OCCUPY!

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Occupy! Teoria e pratica del movimento contro l’oligarchia finanziaria a cura dei redattori di n+1 e Dissent

Traduzione di Francesco Benetti, Carlo Milani, Sara Sullam


Parte delle royalties di quest’opera sarà devoluta a Occupy Wall Street.

www.saggiatore.it (sito & eStore) Twitter @ilSaggiatoreEd Facebook il Saggiatore editore © editors of n+1, with Sarah Leonard and Astra Taylor 2011, Verso Books the imprint of New Left Books 2011 © il Saggiatore S.p.A., Milano 2012 Titolo originale: Occupy! Scenes from Occupied America­­


Occupy!



Sommario

Prefazione Scene da un’occupazione di Eli Schmitt, Astra Taylor, Mark Greif Un no, molti sì di Marina Sitrin Scene da un’occupazione di Eli Schmitt, Astra Taylor Parliamo davvero dell’1 percento di Doug Henwood e Congressional Budget Office Scene da un’occupazione di Astra Taylor, Mark Greif Lettere di dimissioni dal sogno americano di Marco Roth Scene da un’occupazione di Elizabeth Gumport Farsi valere di Manissa Maharawal Scene da un’occupazione di Sarah Resnick, Keith Gessen, Sarah Leonard

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La teologia del consenso di L.A. Kauffman Scene da un’occupazione di Keith Gessen, Astra Taylor, Sarah Resnick I percussionisti di Zuccotti Park di Mark Greif Scene da un’occupazione di Astra Taylor Non innamoratevi di voi stessi di Slavoj Žižek Scene da un’occupazione di Astra Taylor, Sarah Resnick Nypd e Ows. Due stili in conflitto di Alex Vitale Scene da un’occupazione di Sarah Leonard, Keith Gessen Rivendica la divisione, denuncia il torto di Jodi Dean Scene da un’occupazione di Sarah Resnick, Sarah Leonard, Astra Taylor E Chinatown dov’è? di Audrea Lim Stop allo «stop and frisk» di Svetlana Kitto, Celeste Dupuy-Spencer Lavoro, lavoro e ancora lavoro di Nikil Saval Occupytheboardroom.org di Mark Greif Scene da Atlanta occupata di Kung Li (Dis)occupiamo di Angela Davis

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Scene da Oakland occupata di Sunaura Taylor Gettare gli attrezzi del padrone e costruire una casa migliore di Rebecca Solnit Scene da Philadelphia occupata di Nikil Saval La questione dei senzatetto di Christopher Herring , ZoltĂĄn GlĂźck Scene da Boston occupata di Stephen Squibb Voci che girano di Astra Taylor, Sarah Resnick Alleanza di corpi di Judith Butler Giorno di bucato di Keith Gessen La crisi americana di Thomas Paine Note dei traduttori Gli autori Ringraziamenti Crediti

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«Il denaro parla… troppo.»


«C’è una biblioteca, ma è più per volantini, eventi e quello che succede qui… La gente arriva e lascia il materiale che vuole.» «Resisterete fino in fondo?» «Sì.» «Quanto tempo pensi che durerà?» «Dipende dalle forze dell’ordine, c’è stata una rissa, l’altra notte, ma è stata sedata velocemente. Hanno detto al tipo di andarsene perché stava compromettendo la sicurezza di tutti.» «Penso che molte persone siano qui per motivi diversi… ma condividiamo tutti le stesse esperienze.» «Sono qui perché sono anticapitalista.» «Non abbiamo nessuna strategia di difesa oltre alla rivendicazione di uno spazio e alla creazione di quello che ci piacerebbe vedere… la nostra stessa società.»



Prefazione

Questo libro ha visto la luce perché abbiamo avuto la fortuna di trovarci a New York – e in America – quando sono iniziate le occupazioni del suolo pubblico, nel settembre del 2011. Siamo partiti come spettatori; nessuno di noi pensava che quella protesta avrebbe assunto dimensioni maggiori rispetto ad altre a cui avevamo partecipato. Col passare del tempo, ci siamo calati sempre più nel nostro ruolo di osservatori. Stavamo assistendo a uno degli eventi più significativi e promettenti della nostra vita. Abbiamo cominciato con quello che sapevamo fare: scrivere, chiedere agli amici di scrivere, rileggere, pubblicare. Nel giro di pochi giorni avevamo in mano un giornale, una specie di testimonianza vivente che diffondevamo gratis in città e in rete. Le prime due Gazettes nate sull’onda di Ows costituiscono il nucleo originario di questo libro. I diari descrivono quello che avevamo davanti agli occhi, e sono fortemente influenzati dal nostro modo di vedere le cose, di pensare, di sognare. Come tutte le testimonianze del mo-


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vimento, anche questi resoconti non hanno nulla di ufficiale. I saggi riportano altre opinioni che abbiamo sollecitato, idee che abbiamo cercato, discorsi che abbiamo sentito. Settimana dopo settimana, abbiamo capito che volevamo lasciare una testimonianza per il futuro, come un prisma che raccogliesse la luce di quell’evento. Mentre Verso Books mandava in stampa questo libro, Zuccotti Park-Liberty Plaza veniva sgomberato in seguito al giro di vite sulle occupazioni in tutto il paese. Seguendo l’esempio dei corpi di polizia di altre città, nella notte il Nypd ha fatto irruzione nell’accampamento, ha cacciato tutti gli occupanti, confiscato le tende, i sacchi a pelo, i libri e, armato di spray urticante, ha arrestato chi opponeva resistenza. «Non potete estirpare un’idea che deve ancora realizzarsi» è stata la prima risposta. Rebecca Solnit ne ha pensata una più poetica: «Potete anche strappare i fiori, ma non fermerete la primavera». Il movimento non è finito, e questo libro nemmeno. Continueremo a pubblicare aggiornamenti e analisi sul sito della Occupy! Gazette. Astra, Eli, Nikil, Sarah R, Sarah L, Mark, Keith, Carla


Prefazione   15

«Non c’è libertà politica senza giustizia economica.»


Scene da un’occupazione di Eli Schmitt, Astra Taylor, Mark Greif

17 settembre, sabato Eli Quando sono sceso dal treno nel Financial District, sabato scorso, per prima cosa mi sono scontrato per sbaglio con un poliziotto. Lui e una quindicina di altri agenti stavano in piedi davanti alle transenne sistemate per impedire che qualcuno entrasse a Wall Street. Mi sono spostato da lì, turbato, e ho sentito una coppia di anziani che si dicevano, indicando un punto tra due edifici: «È quella lassù la Freedom Tower?». Ero arrivato al Financial District per un raduno di dissidenti di sinistra, che mi avevano descritto come «un’occupazione di Wall Street». Alcuni siti web spiegavano che «per #occupywallstreet, il decentramento è parte del piano» e informavano i manifestanti del fatto che non «avevano bisogno di nessun permesso per occupare o riunirsi pacificamente sui marciapiedi pubblici». Email e post su vari blog parlavano della sentenza della Corte suprema «Citizens United»,1 delle sommosse po-


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polari in Medio Oriente e di quanto peso avessero le istituzioni finanziarie. Il tono variava, ma in tutti quei discorsi spiccava un comune senso di indignazione. L’evento sembrava basato sull’idea che la semplice libertà di riunione fosse in pericolo e che l’assemblea si dovesse giustificare da sola. A ogni modo, non è stato facile raggiungere l’assemblea, perché l’intera via di Wall Street era stata bloccata. Il luogo designato per l’incontro, la Chase Manhattan Plaza, era circondato dalle transenne della polizia. Non ho visto nessun manifestante sulle transenne, solo turisti che si scattavano foto con i poliziotti, e altri che se le facevano scattare dai poliziotti. Erano solo le tre e mezzo del pomeriggio, ma sembrava già l’imbrunire. Camminando, sono arrivato addirittura a sospettare che i dissidenti non ci fossero affatto, che tutte le azioni di massa in programma fossero state spazzate via dalle centinaia di agenti a guardia della strettoia tra i grattacieli. Alla fine, un amico ha risposto ai miei sms e mi ha detto dove trovare l’Assemblea generale. I partecipanti si erano riuniti a Zuccotti Park, in Liberty Plaza, un rettangolo lastricato tra Broadway e Trinity Place: era un bel gruppo, direi, alcune centinaia di persone. Invece di un’unica assemblea, si erano formati piccoli nuclei che andavano dai dieci ai cinquanta componenti. Alcuni avevano megafoni, moderatori e ordini del giorno, altri sembravano più spontanei. Gli oratori si alternavano, condividendo i propri pensieri e suggerimenti: come dovremmo rispettare le forze dell’ordine («fotti la polizia, ama il poliziotto»), come il clientelismo sta distruggendo la nostra democrazia. Le persone, alcune convincenti, altre meno, si incitavano a


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vicenda ad assaltare Wall Street, condividevano informazioni su dove trovare cibo e coperte e criticavano l’amministrazione Obama, mentre tutto intorno al parco si radunavano schiere di agenti e folti gruppi di manifestanti.

Astra Il primo giorno in cui sono arrivata e ho osservato la scena, mi sono cadute le braccia: sempre la stessa roba, sempre uguale, nulla di che. Dato che le autorità avevano bloccato la zona in previsione degli eventi della giornata, i manifestanti erano stati dispersi dalla polizia ed erano in netta inferiorità numerica. Ma poi ho seguito un corteo improvvisato verso il parco, dove sono accampati adesso. Ho incontrato un po’ di amici e abbiamo fatto «un’assemblea» insieme a un gruppo di estranei con cui abbiamo parlato di economia per due o tre ore. Direi che è stato bello essere a una manifestazione e scambiarsi idee, invece di camminare e gridare. Sembrava che il copione fosse cambiato. Erano quasi le sette quando ho lasciato i miei amici, convinta che di lì a poco la polizia avrebbe sgomberato tutto. Invece sono andati avanti fino al mattino, e io ho cominciato a dare loro più credito. Mark Era una bella giornata. Sono venuto per incontrare una coppia di amici e ci siamo imbattuti in gente che conoscevamo alla lontana; abbiamo incrociato Astra e i suoi amici, poi gente di Dissident e di The New Inquiry. Ci siamo riuniti, ci siamo seduti e abbiamo fatto ciò che gli organizzatori ci chiedevano, cioè discutere di quali proposte e richieste fossero più importanti secondo noi, per il nostro gruppo di discussione. Questi suggerimenti sa-


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rebbero stati portati all’Assemblea generale per essere esaminati in plenaria; così questo nutrito gruppo di sconosciuti avrebbe potuto determinare gli obiettivi dell’Assemblea generale. Attiravamo sempre più curiosi e visitatori. Dopo innumerevoli votazioni e riflessioni, siamo giunti alla conclusione che il desiderio che aveva spinto tante persone a partecipare al nostro gruppo era questo: riportare il governo sotto il controllo dei cittadini, regolamentare la finanza per il bene comune, tenere le banche alla larga dalle faccende di compravendita dei legislatori e dall’influenzare le leggi. Si è parlato di debiti e detrazioni fiscali sul pagamento degli interessi ipotecari, come dello scempio della legge Glass-Steagall 2 e della legge McCain-Feingold3 e di possibili alternative per risolvere quelle situazioni. Avremmo avuto bisogno di un accordo nazionale per il fatto che la libertà di parola riguarda solamente i cittadini in carne e ossa e non le aziende – per ribaltare la «Citizen United» –, e probabilmente avremmo potuto ottenerlo lottando per un emendamento costituzionale. Era questa la nostra proposta! Ci siamo scambiati gli indirizzi email e abbiamo deciso di provare a capire da dove cominciare. Solo più tardi mi sono reso conto che era il Giorno della Costituzione, il 224esimo anniversario della firma prima che il documento passasse agli stati per la ratifica.

Eli Qualcuno suggerì di «fare un’assemblea», così ci sedemmo tutti in cerchio. In un primo momento sembrava quasi uno scherzo. Dovevamo urlare per riuscire a sentirci reciprocamente in mezzo a tutte le voci delle assemblee vicine e, talvolta, le sirene


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della polizia. Ogni tanto una donna seduta su una panchina lì vicino suonava un tamburello. Qualcuno a un certo punto chiese che azione si pensava di portare a termine, che cosa avremmo fatto, e qualcun altro rispose che era quella l’azione, che eravamo lì per discutere e organizzarci. Altri allora suggerirono di avanzare le nostre richieste come gruppo; poi, dopo qualche deliberazione, decidemmo che ne avevamo una sola. Il compito del nostro gruppo di lavoro sarebbe stato decidere cos’era più importante per noi. Accettai di prendere appunti, e durante gli interventi buttai giù la seguente lista di potenziali richieste: -- abrogazione della sentenza della Corte costituzionale «Citizens United» (attraverso un emendamento costituzionale); -- rimozione della statua del toro da Wall Street (su suggerimento di un passante vestito da banchiere, ma con un cappio al posto della cravatta); -- una qualche forma di cancellazione dei debiti (per tutti o solo per gli studenti); -- finanziamento in fieri degli interventi militari (in questo modo non sarebbe possibile intraprendere guerre a meno che il Congresso sia d’accordo a finanziarne immediatamente ogni fase); -- imposte sulle piccole transazioni finanziarie (una versione di queste imposte è conosciuta come Tobin Tax); -- piena occupazione; -- un salario sociale o un reddito garantito (anche descritto come un’imposta negativa sul reddito); -- centri di cura per tutti (bambini e anziani);


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-- ripristinare la legge Glass-Steagall (una riforma bancaria introdotta nel 1933 e parzialmente abrogata a partire dal 1980); -- congedo per malattia retribuito per tutti i lavoratori americani; -- maggiore trasparenza politica in generale. La conversazione era seria ma anche spensierata. Un tizio ha proposto che i centri di cura di base fossero costruiti negli ex uffici postali, non appena le poste (Usps) avessero chiuso i battenti. Un altro non era d’accordo con la richiesta della piena occupazione, poiché era convinto che gli americani lavorassero già troppo. Nel bel mezzo del nostro dibattito, si è parlato del perché fosse problematico avanzare una richiesta e di come, per essere significativa, questa debba fondarsi su una questione rilevante a livello finanziario. Qualcuno ha domandato se la nostra lista di richieste potesse essere pubblicata sulla rivista Harper’s. Mentre parlavamo, altra gente si avvicinava e si univa al cerchio. Non era sempre chiaro chi conosceva qualcuno del gruppo e chi no. Un uomo si sedette e ci disse che Wall Street non era il posto giusto per riunirci, che avremmo dovuto puntare al «centro nevralgico», cioè a quelle organizzazioni semisegrete e non governative che scrivono le leggi. Nel frattempo, i manifestanti marciavano per tutto il perimetro della piazza cantando: «Di chi sono le strade? Queste strade sono nostre!». Abbiamo parlato di quali criteri fossero utili per formulare richieste positive. Qualcuno ci disse che ogni piccolo gruppo di discussione avrebbe presentato le proprie deliberazioni più tardi, quella stes-


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sa sera, e alla fine abbiamo deciso che l’abrogazione della sentenza «Citizen United» della Corte suprema fosse la migliore delle nostre richieste, perché sarebbe stata utile per creare un clima politico veramente più democratico, nel quale soddisfare anche tutte le altre voci della lista. Girava un taccuino su cui ognuno segnava la propria email per poter continuare la nostra discussione sulla «Citizens United». A quel punto eravamo stanchi morti. Qualche giorno dopo, mentre stavo cercando di scrivere questo articolo, mi sono imbattuto in una frase di George Eliot: «I mortali in generale hanno la straordinaria capacità di rimanere impressionati dalla presenza di ciò che hanno lottato per ottenere e dall’assenza di ciò per cui non hanno fatto nulla, se non desiderarlo». Parlava di noi? Viviamo e lavoriamo in una città in cui, per sopravvivere, dobbiamo scendere a compromessi con quelle stesse tremende ingiustizie che tentiamo di combattere con le nostre rivendicazioni? Un amico che ho visto quella sera mi ha chiesto ironicamente: «Contro cosa protestate?». Poi, scoppiando a ridere, ha aggiunto: «Contro cosa non protestate?». Era una frase stupida? Sono tentato di dire di sì. Da sabato, è stato più difficile per me rimanere a guardare, andare avanti con i miei dubbi su quello che gli occupanti di Liberty Plaza stanno ottenendo, o potrebbero aver ottenuto o potranno ottenere in futuro. Non sappiamo ancora esattamente quali saranno le nostre richieste. Uno dei membri del nostro gruppo, nel discutere i criteri per redigere una buona petizione, ha osservato che agli americani piace «ottenere qualcosa» al di là delle azioni politiche. Abrogare, ritirare, vietare. Vogliamo risultati, visibili e misurabili. Ma non abbiamo nessun Mubarak, nessun Gheddafi. Noi sia-


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mo il paese che ha rieletto Bush, che ha salvato le banche, che è in stallo al Congresso per un aumento irrisorio delle tasse. La nostra disoccupazione parziale e il nostro sistema democratico alienante saranno pure molto reali, i motivi che abbiamo per riunirci in assemblea saranno pure molto concreti, ma le cause precise del nostro disagio sono ancora lontane; e le loro soluzioni specifiche, forse, ancora di più.


Un no, molti sì di Marina Sitrin

Inizierò da dove mi trovo ora: New York. Anche se questa storia comincia prima dell’occupazione e, soprattutto, molto più a sud. Ma partiamo da New York. Il gruppo organizzatore sul campo era l’Assemblea generale di New York. Abbiamo cominciato a incontrarci durante l’estate del 2011, cercando di creare uno spazio il più orizzontale e democratico possibile e usando l’assemblea come strumento principale. Abbiamo discusso su quali sarebbero state le nostre rivendicazioni e su che cosa avrebbe definito il movimento, ma abbiamo deciso di non adottare una prospettiva di rivendicazione. Ma allora cosa vogliamo? Per la maggior parte di noi la cosa più importante è aprire spazi di conversazione, di democrazia reale, diretta, partecipativa. Perciò chiediamo solo di essere lasciati in pace nelle nostre piazze, nei nostri parchi, nelle scuole, nei luoghi di lavoro e nei quartieri, per incontrarci, riflettere insieme e decidere in assemblea quali sono le nostre alternative. E una volta aperti questi spazi democratici, saremo in grado di


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discutere eventuali richieste da presentare e di individuare chi, secondo noi, potrebbe soddisfarle. O forse, quando ci saranno assemblee in tutto il paese, la questione delle richieste si sarà risolta da sé. Se un giorno diventeremo abbastanza, saremo noi gli unici destinatari delle nostre richieste. Quelli che hanno partecipato all’Assemblea generale serale in Liberty Plaza ne hanno sicuramente tratto grande ispirazione, forse anche rimanendo un po’ spiazzati dal suo funzionamento. Da dove vengono le proposte? Come si fa a raggiungere un accordo? Davvero si ascoltano tutti per ore e ore ogni sera? Anche quando ci sono più di un migliaio di persone? Può sembrare una situazione poco organizzata, poco chiara, ma sotto questo mare di persone, in mezzo alle onde del microfono umano, si muove una rete di organizzazioni collegate. Ci siamo divisi in gruppi di lavoro decentrati ma connessi fra loro, che spaziano dai problemi più concreti – come il cibo, le emergenze mediche e quelle legali – a questioni come l’arte, l’istruzione, le problematiche femminili, la sicurezza nelle città. È in questi gruppi di lavoro che si realizza l’attività quotidiana di Occupy Wall Street. Pur rimanendo autonomo, in caso di decisioni che riguardano l’intera comunità (per esempio i negoziati con l’ufficio del sindaco, o l’uso di soldi per cauzioni ecc.), ogni gruppo presenta proposte al gruppo più ampio, l’Assemblea generale. Ogni giorno si organizzano incontri informativi, si cucina e si distribuisce cibo a oltre mille persone, si offre consulenza legale, si trasmettono video in streaming, ci si prende cura della salute fisica e mentale della gente (abbiamo una squadra di infermieri volontari e psicologi che lavorano con noi). È disponibile la traduzione dei discorsi in sette lingue, tra cui il lin-


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guaggio dei segni. L’elenco dei gruppi di lavoro e dei rispettivi incarichi è così lungo che potrebbe riempire un libretto. E abbiamo appena iniziato. La comunicazione tra i diversi gruppi di lavoro non è ancora perfetta, ma continuiamo a migliorare, e con noi, ovviamente, crescono e cambiano anche le nostre forme di organizzazione. Vengono costantemente studiate e sperimentate nuove strutture per riuscire a creare uno spazio il più possibile aperto, partecipativo e democratico. Ci sforziamo tutti di incarnare l’alternativa che vogliamo realizzare nelle nostre relazioni di tutti i giorni.

Novità e storia Molti sostengono che ciò che stiamo facendo è una novità. Vero, ma anche falso. Non si può certo dire che movimenti come il nostro non abbiano precedenti. Per esempio, «un no, molti sì» è una chiara citazione dell’Ezln del Chiapas, in Messico, un’esperienza nata nel 1994 in opposizione al Nafta e a quella che per gli zapatisti suonava come una condanna a morte per il loro paese. Il movimento ha stimolato l’immaginario di milioni di persone nel mondo e, alla fine degli anni novanta, la formazione di altri gruppi che si opponevano con modalità simili al potere gerarchico e all’idea che le decisioni spettassero solo allo stato e non ai singoli individui. Stiamo parlando del Direct Action Network negli Stati Uniti – emerso durante le proteste del 1999 a Seattle contro il Wto – dei social forum in Italia e di centinaia di altri casi in tutto il mondo.


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Nel 2001 l’economia argentina è crollata. Il governo non ha saputo fare fronte alla situazione. Ha congelato i conti correnti e alle persone non è rimasto altro che scendere in piazza, prima a decine, poi a centinaia, poi a migliaia, infine a centinaia di migliaia. Non sono scese in strada con un partito politico o con gli striscioni, ma con pentole e padelle, cacerolando. Il ritornello di quei giorni era: «¡Que se vayan todos! ¡Que no quede ni uno solo!» (Via tutti! Non deve rimanerne nemmeno uno!). E così è stato: si sono susseguiti cinque governi in due settimane. E la gente per strada ha cominciato a guardarsi intorno, negli occhi, a incontrarsi e vedersi per la prima volta. Sono nate assemblee. Per quelle persone capire chi li aveva danneggiati, proprio come state facendo voi, e cercare soluzioni insieme era la cosa più «naturale» del mondo. In Argentina, in quei primi giorni e settimane di crisi, le persone hanno dato vita a centinaia di assemblee di quartiere. I lavoratori hanno occupato i luoghi di lavoro e hanno cominciato a gestirli con riunioni orizzontali, eliminando le gerarchie, i capi, i manager e le differenze di retribuzione. Questa nuova solidarietà si è espressa in un nuovo termine, horizontalidad, un rapporto sociale che in quel momento la gente spiegava con un gesto: stendendo in avanti le mani e muovendole avanti e indietro a indicare una superficie piana. Alle richieste di maggiore chiarezza, la gente rispondeva: «Ecco, diciamo che non è questo» unendo le punte delle dita per disegnare un picco. La gente descrive la horizontalidad come un rapporto che contribuisce a creare novità e che, allo stesso tempo, definisce anche un obiettivo: usare gli strumenti in modo partecipato e orizzontale. Si tratta del modo in cui si cambia nel processo di parte-


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cipazione. La gente ha raccontato di come questo nuovo rapporto con la comunità l’abbia cambiata, trasformando l’idea di «io» in relazione al «noi», e quindi anche quella di «noi» in relazione all’«io». Da quando abbiamo iniziato l’occupazione, penso all’Argentina ogni giorno. E penso anche alle altre occupazioni che si stanno organizzando in tutti gli Stati Uniti. Queste assemblee si riuniscono e creano alternative alla crisi, iniziano a discutere di ciò che vogliamo e di come ottenerlo. Questa è una delle principali caratteristiche di quel che è successo l’anno scorso «Non ho detto guarda, in diverse parti del mondo, dall’Egitto alla ho detto ascolta.» Spagna. In Spagna dicono: «¡Democracia real ya!». In Grecia hanno ricominciato a usare il greco antico δημοκρατία, demokratia. Presto, spero, nelle nostre piazze, nei nostri parchi, nei quartieri, nelle scuole e negli uffici, tutti quanti urleranno la stessa cosa: «Democrazia reale!».


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