Antonio Gramsci
Nel tempo della lotta e Lettere (1926-1937)
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Nel tempo della lotta
Sommario
Nota dell’Editore
9
Nota all’edizione 1964
11
Nel tempo della lotta
13
Noi sentiamo il mondo
159
Stenterelli e Machiavelli
185
Si può, si deve
211
Lettere (1926-1937)
275
Appendice
495
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La guerra mondiale, vinta dall’Intesa, avrebbe dovuto, con la pace di Versailles e con la Lega delle Nazioni, instaurare un regime di monopolio sul globo; al sistema di equilibrio e di concorrenza fra gli Stati doveva succedere una incontrastata egemonia. La Russia dei Soviet, acquistando la posizione di grande potenza, ha infranto il sistema egemonico, ha riportato il principio della lotta tra gli Stati, ha impostato su una scala mondiale, in una forma assolutamente impreveduta per il pensiero socialista, la lotta della Internazionale operaia contro il capitalismo. (14 agosto 1920, L’ordine nuovo, O. N.)
Il programma dell’Ordine Nuovo I.
Quando, nel mese di aprile 1919, abbiamo deciso, in tre, o quattro, o cinque (e di quelle nostre discussioni e deliberazioni devono ancora esistere, perché furono compilati e trascritti in bella copia, i verbali, sissignori, proprio i verbali… per la storia!), di iniziare la pubblicazione di questa rassegna Ordine Nuovo, nessuno di noi (forse nessuno…) pensava di cambiare la faccia al mondo, pensava di rinnovare i cervelli e i cuori delle moltitudini umane, pensava di aprire un nuovo ciclo nella storia. Nessuno di noi (forse nessuno: qualcuno fantasticava di 6000 abbonati in qualche mese) accarezzava illusioni rosee sulla buona riuscita dell’impresa. Chi eravamo? Che rappresentavamo? Di quale nuova parola eravamo i portatori? Ahimè! L’unico sentimento che ci unisse, in quelle nostre riunioni, era quello suscitato da una vaga passione di una vaga cultura proletaria; volevamo fare, fare, fare; ci sentivamo angustiati, senza un orientamento, tuffati nell’ardente vita di quei mesi dopo l’armistizio, quando pareva immediato il cataclisma della società italiana. Ahimè! L’unica parola nuova, che fosse stata pronunziata in quelle riunioni fu soffocata. Fu detto, da uno che era un tecnico: «Bisogna studiare l’organizzazione della fabbrica come strumento di produzione: dobbiamo consacrare tutta la nostra attenzione ai sistemi capitalistici di produzione e di organizzazione e dobbiamo lavorare per far convergere l’attenzione della classe operaia e del Partito su questo oggetto». Fu detto, da un altro che si preoccupava dell’organizzazione degli uomini, della storia degli uomini, della psicologia della classe operaia: «Bisogna studiare ciò che avviene in mezzo alle masse operaie. Esiste in Italia, come istituzione della classe operaia, qualcosa che possa essere paragonato al Soviet, che partecipi della sua natura?
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Qualcosa che ci autorizzi ad affermare: il Soviet è una forma universale, non è un istituto russo, solamente russo; il Soviet è la forma in cui, da per tutto ove esistono proletari in lotta per conquistare l’autonomia industriale, la classe operaia manifesta questa volontà di emanciparsi; il Soviet è la forma di autogoverno delle masse operaie; esiste un germe, una velleità, una timidezza di governo dei Soviet in Italia, a Torino?». Quell’altro, che era stato impressionato da questa domanda rivoltagli a bruciapelo da un compagno polacco: «Perché non si è mai tenuto in Italia un congresso delle commissioni interne?», rispondeva, in quelle riunioni, alle sue stesse domande: «Sì, esiste in Italia, a Torino, un germe di governo operaio, un germe di Soviet; è la commissione interna; studiamo questa istituzione operaia, facciamo un’inchiesta, studiamo pure la fabbrica capitalista, ma non come organizzazione della produzione materiale, ché dovremmo avere una cultura specializzata che non abbiamo; studiamo la fabbrica capitalista come forma necessaria della classe operaia, come organismo politico, come “territorio nazionale” dell’autogoverno operaio». Quella parola era nuova; essa fu respinta proprio dal compagno Tasca. Cosa voleva il compagno Tasca? Egli voleva che non si iniziasse nessuna propaganda direttamente tra le masse operaie, egli voleva un accordo con i segretari delle federazioni e dei sindacati, egli voleva che si promovesse un convegno con questi segretari, e si costruisse un piano per una azione ufficiale; il gruppo dell’Ordine Nuovo sarebbe stato così ridotto al livello di una cricca irresponsabile di presuntuosi e di mosche cocchiere. Quale fu dunque il programma reale dei primi numeri dell’Ordine Nuovo? Il programma fu l’assenza di un programma concreto, per una vana e vaga aspirazione ai problemi concreti. Quale fu l’idea dei primi numeri dell’Ordine Nuovo? Nessuna idea centrale, nessuna organizzazione intima del materiale letterario pubblicato. Cosa intendeva il compagno Tasca per «cultura», e, dico, cosa intendeva concretamente, non astrattamente? Ecco cosa intendeva il compagno Tasca per «cultura»: intendeva «ricordare», non intendeva «pensare», e intendeva «ricordare» cose fruste, cose logore, la paccottiglia del pensiero operaio; intendeva far conoscere alla classe operaia italiana, «ricordare» per la buona classe operaia italiana, che è così arretrata, che è così rozza e incolta, ricordare che Louis Blanc ha fatto dei pensamenti sull’organizzazione del lavoro, e che tali pensamenti hanno dato luogo a esperienze reali; «ricordare» che Eugenio Fournière ha compilato un accurato componimentino scolastico per scodellare caldo caldo (o freddo freddo) uno schema di Stato socialista; «ricordare», con
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lo spirito di Michelet (o del buon Luigi Molinari), la Comune di Parigi, senza neppure subodorare che i comunisti russi, sulle tracce di Marx, ricongiungono il Soviet, il sistema dei Soviet, alla Comune di Parigi, senza neppure subodorare che i rilievi di Marx sul carattere «industriale» della Comune erano serviti ai comunisti russi per comprendere il Soviet, per elaborare l’idea del Soviet, per tracciare la linea del loro partito, divenuto partito di governo. Cosa fu l’Ordine Nuovo nei primi numeri? Fu un’antologia, nient’altro che un’antologia; fu una rassegna come sarebbe potuta sorgere a Napoli, a Caltanissetta, a Brindisi; fu una rassegna di cultura astratta, di informazione astratta, con la tendenza a pubblicare novelline orripilanti e xilografie bene intenzionate; ecco cosa fu l’Ordine Nuovo nei suoi primi numeri, un disorganismo, il prodotto di un mediocre intellettualismo, che zampelloni cercava un approdo ideale e una via per l’azione. Questo fu l’Ordine Nuovo quale fu varato in seguito alle riunioni che tenemmo nell’aprile 1919, riunioni debitamente verbalizzate, riunioni nelle quali il compagno Tasca respinse, come non conformista alle buone tradizioni della morigerata e pacifica famigliola socialista italiana, la proposta di consacrare le nostre energie a «scoprire» una tradizione soviettista nella classe operaia italiana, a scavare il filone del reale spirito rivoluzionario italiano; reale perché coincidente con uno spirito universale dell’Internazionale operaia, perché prodotto di una situazione storica reale, perché risultato di una elaborazione della classe operaia stessa. Ordimmo, io e Togliatti, un colpo di Stato redazionale; il problema delle commissioni interne fu impostato esplicitamente nel n. 7 della rassegna; qualche sera prima di scrivere l’articolo avevo sviluppato al compagno Terracini la linea dell’articolo e Terracini aveva espresso il suo pieno consenso come teoria e come pratica; l’articolo, per il consenso di Terracini, con la collaborazione di Togliatti, fu pubblicato17 e successe quanto era stato da noi previsto: fummo, io, Togliatti, Terracini, invitati a tenere conversazioni nei circoli educativi, nelle assemblee di fabbrica, fummo invitati dalle commissioni interne a discutere in ristrette riunioni di fiduciari e collettori. Continuammo; il problema dello sviluppo della commissione interna divenne problema centrale, divenne l’idea dell’Ordine Nuovo; era esso posto come problema fondamentale della rivoluzione operaia, era il problema della «libertà» proletaria. L’Ordine Nuovo divenne, per noi e per quanti ci seguivano, il «giornale dei Consigli di fabbrica»; gli operai amarono l’Ordine Nuovo (questo possiamo affermarlo con intima soddisfazione), e perché gli operai amarono l’Ordine Nuovo? Perché negli arti-
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coli del giornale ritrovavano una parte di se stessi, la parte migliore di se stessi; perché sentivano gli articoli dell’Ordine Nuovo pervasi dallo stesso loro spirito di ricerca interiore: «Come possiamo diventar liberi? Come possiamo diventare noi stessi?». Perché gli articoli dell’Ordine Nuovo non erano fredde architetture intellettuali, ma sgorgavano dalla discussione nostra con gli operai migliori, elaboravano sentimenti, volontà, passioni reali della classe operaia torinese, che erano state da noi saggiate e provocate, perché gli articoli dell’Ordine Nuovo erano quasi un «prendere atto» di avvenimenti reali, visti come momenti di un processo di intima liberazione ed espressione di se stessa da parte della classe operaia. Ecco perché gli operai amarono l’Ordine Nuovo ed ecco come si «formò» l’idea dell’Ordine Nuovo. Il compagno Tasca non collaborò per nulla a questa formazione, a questa elaborazione; l’Ordine Nuovo sviluppò la propria idea all’infuori della sua volontà e del suo «contributo» alla rivoluzione. In ciò io trovo la spiegazione del suo atteggiamento odierno e del «tono» della sua polemica; egli non ha lavorato faticosamente per raggiungere la «sua concezione» e non mi meraviglia che essa sia nata sconciamente, perché non amata, e non mi meraviglia che egli con tanta rozzezza abbia trattato l’argomento e con tanta sconsideratezza e assenza di disciplina interiore sia entrato nell’azione, per ridarle quel carattere ufficiale che aveva sostenuto e verbalizzato un anno prima. II. Nella puntata precedente ho cercato di determinare l’origine della posizione mentale del compagno Tasca verso il programma dell’Ordine Nuovo, programma che si era venuto organizzando, conseguentemente alla esperienza reale da noi fatta delle necessità spirituali e pratiche della classe operaia, intorno al problema centrale dei Consigli di fabbrica. Poiché il compagno Tasca non ha partecipato a questa esperienza, poiché egli era anzi ostile a che essa si facesse, il problema dei Consigli di fabbrica gli è sfuggito nei suoi termini storici reali e nello sviluppo organico, che pur attraverso qualche esitazione e qualche comprensibile sbaglio, esso era venuto assumendo nella trattazione svolta da me, da Togliatti e dagli altri compagni che vollero aiutarci: per il Tasca il problema dei Consigli di fabbrica fu semplicemente un problema nel senso aritmetico della parola, fu il problema del come organizzare immediatamente tutta la classe degli operai e contadini italiani. In una delle sue puntate polemiche il Tasca scrive di considerare in uno stesso piano il Partito comunista, il sindacato e il Consiglio di fabbrica; in un altro punto dimostra di non aver capito
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il significato dell’attributo «volontario» che l’Ordine Nuovo dà alle organizzazioni di Partito e di sindacato a differenza del Consiglio di fabbrica, che viene assunto come una forma di associazione «storica», del tipo che oggi può essere paragonato solo con quello dello Stato borghese. Secondo la concezione svolta nell’Ordine Nuovo, concezione che, per essere tale, era organizzata intorno a un’idea, all’idea di libertà (e concretamente, nel piano della creazione storica attuale, intorno all’ipotesi di una azione autonoma rivoluzionaria della classe operaia), il Consiglio di fabbrica è un istituto di carattere «pubblico», mentre il Partito e il sindacato sono associazioni di carattere «privato». Nel Consiglio di fabbrica l’operaio entra a far parte come produttore, in conseguenza cioè di un suo carattere universale, in conseguenza della sua posizione e della sua funzione nella società, allo stesso modo che il cittadino entra a far parte dello Stato democratico parlamentare. Nel Partito e nel sindacato l’operaio entra a far parte «volontariamente», firmando un impegno scritto, firmando un «contratto», che egli può stracciare in ogni momento: il Partito e il sindacato, per questo loro carattere di «volontarietà», per questo loro carattere «contrattualista», non possono essere in nessun modo confusi col Consiglio, istituto rappresentativo, che si sviluppa non aritmeticamente ma morfologicamente, e tende, nelle sue forme superiori, a dare il rilievo proletario dell’apparecchio di produzione e di scambio creato dal capitalismo ai fini del profitto. Lo sviluppo delle forme superiori dell’organizzazione dei Consigli non era perciò dall’Ordine Nuovo indicato con la terminologia politica propria delle società divise in classi; ma con accenni all’organizzazione industriale. Il sistema dei Consigli non può, secondo la concezione svolta dall’Ordine Nuovo, esser espresso con la parola «federazione» o di simile significato, ma può essere rappresentato solo trasportando a tutto un centro industriale il complesso di rapporti industriali che in una fabbrica lega una squadra di lavorazione a un’altra squadra, un reparto a un altro reparto. L’esempio di Torino era per noi plastico, e perciò in un articolo Torino fu assunta come fucina storica della rivoluzione comunista italiana. In una fabbrica, gli operai sono produttori in quanto collaborano, ordinati in un modo determinato esattamente dalla tecnica industriale che (in un certo senso) è indipendente dal modo di appropriazione dei valori prodotti, alla preparazione dell’oggetto fabbricato. Tutti gli operai di una fabbrica di automobili, siano essi metallurgici, siano muratori, elettricisti, falegnami ecc., assumono il carattere e la funzione di produttori in quanto sono ugualmente necessari, e indispensabili alla fabbrica-
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zione dell’automobile, in quanto, ordinati industrialmente, costituiscono un organismo storicamente necessario e assolutamente inscindibile. Torino si è storicamente sviluppata, come città, in questo modo: per il trasporto della capitale a Firenze e a Roma, e per il fatto che lo Stato italiano si è costituito inizialmente come dilatazione dello Stato piemontese, Torino è stata privata della classe piccolo-borghese, i cui elementi dettero il personale al nuovo apparecchio italiano. Ma il trasporto della capitale e questo depauperamento sùbito di un elemento caratteristico delle città moderne, non determinarono un decadimento della città; essa anzi riprese a svilupparsi e il nuovo sviluppo avvenne organicamente a mano a mano che si sviluppava l’industria meccanica, il sistema di fabbriche della Fiat. Torino aveva dato al nuovo Stato la sua classe di intellettuali piccolo-borghesi; lo sviluppo dell’economia capitalistica, rovinando la piccola industria e l’artigianato della nazione italiana, fece affluire a Torino una massa proletaria compatta, che dette alla città la sua figura attuale, forse una delle più originali di tutta Europa. La città assunse e mantiene una configurazione accentrata e organizzata naturalmente intorno a una industria che «governa» tutto il movimento urbano e ne regola gli sbocchi: Torino è la città dell’automobile, allo stesso modo che il Vercellese è l’organismo economico caratterizzato dal riso, il Caucaso dal petrolio, la Galles del Sud dal carbone ecc. Come in una fabbrica gli operai assumono una figura, ordinandosi per la produzione di un determinato oggetto che unisce e organizza lavoratori del metallo e del legno, muratori, elettricisti, ecc. così nella città la classe proletaria assume una figura dall’industria prevalente, che ordina e governa per la sua esistenza tutto il complesso urbano. Così, su scala nazionale, un popolo assume figura dalla sua esportazione, dal contributo reale che dà alla vita economica del mondo. Il compagno Tasca, lettore molto disattento dell’Ordine Nuovo, non ha afferrato nulla di questo svolgimento teorico, che del resto non era che una traduzione per la realtà storica italiana, delle concezioni svolte dal compagno Lenin in alcuni scritti pubblicati dallo stesso Ordine Nuovo, e delle concezioni del teorico americano dell’associazione sindacalista rivoluzionaria degli I.W.W.,18 il marxista Daniel De Leon. Il compagno Tasca infatti, a un certo punto, interpreta in un senso meramente «commerciale» e contabile la rappresentazione dei complessi economici di produzione espressa con le parole «riso», «legno», «zolfo», ecc.; in un altro punto si domanda quale rapporto mai debba intercorrere tra i Consigli; in un terzo punto trova nella concezione proudhoniana dell’officina che distrugge
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il governo l’origine dell’idea svolta nell’Ordine Nuovo, quantunque nello stesso numero del 5 giugno, in cui erano stampati l’articolo «Il Consiglio di fabbrica» e il commento al Congresso camerale, fosse riprodotto anche un estratto dello scritto sulla Comune parigina, dove Marx esplicitamente accenna al carattere industriale della società comunista dei produttori. In questa opera del Marx, il De Leon e Lenin hanno trovato i motivi fondamentali delle loro concezioni; su questi elementi erano stati preparati ed elaborati gli articoli dell’Ordine Nuovo, che, ancora una volta e precisamente per il numero dal quale ebbe origine la polemica, il compagno Tasca dimostrò di leggere molto superficialmente e senza nessuna intelligenza della sostanza ideale e storica. Non voglio ripetere, per i lettori di questa polemica, tutti gli argomenti già svolti per sviluppare l’idea della libertà operaia che si attua inizialmente nel Consiglio di fabbrica. Ho voluto solo accennare ad alcuni motivi fondamentali per dimostrare come sia sfuggito al compagno Tasca l’intimo processo di sviluppo del programma dell’Ordine Nuovo. In una appendice che seguirà a questi due brevi articoli,19 analizzerò alcuni punti dell’esposizione fatta da Tasca, in quanto mi pare opportuno chiarirli e dimostrare la loro inconsistenza. Un punto bisogna però subito chiarire, laddove il Tasca parlando del capitale finanziario scrive che il capitale «spicca il volo», si stacca dalla produzione e si libra… Tutto questo pasticcio dello spiccare il volo e del librarsi della… carta moneta non ha nessun richiamo con lo svolgimento della teoria dei Consigli di fabbrica; noi abbiamo rilevato che la persona del capitalista si è staccata dal mondo della produzione, non il capitale, sia pure esso finanziario; abbiamo rilevato che la fabbrica non è più governata dalla persona del proprietario, ma dalla banca attraverso una burocrazia industriale che tende a disinteressarsi della produzione allo stesso modo che il funzionario statale si disinteressa dell’amministrazione pubblica. Questo spunto ci servì per un’analisi storica dei nuovi rapporti gerarchici che sono venuti stabilendosi nella fabbrica, e per fissare l’avvento di una delle più importanti condizioni storiche dell’autonomia industriale della classe operaia, la cui organizzazione di fabbrica tende a incorporarsi il potere di iniziativa sulla produzione. L’affare del «volo» e del «libramento» è una fantasia alquanto infelice del compagno Tasca, che, mentre si riferisce a una sua recensione del libro di Arturo Labriola sul Capitalismo pubblicata dal Corriere Universitario, per dimostrare di essersi «occupato» della quistione del capitale finanziario (da notare che il Labriola sostiene appunto una tesi opposta a quella del-
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lo Hilferding, che divenne poi la tesi dei bolscevichi),20 nei fatti dimostra di non averne compreso assolutamente nulla e di aver costruito un castelluccio su vaghe reminiscenze e su vuote parole. La polemica ha servito a dimostrare che gli appunti mossi da me alla relazione Tasca erano fondatissimi: il Tasca aveva una superficiale infarinatura sul problema dei Consigli, e aveva solo una smania invincibile di tirar fuori una «sua» concezione, di iniziare una «sua» azione, di aprire una nuova èra nel movimento sindacale. Il commento al Congresso camerale e al fatto dell’intervento del compagno Tasca per determinare il voto di una mozione con carattere esecutivo, era stato dettato dalla volontà di mantenere integralmente il programma della rassegna. I Consigli di fabbrica hanno la loro legge in se stessi, non possono e non debbono accettare la legislazione degli organismi sindacali che appunto essi hanno il fine immediato di rinnovare fondamentalmente. Allo stesso modo: il movimento dei Consigli di fabbrica vuole che le rappresentanze operaie siano emanazione diretta delle masse e siano legate alla massa da un mandato imperativo: l’intervento a un congresso operaio del compagno Tasca, come relatore, senza mandato di nessuno, su un problema che interessa tutta la massa operaia, e la cui soluzione imperativa avrebbe dovuto legare la massa, era talmente in contrasto con l’indirizzo ideale dell’Ordine Nuovo, che il commento, nella sua forma aspra, era perfettamente giustificato ed era assolutamente doveroso. (14 agosto e 28 agosto 1920, L’Ordine Nuovo. In due puntate, firmato Antonio Gramsci, O. N.)
Il Partito comunista I. Dopo il Sorel è divenuto luogo comune riferirsi alle primitive comunità
cristiane per giudicare il movimento proletario moderno. Occorre subito dire che il Sorel non è in modo alcuno responsabile della grettezza e della rozzezza spirituale dei suoi ammiratori italiani, come Carlo Marx non è responsabile delle assurde pretese ideologiche dei «marxisti». Sorel è, nel campo della ricerca storica, un «inventore», egli non può essere imitato, egli non pone al servizio dei suoi aspiranti discepoli un metodo che possa sempre e da tutti applicarsi meccanicamente con risultati di scoperte intelligenti. Per il Sorel, come per la dottrina marxista, il cristianesimo rap-
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[Roma, estate 1936] Cara Giulia, mi riesce sempre più difficile scriverti, ma Tatiana insiste perché ti mandi almeno qualche linea e perché almeno ti domandi di dare notizie esatte sulle ragioni che hanno determinato l’invio di Julik a una scuola speciale. Ecco fatto. Veramente avevo scritto una lettera abbastanza lunga, ma l’ho interrotta, perché facevo disgusto a me stesso. Non sono sicuro se manderò le lettere a Julik e a Delio. Oggi ha fatto molto sole e molto caldo, ma forse questo appunto mi disgusta. Manda davvero le notizie su Julik e non stranirti delle mie stranezze. Ti abbraccio. Antonio
[Roma, estate 1936] Cara Giulia, non so ciò che puoi aver capito della mia espressione «finire un ciclo della vita», ma mi pare che non hai capito con esattezza e che hai dato all’espressione un significato troppo tragico, che io non capisco con esattezza. E poi, non hai ragione quando dici che «né la malattia né altri fatti possono dividere una vita umana in diversi cicli». Questo, per dirla con pedanteria, è evoluzionismo volgare e, sotto la sua apparenza di un razionale ottimismo, è una forma di fatalismo quietistico. Ciò che io intendo quando penso che un mio ritiro in Sardegna (che pure sento sarebbe e potrebbe essere utile alla mia salute) sarebbe l’inizio di un nuovo ciclo della mia vita è l’espressione di una analisi ben ponderata, nelle condizioni date, della mia posizione che sarebbe di isolamento completo, di degradazione intellettuale più accentuata dell’attuale, di annullamento o quasi di certe forme di attesa che in questi anni, se mi hanno tormentato, hanno anche dato un certo contenuto alla vita. Ma non credo che possa scrivere di questo argomento in modo da dartene un senso profondo. Del resto, e questo mi pare per ora il più importante, non devi credere che questi miei sentimenti esprimano scoraggia-
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mento e un qualsiasi pessimismo che dirò «storico». Ho sempre pensato che la mia sorte individuale era una subordinata; ciò non vuol dire che anche la mia sorte individuale, come quella di ogni altro individuo, non mi preoccupi e anche non mi «debba» preoccupare. Essa preoccupa abbastanza l’«altra parte» perché io possa disinteressarmene, ti pare? Ma mi sento debole fisicamente e la resistenza da svolgere mi pare troppo grande. Tu scrivi che ne discuteremo e io penso che quando tu vorrai venire non è impossibile che ciò ti riesca molto difficile, molto più difficile di ciò che sarebbe stato qualche mese fa, anche se ti sentirai più forte fisicamente come è certo e come appare anche oggi dalla tua lettera. (Vedi come sono bislacco: adesso che tu scrivi di poter venire con un senso di maggior sicurezza, io ti faccio delle difficoltà.) Sono proprio contento che gli orologetti per i ragazzi ti siano piaciuti. Mi scriverai a suo tempo ciò che risentiranno Delio e Giuliano? Hai ragione per ciò che riguarda il… 31; è vergognoso da parte mia… ma ho qualche scusante. Vorrei scriverti molto sulla malattia di Delio, su Julik, ma certi argomenti che riguardano la nostra tenerezza per i figli mi riescono di una difficoltà spaventevole a scriverne, perché mi indeboliscono e mi turbano. Cara, non sono contento di questa mia lettera (e neanche delle altre precedenti) ma non voglio ricominciare. Spero che tu sia molto molto forte anche per me. Ti abbraccio. Antonio
[Roma, 24 novembre 1936] Carissima Julca, per farti ridere, vorrei proprio scrivere una lettera tutta professorale, piena di pedanterie da cima a fondo, ma non so se mi riuscirà. Il più delle volte sono pedante senza volerlo: mi sono fatto uno stile di circostanza, sotto la pressione degli avvenimenti, in questi dieci anni di molteplici censure. Ti voglio raccontare un «piccolo» episodio per farti ridere e per farti capire il mio stato d’animo. Una volta, quando Delio era piccolo, tu mi scrivesti una lettera molto graziosa, nella quale volevi
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mostrarmi come il piccolo si iniziava alla… geografia e all’orientamento: me lo descrivevi a letto, sdraiato da Nord a Sud, che parlava come in direzione della sua testa c’erano dei popoli che facevano trainare i loro carri dai cani, a sinistra c’era la Cina, a destra l’Austria, in direzione delle gambe la Crimea ecc. Per aver questa tua lettera ho dovuto discutere più di un’ora col direttore del carcere che sospettava chissà quali messaggi convenzionali! Ho dovuto discutere senza aver letto nulla ancora, si capisce, cercando di indovinare dalle domande che mi faceva, cosa tu avevi scritto e cosa volevi dire. «Cos’è questo Kitai, e cosa c’entra l’Austria?» «Cosa sono gli uomini che fanno trascinare i carri dai cani?» Ci volle un bello sforzo da parte mia per dare una spiegazione plausibile (non avevo ancora letto la lettera) e non so se sarei riuscito a spuntarla se a un certo punto non avessi domandato bruscamente: «Ma lei ha moglie? E non capisce come può scrivere una mamma quando vuol scrivere di un figlio al padre lontano?». Il fatto è che mi consegnò subito la lettera; aveva moglie, ma non figli. Una sciocchezza, ma ha il suo significato: io «sapevo» che lui avrebbe letto le mie lettere con la stessa acrimoniosa e sospettosa pedanteria e ciò mi «costringeva» a un modo di scrivere «carcerario», da cui non so se riuscirò mai a liberarmi dopò tanti anni di «compressione». Ti potrei raccontare altri episodi e altre cose, ma non voglio che, per farti ridere, ti rattristi invece con lo sciorinare le miserie del passato. La tua lettera mi ha rallegrato: mi pare che da un pezzo non scrivi con tanta lievità e con tale… assoluta mancanza di errori. Cara. Fa’ lavorare il cervello e perciò scrivimi più a lungo sui deti,64 senza obbiettività. A proposito, mi pare che questo tuo aforismo sentenzioso: «Fare un rapporto (!?) sulla vita dei ragazzi è disfare la loro vita!» sia un grandioso sproposito, ma di quelli! Altro che l’Jmalaia! Niente rapporti (io non sono un brigadiere) ma solo le tue impressioni «soggettive». Cara, io sono così isolato che le tue lettere sono come il pane per l’affamato (altro che pedanteria!): perché mi misuri così le razioni? Cara Julca, ti abbraccio teneramente. Antonio
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[Roma, dicembre 1936] Cara Julca, le tue lettere mi producono sempre una grande emozione, ma… (questi maledetti ma…) mi lasciano un po’ confuso e con pensieri che girano a vuoto. Tu sai che ho la mania della concretezza, che ammiro molto i… rapporti (doklad) quando sono ben fatti e le relazioni anche come quelle dei molto reverendi padri gesuiti sulla Cina che insegnano qualche cosa anche dopo qualche secolo. Cara, sono d’una pedanteria spaventosa: scrivi come vuoi, perché tu scrivi sempre bene, con grande spontaneità e mettendoci tutta te stessa. Sono molto contento dei figli e delle loro due ultime lettere. Julik è laconico, epigrafico. Non un aggettivo né un riempitivo: stile quasi telegrafico. Delio è molto diverso. E tu, cara, come sei? Non riesco più a immaginarti bene, sebbene pensi sempre al passato. Mandami delle fotografie; sono poca cosa, ma aiutano. Quando ero a Ustica confinato, un beduino mi si era affezionato molto: era confinato anche lui; veniva a trovarmi, si sedeva, prendeva il caffè, mi raccontava novelle del deserto e poi stava zitto per delle ore a guardarmi leggere o scrivere; invidiava le fotografie che io avevo e diceva che sua moglie era così stupida che mai avrebbe pensato a mandargli la fotografia del figlio (non sapeva neanche che i musulmani non possono ritrarre la sembianza umana e non era stupido). Tu non diventerai mica «la moglie del beduino»? Cara, ti abbraccio con grande tenerezza. Antonio
[Roma, 5 gennaio 1937] Cara Julca, anche la mia memoria non è molto buona (nel senso che dimentico le cose recenti, mentre ricordo spesso minutamente le cose di dieci, quindici anni fa), tuttavia so di certo che molte volte ciò che tu rispondi non risponde a ciò che io avevo scritto. Ma ciò non importa molto. L’importante è che tu scriva tutto ciò che ti viene nella fantasia… spon-
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taneamente, cioè senza sforzo, lievemente. Io leggo parecchie volte le tue lettere; le prime volte come si leggono le lettere dei nostri più cari, dirò così «disinteressatamente», cioè col solo interesse della mia tenerezza per te; poi le rileggo «criticamente», per cercare di indovinare come tu stavi durante le giornate in cui hai potuto scrivere, ecc.; osservo anche la scrittura, la sicurezza maggiore o minore della mano, ecc. Insomma, dalle tue lettere cerco di estrarre tutte le indicazioni e significazioni possibili. Credi che questa sia pedanteria? Non credo: forse un po’ di «carcerite» entra in tutto ciò, ma non la vecchia tradizionale pedanteria che, d’altronde, oggi, mi sentirei di difendere aspramente contro certa faciloneria superficiale o bohème che ha procurato tanti guai e ancora ne procura e ne procurerà. Oggi mi piace più un Manuale del caporale che i Refrattari del Vallès. Divago forse? Del resto, tu mi scrivi benissimo dei ragazzi e le mie continue lamentele sono dovute al fatto che nessuna impressione, sia pur quella di te, di Julca, che sento come parte di me stesso, può sostituire l’impressione diretta: credi che anche tu non vedresti nei figli qualche altra cosa di nuovo o di diverso, se li vedessi insieme a me? Ma gli stessi ragazzi sarebbero diversi, non ti pare? Proprio «obbiettivamente». Cara, io voglio che tu abbracci la mamma per conto mio con tanto affetto e con una infinità di auguri per la sua festa. Io credo che tu abbia sempre saputo che in me c’è difficoltà grande, molto grande a esteriorizzare i sentimenti e ciò può spiegare molte cose ingrate. Nella letteratura italiana hanno scritto che se la Sardegna è un’isola, ogni sardo è un’isola nell’isola e ricordo un articolo molto comico di uno scrittore del Giornale d’Italia che nel 1920 così cercava di spiegare le mie tendenze intellettuali e politiche. Ma forse un pochino di vero c’è, quanto basta per dare l’accento (veramente dare l’accento non è poco, ma non voglio mettermi ad analizzare: dirò «l’accento grammaticale» e tu potrai divertirtene di cuore e ammirare la mia modestia grillesca). Cara, ti abbraccio con tutta la mia tenerezza. Antonio Caro Julik, ho ricevuto tue notizie dalle lettere di mamma e di nonna. Ma perché tu non scrivi qualche parola? Io sono molto contento quando ricevo una tua lettera e chissà quante cose tu potresti scrivere sulla scuola, sui tuoi compagni, sui tuoi insegnanti, sugli alberi che vedi,
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sui tuoi giochi ecc. E poi… tu avevi promesso di scrivermi qualche cosa ogni giorno di vacanza. Bisogna sempre mantenere le promesse, anche se costa qualche sacrifizio e immagino che per te non deve essere un grande sacrifizio scrivere qualche cosa. Avevi promesso di mandarmi le lettere quando la mamma ti andava a far visita alla scuola… Caro, ti abbraccio. Evviva Julik! ho ricevuto una tua fotografia e sono stato molto felice di vedere la tua personcina. Però devi essere molto cresciuto dall’altra fotografia che mi è stata spedita tempo fa, cresciuto e cambiato; sei proprio un giovinetto ormai. Perché non mi scrivi più? Aspetto una tua lettera lunga. Ti abbraccio. papa Caro Julik, ho ricevuto con molto entusiasmo i tuoi nuovi disegni: si vede che sei allegro e quindi credo che tu sia in salute. Ma dimmi: sai fare altri disegni che non siano per burla? Cioè sai disegnare seriamente per fare disegni da burla? Non mi hai scritto se in iscuola ti fanno imparare il disegno e se ti piace disegnare anche «sul serio». Io da ragazzo disegnavo molto, ma i disegni erano piuttosto lavori di pazienza; nessuno mi aveva insegnato. Riproducevo, ingrandendole, le figure e i quadretti di un giornalino. Cercavo anche di riprodurre i colori fondamentali con un mio sistema non difficile, ma che domandava molta pazienza. Ricordo ancora un quadretto che mi costò almeno tre mesi di lavoro: un contadinello tutto vestito era caduto in un tino pieno d’uva, pronto per la pigiatura, e una contadinella tutta rotondetta e grassottella lo guardava tra spaventata e divertita. Il quadretto apparteneva a una serie di avventure in cui il protagonista era un terribile caprone (Barbabucco) che, cozzando all’improvviso e a tradimento, faceva volar per aria i suoi nemici o i ragazzi che gli avevano dato la baia. Le conclusioni erano sempre allegre, come nel mio quadretto. Come mi divertivo a ingrandire il disegnino: misure col doppio decimetro e col compasso, prove, riprove colla matita, ecc. I fratelli e le sorelle guardavano, ridevano, ma preferivano correre e gridare e mi lasciavano alle mie esercitazioni. Caro Julik, ti bacio. papa
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Caro Julik, come stai nella nuova scuola? Cosa ti piace di più, il vivere accanto al mare o il vivere vicino alle foreste, tra i grandi alberi? Se vuoi farmi un piacere, dovresti descrivermi una tua giornata, da quando ti levi dal letto fino a quando la sera ti riaddormenti. Così io potrò immaginare meglio la tua vita, vederti quasi in tutti i tuoi movimenti. Descrivimi anche l’ambiente, i tuoi compagni, i maestri, gli animali, tutto: scrivi un po’ per volta, così non ti stancherai e poi, scrivi come se volessi farmi ridere, per divertirti anche tu. Caro, ti abbraccio. papa Caro Delio, perché non mi parli più del tuo pappagalletto? È ancora vivo? Forse non ne parli più perché io, una volta, ho osservato che ne parlavi sempre? Allegro Delio! Tatianiska vuole che io ti scriva che alla tua età avevo un cagnolino e che ero diventato mezzo matto per la contentezza di averlo. Vedi! È vero che un cane (anche se piccolo, piccolo) dà molte più soddisfazioni di un pappagallo (ma tu forse credi il contrario), perché gioca con il padrone, si affeziona… Il mio si vede che era rimasto un cane-bambinello, perché, per mostrarmi il massimo del suo entusiasmo, si metteva sulla schiena e si faceva la pipì addosso. Quante insaponature! Era proprio piccolo tanto che non riuscì per molto tempo a salire i gradini delle scale, aveva il pelo nero e lungo e sembrava un barbone in miniatura. Io lo avevo tosato come un leoncino, ma non era obbiettivamente bello, anzi era piuttosto brutto, brutto assai, adesso che ci penso. Ma come mi faceva divertire e come gli volevo bene! Il mio gioco favorito era questo: quando andavamo a passeggio in campagna, lo mettevo su un sasso sporgente e mi allontanavo senza che lui, che guardava e mugolava, osasse saltare. Io mi allontanavo a zig zag, poi mi nascondevo in un fosso o in una cunetta. Il cane prima strillava, poi riusciva a trovare il modo di scendere e correva in caccia: questo mi divertiva, perché il poveretto, che allora, d’altronde, era ancora molto giovane, guardava latrando dietro tutte le pietre, si affacciava alle piccole (ma grandi per lui) fosse e impazziva, perché io mi spostavo lestamente dopo averlo chiamato. Che feste, quando finalmente mi facevo ritrovare! E che abbondanza di pipì! Caro, adesso mi scriverai del pappagalletto? Ti abbraccio. papa
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Caro Delio, avevo ricevuto la penna del pappagalletto e i fiorellini che mi sono piaciuti. Ma non riesco a immaginare come sia l’uccelletto e perché si strappi delle penne così grosse; forse il caldo artificiale gli ha fatto male alla pelle, forse non ha nulla di grave e con la buona stagione gli passerà ogni prurito. Forse bisogna dargli da mangiare qualcosa di molto fresco che sostituisca ciò che i suoi congeneri mangiano nel paese di origine, perché ho letto che gli uccelletti tenuti in casa, con cibi non adatti, soffrono di avitaminosi, perdono le penne e hanno una specie di rogna (che non è contagiosa): ho io stesso visto un passero così mal ridotto perché mangiava sempre mollica di cattivo pane, guarire con l’aggiunta al menù di un po’ di insalatina verde. Non mi ricordo più in che senso ti ho parlato della «fantasia»; forse accennavo alla tendenza di fantasticare a vuoto, di costruire dei grattacieli su una testa di spillo ecc. Caro, ti abbraccio tanto forte. papa Carissimo Delio, mi sento un po’ stanco e non posso scriverti molto. Tu scrivimi sempre e di tutto ciò che ti interessa nella scuola. Io penso che la storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la tua età, perché riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi, non può non piacerti più di ogni altra cosa. Ma è così? Ti abbraccio. Antonio