Nove storie storiche

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Cesare De Marchi Nove storie storiche


Sito & eStore – www.ilsaggiatore.com Twitter – twitter.com/ilSaggiatoreED Facebook – www.facebook.com/ilSaggiatore Copyright © Cesare De Marchi 2013 Edizione pubblicata in accordo con PNLA/Piergiorgio Nicolazzini Literary Agency


nove storie storiche



Congiura

Giobatta saltabeccò dietro al padrone giù per uno dei vicoli più infami di quanti scendono verso Banchi: puntava la sua gamba rigida sul lastrico tutto gobbe e crepe, viscido come squame di pesce, per dare con la gamba sana il passo più lungo che poteva; poi puntava questa e allargava l’altra in un semicerchio frettoloso pencolando testa e busto dalla parte opposta, a pareggiare l’equilibrio. «Vuscià m’ascurte!» gli gridò un paio di volte, mentre lo vedeva ancora a portata di voce. Il signor Campodonico, Giobatta anche lui, nobilitato però in Giovanbattista, si fermò di colpo e si voltò a investirlo: «Vossignoria, come devo dirtelo? I toscani dicono vossignoria!». «Va ben, voscignuìa», si corresse l’altro fermandosi a sua volta, libero finalmente di tirare il fiato. La gamba gli sporgeva dalla persona, dritta e dura come un bastone: un corpo estraneo. A memoria d’uomo, ce l’aveva sempre avuta così;

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in realtà se l’era procurata da ragazzo cadendo sull’ardesia della strettissima scala di casa che, nell’impossibilità di ruzzolare, aveva battuta tutta gradino per gradino, a pancia in giù e piedi avanti, con la stessa tibia, con lo stesso ginocchio. L’incidente che gli guastò l’andatura aveva anche vanificato il suo imminente imbarco come mozzo sull’Immacolata, favolosa in seguito come tutte le navi naufragate senza superstiti; aveva invece facilitato la sua assunzione presso il Campodonico, il quale, giudiziosamente stimando che non potesse aver lestezza di mano chi non era portato alla svelta dalle gambe, decise di fare di lui il suo factotum. Ma erano cose di vent’anni addietro. «Allora cos’hai da dirmi?» Il padrone lo aspettava con le braccia incrociate, esibendo due piccoli rammendi ai gomiti del bel giubbetto di velluto. «Allora?» tornò a dire, visto che lui non rispondeva, sporgendo le labbra e gli strani baffi, tutti neri ma con le punte che cominciavano a infarinarsi. «Volevo dire… l’olio d’oliva, cosa ne facciamo? Il prezzo sulla piazza di Milano è tre volte quello…» «Nu, nu femmu ninte», scappò detto in dialetto al Campodonico, che poi continuò, inzuccato, a scuotere la testa china sulle braccia intrecciate. «Se a Milano il prezzo è triplo, c’è la sua ragione.» «Appunto, scignuìa, e…» «E la ragione è la guerra. Io non faccio passare le mie cinquanta damigiane d’olio sotto il naso dei francesi, tanto per stuzzicare il puntiglio del primo ufficialetto che gli viene in mente di farci il tiro al bersaglio.»

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«Ma padrone», disse Giobatta stendendo le braccia, «sono due anni che c’è la pace!» «Due anni di pace sono anche troppi per il re cristianissimo che ci ha i suoi giannizzeri nella Savoia.» (La recente alleanza di Francesco primo col sultano aveva suscitato curiose reazioni associative nel cervello del mercante.) «Vuscignuìa permetta, Sua maestà cattolica saprà bene tenerlo in rispetto.» «Ehi, garzone, da quando in qua ficchi il tuo naso a uncino nell’alta politica? Non lo sai che Carlo quinto coi luterani in casa ci ha già la sua gatta da pelare?» «Ma voscignuìa, i liuterani per l’imperatore sono solo un fastidio, e se decide di schiacciarli gli basta un piccolo esercito…» Una risata derisoria scosse il breve torace del Campodonico: «Il segretario del doge dovevi fare, non il mio! Bisogna che quando Andrea Doria si rimette dal suo malanno gli chiedi udienza e vai a illuminarlo!». Giobatta ingoiò anche questa, dietro a quella del naso a uncino, che era una maligna esagerazione potendosi il suo naso al più definire adunco, e solo se osservato di profilo. Cambiò gamba d’appoggio, con un gioco sussultante delle anche, e dando l’impressione di fare una mezza giravolta. Il padrone sembrava aver capito prima che lui riaprisse bocca, perché s’era rimesso a scrollare la sua testa ossuta, coi capelli nerastri schiacciati sulle tempie e

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sull’occipite (nu, nu), ora però spenzolando le braccia lungo il busto. «Ma tornando all’olio…» (Giobatta azzardò l’ultima carta) «c’è un proverbio toscano che vuscignuìa non può non apprezzare: chi non risica non rosica, mi pare che dica.» «Ho ditu de nu!» asseverò in tono ultimativo il mercante, irrigidendo la melensa dolcezza dello sguardo e calcando le parole dialettali come a chiarire che per lui la favella toscana non era più che una forma elegante in cui rivestire certezze molto autoctone. Giobatta chinò la testa senza ribattere, e i capelli biondicci gli penzolarono miseramente intorno alla faccia. Chi si incaricava di ridurgli i capelli a quella forma approssimativa di casco, incappellandolo con una scodella e menando decise forbiciate lungo l’orlo di questa, era la fante di casa, l’Angiolina, una robusta orfana venticinquenne con un gran nodo di capelli rossi dietro la nuca e un ampio sorriso deprivato di qualche dente. L’Angiolina sapeva anche prendersi cura di lui nei vorticosi ritagli del suo tempo, tra quando usciva dalla cucina a spazzare le stanze, rivoltare materassi e sprimacciare cuscini con le braccia unte fino ai gomiti, e quando ci rientrava reggendo per il collo un pollo o altro volatile esanime. Le sue cure, nelle notti di particolare sconforto, si spingevano fino alla condivisione maritale del letto, nel quale ella – è vero – si tirava dietro un alone mescolato di pesce d’aglio e di ascelle, ma poi dava prova d’immensa delicatezza nel sistemargli la gamba rigida in maniera che non ostacolasse la bisogna.

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«Allora, voscignuìa, l’olio dove devo farlo mandare?» Gli occhi acquosi del Campodonico ritornarono verso di lui. «Nel ducato, direi… il ducato di Firenze, intendo.» Vasi a Samo, pensò all’incirca Giobatta. «Meglio poco», suggellò il mercante, «ma sicuro.» E quanto a questo, continuò a pensare Giobatta, lasciare le olive sugli alberi era anche più sicuro. Avere il capitale e andare col lanternino della più meschina grettezza a scovare i commerci meno redditizi e meno fantasiosi era una cosa che non poteva perdonare al padrone. Il pavido e l’ottuso, posto che una bastarda ventura li faccia ricchi, possono sempre scegliersi un buon banchiere, come a Genova non ne mancavano certo, e rosicchiarsi tranquillamente i loro interessi senza azzardare neanche un passo fuori di casa. Ma che uno senza ragionevole tornaconto affrontasse le noie e le fatiche di armare navi sul Tirreno e spedir carovane oltre l’Appennino, per quanto con poco o nessun rischio, non c’era cervello né di nobile né di plebeo incolto e sfortunato (com’era lui) che potesse arrivare a capirlo. E così stando le cose, il signor Giobatta, anzi Giovan Battista Campodonico, la casa con la facciata a fasce di marmi bianchi e neri poteva sognarsela pure finché campava… già, perché l’ambizione o aspirazione ultima di quell’imbelle era niente meno che di fregiarsi del titolo di patrizio a mezzo di meriti particolari, ossia fuor di metafora di comprarselo con moneta sonante, così da ricevere benignamente dal Consiglio degli anziani il permesso di costruirsi un palazzo di quella fatta, come a Genova ce l’avevano giusto i Doria, gli Spinola o i Grimaldi.

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«Ho ragione o torto?» lo sollecitava intanto il mercante, in un modo che a lui apparve stupido più ancora che provocatorio. Non valeva la pena di usare clemenza, sottacere, dissimulare: gli avrebbe strappato il suo comodo paraocchi, ora stesso, prima che gli voltasse le spalle. Non gli importava delle conseguenze. «Un momento», disse. «C’è una cosa che vuscignuìa deve sapere.» «Sono tutto orecchi», fece l’altro leggermente stupito, senza muoversi. «È stato la notte scorsa, vuscignuìa sa che io ci ho il sonno leggero, forse per la gamba che delle volte mi fa male come se mi ci ficcassero degli spilli dentro, e mi fa rivoltare nel letto…» (Il Campodonico manifestò immediatamente una decisa impazienza per l’esordio prolisso, e lui si rimise diligente in carreggiata snocciolandogli alla svelta l’essenziale:) Dunque, manco a farlo apposta, Giobatta sentiva venire giù dal soppalco degli scricchiolii, un ronzio di sussurri, e a momenti come delle voci soffocate. A forza di braccia, con pazienza, si era acciabattato alla posizione eretta e attraversando il buio, appena diradato da un lividore colante dall’alto dell’inferriata, si era arrampicato su per la scala… Come se scostasse veli e veli di zanzariere, i suoni avevano perso man mano il loro sordo peso per assottigliarsi nel timbro fragile del cristallo: risa, un rotolio convulso di risa: risa femminili, com’è vero Dio, e disoneste… «Ma andiamo!» interruppe fiducioso il Campodonico: «un riso è un riso, non può essere né onesto né disonesto.

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Nei tuoi discorsi non c’è mai un fatto che non sia ingarbugliato in cento inutili elucubrazioni.» Bene, lasciando da parte che il riso notturno di una moglie, onesto o disonesto che sia, dovrebbe comunque allarmare un marito, restava il fatto che lui, Giobatta, aveva anche debitamente accostato l’occhio alla fessura che, come il padrone sapeva, si formava a una certa altezza nel tavolato che separava la camera da letto della signora dal vano della scala, e aveva visto… aveva avuto l’amara sorpresa di vedere che la signora non rideva sola, ma in compagnia di un uomo: dal che sembrava potersi concludere che quella compagnia le era quantomeno gradita. «Un uomo», oppose il mercante, guidando la punta riquadrata della sua scarpa a scostare dal lastrico una foglia di lattuga fradicia: «si fa presto a dire un uomo.» «Ma scignuìa, dentro era accesa la lucerna, e accesa bene, senza un filo di fumo, e io le due facce le ho viste belle chiare come dipinte e incorniciate.» «E lo sarà stato un quadro, no!» «Un quadro che parla e ride? Perché anche lui, scignuìa, rideva…» «Insomma tutti ridevano in casa mia stanotte! e tutti li hanno sentiti meno che io, che dormo nella stanza accanto.» Giobatta restò un attimo sbalordito. «Ma vuscignuìa ieri era in villa, al frantoio, e ci ha passato la notte.» «Hai ragione», ammise il Campodonico. «Invero non

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avrebbe dovuto ricevere in mia assenza… Ma l’ospite… tu l’hai visto, chi era?» Giobatta poteva ritenersi soddisfatto: lasciò cadere le sillabe una sull’altra, nitidamente: «Il Lavagna». «Il conte? Gian Luigi Fieschi?» «Lui.» «Il Fieschi in casa mia… e io non c’ero.» «Appunto perché vuscià non c’era.» «Vossignoria!» «Voscignuìa. E consideri», aggiunse lo zoppo, «che da due giorni il Lavagna non era riuscito a vederlo nessuno qui in città.» «Se è per questo, avrà avuto faccende.» «Faccende», disse l’altro: «dove?» «Faccende! faccende sue, come posso saperle?» «Dico bene, nessuno poteva né doveva saperle queste faccende. E vuscià meno degli altri.» Gli occhi acquosi del Campodonico irretirono un sospetto: «Ti prendi gioco di me, cos’è tutto questo mistero?». «Vuscignuìa ci vede misteri? Io no.» «E allora va’ avanti, finisci di vuotare il sacco.» Giobatta sentì una punta d’ago di rimpianto rivedendo quel punto della notte passata. La signora, alla limpida luce della lucerna, era splendida: splendida come lui non si era mai accorto che fosse, come non aveva mai immaginato che una donna potesse essere. Aveva sciolto i capelli, che scendevano folti e lucidi e neri sopra le orecchie, accanto agli zigomi, alla piega carnosa delle labbra. Niente

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in lei ricordava le altre donne liguri, rossicce e scialbe, grosse, sgraziate. Una pelle luminosa le torniva il collo, si spiegava sulla delicata attaccatura delle spalle, sotto cui si presentiva la nudità del petto. Aveva di colpo interrotto il suo riso e con un filo di voce, a ciglia alzate, aveva espirato il suo consenso in un duplice sì; e l’uomo che la guardava, smettendo a sua volta di ridere, aveva detto: Qui voglio tutti i tuoi baci. Il mercante ora sembrava passare confusamente da un pensiero all’altro. «Strana espressione», disse. Le guance di Giobatta, sotto il misero casco biondiccio, si colorirono. «Davvero», rispose: «strana.» «E dopo, che cos’altro li hai visti fare?» «Visti no, più niente»; e il garzone spiegò il meno crudamente possibile, quasi con un rammarico di compassione, che i due dovevano essersi distesi più in basso della fessura scomparendo così al suo occhio. Non aggiunse che non per questo il suo orecchio aveva smesso di sentire. Il mercante riemerse come frastornato da un denso fiotto di immagini. «Adesso quindi dovrei… dovrei, ma non mi è ben chiaro… Tu mi capisci, Giobatta, io non posso sul solo fondamento della testimonianza, anzi a ben considerare della congettura di un semplice servitore, sia detto senza offesa…» Giobatta, che per qualche momento aveva intravvisto un sentimento d’altro genere nel padrone, tornò a riconoscerlo per quel che gli era sempre apparso: pavido e meschino.

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«Cosa gli ci vuole a vuscià», disse, «la testimonianza di un conte?» (Ma lo sguardo mansueto dell’altro non si fissava a un’idea.) «E allora perché non si rivolge al Lavagna in persona?» «Un potente», sillabò astratto il Campodonico, «intimo dei Doria, so cosa aspettarmi… nessuna riparazione, nemmeno la speranza che si degni di sbuzzarmi in duello; nel migliore dei casi, un indennizzo che mi esporrebbe al ridicolo, forse la concessione che rincorro da anni, convincerebbe lui il senato… perché no? una forma raffinata di gogna, non ti pare?» Il servitore bevve le parole a bocca aperta, puntato sulla gamba rigida con l’anca in fuori e il busto incurvato dalla parte opposta, sopra l’altra gamba appena flessa al ginocchio. Forse non capiva bene, il padrone gli stava dicendo cose severe, e adesso lui lo vedeva per la prima e unica volta, integro nella coscienza della propria debolezza, nel decoro senza lacrime del perdente. O forse, invece, non capiva le parole, forse era ancora l’inerzia del pusillanime… Il Campodonico intanto gli aveva voltato lentamente la schiena. «Per l’olio, allora?» «Ci penso io», rispose l’altro senza girarsi indietro, mostrando solo l’insignificante profilo della faccia. «Tu vai a aiutare l’Angiolina, va’ a zonzo, fa’ un po’ quello che vuoi.» Lo zoppo lo osservò tentennare giù per il vicolo, cauto nei passi delle gambe corte, spingendo leggermente in fuori i gomiti su cui il velluto del giubbetto tornò a rivelare i due minuziosi rammendi.

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Giobatta andò verso casa, entrò in cucina ma non fece in tempo a impedire all’Angiolina di gettare una manciata d’acciughe sotto sale nella scodella già piena di olive e cipolle. Quei monconi di pesci senza teste e senza code, rinsecchiti e luccicanti, allegavano i denti e poi, la notte, gli raspavano di sete la gola. Benché la ragazzona si giustificasse dicendo che il piatto «cuscì u l’è ciü nutritivu», e cercasse anche di baciarlo in bocca, lui quella sera saltò la cena e si coricò digiuno, inutilmente presto. Infatti non riuscì a dormire che brandelli di un sonno chiaro e senza stanchezza, a ripetuti soprassalti di veglia, fino al fondo della notte. Allora, un’altra volta, sentì dei rumori. Non erano nella casa però. Fuori, a una distanza che le palpebre chiuse non sapevano definire, l’aria vibrava di frastuoni di metallo e rombi come di vampa. Ma lui era ben sveglio. Allungò la mano alla brocca d’acqua accanto al saccone e ne tracannò un lungo sorso, poi si drizzò sul freddo del pavimento che gli fece inarcare le piante dei piedi, e brancolò verso la finestra. Immediatamente al di là sentì sgranarsi inconfondibile quasi rotolando l’urto ferrato di uomini corazzati in corsa e il pesante tinnire delle armi. Scendevano verso il porto. Con tutta la cautela di cui era capace socchiuse l’impannata e gli scuri. Un filo d’aria ghiacciata gli accapponò la pelle sotto la ruvida camicia da notte. Vide un tratto lucido di lastrico che rimandava una luce sporca, più vivida di quella sola della luna piena. Verso sinistra, a monte, un grande scroscio d’incendio si ingoiava schianti di trava-

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ture e rovinio di muri. Non osò sporgere la testa, doveva essere alle case dei Doria o a Porta San Tommaso; grida si accalcavano nell’intricata risonanza dei vicoli, indistinte, poi vicine sembravano scoppiare da più punti… Libertà… Fieschi… gli sembrava: sì, Fieschi, l’urlo sbucò dalla cantonata, brutale: lui riaccostò gli scuri a uno spiraglio. Tre, quattro uomini in cotta di ferro venivano giù a passi cascanti, di ubriaco, schiamazzando. «Giannettino ha reso l’anima al demonio!» Uno sbruffo di riso. «All’inferno l’erede del tiranno! Le fiamme gli leccano già il culo!» E uno degli energumeni, a sfogo di gioia, roteò la spada sopra la propria testa. Un’allucinazione era, un incubo senza nessuno che lo sognasse… massacrato il nipote del Doria, le sue case in fiamme; e il conte Fieschi, se il suo nome invocato e ripetuto significava qualcosa, doveva aver predisposto tutto questo – fervidamente, puntualmente, a tavolino – e la notte avanti non aveva cercato tra le braccia della signora Campodonico altro che un piacevole nascondiglio, intanto che veniva dato l’ultimo ritocco alla congiura prima di tirarne le inflessibili fila. Accostò la fronte all’imposta lasciando le grida bestiali allontanarsi. Poi, a un nuovo sguardo fuori, una figura serrata nell’armatura scintillò lentamente giù per la strada e si fermò sotto la finestra. Si era scoperta la testa e col braccio sinistro reggeva l’elmo al petto, ciocche madide gli grondavano come alghe intorno alla faccia accaldata, il duro mento e la cerniera delle mascelle giocavano leg-

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germente per il respiro affannoso che fioccava un pennacchio di vapore nell’aria; con l’altra mano, con tutto il corpo si appoggiava alla spada puntata a terra, e lungo il taglio di questa colava un filo nero che si raccolse in una piccola pozza sul selciato. Incredibilmente quell’uomo era il signor Verrina: lo stesso di cui si diceva che nessun disgraziato lo avesse mai supplicato invano, lo stesso che si era preso in moglie un’orfana senza dote e ne aveva accolta la madre e aiutati con discrezione quasi vereconda i fratelli. E anche lui quella notte cercava carne da squarciare, da sfogare la rabbia improvvisa… impazzito come quegli altri, vaneggiava anche lui il grido confuso, libertà, come se si potesse immaginarla una libertà più grande di quella che regnava sotto il vecchio Andrea; e quanto a lui, Giobatta, poi, che altra libertà gli potevano aggiungere a quella di aver lavoro, di mangiare tutti i giorni, di camminare come voleva, zoppo, è vero, ma la gamba non c’era né Doria né Verrina che potesse rifargliela… Eppure, un uomo tranquillo e cordiale, un signore timorato, ricco, senza motivo di scontento, per prendere la spada e armare i suoi sgherri e correre di notte la città ammazzando, doveva avere delle ragioni ben forti e certo un rancore, un odio incontenibili… Ma lui di nuovo, ecco, non poteva capire in che modo uomini a loro volta buoni e generosi come i Doria avessero potuto suscitarne tanto, di odio. Di più, persone che si conoscevano, che ogni sera dividevano la tavola tra confidenze e amenità, che fino al giorno prima si erano strette la mano, di colpo furibonde si buttavano a un gesto estremo e irreversibile…

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Verrina aveva alzato la testa per chiamare qualcuno in mezzo al fragore: la sua gola si gonfiò al grido poderoso: «Calcagno! ehi, Calcagno! Hai visto il conte?» Ripigliò fiato. Non si udì la risposta. «Ottobono! Gerolamo!» chiamò: «dov’è vostro fratello?». (Questi nomi… i due fratelli adolescenti del Lavagna: magro e dinoccolato l’uno, l’altro sempre ansante nella sua pinguedine.) «Sa il diavolo dove s’è cacciato!» urlò ancora Verrina. Un bolzone di balestra sgusciato dall’ombra gli accarezzò il collo, che ebbe come un brivido. Di furia l’uomo passò il polso attraverso la guardia della spada e a due mani si calcò l’elmo in testa. In quel momento un soldato gli corse quasi addosso, e Giobatta aspettava già il guizzo d’arma ma sentì invece le voci cave, incupite dalle celate. «Andrea è scappato a cavallo.» «Tanto peggio per lui.» «Sì, creperà della sua pulciosa vecchiaia. Intanto il nipote ha assaggiato la spada.» «Ma dov’è il Fieschi? Nessuno l’ha più visto!» «Io nemmeno, Verrina.» Verrina picchiò in terra la punta della spada, che sfavillò sulla pietra. «Qui non abbiamo più che fare, Assereto. Le galere alla Darsena sono tutte prese, andiamo alla Signoria, forse il Fieschi è già là coi suoi.» I due armati scomparvero dallo stretto campo visivo di Giobatta. Le lastre del selciato si erano sbiancate, segno

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che l’incendio finiva di consumare la sua materia; il rombo era scemato e così pure i clamori umani. Lo zoppo richiuse gli scuri e brancolò in direzione della scala. Tese l’orecchio verso il vano alto della casa, dove il padrone e la signora – a quanto sembrava – non avevano smesso di dormire. No, non sarebbe salito a svegliarli; che gli eventi di quella notte scorressero pure, per presentarsi poi, domani, chiari e conclusi agli occhi acquosi del Campodonico. Allora questi avrebbe considerato e deciso se qualcosa rovinava per lui, o se tutto correva ancora nei solchi uguali dell’abitudine. Giobatta tornò infreddolito al suo saccone e si coricò.

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Sommario

Congiura

7

Bombe

23

Insurrezione

51

Patrioti

57

Traversata

81

Disfatta

99

L’intruso

111

Speranze

143

La mazzetta

157

Nota

169



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