Joan Didion
Prendila così Romanzo Traduzione di Adriana Dell’Orto
Sito & eStore – www.ilsaggiatore.com Twitter – twitter.com/ilSaggiatoreEd Facebook – www.facebook.com/ilSaggiatore © 1970 by Joan Didion © il Saggiatore S.r.l., Milano 2014 Titolo originale: Play It As It Lays
Prendila cosĂŹ Per John
Maria
Cos’è che rende malvagio Jago? Si chiede certa gente. Io non me lo chiedo mai. Altro esempio, un esempio che viene in mente perché la signora Burstein stamattina ha visto un serpentello a sonagli tra i carciofi dell’orto e d’allora in poi è stata intrattabile: io non faccio mai domande sui serpenti. Perché il profumo Shalimar dovrebbe attrarre i crotali. Perché una serpe corallo dovrebbe aver bisogno di due ghiandole di veleno neurotossico per sopravvivere, mentre una serpe reale, che le somiglia in modo impressionante, non ne ha assolutamente bisogno. Dov’è andata a finire la logica darwiniana, in questo caso. Si potrebbe chiederselo. Io non me lo chiederei mai, né mi chiederei altro. Ricordo un episodio riportato non molto tempo fa nel Herald Examiner di Los Angeles: due sposini in luna di miele, originari di Detroit, trovati morti nel loro furgone Ford nei pressi di Boca Raton, un serpente corallo ancora arrotolato nella termocoperta. Perché? A meno che non si sia disposti a guardare le cose in una prospettiva più ampia, non ci sono «risposte» soddisfacenti a domande del genere. Ecco. Io sono quel che sono. La ricerca delle «ragioni» non mi riguarda. Ma poiché la ricerca delle ragioni è cosa che riguarda la gente di qui, mi fanno domande. Maria, sì o no: vedo un gallo in questa macchia d’inchiostro. Maria, sì o no: un gran numero di persone è colpevole di atti sessuali contrari alla morale, io credo che i miei peccati siano 7
imperdonabili, sono stata delusa in amore. Che cosa potrei rispondere? Come potrebbe entrarci? Non c’entra niente, scrivo con la matita IBM magnetizzata. Che c’entra, chiedono loro più tardi, come se la parola «niente» fosse ambigua, desse adito a interpretazioni, frammento dubbio di una runa islandese. Vi sono soltanto certi fatti, dico io, sforzandomi di nuovo di stare simpaticamente al gioco. Certi fatti, certe cose che sono accadute. (Perché prendersela, potreste chiedere voi. Mi preoccupo per Kate. Se sto al gioco, qui, è per Kate. Carter ha fatto rinchiudere Kate là dentro e io la tirerò fuori.) Loro fraintenderanno i fatti, inventeranno connessioni, estrapoleranno ragioni là dove non ne esistono, ma ve l’ho detto, questa è una cosa che riguarda la gente di qui. Così, mi hanno suggerito di mettere per iscritto i fatti, e i fatti sono questi: mi chiamo Maria Wyeth. Si pronuncia Mar-ai-a, tanto per chiarire le cose fin dal principio. Qualcuno qui mi chiama «signora Lang», ma io non l’ho mai fatto. Età: trentun anni. Sposata. Divorziata. Una figlia, di quattro anni. (Non parlo di Kate con nessuno, qui. Nel posto dove si trova Kate le piazzano elettrodi sulla testa e aghi nella spina dorsale e cercano di scoprire cos’è che è andato storto. È ancora un’altra versione del perché un serpente corallo possiede due ghiandole di veleno neurotossico. Kate ha la colonna vertebrale rammollita e reazioni chimiche aberranti nel cervello. Kate è Kate. Carter non s’è ricordato che aveva la colonna vertebrale rammollita, altrimenti non avrebbe permesso loro di infilarci degli aghi.) Da mia madre ho ereditato l’aspetto esteriore e una tendenza all’emicrania. Da mio padre ho ereditato un ottimismo che mi ha abbandonata solo di recente. Particolari: sono nata a Reno, Nevada, e nove anni dopo mi sono trasferita a Silver Wells, Nevada, popolazione di allora 28, adesso 0. Ci siamo trasferiti a Silver Wells perché mio padre aveva perso la casa di Reno al gioco e per caso si era ricordato di possedere quella città, Silver Wells. L’aveva comprata o vinta o forse suo padre gliel’aveva lasciata, non lo so esattamente e la cosa comunque non ha importanza, per voi. Avevamo un sacco di cose e di posti che andavano e venivano, una fattoria senza neppure un capo di bestiame e una stazione sciisti8
ca ottenuta mediante il riscatto di un’ipoteca altrui e un motel che si sarebbe trovato in posizione vantaggiosa all’uscita di una autostrada, se solo l’autostrada fosse stata costruita; mi hanno cresciuta facendomi credere che ciò che avrebbe portato il futuro sarebbe sempre stato meglio di ciò che s’era portato via il passato. Adesso non ci credo più, ma vi racconto come stavano le cose. Ciò che possedevamo a Silver Wells erano trecento acri di piante di mesquite e qualche casa e un distributore di benzina e una miniera di zinco e un binario di raccordo della ferrovia Tonopah & Tidewater e una bottega di cianfrusaglie e più tardi, dopo che mio padre e il suo socio Benny Austin si fecero venire l’idea che Silver Wells costituiva un’attrazione turistica naturale, un minigolf e un museo dei rettili e un ristorante con alcune slotmachines e due tavoli di dadi. Le slot-machines non erano un grosso affare perché l’unica persona a giocarci era Paulette, coi nichelini della cassa. Paulette gestiva il ristorante e (me ne rendo conto ora) se la spassava con mio padre e a volte mi lasciava fingere di fare la cassiera dopo la scuola. Dico «fingere» perché non c’erano avventori. L’autostrada su cui mio padre aveva contato non passò mai da quelle parti, il denaro finì e mia madre si ammalò e Benny Austin tornò a Las Vegas, mi sono imbattuta in lui al Flamingo qualche anno fa. «L’unica Waterloo di tuo padre è stato il fatto che era un uomo sempre in anticipo di vent’anni sul suo tempo» mi informò Benny quella sera al Flamingo. «Il progetto della ghost-town, il minigolf, l’idea del blackjack automatico, che cosa vedi in giro oggi? Harry Wyeth sarebbe un Rockefeller a Silver Wells oggi come oggi.» «Non esiste più una Silver Wells oggi come oggi» dissi io. «Si trova nel bel mezzo di una rampa missilistica.» «Parlo di allora, Maria. Di come era.» Benny ordinò un giro di Cuba Libre, una bibita che non ho mai visto ordinare da nessun altro all’infuori di mia madre, mio padre e Benny Austin, e io gli diedi qualche fiche da giocare a nome mio e andai alla toilette delle signore e non tornai più indietro. Mi sono detta che era stato perché non volevo che Benny vedesse il tipo d’uomo con cui ero, ero con un uomo che giocava a baccarà con poste da cento dollari, ma non era tutto. Tanto vale che parli chiaro, mi riesce difficile parlare di come era. 9
Voglio dire che non si viene a capo di nulla. Benny Austin, mia madre seduta nel ristorante deserto di Paulette con quasi cinquanta gradi fuori, a sfogliare le sue riviste in cerca di concorsi cui avremmo potuto partecipare (Waikiki, Parigi, una vacanza a Roma, le smanie di mia madre impregnavano la nostra vita al pari di gas paralizzanti, attraversare l’oceano su di un aereo argenteo, canticchiava tra sé e ci credeva, vedere la giungla stillante di pioggia), noi tre che scendevamo a Las Vegas col furgoncino e poi tornavamo a casa nella notte chiara, oltre centocinquanta chilometri all’andata e altrettanti al ritorno, senza incontrare nessuno per strada né all’andata né al ritorno, soltanto i serpenti che si snodavano sull’asfalto caldo, e mia madre con una gardenia appassita nei capelli bruni e mio padre che teneva una bottiglia di Jim Beam sul pavimento del furgoncino e parlava dei suoi progetti, aveva sempre un sacco di progetti, io non ho mai fatto progetti in vita mia, nessun progetto ha senso, né costrutto. New York: che senso ha avuto? Una diciottenne di Silver Wells, Nevada, si diploma alla Consolidated Union High School di Tonopah e se ne va a New York a seguire un corso di recitazione, voi che ne dite? Mia madre pensava che fare l’attrice fosse una buona idea, mi tagliava i capelli con la frangetta perché somigliassi a Margaret Sullivan, e mio padre a dirmi di non aver paura di andare perché se gli andavano bene certi affari, come prevedeva, lui e mia madre sarebbero diventati passeggeri regolari della linea aerea Las Vegas-New York City, per cui sono andata. Come poi è successo, la penultima volta che l’ho vista, mia madre era seduta all’aeroporto di Las Vegas e beveva un Cuba Libre, ma ecco qui. Tutto passa. Mi do un gran da fare per non pensare a come tutto passa. Guardo un colibrì, getto le monetine dell’oroscopo cinese ma non le leggo mai, tengo la mente fissa al presente. New York. Atteniamoci a certi fatti. Ecco quel che è capitato: ero molto carina (non sto dicendovi che era una fortuna o una sfortuna, è una semplice constatazione, lo so dalle fotografie) e qualcuno mi ha fotografata e poco dopo prendevo cento dollari all’ora dalle agenzie e cinquanta dollari dalle riviste, che a quei tempi era mica male, e ho conosciuto un sacco di gente del Sud e di checche e di ragazzi ricchi, ed era così che passavo i giorni e le notti. La sera che mia madre è uscita di stra10
da con la macchina alla periferia di Tonopah, ero con un ragazzo ricco ubriaco al vecchio Morocco, per quanto sono riuscita a ricordare più tardi: l’ho saputo soltanto un paio di settimane dopo, perché i coyote l’avevano dilaniata prima che qualcuno la ritrovasse e mio padre potesse darmi la notizia. («Gesù, ci andava così bene a Silver Wells» mi disse Benny Austin quella sera al Flamingo, e forse era vero per loro, forse era vero per me, forse non avrei dovuto mai andarmene, ma con questo modo di pensare non si viene a capo di nulla, perché come ho detto a Benny non esiste più Silver Wells. L’ultima volta che ho sentito parlare di Paulette, abitava in un posto chiamato Sun City. Rifletteteci.) La lettera di mio padre era stata spedita a un vecchio indirizzo e inoltrata, l’ho letta in tassì una mattina che ero in ritardo per una seduta di pose e quando ho afferrato il fatto, nel bel mezzo della seconda frase, mi sono messa a urlare e poi per un mese non ho lavorato. La lettera è ancora chiusa nella valigetta del trucco, ma sto ben attenta a non leggerla a meno che non sia ubriaca, cosa che nella mia attuale situazione non accade mai. «È un brutto colpo, ma Dio, se ce n’è uno, e, tesoro, sinceramente credo che debba esserci “Qualcosa”, certo non l’ha voluto per farti rinunciare ai tuoi progetti» così finiva la lettera. «Non permettergli di fregarti perché hai tutti gli assi nella manica.» Begli assi. Non so con esattezza che anno fosse perché ho questo problema del come stavano le cose, ma dopo un po’ ho passato un brutto periodo. (Ecco, direte ora, credeva che i suoi peccati fossero imperdonabili, ma ve l’ho detto, non c’entra niente.) I tulipani di Park Avenue sembravano sporchi, e mi hanno spedita due volte a Montego Bay per riprendere un po’ di colore, ma non riuscivo a dormire da sola e restavo alzata fino a tardi e con Ivan Costello andava a rotoli e tutto ciò ormai si leggeva chiaramente nelle fotografie. Naturalmente non sono tornata nel Nevada quell’anno, perché era l’anno che ho inveito contro Ivan e ho sposato Carter, e l’anno dopo è stato quando siamo venuti qui e Carter mi ha infilata in un paio di filmetti (può darsi che uno l’abbiate visto, un dottore di qui sostiene d’averlo visto ma quello direbbe qualsiasi cosa pur di farmi parlare, l’altro non è mai stato distribuito) e non so che cos’è accaduto l’anno dopo e poi ho comincia 11
to ad andare un bel po’ nel Nevada, ma ormai mio padre era morto e io non ero più sposata. I fatti sono questi. Ora me ne sto distesa al sole e faccio un solitario e ascolto il mare (il mare è laggiù ai piedi della scogliera ma non mi è permesso nuotare, soltanto la domenica quando siamo accompagnate) e guardo un colibrì. Mi sforzo di non pensare alle cose morte e agli impianti idraulici. Mi sforzo di non udire il condizionatore d’aria in quella camera da letto di Encino. Mi sforzo di non vivere a Silver Wells o a New York o con Carter. Mi sforzo di vivere nel presente e di tenere lo sguardo fisso al colibrì. Non vedo nessuno di quelli che conoscevo un tempo, ma del resto me ne importa pochissimo di un sacco di persone. Voglio dire, forse avevo tutti gli assi nella manica, ma a che gioco giocavo?
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Helene
Ho visto Maria oggi. O almeno, ho cercato di vedere Maria oggi: ho fatto il tentativo. Non l’ho fatto per Maria, non ho problemi a dirlo, l’ho fatto per Carter, o per BZ, o per i vecchi tempi o per qualcos’altro, non certo per Maria. «Non ho molta voglia di parlare con te, Helene» è quel che mi ha detto l’ultima volta. «Non è un fatto personale, Helene, solo che non parlo più.» Non per Maria. Comunque non ci sono riuscita. A vederla. Ho guidato fin là, mi ci è voluta l’intera mattinata, e le avevo preparato una scatola, con tutti i nuovi libri e una sciarpa di chiffon che una volta aveva lasciato sulla spiaggia (era distratta, dev’essere costata trenta dollari, era sempre distratta) e una libbra di caviale, magari non Beluga, ma Maria ormai non dovrebbe più far storie, oltre a una lettera di Ivan Costello e a un lungo articolo su Carter che qualcuno ha scritto per il New York Times; credereste che perlomeno si sarebbe mostrata interessata, solo che Maria non è mai stata capace di sopportare il successo di Carter, tutto qui, e Maria non ha voluto vedermi. «La signora Lang sta riposando» ha detto l’infermiera. Potevo vederla mentre si riposava. Potevo vederla laggiù, ai bordi della piscina con quello stesso bikini che portava l’estate che ha ucciso BZ, distesa ai bordi di quella piscina con uno schermo sugli occhi come se non avesse la minima preoccupazione o responsabilità al mondo. Non ingrassa di un grammo, noterete che accade spesso alle donne egoiste. Non che dia la colpa a Maria di 13
una qualsiasi delle cose che mi sono accadute, anche se sono io quella che ha sofferto, sono io quella che dovrebbe «riposare», sono io quella che ha perso BZ per via della sua spensieratezza, del suo egoismo, ma l’accuso soltanto a nome di Carter. Se solo ne avesse avuto l’occasione, avrebbe ammazzato anche Carter. È sempre stata una ragazza molto egoista: prima di tutto, in definitiva e sempre c’era Maria.
Carter
Ecco alcune scene che ho chiarissime in mente. «Faccio sempre colazione fuori» dico a qualcuno. Siamo a una cena, un gruppo di amici. Maria direbbe che non erano amici suoi, ma Maria non ha mai capito l’amicizia, la conversazione, i normali piaceri della convivenza sociale. Maria ha difficoltà a parlare con la gente con cui non va a letto. «Vado al Wilshire o al Beverly Hills» dico. «Leggo i giornali specializzati, mi piace far colazione da solo.» «Non è vero che fa sempre colazione fuori» dice Maria, sottovoce, a nessuno in particolare. «In realtà, l’ultima volta che ha fatto colazione fuori è stato il 17 aprile.» Gli altri seduti al tavolo prima guardano lei e poi distolgono lo sguardo, stupiti, a disagio: qualcosa nel modo in cui artiglia con le mani l’orlo del tavolo impedisce loro di passarci sopra. Soltanto BZ continua a fissarla. «Oh, andate a farvi fottere» dice lei allora, e lacrime le colano lungo le guance. Continua a tenere lo sguardo fisso davanti a sé, su nessuno in particolare. Altra scena: lei sta giocando sul prato con la bambina, schizzando in aria gocce d’acqua da un tubo di plastica trasparente. «Sta’ attenta che non prenda freddo» dico io dal terrazzo; Maria leva lo sguardo, lascia cadere il tubo e si allontana dalla bambina avviandosi al capanno 15
della piscina. Si volta a guardare la bambina. «Tuo padre vuole parlarti» dice. La sua voce è neutra. Dopo la morte di BZ c’è stato un momento in cui ho costruito e ricostruito queste scene e altre simili, componendole come per la cinepresa e tentando di trovare un ordine, uno schema. Non l’ho trovato. Tutto quel che posso dire è questo: è stato dopo una successione di piccole scene del genere che ho cominciato a scorgere l’improbabilità di un riavvicinamento con Maria.
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Nel primo caldo mese dell’autunno successivo all’estate in cui lasciò Carter (l’estate che Carter lasciò lei, l’estate che Carter smise di abitare nella casa di Beverly Hills), Maria percorreva in macchina l’autostrada. Si vestiva ogni mattina con più decisione di quanta ne avesse avuta da un po’ di tempo a quella parte, una gonna di cotone, una maglietta, sandali di cui sbarazzarsi con un calcio quando volesse avvertire il contatto dell’acceleratore, e si vestiva in fretta e furia, passandosi un paio di volte una spazzola tra i capelli e legandoli sulla nuca con un nastro, perché era essenziale che arrivasse sull’autostrada per le dieci (interrompersi era come gettarsi in un indicibile pericolo). Non in un qualche punto dell’Hollywood Boulevard, non lungo il tragitto per l’autostrada, ma proprio in autostrada. Se non ci arrivava perdeva il ritmo della giornata, quel suo slancio precariamente imposto. Una volta arrivata sull’autostrada e riuscita a imboccare una corsia veloce, accendeva la radio a tutto volume e guidava. Percorreva la San Diego fino alla Harbor, la Harbor su su fino alla Hollywood, la Hollywood fino alla Golden State, la Santa Monica, la Santa Ana, la Pasadena, la Ventura. Le percorreva come un battelliere percorre un fiume, ogni giorno più intonato alle sue correnti, ai suoi inganni, e proprio come un battelliere avverte l’impeto delle rapide nel lento scorrere tra veglia e sonno, così Maria giaceva di notte nel silenzio di Beverly Hills e vedeva i grandi cartelli stradali veleggiarle sul capo a cento all’ora. 17
Normandie 1/4 Vermont 3/4 Harbor Fwy 1. Più e più volte tornava a un tratto intricato appena a sud dello svincolo, dove per passare senza danni dalla Hollywood alla Harbor bisognava attraversare diagonalmente quattro corsie di traffico. Il pomeriggio che finalmente riuscì a farcela senza frenare neppure una volta né perdere neppure per un attimo il filo della radio, ne fu esilarata, e la notte dormì senza sogni. In quel periodo non dormiva in casa ma fuori, ai bordi della piscina, su una poltrona di malacca scolorita lasciata da un precedente inquilino. C’era una derivazione per il telefono, e usava asciugamani da spiaggia a mo’ di coperte. Gli asciugamani da spiaggia avevano un significato speciale. Poiché Maria aveva l’inquietante sensazione che il fatto di dormire all’aperto su una poltrona di malacca potesse essere interpretato come il primo passo verso qualcosa di innominabile (non sapeva che cos’era che temeva, ma era qualcosa che aveva a che fare con scatole di sardine vuote nell’acquaio, bottiglie di vermouth nel cestino dei rifiuti, una sciatteria irrimediabile), si diceva che dormiva all’aperto soltanto finché non avesse fatto troppo freddo per dormire, coperta soltanto da asciugamani da spiaggia, soltanto finché il caldo non fosse cessato, soltanto finché i fuochi non avessero smesso di ardere sulle montagne, che dormiva all’aperto solo perché le camere da letto nella casa erano caldissime, senz’aria, solo perché le palme sfregavano contro le imposte e non c’era nessuno a svegliarla, la mattina. Gli asciugamani da spiaggia significavano che quella sistemazione era del tutto temporanea. Fuori, all’aperto, non doveva aver paura di non svegliarsi, fuori riusciva a dormire. Il sonno era essenziale se doveva arrivare in autostrada per le dieci. A volte l’autostrada finiva bruscamente, in un deposito di rottami metallici a San Pedro o sulla strada principale di Palmdale o in un punto qualsiasi che non era un posto preciso, dove la liscia distesa di asfalto infuocato semplicemente si interrompeva, diventava una strada come tutte le altre, fiancheggiata dalle tettoie abbandonate di qualche cantiere edilizio, corrose dalla ruggine. Quando ciò accadeva badava a mantenere un perfetto controllo, faceva marcia indietro, avvertiva per la prima volta il greve peso dell’auto che pulsava piano sotto di lei e si sforzava di tenere gli occhi fissi sulla corrente principale del traffico, sui grandi piloni, 18
sulla rete metallica, gli implacabili oleandri, le insegne luminose, l’organismo che assorbiva tutti i suoi riflessi, tutta la sua attenzione. Per non doversi fermare a mangiare, teneva un uovo sodo accanto a sé sul sedile della Corvette. Riusciva a sgusciare e mangiare l’uovo sodo a oltre cento all’ora (rompeva il guscio sul volante, il sale non aveva importanza, il sale fa ingrassare, qualsiasi cosa accadesse non dimenticava il proprio corpo) e beveva Coca-Cola presso le stazioni di servizio della Union 76, le stazioni di servizio della Standard, della Flying A. Se ne stava in piedi sull’asfalto cocente e beveva la Coca direttamente dalla bottiglia e riponeva la bottiglia nella rastrelliera (cercava sempre di farsi notare dall’inserviente mentre riponeva la bottiglia nella rastrelliera, sfoggio di sollecita responsabilità, niente scatolette di sardine nel suo acquaio) e poi camminava fino all’orlo del marciapiede e se ne stava lì, lasciando che il sole le asciugasse la schiena madida di sudore. Per udire la propria voce a volte parlava con l’inserviente, chiedeva consiglio sui filtri dell’olio, che pressione ci voleva per le gomme, la strada migliore per il Foothill Boulevard di West Covina. Poi si riannodava il nastro sui capelli e sciacquava gli occhiali da sole alla fontanella ed eccola pronta a ripartire. Nel primo caldo mese dell’autunno successivo all’estate che lasciò Carter, l’estate che Carter la lasciò, l’estate che Carter smise di abitare nella casa di Beverly Hills, una brutta stagione da passare in città, Maria percorse oltre diecimila chilometri con la Corvette. A volte, di notte, il terrore la sopraffaceva, inondandola di sudore, sommergendole la mente di acute lampeggianti immagini di Les Goodwin a New York e di Carter laggiù nel deserto in compagnia di BZ e di Helene e dell’irrevocabilità di ciò che sembrava essere ormai accaduto, ma in autostrada non ci pensava mai.
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Il secondo film che aveva girato con Carter era intitolato La spiaggia dell’angelo, e lei faceva la parte di una ragazza che veniva violentata dai membri di una banda di teppisti in motocicletta. Carter aveva girato il film con una spesa complessiva di 340.000 dollari e lo studio aveva prenotazioni al completo e alla fine del primo anno gli incassi lordi in patria e all’estero erano di poco inferiori agli 8 milioni di dollari. Maria l’aveva visto due volte, una volta in occasione di un’anteprima allo studio e una seconda volta da sola, in un cinema all’aperto di Culver City, e in nessuno dei due casi aveva avuto la sensazione che la ragazza sullo schermo fosse lei. «Ti guardo e so che... ciò che è accaduto non ha significato proprio nulla» diceva la ragazza sullo schermo, e «ci sono un sacco di altre cose nella vita oltre al divertimento, adesso me ne rendo conto, il divertimento non esiste.» La versione originale di Carter si concludeva con un’inquadratura della banda di teppisti, quasi a rappresentare una realtà non compresa appieno dalla ragazza interpretata da Maria, ma la versione distribuita dallo studio si concludeva con una carrellata di Maria che passeggiava per un campus universitario. Maria preferiva la versione dello studio. In effetti, il film le piaceva: la ragazza sullo schermo sembrava possedere una ben precisa capacità di controllare il proprio destino. L’altro film, il primo film, il film mai distribuito, era intitolato Maria. Carter aveva semplicemente seguito Maria per New York, girando il film. Fu soltanto dopo che si erano trasferiti in California e Carter ave20
va cominciato a montare il film, che Maria si rese conto appieno di ciò che lui stava facendo. Nel film si vedeva Maria posare per certe fotografie di moda, Maria addormentata su un divano a una festa, Maria al telefono che litigava con l’ufficio contabilità di Bloomingdale, Maria che setacciava un po’ di marijuana con un colino da cucina, Maria che piangeva sul modulo delle tasse. Alla fine veniva mostrata in negativo e appariva come morta. Il film durava settantaquattro minuti e aveva vinto un premio a un festival dell’Europa Orientale e a Maria non piaceva per niente. Una volta aveva sentito dire che i sapientoni dell’Ucla e dell’Usc parlavano di usarla allo stesso modo in cui i registi commerciali parlavano di usare attrici che prendevano un milione di dollari a film, ma non aveva mai parlato con nessuno di loro (a volte si avvicinavano a Carter davanti a un teatro o a una libreria e si presentavano, e Carter presentava Maria, e quelli sbirciavano Maria con la coda dell’occhio mentre parlavano con Carter sulla possibilità che andasse a vedere i loro programmi cinematografici, ma Maria non aveva niente da dirgli, ne evitava lo sguardo) e non le andava a genio l’idea che l’avessero vista in quel primo film. Non pensava mai al film come a Maria. Ci pensava sempre come a quel primo film. Carter la portò a casa di BZ ed Helene una sera che BZ proiettava il film e lei dovette uscire di casa dopo i titoli di testa, andò a sedersi sulla spiaggia a fumare sigarette e a lottare contro la nausea per settantadue dei settantaquattro minuti. «Perché lo proietta così spesso» aveva detto a Carter più tardi. «Perché gli permetti di tenersi una copia là, ne tiene una copia a casa.» «È sua, Maria. Tutte le copie sono sue.» «Non è questo che volevo dire. Ti ho chiesto perché lo proietta così spesso.» «Desidera che Helene lo veda.» «Helene l’ha visto una dozzina di volte. A Helene non piace neppure, me l’ha detto lei.» «Non capisci niente» aveva detto alla fine Carter, e quella sera erano andati a letto senza scambiarsi una parola. Maria non desiderava capire perché BZ proiettasse quel primo film così spesso o che cosa avesse a che fare con Helene. La ragazza sullo schermo in quel primo film non aveva alcuna capacità per nessuna cosa. 21