative avrebbero figurato mobili, vetri, ceramiche e tessuti; oltre a dipinti e sculture sarebbero stati esposti disegni, acqueforti, litografie, fotografie. Le opere non appartenenti a collezioni private sarebbero state messe in vendita e il ricavato, insieme alle quote versate dai membri, avrebbe sostenuto l’organizzazione.45 E così fu per i due anni sotto la direzione di Kirstein, Walker e Warburg. Dopo la loro laurea, la Society continuò la propria attività fino al 1934 sotto la direzione di un altro comitato di studenti.46 Per evitare critiche alle loro scelte su ciò che consideravano artisticamente significativo, Kirstein e i suoi amici definirono il progetto un «esperimento», il simbolo dell’avanguardia, affermando ambiguamente

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che le selezioni da loro operate erano «apertamente discutibili». In realtà Kirstein aveva imparato bene la lezione appresa negli studi di artisti e poeti; era il leader riconosciuto del gruppo e sceglieva le opere con un gusto impeccabile. Anni dopo avrebbe osservato: «Con il denaro di Eddie, i contatti sociali di Johnnie Walker e il mio cervello non c’era nulla che potesse fermarci».47 La Harvard Society for Contemporary Art tenne la sua mostra inaugurale, An Exhibition of American Art, il 19 febbraio 1929; appena un anno più tardi, una mostra simile sarebbe stata considerata di seconda scelta al Museum of Modern Art. La Harvard Society si occupava di modernismo internazionale nel senso più ampio del termine, e l’intento di questa prima esposizione era mostrare l’emergere di una tradizione liberale americana, legata principalmente alla scuola di Robert Henri. Il catalogo riporta: «La mostra ha lo scopo di ribadire l’importanza dell’arte americana. Rappresenta l’opera di uomini non più giovani che hanno contribuito alla creazione di un’emergente tradizione nazionale, nata dall’Europa ma nazionalmente indipendente».48 Essenzialmente, erano esposti rappresentanti della prima ondata di artisti moderni in America. L’autore del catalogo divideva gli artisti in due categorie: gli appartenenti alla prima, secondo la sua opinione, condividevano, con Albert Ryder, un lirismo astratto che rintracciava le sue radici fino a El Greco e a Blake, i quali avevano ispirato una «tradizione di poesia visiva». Con ogni probabilità questa riflessione scaturiva dalla penna di Kirstein, che pubblicava le proprie opere poetiche su Hound & Horn, aveva fatto ricerche in Europa per un’importante tesina su El Greco ed era molto preso dalle opere di Blake.49 La seconda categoria era composta dai realisti, il cui precursore, secondo il catalogo, era Thomas Eakins: «La chiarezza della severa visione [di Eakins], il suo approccio ottico così diretto», furono portati avanti, secondo l’autore, da George Bellows, John Sloan, ed Edward Hopper.50 Gli studenti riuscirono anche a esporre due artisti provenienti dalla galleria di Stieglitz, più «estremi» e quindi non rientranti nelle categorie di lirismo o realismo. Nel gergo dell’astrazione allora in voga, Giglio di Georgia O’Keefe, prestata da Paul Sachs, venne indicata nel catalogo


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quale esempio di «formalismo decorativo», e Paesaggio di Marin come un’«astrazione analitica». Stieglitz stesso era presente con una fotografia delle mani di O’Keefe, intitolata appunto Mani. Nonostante il tentativo di effettuare una critica obiettiva, le categorie erano definite troppo ampiamente; ci voleva la mente disciplinata di Barr per creare descrizioni più calzanti. Nel complesso, i dipinti della mostra alla Coop erano di elevata qualità e rappresentativi degli artisti contemporanei degli anni venti che avrebbero goduto di una fama duratura nel mondo dell’arte.51 Le sculture esposte rappresentavano le tendenze più radicali degli artisti contemporanei. Erano presenti solo tre opere: Nudo di Archipenko, Una donna di Lachaise e Forma vegetale di Robert Laurent. Nel Summary, il resoconto delle attività annuali pubblicato dalla Society, la scultura di Lachaise, con un’affermazione che riflette in pieno il gusto di Kirstein, venne definita la più importante opera d’arte esposta durante quell’anno.52 All’inizio degli anni venti, Lachaise era stato energicamente promosso da Dial e Vanity Fair, e Kirstein avrebbe poi scritto una monografia dello scultore per una mostra che diresse nel 1935 al Museum of Modern Art.53 Barr era impegnato con le sue mostre e lezioni al Wellesley e rimase ai margini di queste attività a Harvard, contribuendo comunque con la sua conoscenza dell’avanguardia da poco acquisita grazie all’anno trascorso all’estero, e Warburg lo avrebbe ricordato come una sorta di consigliere ufficioso alle sedute durante le quali si pianificavano mostre. Barr così commentò la strategia della Society in un articolo per The Arts: «Anziché l’atteso clamore di sfacciata modernità, la prima esposizione è stato un abilissimo gioco piano splendidamente calcolato per non offendere neppure il pubblico più retrogrado».54 La stessa critica, espressa qui da Barr in forma così velata, sarebbe poi stata rivolta alla mostra inaugurale, di stampo conservatore, che lo stesso Barr allestì al Museum of Modern Art nel novembre successivo. Barr ammirò in particolare tre opere: il primo George Bellows di Helen Frick, Mani di Stieglitz, e «la fila di sdentate e rattoppate case del periodo “Garfield” di Edward Hopper, la cui bruttezza è tale da giungere alla trasfigurazione».55 Nel definire Stieglitz «uno dei pochi fotografi

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veramente grandi» Barr rivelò la sua esitazione ad accettare senza riserve la fotografia in quanto arte.56 Egli riteneva che «per quanto gli oggetti decorativi fossero stati scelti con cura, fatta eccezione per la lastra di Varnum Poor, essi meritavano l’etichetta di “modernisti”»57, un termine che egli all’epoca impiegava con connotazione negativa. A suo parere il design «convenzionale» non era che un adattamento superficiale del modernismo. The School of Paris, la seconda mostra organizzata dagli studenti, venne concepita come supplemento all’esposizione di arte francese allestita contemporaneamente al Fogg Museum. La mostra del Fogg (fig. 10), tre volte più ampia di quella della Coop, ospitava opere d’arte provenienti da tutti i principali musei, gallerie e collezioni private. L’esposizione era più tradizionale, copriva il periodo dal 1800 fino al 1930 e, presentando opere di pittori affermati, veniva incontro ai gusti del pubblico non specialistico degli anni venti.58 Barr definì l’esposizione di dipinti francesi del Fogg la «migliore mostra di arte francese moderna dopo l’Armory Show del 1913».59 Entrambe le mostre furono possibili grazie alla collaborazione di collezionisti e mercanti legati strettamente a Sachs. Il gruppo studentesco mostrò opere prestate, tra gli altri, da Crowninshield, Frederick Clay Bartlett Jr., la Valentine Gallery, Charles Daniel e Duncan Phillips. Vi figurava un ampio ventaglio di artisti contemporanei: Guy de Segonzac, Amedeo Modigliani, Man Ray, Georges Rouault, Chaim Soutine; tra i vari cubisti c’erano Georges Braque, Roger de la Fresnaye, Juan Gris, Fernand Léger, Maurice de Vlaminck. Venne esposto anche l’Uccello d’oro di Brancusi che, a detta loro, «presentava questo maestro per la prima volta a Boston o a Cambridge».60 Vi comparivano anche Joan Miró e Giorgio De Chirico, allora considerati surrealisti. La mostra era impressionante per la sua completezza e vi vennero mostrati alcuni tra gli artisti considerati i più radicali della loro generazione. Picasso, Derain e Matisse, riconosciuti capi della Scuola di Parigi, non erano presenti nella mostra degli studenti poiché erano rappresentati adeguatamente al Fogg. Ciò nonostante, l’introduzione al catalogo della mostra della Society illustrava i loro contributi.61 Kirstein commentò


10. Mostra di arte francese. Fogg Art Museum, sala xiv, marzo 1929.

l’impiego dell’arte primitiva da parte di Matisse e l’«approccio intellettuale alla forma pura» di Picasso. Il suo apprezzamento si spinse fino a lodare lo «sconcertante ingegno» di Picasso «[dal quale] scaturisce gran parte della novità, della bravura e dell’originalità della pittura moderna parigina». Elevando un’utile intuizione a raffinatissimi scopi, Kirstein diede tanto di cappello a Derain il quale, dopo aver attraversato un periodo cubista, «ne è emerso con migliorata perizia nel disegno, un senso compositivo degno della grande tradizione francese e una tavolozza equilibrata». Sottolineò quindi l’influenza di Picasso su Vlaminck, Utrillo, Kiesling e Segonzac, tutti presentati alla mostra.62 La Society incluse nelle proprie esposizioni anche quegli oggetti decorativi che avevano definito lo stile moderno; designer come Donald Deskey trovarono spazio nella mostra americana,63 mentre le opere tessili e in ceramica di Raoul Dufy e i posaceneri Lalique erano presenti alla mostra francese.64 La mostra rifletteva l’esaustività del modernismo come auspicato sulle pagine di Hound & Horn. La terza esposizione della Harvard Society, che si tenne nell’aprile del 1929, fu una commemorazione retrospettiva delle opere del bosto-


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niano Maurice Prendergast. Walter Pach, che scrisse le note del catalogo, era un convinto fautore del modernismo sia come artista sia in qualità di critico d’arte, scrivendo libri e tenendo conferenze sull’argomento, tra cui una che ebbe luogo al Newark Museum. Pach definì Prendergast un «autentico uomo della sua generazione [che] visse la splendida avventura del pioniere». La scoperta di Cézanne da parte di Pach, che egli fin dal 1904 aveva identificato come l’artista modello per tutti i successivi artisti con intenti radicali, era orgogliosamente rivendicata nel catalogo.65 A Prendergast egli riconosceva il merito di essere stato il primo artista americano ad aver apprezzato Cézanne e averlo usato come punto di partenza.66 Successivamente Barr si sarebbe riferito a Prendergast come all’artista che «sotto l’influenza francese […] aveva elaborato una sorta di espressionismo decorativo, mai eguagliato da nessun altro americano».67 Nel maggio del 1929, con l’esposizione di un modello della Dymaxion House, una «macchina in cui vivere» che poteva essere prodotta in serie, realizzata da Buckminster Fuller, laureato a Harvard, la Harvard Society entrò pienamente nella dialettica moderna. Fuller, affascinato dalle potenzialità della tecnologia, divenne un conferenziere molto seguito a Harvard ed espose alla Coop anche l’anno seguente. Della reputazione di cui cominciò a godere a livello internazionale beneficiò di riflesso anche la Harvard Society. Il secondo anno accademico si aprì con un’esposizione intitolata The School of New York, il cui obiettivo era «presentare gli artisti americani più giovani, in alcuni casi gli stessi studenti che avevano esposto nel primo gruppo».68 Tra le sculture in mostra c’erano un’opera astratta di Isamu Noguchi, appartenente alla Marie Sterner Gallery; un’altra opera astratta di John Storrs, in prestito dalla Dudensing Gallery; Testa di donna di Gaston Lachaise; La vedova di Alexander Calder; artisti tuttora considerati tra i più radicali della loro generazione. Vennero esposti anche alcuni tra i pittori americani più innovatori dell’epoca: Stuart Davis, Peter Blume, Preston Dickinson, Stefan Hirsch e Bernard Karfiol. Gran parte delle opere esposte era stata fornita dalla Downtown Gallery, insieme alla Rehn Gallery e alla Kraushaar Gallery.


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Nel gennaio del 1930 Alexander Calder tornò alla Coop con una mostra personale e due performance del suo circo in miniatura, a cui assistettero Barr e Philip Johnson;69 Calder aveva già portato in scena queste due performance a Parigi nel 1926 e a New York nel 1928. La Weyhe Gallery ospitò la sua prima esposizione di animali in fil di ferro e caricature nel 1928, e nel 1929 fu la volta delle sculture in legno. Queste ultime e i ritratti in fil di ferro vennero inclusi nell’esposizione di Harvard.70 La scelta di inserire Calder in questa precoce storia del modernismo fu probabilmente il più importante contributo della Society, dal momento che la prima mostra personale di Calder al Museum of Modern Art si sarebbe tenuta solo nel 1943, quasi quindici anni dopo. La Harvard Society era sempre un passo avanti al Museum of Modern Art nell’esporre opere mai viste prima in America; le sue piccole dimensioni e l’agile organizzazione societaria le permettevano di presentare artisti considerati più estremi. In coincidenza con l’inaugurazione del Museo a New York, la galleria studentesca allestì una mostra ancor più contemporanea di Derain, Picasso, Matisse e Despiau. Gli studenti considerarono la mostra «l’iniziativa più importante del primo anno della Society».71 Mentre Goodyear passava al setaccio l’Europa alla ricerca di dipinti per la prima esposizione al Modern e Barr percorreva gli Stati Uniti in lungo e in largo per la mostra inaugurale del Museo, Frank Crowninshield, tra gli altri, prestò ben sei sculture di Despiau all’esposizione di Harvard, e la Valentine Gallery (già Dudensing Gallery) fornì gran parte dei dipinti. Nelle note agli artisti, Kirstein rimase fedele a Derain e nel definirlo «un pittore accademico che opera con sobrietà e vigore tramite una serie di utili ed equilibrati principi di solidità, economia e precisione» egli stava esprimendo i suoi ormai sorpassati valori. A detta di Kirstein, Matisse superava Van Gogh per genio, col suo «utilizzo dei modelli, il tratto calligrafico e la freschezza del disegno». Ma la sua valutazione di Picasso lo porta alle soglie della profezia: «Solo la critica da qui a cinquant’anni potrà apprezzare quanto profondamente egli abbia trasformato, manipolato e assimilato la pittura europea del primo quarto del xx secolo». Kirstein ammirava l’esuberanza di Picasso: «Ha un’energia colossale, non solo nel campo della pittura ma anche nelle arti grafiche, come scultore

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e come brillante scenografo».72 Le righe conclusive del catalogo riecheggiano le critiche tanto frequenti sulle pagine di Hound & Horn: «[Gli artisti] sono interessati soltanto all’intensità ottenuta tramite l’affermazione dell’inaspettato, dello scioccante, del brutto». Tale penetrante interpretazione, frequente nelle considerazioni di Barr ma non in quelle di Kirstein, denotava la disponibilità di quest’ultimo a riconoscere valore al significato psicologico nell’arte moderna. Ma questa dura opinione di Kirstein nei confronti dei capifila del movimento moderno si trasformò in avversione nel corso del successivo decennio.73 La Society proseguì per tutto l’anno esponendo l’avanguardia del modernismo negli anni venti: arte messicana, tedesca, fotografia internazionale e opere del Bauhaus. Il Summary pubblicato alla fine dell’anno affermava che l’esposizione di arte messicana era stata «la più ampia e completa», avendo mostrato questi artisti in America ancor prima dell’«importante mostra itinerante del Carnegie»; una retrospettiva storica che prendeva le mosse da «opere indigene dei discendenti dei veri aztechi fino al cubismo francese del ventesimo secolo».74 Fu la Weyeh a concedere in prestito la maggior parte delle stampe, mentre Warburg aveva acquistato da Diego Rivera due disegni che poi comparvero in mostra.75 Modern German Art, tenutasi nell’aprile 1930 a Harvard, «doveva molto alla generosità del dottor Valentiner del Detroit Institute of Art».76 Erano presenti dipinti di Max Beckmann, George Grosz, Erich Heckel, Carl Hofer, Ludwig Kirchner, Paul Klee, Oskar Kokoschka e Karl Schmidt-Rottluff, oltre a sculture di Rudolf Belling, Georg Kolbe e Wilhelm Lehmbruck.77 Nell’ottobre del 1930, al suo secondo anno di attività, la Harvard Society allestì una Exhibition of American Folk Painting in occasione delle celebrazioni per il tricentenario del Massachusetts. L’esposizione si svolgeva in contemporanea con quella di Cahill a Newark, ed entrambe furono tra le prime testimonianze del crescente interesse per l’arte popolare. Il catalogo, scritto da Kirstein, giudicava positivamente la freschezza degli artisti: «Con arte popolare intendiamo l’arte che, nascendo dalla gente comune, è nella sua essenza non accademica, slegata da scuole for-


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mali e, in generale, anonima».78 Per Kirstein e la sua cerchia, come per gli artisti di quella stessa generazione, l’arte popolare possedeva una «qualità diretta» che essi associavano al modernismo.79 Tra gli interessi che assorbivano Kirstein vi era la fotografia, un mezzo espressivo che in America era assurto allo status di arte solo in seguito all’opera pionieristica di Stieglitz. Kirstein scrisse l’introduzione e le note agli artisti per la mostra fotografica che si tenne a Harvard nel novembre del 1930, ispirata a Film und Foto, un’importante esposizione fotografica organizzata dal Deustcher Werkbund nel 1929. Gli studenti furono in grado di raccogliere opere di Berenice Abbott, Eugène Atget, Margaret Bourke-White (allora ventenne e appena agli esordi), Walker Evans, Charles Sheeler, Ralph Steiner e Edward Weston, oltre a maestri riconosciuti come Steichen, Stieglitz e Strand. In un minuzioso resoconto sulla storia della fotografia di quel periodo, la studiosa Maria Morris Hambourg nota che l’esposizione di Kirstein, così come quella tedesca che tanto fedelmente imitava, fu «la prima a mettere in luce il confluire delle tendenze europee, utilitaristiche e artistiche che iniziavano allora a emergere nella fotografia statunitense».80 La passione di Kirstein per la fotografia rimase a lungo viva, così come il suo infallibile gusto, ed egli ebbe modo di dimostrarlo in occasione delle mostre che allestì successivamente per il Museum of Modern Art. Alla fine del 1930 il Museum of Modern Art era ormai stato varato, e Philip Johnson era in Germania a raccogliere materiale per un libro di architettura che stava preparando insieme a Henry-Russell Hitchcock, lavoro che sarebbe confluito due anni più tardi nella famosa esposizione Modern Architecture. Ma gli eventi si susseguivano anche a Harvard: all’inizio del 1931 Johnson tornò con materiale del Bauhaus che prestò a Kirstein e alla Society per una delle prime esposizioni «complete» sulla scuola tedesca negli Stati Uniti.81 Anche Barr e Jere Abbott avevano molto materiale da offrire alla Society, rastrellato durante il viaggio in Europa, e prestarono alla mostra materiale raccolto al Bauhaus nel 1927. Benché il catalogo fosse opera di Kirstein, le informazioni relative alla storia del Bauhaus furono fornite da Johnson, da Alfred V. Churchill, allora professore allo Smith College e amico di Feininger, e da Helmut von Erffa, che

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aveva studiato al Bauhaus.82 Kirstein mise in mostra anche alcune vedute fotografiche dell’edificio del Bauhaus oltre ai quattordici libri pubblicati dalla scuola.83 In definitiva, furono questi studenti di Harvard a portare i notevoli risultati del Bauhaus all’attenzione del pubblico di Boston. Stranamente, nonostante l’ampiezza della sua collezione di opere d’avanguardia, Katherine Dreier non fu interpellata per alcun prestito. Una delle più importanti mostre del terzo anno della Society fu Drawings by Pablo Picasso, tenutasi dal 22 gennaio al 13 febbraio del 1932, che consisteva di «dipinti a olio e grandi acquarelli illustranti l’evoluzione dei vari periodi». I disegni affiancavano e integravano i dipinti, «e presentavano Picasso come forse il più grande artista del nostro tempo».84 Nonostante la Harvard Society avesse continuato l’attività per altri due anni, con questa mostra Kirstein coronò una stupefacente serie di successi accademici che lasciava presagire la notevole carriera che avrebbe fatto nel campo letterario e dello spettacolo. 226

Si inaugura il Museum of Modern Art Nella primavera del 1929, ad appena pochi mesi dalla prima esposizione della Harvard Society, Abby Rockefeller iniziò la campagna per dare vita al Museum of Modern Art. A. Conger Goodyear, a cui era stato chiesto di dimettersi dal Consiglio d’amministrazione dell’Albright Knox Museum di Buffalo dopo l’acquisto de La toilette di Picasso, un dipinto considerato troppo radicale per la collezione di Buffalo, fu invitato alla prima riunione esecutiva indetta da Abby Rockefeller. In qualità di unico rappresentante di sesso maschile, fu scelto come presidente del neonato Consiglio d’amministrazione, e si sarebbe dimostrato estremamente attivo al Museo nel corso del suo mandato decennale. Goodyear chiese a Sachs di diventare membro fondatore, e Sachs, come racconterà in seguito, accettò a condizione che gli fosse concessa la facoltà di nominare il primo direttore, sostenendo che altrimenti non avrebbe potuto competere con gli altri consiglieri in quanto non era in grado di contribuire al pari di loro dal punto di vista finanziario.85 Goodyear chiese an-


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che ad altri due amministratori di entrare a far parte del primo consiglio: Josephine Boardman Crane, amica intima di Abby Rockefeller, e Frank Crowninshield, direttore di Vanity Fair.86 Nel luglio del 1929, su suggerimento di Sachs, Barr fu invitato a casa della signora Rockefeller a Barr Harbor, nel Maine, e sottoposto a un colloquio per la posizione di direttore del nuovo museo. Abby Rockefeller scriverà a Sachs che Barr le era piaciuto «e pensava che la giovinezza, l’entusiasmo e l’erudizione avrebbero compensato la sua presenza tutt’altro che imponente».87 Goodyear era dello stesso parere: «Sono rimasto un po’ deluso dalla sua personalità, ma credo che disponga di una cultura molto ampia e di grande entusiasmo, qualità che ci saranno assai utili specialmente nella fase di avvio del progetto».88 Loro comune obiettivo era di presentare «solo il meglio» al Museo.89 Barr non riusciva a credere alla sua buona stella; era stato estremamente fortunato, o forse abile calcolatore, nel coltivare i rapporti con Paul Sachs. Qualche giorno dopo, il 12 agosto, scrive ad Abby Rockefeller: Non so dirLe quanto sia lieto e compiaciuto dall’affinità dei nostri pensieri. Non era affatto scontato che avremmo trovato un accordo così spontaneo e completo su quasi ogni aspetto della nostra grande impresa. Sento ora tra di noi una certa entente che rafforza il mio coraggio al punto da voler suggerire al Consiglio, per esempio, una mostra tedesca, oppure la creazione di una piccola biblioteca di periodici, e ancora la necessità di un’illuminazione artificiale uniforme. Jere Abbott […] è stato anche lui felicissimo nel venire a conoscenza dei Suoi gusti artistici così giovani e non convenzionali.90

Alfred Barr possedeva, se non proprio il carisma, la perfetta combinazione di talento, istruzione e temperamento che fecero di lui la persona prescelta per la direzione. Per di più era appassionatamente dedito alla missione di portare ordine ed erudizione in uno scenario evidentemente complesso e messo a repentaglio dalla natura stessa dell’arte moderna. Il successo dei quattordici anni di Barr in qualità di direttore del Museo

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sarebbe dipeso non solo dalla sua cultura formale e accademica, ma anche dalle conoscenze apprese da autodidatta sia in America sia durante il viaggio in Europa del 1927. Nelle visite ai musei europei, Barr apprese molto riguardo alle tecniche d’installazione, studiando i cartellini a parete nei musei russi e le pareti mobili nel museo tedesco di Hannover, oltre agli allestimenti dei modernissimi musei tedeschi di Essen, Amburgo, Berlino, Dresda, Stoccarda, Halle, Francoforte, Colonia, Monaco, Darmstadt e Mannheim, «che nei primi tempi furono una delle principali fonti di ispirazione per il nostro Museo».91 I mecenati che sostennero il neonato Museum of Modern Art consideravano l’istituzione non solo come una sorta di «forziere» per le loro collezioni di arte moderna, ma anche come uno spazio espositivo moderno il cui rapporto con il Metropolitan sarebbe stato equivalente a quello esistente a Parigi tra il Luxembourg e il Louvre o a Londra tra la Tate e la National Gallery. Essendo più piccoli, questi spazi museali permettersi di esporre dipinti «ancora troppo controversi per riscuotere un consenso universale». Oltre a organizzare venti mostre nel corso dei primi due anni, Barr e i consiglieri decisero che il Museo avrebbe «istituito una […] collezione degli immediati antecedenti, tanto americani quanto europei, del movimento moderno». Il suo entusiasmo era tale che sognava di giungere a realizzare «forse il più importante museo d’arte moderna del mondo».92 Barr fece tesoro delle recenti esperienze europee per scrivere un opuscolo intitolato A New Art Museum, noto come «Piano del 1929». Nella bozza originale così riflette: «Con il tempo il Museo probabilmente si amplierà oltrepassando gli angusti confini della pittura e della scultura per arrivare a comprendere sezioni dedicate al disegno, alla stampa, alla fotografia, alla tipografia, alle arti del design pubblicitario e industriale, all’architettura (una raccolta di projets e maquettes), alla scenografia teatrale, ai mobili e alle arti decorative. Da ultima, ma non meno importante, potrebbe esserci una filmotek, una videoteca».93 Definendo il piano «ambizioso», Barr avrebbe poi ammesso che i consiglieri avevano tagliato la bozza riducendola: «Con il tempo il Museo si amplierà […] fino a comprendere altri ambiti dell’arte moderna».94 Ciò nonostante, nel


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giro di pochi anni il tenace Barr fu in grado di portare a compimento il suo piano per creare sezioni specializzate, che organizzarono proprie mostre e che, nel complesso, istituzionalizzarono la struttura del modernismo. Il primo ampliamento ebbe luogo con l’istituzione della sezione di Architettura, aggiunta nel 1932; nel 1935 nacque la videoteca; nel 1933 si tenne la prima mostra di arti industriali; in seguito furono aggiunte la sezione di Disegno e stampe e quella di Fotografia. Goodyear avrebbe scritto che il piano «era radicale […] poiché promuoveva un interesse serio e attivo nei confronti delle arti pratiche, commerciali e popolari». Con studiato understatement, avrebbe anche dichiarato: «A posteriori è evidente l’impulso sotterraneo e duraturo a realizzare interamente il piano del 1929».95 Nelle talvolta burrascose relazioni con Goodyear, Barr confidava nel sostegno di Abby Rockefeller, che svolse un importante ruolo di mediatrice nel conciliare i temperamenti conflittuali dei due. Barr la frequentò costantemente fino al 1939, anno in cui la signora Rockefeller si ritirò dal Consiglio d’amministrazione per non interferire con la carica di presidente del Museo assunta dal figlio Nelson.96 Barr confidò a Nelson Rockefeller il grande attaccamento che nutriva per sua madre: «Dal momento che ci frequentavamo così spesso ed eravamo così appassionatamente dediti alla stessa istituzione, e forse anche perché io ero molto giovane (più giovane della mia età), avevamo l’abitudine di parlare con grande franchezza, intimità addirittura, tanto che spesso avevo la sensazione che lei fosse quasi una seconda madre, a tal punto era attenta e gentile».97 Furono il coraggio di lei, insieme alla fede nell’arte, in particolare nell’arte moderna, a sostenere Barr; pochi riuscirono scorgere, come invece intuì quest’ultimo, la robusta fibra che sosteneva la determinazione di Abby. Barr scrisse inoltre a Nelson Rockefeller: «L’arte moderna è radicale non solo dal punto di vista artistico: vi è chi ritiene che lo sia anche da quello morale e politico, e spesso è proprio così. Ma se questi aspetti possono intimidire gli animi più cauti o convenzionali, essi non hanno minimamente dissuaso [la signora Rockefeller] sebbene in alcune occasioni siano stati per lei causa di ansia, così come per noi tutti».98 Nonostante la passione che nutriva per l’arte americana e la conoscen-

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11. Allestimento della mostra Cézanne, Gauguin, Van Gogh, Seurat. Museum of Modern Art, 7 novembre – 7 dicembre 1929.

za che aveva di essa, quando arrivò il momento di stabilire il contenuto critico dell’esposizione inaugurale del Modern la signora Rockefeller, con Mary Sullivan e Lillie Bliss, scelse di allestire un’esposizione sui «padri» del modernismo: i postimpressionisti Cézanne, Van Gogh, Seurat e Gauguin. La mostra Paintings by Nineteen Living Americans, che Sachs, Barr e Crowninshield avrebbero preferito per l’inaugurazione del Museo, sarebbe venuta per seconda. La scelta di avere una mostra europea per la grande inaugurazione del Museo fu preludio di future polemiche: negli anni successivi Barr sarebbe stato infatti bersaglio di un’incessante serie di critiche mossegli dal pubblico che frequentava i musei, così come dai protagonisti del mondo dell’arte, che lo accusarono di parteggiare per l’avanguardia europea, ed egli avrebbe dovuto continuamente difendere le proprie scelte. Sosteneva che, nonostante la sua specializzazione fosse l’arte europea e non quella americana, l’elenco delle esposizioni e acquisizioni del Museo testimo-


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niava un trattamento equanime; un’argomentazione che appariva poco convincente, soprattutto agli artisti americani. Barr avrebbe preferito una mostra americana per l’inaugurazione poiché era del parere che Alfred Ryder, Thomas Eakins e Winslow Homer sarebbero stati molto più interessanti dei quattro postimpressionisti. Nonostante ciò, gli uomini si inchinarono al volere delle tre «adamantine» signore.99 Il Museum of Modern Art riscosse un enorme successo sin dalla mostra di apertura. In quell’occasione furono esposti novantotto dipinti di Cézanne, Gauguin, Van Gogh e Seurat (fig. 11); lo spazio che ospitava l’evento consisteva in una sala grande, due medie e tre più piccole al dodicesimo piano dello Heckscher Building, al 730 della Fifth Avenue (fig. 12). Durante il viaggio in Europa, Goodyear riuscì a ottenere in prestito trenta opere d’arte da compiacenti collezionisti e mercanti d’arte di Londra, Parigi e Berlino. Alla lunga, l’impegno assunto dal Consiglio d’amministrazione di esporre solo opere di qualità fu il principale artefice del successo del Museum of Modern Art. La mostra, che consisteva prevalentemente di opere appartenenti a collezioni private, comprese quelle dei consiglieri, non fece che confermare il gusto degli americani, qual era rispecchiato dalle loro ripetute acquisizioni di un gran numero di raffina-

12. Heckscher Building. Fifth Avenue, veduta verso sud dalla 59th Street, 1921. Coll. New York Historical Society.


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ti esempi di pittura francese di fine Ottocento e dal fatto che le esposizioni che presentavano artisti parigini avevano oltre il doppio dei visitatori della maggior parte delle altre mostre.100 Nel realizzare il catalogo per la First Loan Exhibition: Cézanne, Gauguin, Seurat, Van Gogh,101 il primo pubblicato dal museo, Barr si impose un elevato standard al quale si sarebbe attenuto anche nei successivi cataloghi e che avrebbe esercitato una profonda influenza in quel campo. Egli fu frequentemente lodato per la «chiarezza» della prosa e la «puntualità» dell’erudizione, e le sue monografie, pubblicate con un’eleganza grafica su cui non transigeva, furono considerate vere e proprie «pietre di paragone». Goodyear tributò a Barr grandi elogi: «All’intima familiarità con l’arte del passato tanto quanto con quella del presente, egli aggiunge la fine sensibilità per tutto ciò che è di prim’ordine, il costante e discreto entusiasmo, la visione anticipatrice delle nuove tendenze e soprattutto la limpida padronanza della parola scritta. I suoi cataloghi e le altre pubblicazioni sono contributi duraturi alla letteratura sull’arte moderna».102 In questa prima pubblicazione, alla quale sarebbero seguite molte altre, Barr usa un linguaggio descrittivo e carico di emozioni, denso di vezzi poetici. È una concessione che avrebbe abbandonato negli scritti successivi, nei quali sarebbe invece prevalsa l’austerità dell’analisi oggettiva formale nel contesto della continuità storica. Lontano dal caos intrinseco al modernismo – termine che, a suo parere, descrive con maggiore efficacia quel periodo rispetto a «contemporaneo» – Barr intesse una narrazione di movimenti sincroni nell’intento di portare ordine nell’evoluzione recente dei percorsi artistici, e quelle che ad alcuni apparivano definizioni limitate e arbitrarie riflettevano in realtà la sua volontà di classificare e dunque di collocare il periodo moderno entro un continuum storico. Sin dal primo catalogo Barr mise a punto una tecnica per la quale sarebbe divenuto famoso: delineare i punti di intersezione nell’evoluzione storica del modernismo, mostrando, per esempio, come le opere di Gauguin avessero portato all’espressionismo astratto tedesco. Questo era possibile ricostruendo la loro diffusione e influenza attraverso l’Europa. Nel descrivere i due dipinti Ritratto di Meyer De Haan e Il Cristo giallo,


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Barr sintetizza lo stile di Gauguin: «[Le sue opere] sono in totale contrapposizione rispetto all’impressionismo. Ai contorni sfumati sostituiscono rigide angolarità; al posto delle atmosfere soffuse offrono superfici di colore intenso e duro come lacca. Anziché negare alla pittura qualsiasi sapore “letterario”, Gauguin satura queste opere di contenuti psicologici positivi».103 Per quanto sia consapevole delle intenzioni psicologiche, Barr sceglie di non analizzarle, essendo più interessato alle considerazioni formali, per esempio quando osserva che nei dipinti tardi realizzati da Gauguin a Tahiti «le vivide dissonanze barbariche di colori lasciano spazio ad […] armonie profonde e sontuose».104 Gli scritti successivi di Barr perderanno parte del tono iperbolico, ma l’abitudine di individuare attentamente i particolari dell’evoluzione dell’artista, di ricostruirne le influenze e di collocarlo nella progressione storica si consolidò ulteriormente. Barr sembrava particolarmente colpito dalla vita e dell’opera di Van Gogh. Forse la tormentata vicenda umana dell’artista, fin dall’«infanzia contrastata come figlio di un pastore protestante olandese»105 catturò l’immaginazione di Barr (anch’egli figlio di un pastore). Disegnando la mappa del percorso di Van Gogh, Barr nota che la sua tavolozza si era accesa soltanto in seguito all’arrivo a Parigi e alla sua fascinazione per gli impressionisti. Cosa che proseguì anche in Provenza, dove Van Gogh «aveva trovato se stesso […] la pennellata aveva virato in spirali e curve dal ritmo sincopato come se avesse provato gioia nel semplice movimento della mano e del polso». Descrivendo I lastricatori, Barr arriva ai limiti dell’iperbolico: «I muscoli dei tronchi si gonfiano mentre ficcano le radici nel profondo della terra. Van Gogh delinea l’elettrizzante energia che irradia da un grappolo d’uva. Egli vede con intollerabile intensità che solo il dipingere può alleviare i suoi tormenti. Il Van Gogh predicatore si trasmuta nel Van Gogh artista, profeta, nel mistico che afferra e rende visibile la vita interiore delle cose».106 Barr cita i viaggi di Van Gogh nel Sud della Francia e la sua amicizia con Gauguin ad Arles; ma, rivelando le proprie inclinazioni classiche, egli avverte che in un’ultima istanza «il carattere più profondo del suo lavoro, brusco, sproporzionato, privo di “gusto” ma bruciante di ardore spiritua-

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le, appare sprezzantemente antifrancese». Più espressionista che classico, l’influenza di Van Gogh è evidente soprattutto negli espressionisti tedeschi: «Van Gogh è in effetti l’archetipo dell’espressionismo, del culto della pura spontaneità senza censure».107 Quanto a Cézanne, Barr proclama che «al giorno d’oggi non esistono uomini di tale statura».108 Per quanto il contributo di Gauguin fosse stato immediatamente riconosciuto, mentre dovettero passare venticinque anni dalla morte di Cézanne prima che le sue innovazioni fossero comprese, Barr sostiene che l’influenza di Cézanne fosse maggiormente pervasiva. «Qualunque giudizio darà il tempo dell’opera di Cézanne» scrive Barr, «è innegabile che la sua influenza negli ultimi trent’anni è paragonabile per ampiezza a quella che ebbero Giotto, Roger van der Weyden, Donatello o Michelangelo».109 L’entusiasmo di Barr e la sua sensibilità per l’innovazione lo portano ad accostare il periodo contemporaneo agli eventi rivoluzionari del Rinascimento. L’uso che Cézanne fece dei grandi maestri, la «sintesi di tendenze barocche e impressioniste», faceva precisamente leva sul senso dell’ordine di Barr: «[Cézanne] esplicitò il suo programma in due occasioni: “Noi dobbiamo fare dell’impressionismo una realtà solida come l’arte dei musei”. E ancora: “Ciò che dobbiamo fare è dipingere Poussin ripartendo dalla natura”. Con queste espressioni estremamente significative, egli pone l’accento tanto sull’importanza della tradizione quanto sulla validità delle scoperte contemporanee».110 Tali affermazioni dell’artista, frequentemente citate da Barr, si ritrovano in un contesto analogo negli scritti del critico inglese Roger Fry, che Barr aveva conosciuto a Londra nel 1927, e alla cui posizione formalista, espressa quello stesso anno in Cézanne: A Study of His Development, egli avrebbe aderito. L’analisi empirica di Fry dell’«autentica essenza del dipinto», il suo confronto con la «reale matericità dei suoi dipinti»,111 incarnava un atteggiamento che avrebbe governato la vita e la carriera di Barr, il quale, proprio come Fry, parla dei piani di luce riprodotti dai piani di colore e della realtà interiore efficacemente resa dalla composizione di tali colori. Riprendendo nuovamente Fry, Barr scrive: «Ma un grande Cézanne è immanente; ti cresce intorno e ti avvolge. Il risultato è talvolta ipnoti-


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co, quasi come ascoltare una splendida musica in cui la forza e l’ordine espressi siano incredibilmente reali». Quasi con riluttanza, Barr ammette che i dipinti dell’artista hanno, in ultima istanza, un effetto trascendente. Pur notando che Cézanne è stato ampiamente copiato, Barr considera «la potenza intrinseca» dell’artista «inimitabile».112 Forse il formalismo era già nell’aria, ma l’analisi formale di Barr è onnipresente nei suoi scritti e si tradurrà nella struttura organizzativa del Museo. Il quarto pittore nel pantheon dei maestri moderni in mostra era Georges Seurat, la cui grandezza, a detta di Barr, non fu riconosciuta se non a quarant’anni dalla sua morte. Sebbene Barr esalti il Seurat logico scientifico, egli imputa alle teorie dell’artista di aver mascherato la reale grandezza delle sue innovazioni formali. Oltre alla straordinarietà della sua tavolozza, Barr ne sottolinea l’ordine spaziale, in particolare nel capolavoro Sabato pomeriggio all’isola della Grande Jatte: Nessun Cézanne o Renoir si avvicina alla precisione e alla perfezione di tale organizzazione. Dobbiamo ritornare a Perugino o a Mantegna per incontrare una simile chiarezza, e a Tintoretto e Rubens per una simile complessità […]. Seurat è stato l’inventore di un metodo, il costruttore di un sistema che non ha eguali nella storia dell’arte quanto a complessità. Chi altri, artista o profano, è giunto così vicino a realizzare l’illusione del xix secolo, la perfezione resa possibile attraverso la scienza? Ma il Seurat artista è stato più grande del Seurat scienziato. Nella sua opera, dal più piccolo disegno alla composizione più elaborata, grande intelligenza è completata da consumata sensibilità.113

Barr illustra l’influenza di Seurat sui successivi modernisti, cubisti inclusi, ma è incapace di indicare un pittore di paragonabile classicismo. Collocando i quattro padri fondatori del modernismo in entrambi i contesti, passato e futuro, Barr dimostra, nel suo primo importante contributo alla letteratura critica, la continuità esistente fra tradizione e arte moderna. La mostra ottenne uno straordinario successo di critica e di pubblico:

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Goodyear scrisse che in un mese quarantasettemila persone si erano succedute nel piccolo spazio espositivo, mentre cinquemilatrecento avevano cercato di entrarvi l’ultimo giorno.114 I recensori erano entusiasti della qualità delle opere esposte; Forbes Watson scrisse: «In un colpo solo, il nostro museo più giovane si è imposto all’immaginazione del pubblico grazie alla superba qualità dei dipinti che ha scelto di esporre, ma anche grazie al buon gusto, all’eleganza, alla dignità e alla serietà di intenti».115 Per la seconda mostra, Barr scelse una sostanziale riproposizione della mostra americana della Harvard Society, esponendo molti degli stessi artisti. Purtroppo la scelta dei dipinti per questa seconda esposizione al Museum of Modern Art, dettata da una decisione collegiale del Consiglio d’amministrazione, si tradusse in una mostra poco ispirata e priva di un obiettivo definito. Oltre agli artisti esposti a Harvard, la mostra di New York annoverava Preston Dickinson, Lyonel Feininger, «Pop» Hart, Bernhard Karfiol, Walt Kuhn, Yasuo Kuniyoshi, Ernest Lawson, Jules Pascin, Eugene Speicher e Max Weber. (In mostra a Harvard ma assenti a New York erano invece Benton, Davies, Prendergast e Boardman Robinson.)116 L’accoglienza fu in questo caso tiepida, ma il numero dei visitatori crebbe con l’esposizione successiva, Painting in Paris, che dava rilievo alle opere di Picasso, Matisse, Derain, Bonnard, Braque, Rouault e Segonzac. Nel 1931 il Museo allestì una mostra di arte tedesca, esponendo essenzialmente gli stessi artisti presentati alla Harvard Society l’anno precedente, ma con un’importante differenza: l’esauriente catalogo di Barr. Qui egli nota: «Molti ritengono che la pittura tedesca sia seconda solo alla Scuola di Parigi e che la scultura tedesca sia quantomeno pari a quella di ogni altra nazione».117 Barr definisce l’arte tedesca peculiare sia rispetto all’arte francese sia a quella americana; anziché concentrarsi su «forma e stile fini a se stessi», gli artisti tedeschi si abbandonano a sentimenti romantici e valori emotivi «e addirittura a riflessioni morali, religiose, sociali e filosofiche. L’arte tedesca è di regola un’arte non pura».118 Barr sembrava oscillare nelle proprie preferenze tra l’attrazione per l’ordine supremo dell’arte francese e la fascinazione per l’immaginario ossessionato dal lato oscuro e sotterraneo delle emozioni, tipica del surrealismo o dell’espressionismo tedesco.


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Barr paragona il gruppo espressionista tedesco Die Brücke ai contemporanei francesi, i fauves. Fonte d’ispirazione comune a entrambi sono l’arte primitiva e le opere di Gauguin e Van Gogh; i tedeschi sfruttavano altresì l’ispirazione dell’arte medievale per evitare ogni stile imitativo. Gli espressionisti, scrive Barr, «utilizzano tutti colori più o meno “innaturali”, spesso adoperati in un audace motivo decorativo. Disegnano con tratto pesante e, in genere, spigoloso».119 La scrittura di Barr si è fatta a questo punto asciutta e minimalista, e gli eccessi emotivi sono spariti: descrivendo il gruppo Blauer Reiter, la seconda generazione di espressionisti, egli lo definisce «meno ingenuo, e più combattivo e dottrinario». Tra gli artisti indipendenti, che non appartenevano ad alcun gruppo compaiono Oskar Kokoschka, dal carattere «febbrilmente» intenso (l’intensità sarà una qualità particolarmente sostenuta da Barr nei successivi scritti), e Paula Modersohn-Becker, una delle artiste «più innovative» in Germania (egli non mancava mai di dare il giusto riconoscimento alle artiste donne). Barr riservò le lodi più lusinghiere allo stile di Max Beckmann che, per «forza, vitalità e ricchezza di sentimenti non ha eguali in Germania», ma si interrogava sulla collocazione dello stesso Beckmann nella storia: «rimane da vedere se la genuina grandezza della sua personalità si realizzerà appieno nelle opere tanto da fargli conquistare un posto accanto ai cinque o sei artisti moderni più importanti».120 Barr scrive anche riguardo alla pittura postbellica più conservatrice, in particolare la Neue Sachlichkeit rappresentata da George Grosz, Otto Dix e Georg Schrimpf. La nuova attenzione verso l’oggettività dava rilievo agli «artisti che, allontanandosi dall’espressionismo o dalla progettazione astratta, si erano concentrati sul mondo materiale e oggettivo».121 Barr riconduce la loro ispirazione ad artisti del xv secolo come Crivelli o Perugino, oltre che ai pittori tedeschi Dürer, Holbein e Grünewald. Nell’autunno del 1931 si tenne la mostra di Matisse: con centosessantadue opere che coprivano un periodo di trentaquattro anni della sua attività, fu la prima mostra con opere ottenute in prestito di un importante artista europeo, oltre che una delle poche grandi retrospetti-

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ve allestite durante la direzione di Barr.122 La mostra segna anche l’inizio dell’approfondita ricerca di Barr sull’artista, tanto che il catalogo, HenriMatisse,123 può essere considerato una sorta di prospetto per la pubblicazione, vent’anni anni dopo, del capolavoro universalmente riconosciuto di Barr, Matisse: His Art and His Public.124 Entrambe le opere condividono tono e struttura. L’esauriente ricerca di Barr sulla vita e sull’opera di Matisse, compresi i disegni, le litografie e le sculture, stabilì un modello nel campo della critica d’arte. Nelle osservazioni conclusive della monografia, egli cerca di analizzare il «carattere» dell’opera dell’artista nell’ambito del contesto storico artistico. Facendo ricorso alle parole dello stesso Matisse apparse nelle Notes d’un peintre,125 Barr esplicita il proprio metodo di classificazione del percorso dell’artista. Nell’opera di Matisse, nonostante variazioni superficiali, egli riscontra un’intrinseca coerenza che si manifestava in cicli ricorrenti: «Un osservatore esterno potrebbe scoprire la coerenza nella successione di incoerenze». Barr si riferisce sia all’alternanza tra colori tonali e colori accesi nei dipinti, sia all’oscillazione presente nell’opera dell’artista tra uno stile «abbastanza “realistico” e uno così stilizzato e sintetico da rasentare l’“astratto”».126 Barr ordinò le opere presenti in mostra in sequenza cronologica, secondo un metodo, che evidenziava le varie fasi dell’opera di Matisse e che ritornerà anche nella mostra di Picasso. Al di là delle variazioni stilistiche, la continuità osservata da Barr nei dipinti era manifestazione di quanto dichiarato da Matisse: «Ciò che perseguo, sopra a tutto, è l’espressione»;127 termine che Barr interpreta come «l’arte della composizione; composizione di forme e colori, la capacità di ricavare ordine a partire dalla casualità e dalla confusione dell’esperienza visiva ordinaria».128 Egli analizza lo stile di Matisse con profondità maggiore rispetto a gran parte della critica coeva: «I colori chiassosi sono bilanciati da una costante ricerca sui problemi della progettazione, non solo decorativa ma anche strutturale».129 Barr comprende che, seguendo i dettami di Cézanne, l’importanza attribuita da Matisse alla forma aveva assunto il senso di una ribellione nei confronti degli impressionisti.


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Nel recensire l’esposizione, anche lo storico Meyer Schapiro diede un’interpretazione formalista suggerendo, tuttavia, che il lavoro di Matisse avesse le sue radici nell’arte impressionista, il cui soggetto era «già estetico… [e che] l’arte della pittura risiede nella combinazione coerente di forme e colori senza riguardo per il loro significato […]. La piattezza del campo o la sua decomposizione in motivi di superficie, lo spazio indefinito e incoerente, i contorni deformati, la particolare frammentazione delle cose ai margini del dipinto, la prospettiva diagonale, la colorazione accesa e arbitraria degli oggetti […] costituiscono nell’ambito dello stile astratto di Matisse una matrice impressionista».130 L’«intimità e autonomia» della sensibilità individuale, libera della realtà oggettiva, fu iniziale prerogativa degli impressionisti, che aprirono così la strada al disegno astratto e al modernismo del secolo successivo. Inoltre, quando afferma che «la sensibilità agisce istantaneamente, nell’atto stesso del vedere»131 Schapiro introduce nell’analisi formalista una psicologia della percezione che anticipa l’opera dei fenomenologi. Più libero di Barr nell’affrontare le problematiche artistiche maggiormente complesse, Schapiro trova il linguaggio per descrivere in maniera più accurata gli esiti degli artisti radicali. Solo cinque anni più tardi Schapiro, messo a disagio dai limiti dell’atteggiamento formalista, criticherà aspramente Barr per non aver considerato l’arte in un contesto culturale, sociale o psicologico.132 Ma, a dispetto delle preoccupazioni di Schapiro, l’approccio critico formalista terrà banco fino agli anni settanta, quando nella ricerca si afferma un approccio multiprospettico.133 Dopo Matisse, il Museo espose le opere di Diego Rivera: centocinquanta pezzi, compresi sette affreschi commissionati per l’occasione. La mostra batté tutti i precedenti record di affluenza. Barr aveva visto il lavoro di Rivera in Russia nel 1927 e in seguito convinse Abby Rockefeller ad acquisire le sue opere nonostante le posizioni politiche estremiste dell’artista.134 (Rivera passerà di moda nel 1934, quando il provocatorio murale da lui realizzato per il Rockefeller Center fu distrutto dagli agenti di sicurezza dell’edificio.) Complessivamente lo Heckscher Building ospitò quindici mostre temporanee per un totale di

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oltre cinquecentomila visitatori, cifre che dimostrarono la necessità di un struttura museale permanente e più adeguata. Ma prima che il Museo si trasferisse, nel 1932, in un edificio di mattoni rossi di proprietà di Abby Rockefeller al numero 11 della West 53rd Street, fu organizzata la Modern Architecture: International Exhibition, a detta dello stesso Barr una delle sue maggiori realizzazioni. L’architettura moderna e il suo rapporto con la pittura erano l’incarnazione simbolica di tutto ciò che Barr e il Museo rappresentavano. L’esposizione (di cui trattano i successivi due capitoli) modificherà radicalmente il modo in cui veniva considerata l’architettura in America. Nel 1932 Barr prese un periodo di congedo, quantomai necessario: tra il 1927 e il 1931 aveva infatti scritto diciassette articoli, tutti i cataloghi per le mostre del Museo, nonché undici tra conferenze e saggi, oltre ad aver sostenuto l’enorme pressione dei primi tre anni di direzione. Cahill, che era stato presentato al Museo da Rockefeller, lo sostituì in qualità di direttore ad interim. Poco dopo la nomina, Cahill allestì la mostra American Folk Art: The Art of The Common Man in America, 17501900, con una serie di opere che egli stesso e Dorothy Miller avevano acquistato per la collezione della signora Rockefeller, che le prestò in forma anonima.135

Il museo multimediale Nel frattempo, i membri del Consiglio d’amministrazione stavano cercando nuove forme di sostegno all’istituzione museale. Crowninshield era dell’idea che si potesse trarre vantaggio dalle strette relazioni personali esistenti tra Barr, Kirstein e i loro amici, e suggerì quindi a Goodyear, in qualità di presidente del Museo, di adoperarsi per reclutare «molti dei giovanotti […] di Harvard».136 Nel 1930, poco dopo l’inaugurazione del Museo, fu chiesto a Kirstein, a Warburg e a Johnson di unirsi al Junior Advisory Committee. Barr, come Kirstein, era interessato alla fotografia quale forma d’arte, e non aveva mai mancato di inserire una sezione di fotografia nell’ambi-


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to delle rassegne artistiche che aveva curato, sebbene, quando aveva proposto di includere la fotografia nella mostra americana, si fosse scontrato con l’opposizione della maggioranza dei consiglieri.137 Kirstein proseguì sulla stessa strada, scrivendo molti articoli e libri sulla fotografia, tra cui i cataloghi per le mostre che curò per il Museo: Murals by American Painters and Photographers del 1932 e Photographs of Nineteenth-Century American Houses by Walker Evans del 1933.138 La mostra di Evans, la prima personale fotografica allestita al Museo, comprendeva la raccolta di fotografie di case vittoriane del New England, che apparteneva allo stesso Kirstein e che egli poi donò al Museo. Era stato proprio Kirstein a suggerire a Evans di fotografare le case del New England, e sarà lui ad accompagnarlo nel viaggio insieme a un compagno di Harvard, John Wheelwright.139 Ma la prima importante esposizione sulla storia della fotografia ebbe luogo soltanto nel 1937 a cura di Beaumont Newhall, bibliotecario del Museo appena assunto da Barr su raccomandazione di Hitchcock. Dopo aver ottenuto il denaro necessario da un membro del Consiglio, Barr chiese senza tante cerimonie a Newhall se gli sarebbe piaciuto curare una mostra fotografica. Newhall era un dilettante autodidatta nel campo della fotografia e aveva studiato con Sachs a Harvard, dove aveva conseguito un Master. Aveva cominciato a lavorare al Museum of Modern Art aiutando Barr nell’installazione delle opere di una mostra. Barr mise in guardia Newhall dicendogli che si stava avventurando in un circo a tre piste, dove ogni giornata era frenetica quanto quella dell’inaugurazione di una nuova esposizione.140 La mostra fotografica, una rassegna storica completa forte di quasi ottocento pezzi, occupò quasi tutti gli spazi del Museo.141 In seguito la mostra divenne itinerante, facendo diverse tappe in tutto il paese, e il catalogo di Newhall, The History of Photography: 1839-1937, andò esaurito. Sebbene l’esposizione fosse stata un’idea di Barr, che voleva concretizzare il suo desiderio di creare un museo multimediale, egli non interferì in alcun modo con il lavoro di Newhall. In seguito Newhall allestì una seconda mostra su Walker Evans, la quale, unitamente all’analisi storica che l’accompagnava, non solo lo aiutò ad affermarsi quale importante critico

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