Psycho anteprima

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Robert Bloch

Psycho Postfazione di Loris Tassi Traduzione di Bruno Tasso


La collana «La letteratura secondo Hitchcock» è curata da Matteo Battarra e Giuseppe Girimonti Greco. Sito & eStore – www.ilsaggiatore.com Twitter – twitter.com/ilSaggiatoreED Facebook – www.facebook.com/ilSaggiatore © 1959 by Robert Bloch © il Saggiatore S.r.l., Milano 2014 Titolo originale: Psycho


Psycho



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Quando sentì il rumore, Norman Bates ebbe un sussulto. Era come se qualcuno stesse picchiando contro il vetro della finestra. Sollevò la testa di scatto, pronto ad alzarsi, e il libro gli scivolò dalle mani nell’ampio grembo. Poi si rese conto che in realtà era soltanto la pioggia. La pioggia del tardo pomeriggio che batteva contro i vetri del salotto. Norman non si era accorto che aveva incominciato a piovere e nemmeno che stava calando la sera. Ma adesso il salotto era immerso nella penombra, così prima di rimettersi a leggere allungò un braccio per accendere la lampada. Era una di quelle vecchie lampade da tavolo con il paralume di vetro decorato e la frangia di cristallo. A quanto ricordava, sua madre ce l’aveva da sempre, non se ne sarebbe liberata per nessuna ragione al mondo. Norman non aveva niente da obiettare a riguardo; aveva quarant’anni ed era sempre vissuto in quella casa, in fondo era piacevole, rassicurante essere circondato da oggetti familiari. Lì dentro era tutto in ordine e ogni cosa aveva il suo posto; i cambiamenti avvenivano soltanto fuori. E quasi sempre i cambiamenti rappresentavano una potenziale minaccia. Mettiamo che quel po7


meriggio fosse uscito a fare una passeggiata. Con ogni probabilità, sarebbe stato colto dalla pioggia mentre si trovava in qualche strada isolata, o magari nei pressi della palude. E allora sarebbe stato costretto a tornare a casa a tentoni, al buio, bagnato fradicio. Non c’è modo migliore di questo per prendersi un malanno, e poi, chi può desiderare di trovarsi fuori quando fa buio? Si stava molto meglio lì, in salotto, accanto alla lampada, in compagnia di un buon libro. Quando chinò la testa per rimettersi a leggere, la luce gli illuminò il viso paffuto, riflettendosi sugli occhiali senza montatura, e sfiorò la pelle rosea del cranio sotto i capelli rossicci che cominciavano a diradarsi. Era davvero un bel libro; non c’era da meravigliarsi che il tempo fosse passato senza che lui se ne accorgesse. L’impero degli Incas di Victor W. von Hagen. Norman non aveva mai trovato una messe così abbondante di informazioni curiose. Per esempio, questa descrizione della cachua, la danza della vittoria, nel corso della quale i guerrieri formavano un grande cerchio che si muoveva e si contorceva come un serpente. Lesse: Il rullo che la accompagnava era ottenuto da quello che una volta era stato il cadavere di un nemico; la pelle della pancia veniva staccata e tesa in modo da formare un tamburo, e l’intero corpo fungeva da cassa armonica; il suono usciva dalla bocca spalancata, con un effetto macabro ma efficace.

Norman sorrise, poi si concesse il lusso di un piccolo brivido di piacere. Un effetto macabro ma efficace, già, doveva essere proprio così! Scuoiare un uomo, probabilmente ancora vivo, per poi tendergli la pelle della pancia fino a trasformarla in un tamburo. Chissà come facevano a ottenere quel risultato, senza che la carne del cadavere andasse in decomposizione. E soprattutto che tipo di mentalità dovevano avere per arrivare a concepire un’idea del genere? 8


Norman socchiuse gli occhi e per un istante, sebbene non fosse una visione particolarmente gradevole, ebbe come l’impressione di vedere la scena: una folla di guerrieri nudi, dipinti con colori vivaci, si contorcevano e ondeggiavano all’unisono sotto un cielo spietato, inondato dal sole, davanti a loro la vecchia strega accovacciata batteva le mani con ritmo instancabile sulla pancia gonfia e tesa di un uomo morto. La bocca stravolta del cadavere era tenuta aperta da stecche di osso. Il suono proveniva da lì: risaliva dalla pancia attraverso i rinsecchiti orifizi interni, veniva spinto su per la trachea e fuoriusciva dalla gola morta, amplificato e assordante. Per un momento Norman credette quasi di sentirlo, poi si ricordò che anche la pioggia aveva un ritmo, e anche i passi… In realtà non aveva nemmeno bisogno di sentirli, quei passi; la lunga familiarità gli acuiva i sensi, e quando la mamma entrava nella stanza non aveva bisogno di alzare la testa per sapere che era lì. E, infatti, non alzò la testa, finse di continuare a leggere. La mamma aveva riposato in camera sua, e lui sapeva per esperienza quanto era irritabile, a volte, quando si era appena svegliata. Molto meglio fare finta di niente, nella speranza che non fosse troppo di cattivo umore. «Norman, sai che ore sono?» Con un sospiro, chiuse il libro. Era chiaro che non gli avrebbe reso le cose facili; la domanda era già di per sé una specie di sfida. Per raggiungere il salotto bisognava attraversare l’ingresso, dove c’era la pendola del nonno, così la mamma doveva sapere benissimo che ore fossero. Ma non aveva alcun senso mettersi a discutere. Norman guardò l’orologio, poi sorrise. «Sono le cinque passate» rispose. «A dire il vero, non credevo che fosse così tardi. Stavo leggendo…» «Pensi che non abbia gli occhi? Lo vedo benissimo cosa stavi facendo.» Adesso era davanti alla finestra e guardava la pioggia. «E vedo anche cosa non hai fatto. Perché non hai acceso l’insegna quando ha cominciato a fare buio? E perché non sei in ufficio, dove dovresti essere?» 9


«Be’, sta piovendo così forte, ho pensato che con un tempaccio del genere non sarebbe arrivato nessuno.» «Sciocchezze. È proprio in questi casi che può esserci un po’ di movimento. C’è un sacco di gente a cui non piace guidare quando piove.» «Ma è improbabile che qualcuno passi di qui. Ormai prendono tutti la strada nuova.» Norman percepì una punta di risentimento nella propria voce, lo sentì ribollire nella gola fin quasi ad avvertirne il gusto e cercò di trattenerlo. Ma era troppo tardi, fu costretto a sputare fuori tutto. «Te l’avevo detto che sarebbe finita così, l’ho detto appena siamo venuti a sapere che avrebbero costruito la strada nuova. Avresti potuto benissimo vendere il motel prima che la notizia diventasse di dominio pubblico. Con pochi spiccioli avremmo potuto comprare un terreno laggiù, anche più vicino a Fairvale. Avremmo avuto un nuovo motel, una nuova casa, e avremmo guadagnato un bel po’ di soldi. Ma tu non hai voluto darmi retta. Non vuoi mai darmi retta, vero? Conta sempre e solo quello che vuoi tu, quello che pensi tu. Mi dai il voltastomaco, ecco.» «Davvero, piccolo mio?» La voce della mamma era sorprendentemente dolce, ma Norman non si lasciò ingannare. Non c’era da sbagliarsi quando lo chiamava così. Aveva quarant’anni, e lei gli diceva ancora «piccolo mio» e lo trattava di conseguenza, come se non bastasse tutto il resto. Se solo avesse potuto non sentirla! Ma non ne era capace, non era mai riuscito a non sentirla. «Davvero, piccolo mio?» ripeté lei, con una voce ancora più dolce. «Ti do il voltastomaco, eh? Be’, non credo proprio. No, ragazzo mio, non sono io che ti do il voltastomaco; sei tu che dai il voltastomaco a me. È per questo che te ne stai ancora qui, in questa strada secondaria, non è vero, Norman? La verità è che non hai fegato. Non hai mai avuto fegato, piccolo mio. Non hai mai avuto il fegato di andartene di casa. Non hai mai avuto il fegato di andare a cercarti un lavoro, di arruolarti, o semplicemente di trovarti una ragazza…» 10


«Non me lo avresti permesso!» «Hai ragione, Norman, non te lo avrei permesso. Ma, se tu fossi stato anche soltanto un mezzo uomo, avresti fatto a modo tuo.» Avrebbe voluto gridarle che si sbagliava, ma non poteva. Perché le cose che aveva detto erano le stesse che per tutti quegli anni non aveva mai smesso di ripetersi. Era vero. Era sempre stata lei a dire cosa si doveva e non si doveva fare, ma lui avrebbe potuto rifiutarsi di obbedire. Le madri a volte sono molto possessive, ma non tutti i ragazzi si lasciano possedere. Di certo c’erano altre vedove, altri figli unici, e non tutti erano rimasti imprigionati in un rapporto come il loro. La colpa non era solo della mamma, era anche sua. Perché non aveva mai avuto fegato. «Potevi insistere, sai» disse lei. «Potevi cercare un altro posto e mettere questo in vendita. E invece niente, ti sei limitato a piagnucolare. E io lo so perché. Non sei mai riuscito a darmela a bere, nemmeno per un istante. La verità è che non avevi nessuna intenzione di andartene. Non hai mai voluto lasciare questo posto e non lo farai mai. Non te ne puoi andare, vero? Proprio come non puoi crescere.» Norman non osava guardarla. Non la guardava mai quando gli diceva cose del genere, non ci riusciva. E non sapeva nemmeno dove altro guardare. La lampada con le frange, i mobili vecchi e massicci, tutti gli oggetti familiari della stanza gli diventarono improvvisamente odiosi proprio perché gli erano così familiari, come succede a chi è in cella. Guardò fuori dalla finestra, ma anche questo fu inutile: c’erano solo vento, pioggia e tenebre. Non c’erano vie di fuga, lì fuori. Non c’erano vie di fuga in nessun luogo, non poteva sfuggire alla voce che vibrava, che gli rimbombava nelle orecchie come quella del cadavere inca di cui aveva letto nel libro. Il tamburo del morto. Strinse il libro tra le mani e cercò di concentrarsi su quello. Forse se l’avesse ignorata, se avesse finto di essere calmo… Niente da fare. «Ma guardati!» disse lei (il tamburo continuava a fare bum bum 11


bum, dalla bocca straziata fuoriusciva il suo suono rintronante). «Lo so perché non ti sei nemmeno preso la briga di accendere l’insegna. Lo so perché non sei neppure andato ad aprire l’ufficio stasera. Non è vero che te ne sei dimenticato. Semplicemente, non volevi che arrivasse qualcuno, speravi che non si facesse vedere anima viva.» «E va bene» mormorò. «Non mi piace gestire un motel, non mi è mai piaciuto.» «Non è solo questo, piccolo mio.» (Di nuovo quel «piccolo mio, piccolo mio, piccolo mio!» che usciva come un rullo di tamburo dalla bocca della morte.) «Tu odi la gente. Perché, in fondo, ne hai paura. Ne hai sempre avuto paura, fin da quando eri bambino. Anche allora preferivi startene seduto in poltrona accanto alla lampada a leggere. Lo facevi trent’anni fa e lo fai ancora oggi. Ti nascondi dietro la copertina di un libro.» «Avrei potuto fare cose ben peggiori. Me lo hai sempre detto anche tu. Almeno non mi sono mai messo nei guai. Non è meglio se cerco di coltivare la mia mente?» «Coltivare la tua mente? Ah! Ah! Ah!» Era in piedi, proprio dietro di lui, e lo stava guardando dall’alto in basso. «Coltivare, dici? È inutile che cerchi di darmela a bere, ragazzo mio. Non ci sei mai riuscito. Non stai leggendo la Bibbia, e certo non ti stai facendo una cultura. So benissimo che razza di cose leggi. Porcherie. Schifosissime porcherie!» «Si dà il caso che questa sia una storia della civiltà Inca…» «Oh, ti credo sulla parola. E sono pronta a scommettere che è piena di particolari disgustosi su quei sudici selvaggi, come quell’altro, sui mari del Sud. Non pensavi che sapessi anche questo, vero? Lo tenevi nascosto in camera tua, insieme a tutti gli altri libri disgustosi che leggevi sempre…» «La psicologia non è disgustosa, mamma!» «La psicologia, certo! Te ne intendi molto di psicologia, tu! Non 12


dimenticherò mai tutte le oscenità che mi hai detto quella volta, mai! Un figlio che si rivolge in quel modo alla madre!» «Stavo soltanto cercando di spiegarti qualcosa. Lo chiamano “complesso di Edipo”, pensavo che, se fossimo riusciti ad affrontare il problema in maniera sensata, se avessimo cercato di capire, forse tra noi le cose sarebbero cambiate in meglio.» «Cambiare, piccolo mio? Non cambierà mai niente. Puoi leggere tutti i libri di questo mondo, resterai sempre lo stesso. Non ho bisogno di stare a sentire quelle tiritere volgari e oscene per sapere chi sei. Anche un bambino di otto anni lo capirebbe! E lo avevano capito, tanto tempo fa, anche i tuoi amichetti. Cocco di mamma. Ecco come ti chiamavano, e avevano ragione. Eri, sei e sarai sempre un cocco di mamma. Un grasso, grosso cocco di mamma.» Il rullare di tamburi delle sue parole, il rullare di tamburi che sentiva nel petto era assordante. Era talmente disgustato che gli sembrava di soffocare. Ancora un istante e sarebbe scoppiato a piangere. Norman scosse la testa. Com’era possibile che lei riuscisse a fargli questo anche adesso? Eppure era così, e avrebbe continuato a farlo, per sempre, a meno che… «A meno che?» Dio! Gli leggeva nel pensiero? «Lo so a che stai pensando, Norman. So tutto di te, piccolo mio. Più di quanto tu possa immaginare. E so anche cosa immagini. Stai pensando che vorresti uccidermi, Norman? Ma non puoi. Perché non hai fegato. Sono io quella forte. Lo sono sempre stata. Lo sono stata per tutti e due. Ecco perché non potresti mai liberarti di me, anche se lo desiderassi davvero. Ma in fondo non lo desideri nemmeno. Hai bisogno di me, piccolo mio. È così, non è vero?» Norman si alzò, lentamente. Non aveva il coraggio di girarsi e trovarsi faccia a faccia con lei, non ancora. Doveva prima imporsi di restare calmo. Calmo, devi stare molto calmo. Non badare a quello che dice. Cerca di affrontare la situazione, di ricordare. È solo una vecchia 13


e non ci sta neanche tanto con la testa. Se continui a darle retta finirai con l’andar fuori di testa anche tu. Dille di tornare in camera sua e di coricarsi. è lì che deve stare. E sarà meglio che ci vada in fretta, o la strangolerai davvero con la sua maledetta corda d’argento… Fece per girarsi e stava già cominciando a parlare, quando echeggiò un trillo metallico. Era il segnale: significava che qualcuno era arrivato al motel. Senza guardarsi indietro, Norman attraversò l’ingresso, prese l’impermeabile dall’attaccapanni e uscì nelle tenebre.


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Pioveva già da diversi minuti quando Mary se ne accorse e azionò il tergicristallo. Accese anche i fari; si era fatto improvvisamente buio, e davanti a lei la strada era solo una vaga traccia fra due file di alberi. Alberi? Non ricordava che ci fossero degli alberi, l’ultima volta che era passata di là. Certo, era successo l’estate precedente, e allora era arrivata a Fairvale in pieno giorno, lucida e riposata. Ora era stanca, dopo diciotto ore filate al volante, eppure aveva la netta sensazione che qualcosa non andasse. Cercò di ricordare. Ricordare… ecco la parola chiave. Ricordava, sia pure vagamente, di aver esitato a un bivio, più o meno mezz’ora prima. Ecco cos’era; aveva preso la strada sbagliata. E adesso Dio solo sapeva dove si trovava, con quella pioggia incessante e un buio sempre più pesto… Sta’ calma, adesso. Non farti prendere dal panico. Il peggio è passato. Era vero, si disse. Il peggio era passato. Il peggio era stato quando aveva rubato il denaro, il pomeriggio del giorno precedente. Quando il vecchio Tommy Cassidy aveva tirato fuori quel grosso fascio di banconote e lo aveva posato sulla scrivania, lei era lì, nell’ufficio di Lowery. Trentasei bigliettoni con il ritratto dell’uomo grasso con l’aria da commerciante, e altri otto con la faccia di quell’altro che sembra un becchino. Ma il commerciante era in realtà Grover Cleve15


land e il becchino William McKinley. E trentasei biglietti da mille e otto da cinquecento facevano in totale quarantamila dollari. Tommy Cassidy li aveva tirati fuori dalla tasca come se niente fosse, poi aveva annunciato, con tono disinvolto, che aveva intenzione di concludere l’affare: avrebbe comprato la casa come regalo di nozze per la figlia. Lowery aveva assunto un tono altrettanto disinvolto mentre l’altro firmava gli ultimi documenti. Ma, appena il vecchio Tommy Cassidy se n’era andato, aveva cominciato a manifestare la sua eccitazione. Aveva raccolto il denaro e lo aveva messo in una grande busta gialla, che si era affrettato a chiudere e sigillare. Mary aveva notato che le mani gli tremavano. «Ecco» le aveva detto, porgendole il denaro. «Lo porti in banca. Sono quasi le quattro, ma sono sicuro che Gilbert glieli farà depositare.» Poi aveva fatto una pausa ed era rimasto a guardarla per un istante. «C’è qualcosa che non va, signorina Crane? Non si sente bene?» Forse si era accorto che anche a lei tremavano le mani ora che stava reggendo la busta. Ma non importava. Sapeva cosa doveva dire, e ciononostante rimase sorpresa quando sentì la propria voce pronunciare quelle parole. «È uno dei miei soliti mal di testa, signor Lowery. Anzi, stavo per chiederle se posso andare a casa a riposare per il resto del pomeriggio. Ho sbrigato tutta la corrispondenza e, quanto alle altre pratiche per questo affare, non possiamo fare niente prima di lunedì.» Lowery le aveva sorriso. Era di ottimo umore, naturalmente. Il cinque per cento di quarantamila dollari sono duemila dollari. Poteva permettersi il lusso di mostrarsi generoso. «Certo, signorina Crane. Faccia il deposito e poi vada pure a casa. Vuole che la accompagni in macchina?» «Oh no, grazie. Posso fare da sola. Basterà un po’ di riposo…» «È quello che ci vuole. A lunedì, allora. E se la prenda comoda, come dico sempre.» 16


Be’, a dire il vero non era esattamente quello che diceva sempre; Lowery si sarebbe fatto uccidere per un dollaro in più e per altri cinquanta centesimi non avrebbe esitato a uccidere uno qualunque dei suoi impiegati. Ma Mary Crane gli aveva sorriso dolcemente, poi era uscita per sempre dal suo ufficio e dalla sua vita. Portandosi via i quarantamila dollari. Occasioni del genere non capitano tutti i giorni. Anzi, a ben guardare, c’è gente a cui non capita mai nessuna occasione. Mary Crane aveva aspettato la sua per più di ventisette anni. L’occasione di andare al college era svanita quando aveva diciassette anni e suo padre era stato investito da una macchina. Per un anno aveva frequentato una scuola commerciale, ma poi aveva dovuto mantenere la mamma e la sorella minore, Lila. L’occasione di sposarsi invece, l’aveva persa a ventidue, quando Dale Belter era stato chiamato sotto le armi. Trasferito quasi subito alle Hawaii, aveva ben presto cominciato a parlare di una ragazza nelle sue lettere e poi aveva smesso di scrivere. Quando alla fine aveva ricevuto la partecipazione di matrimonio, ormai non le importava più niente. All’epoca la mamma era già gravemente malata. Ci aveva messo tre anni a morire, mentre Lila era lontana, a studiare. Mary aveva insistito perché andasse al college, a qualunque costo, anche se così tutto il peso della casa era ricaduto sulle sue spalle. Fra il lavoro all’agenzia Lowery che la teneva occupata tutto il giorno e le mezze nottate trascorse accanto alla mamma, le restava ben poco tempo per fare altro. Nemmeno il tempo di accorgersi del passare degli anni. Ma poi la mamma aveva avuto il colpo di grazia, e c’erano stati i funerali, e Lila era tornata e aveva cominciato a cercarsi un lavoro, e allora Mary Crane si era guardata allo specchio e si era trovata di fronte un viso teso e contorto. Aveva scaraventato qualcosa contro lo specchio e lo 17


specchio si era rotto in mille pezzi, e lei aveva capito che non si trattava soltanto di questo. Anche lei stava andando in frantumi. Lila era stata meravigliosa, perfino Lowery le aveva dato una mano, facendo in modo che la casa venisse venduta in men che non si dica. Sistemate tutte le pendenze, erano rimaste con circa duemila dollari in contanti. Lila aveva trovato un posto in un negozio di dischi in centro e si erano trasferite insieme in un appartamento più piccolo. «Adesso ti devi prendere una vacanza» le aveva detto Lila. «Una vera vacanza. No, niente storie. Ti sei occupata della famiglia per otto anni, ora è venuto il momento di riposarti. Voglio che tu faccia un viaggio. Una crociera, magari.» Così Mary si era imbarcata sul Caledonia e dopo una settimana nelle acque dei Caraibi il viso teso e contorto era scomparso dallo specchio della sua cabina. Aveva di nuovo l’aspetto di una giovane donna (ventidue anni, non un giorno di più, si disse) e soprattutto era innamorata. Non era quel sentimento impetuoso, irresistibile che aveva provato per Dale Belter. E nemmeno la solita storia da crociera tropicale al chiaro di luna. Sam Loomis aveva circa dieci anni più di Dale ed era un uomo piuttosto tranquillo, ma lei lo amava. Le era sembrato che potesse essere la sua prima, vera occasione, almeno finché Sam non le aveva spiegato alcune cose. «Be’, le cose non sono proprio come sembrano» le aveva detto. «Vedi, c’è quel negozio di ferramenta…» E allora era venuta fuori tutta la storia. C’era un negozio di ferramenta, in una cittadina chiamata Fairvale, su, a nord. Sam aveva lavorato lì con il padre, con l’accordo che un giorno lo avrebbe ereditato. Un anno prima il padre era morto e gli era stata annunciata la brutta notizia. Sam aveva ereditato l’attività, naturalmente, ma anche ventimila dollari di debiti. Il locale era ipotecato, la merce era ipotecata, persino la polizza assicurativa era ipotecata. Il padre non gli aveva mai parla18


to dei suoi piccoli investimenti in borsa… né tantomeno delle corse di cavalli. Ma quei piccoli investimenti c’erano stati. E ora gli restavano solo due possibilità: o fallire o provare a estinguere il debito. Sam aveva scelto la seconda soluzione. «Il negozio va bene» aveva spiegato. «Non diventerò ricco sfondato, ma con una buona gestione potrò contare su otto o diecimila dollari sicuri all’anno. Magari qualcosa in più, se comincio a occuparmi anche di macchine agricole. Sono già riuscito a restituire più di quattromila dollari. Credo che nel giro di un paio d’anni sarò a posto.» «Non capisco… Se sei pieno di debiti, come puoi permetterti il lusso di un viaggio come questo?» Sam le aveva sorriso. «L’ho vinto in un concorso. Proprio così. Un concorso fra venditori indetto da una fabbrica di macchine agricole. Non era certo il viaggio che mi interessava, stavo solo cercando di darmi da fare per poter pagare i creditori. E un bel giorno mi avvertono che ho vinto il primo premio per la mia zona. Ho cercato di farmi pagare in contanti, ma non ne hanno voluto sapere. O il viaggio o niente. Be’, questo è un mese morto, e ho un impiegato molto onesto che lavora per me. Ho pensato che tanto valeva prendersi una vacanza gratuita. E così, ora sono qui. E ci sei anche tu.» Le aveva sorriso, poi con un sospiro aveva aggiunto: «Vorrei che fosse la nostra luna di miele». «E perché no, Sam? Voglio dire…» Ma lui aveva sospirato di nuovo, scuotendo la testa. «Dobbiamo aspettare. Forse mi ci vorranno ancora due o tre anni per restituire tutto.» «Ma io non voglio aspettare! Non mi importa del denaro. Potrei lasciare il mio impiego e venire a lavorare nel tuo negozio…» «E ci dormiresti anche, come faccio io?» Aveva sorriso di nuovo, ma era un sorriso ancora più amaro del sospiro. «Perché le cose stanno così. Mi sono sistemato alla meno peggio nel retro. Mangio solo legumi in scatola. In giro si dice che sono più taccagno di un banchiere.» 19


«Ma che senso ha?» aveva chiesto Mary. «Voglio dire, se vivessi in modo decente, impiegheresti al massimo un anno in più a restituire tutto quello che devi. E intanto…» «E intanto devo restare a Fairvale. È una bella cittadina, ma è molto piccola. Tutti sanno tutto degli altri. Se mi vedono tirare la cinghia, mi rispettano. Vengono a comprare da me anche se non sono di strada; conoscono la mia situazione e apprezzano il fatto che io stia facendo tutto il possibile. Papà aveva una buona reputazione, anche se le cose sono andate come sono andate. Io intendo conservare questa reputazione per me e per il negozio. E per noi, per il futuro. Ora è più importante che mai. Capisci?» «Il futuro» aveva sospirato Mary. «Due o tre anni, hai detto?» «Mi dispiace. Ma quando ci sposeremo dovremo avere una casa decente e tante altre cose. E per tutto questo c’è bisogno di soldi. O almeno di credito. Al momento sto cercando di diluire i pagamenti, e i fornitori me lo permettono perché sanno che in questo modo potrò restituire loro tutto quello che gli devo. Non è facile e non è piacevole. Ma so quello che voglio, e non posso accontentarmi di meno. Devi essere paziente, cara.» Era stata paziente. Ma solo dopo essersi resa conto che non sarebbe mai riuscita a convincerlo a cambiare idea, né con le parole né con i fatti. Le cose stavano così quando era finita la crociera. E dopo più di un anno non era cambiato niente. Mary era andata a trovarlo in macchina, l’estate precedente; aveva visto la città, il negozio, le ultime annotazioni sui libri mastri da cui risultava che Sam aveva restituito altri cinquemila dollari. «Me ne restano soltanto undicimila» le aveva detto, con orgoglio. «Ancora due anni, forse meno.» Due anni. Di lì a due anni lei ne avrebbe avuti ventinove. Non poteva permettersi il lusso di bluffare, di fare una scenata, di fingere di piantarlo come una ragazzina di vent’anni. Sapeva che non ci sarebbero stati molti Sam Loomis nella sua vita. Così, aveva annuito con 20


un sorriso ed era tornata a casa, all’agenzia Lowery. Era tornata all’agenzia Lowery e aveva visto il vecchio Lowery incassare regolarmente il cinque per cento su ogni vendita che portava a termine. Lo aveva visto accaparrarsi ipoteche a rischio di inadempimento, fare offerte da strozzino a venditori ridotti alla disperazione e poi rivendere quegli stessi immobili con un consistente e facile profitto. La gente, in fondo, non fa che vendere e comprare. Lowery interveniva al momento opportuno e si prendeva una percentuale dalle due parti in causa per il semplice fatto di aver messo in contatto compratore e venditore. Era questo l’unico servizio che giustificasse la sua esistenza. Eppure era ricco. Non gli ci sarebbero certo voluti due anni di fatiche per estinguere un debito di undicimila dollari. A volte riusciva a mettere insieme quella somma in due mesi. Mary lo odiava, odiava tutti gli acquirenti e i venditori con i quali aveva a che fare, perché anche loro erano ricchi. Tommy Cassidy era uno dei peggiori, un pezzo grosso che faceva soldi investendo in azioni petrolifere. E sebbene non ne avesse alcun bisogno, non perdeva mai d’occhio il settore immobiliare, sempre pronto a fiutare bisogni e timori, a comprare a prezzi bassissimi e a vendere a cifre astronomiche, deciso a non lasciarsi mai sfuggire l’occasione di spremere qualche dollaro in più da una parte o dall’altra. Era una cosa da niente, per lui, sborsare quarantamila dollari in contanti per comprare una casa a sua figlia come regalo di nozze. E un pomeriggio, circa sei mesi prima, senza pensarci due volte, aveva distrattamente lasciato cadere un biglietto da cento dollari sulla scrivania di Mary Crane e l’aveva invitata a fare un «viaggetto» con lui fino a Dallas nel fine settimana. Era successo tutto così in fretta, e le aveva sorriso con una tale disinvoltura, che lei non aveva avuto nemmeno il tempo di arrabbiarsi. Poi era entrato il signor Lowery, e la faccenda era finita lì. Mary non aveva mai detto apertamente a Cassidy come la pensava, né in pubblico né in privato, e Cassidy, dal canto suo, non aveva più rinnovato 21


l’offerta. Ma lei non lo aveva dimenticato. Non era mai riuscita a dimenticare quel sorrisetto viscido su quel disgustoso faccione. E non aveva mai dimenticato che il mondo apparteneva a tipi come Tommy Cassidy. Erano loro i padroni, erano loro a stabilire i prezzi. Quarantamila dollari a una figlia come regalo di nozze; cento dollari lasciati cadere distrattamente su una scrivania per avere il privilegio di godersi per tre giorni il corpo di Mary Crane. E allora mi sono presa i quarantamila dollari… Era una di quelle frasi dette sempre per scherzo, solo che questa volta non si trattava di uno scherzo. Aveva preso il denaro. Probabilmente era da un bel po’ di tempo che dentro di sé sognava un’occasione del genere. Tutto sembrava filare liscio, come se si trattasse di un piano prestabilito. Era venerdì pomeriggio; l’indomani le banche sarebbero state chiuse, questo significava che Lowery non poteva accorgersi di niente prima di lunedì, quando lei non si sarebbe presentata in ufficio. E non era tutto. Quella mattina Lila era partita di buon’ora per Dallas, giacché ora toccava a lei fare tutti gli acquisti per il negozio di dischi. Anche lei sarebbe tornata solo lunedì. Mary era andata direttamente a casa e aveva preparato i bagagli; non si era portata via tutto, aveva messo in valigia i suoi vestiti migliori e aveva riempito il borsone da viaggio. Non aveva toccato i trecentosessanta dollari di risparmi che lei e Lila tenevano nascosti in un vecchio barattolo di cold cream. Le sarebbe piaciuto lasciare alla sorella un biglietto, un biglietto qualsiasi, ma non aveva avuto il coraggio di scriverlo. I giorni seguenti sarebbero stati duri per Lila, era inevitabile. Solo più tardi, forse, avrebbe potuto fare qualcosa. Mary era uscita di casa verso le sette; un’ora dopo si era fermata a cenare in un quartiere periferico, poi, in un concessionario di macchine usate, aveva barattato la sua vecchia berlina con una coupé. Non era stato uno scambio vantaggioso, e ancora meno lo era stato quello del mattino seguente quando aveva ripetuto l’operazione in 22


una città settecento chilometri più a nord. A mezzogiorno, dopo l’ennesimo baratto, si era ritrovata con trenta dollari in contanti e una vecchia bagnarola con il parafango anteriore sinistro ammaccato, ma in condizioni di spirito più che soddisfacenti. L’essenziale era cambiare più spesso possibile, in modo da far perdere le proprie tracce, e riuscire ad arrivare fino a Fairvale, fosse anche al volante di una carretta sgangherata. Una volta là, avrebbe potuto spingersi ancora più a nord, magari fino a Springfield, e vendere l’ultima macchina usando il proprio nome; perché mai le autorità avrebbero dovuto interessarsi ai movimenti di una certa signora Loomis, che viveva in una città a duecento chilometri di distanza? Era decisa a diventare la signora Loomis, e al più presto. Si sarebbe presentata da Sam e gli avrebbe raccontato di avere ricevuto quei soldi in eredità. Non quarantamila dollari, magari, una somma così grossa avrebbe richiesto troppe spiegazioni. Poteva dire che erano quindicimila. E avrebbe aggiunto che anche Lila aveva ricevuto la stessa cifra, si era licenziata ed era partita improvvisamente per l’Europa. In questo modo, avrebbe avuto un ottimo pretesto per non invitare la sorella al matrimonio. Forse Sam avrebbe esitato prima di accettare il suo denaro, le avrebbe fatto un mucchio di domande a cui non sarebbe stato facile rispondere, ma alla fine lo avrebbe convinto. Doveva farcela. E dovevano sposarsi subito, era indispensabile. Sarebbe diventata la signora Loomis, moglie del proprietario di un negozio di ferramenta in una cittadina lontana millecinquecento chilometri dall’agenzia Lowery. All’agenzia Lowery non sapevano neanche dell’esistenza di Sam. Certo sarebbero andati da Lila, e lei, senza dubbio, avrebbe subito intuito ogni cosa. Ma non avrebbe detto niente, non prima di essersi messa in contatto con Mary. E allora Mary sarebbe stata pronta ad affrontare la sorella e l’avrebbe convinta a tenere la bocca chiusa con Sam e con le autorità. Non sarebbe stato difficile: Lila le doveva molto, dopo tutti gli anni 23


in cui lei aveva lavorato per permetterle di studiare. Forse avrebbe potuto darle una parte dei venticinquemila dollari rimasti. Ma probabilmente Lila non li avrebbe accettati. Una soluzione l’avrebbe trovata; non aveva ancora un piano preciso, ma al momento opportuno avrebbe saputo come comportarsi. Per ora, doveva fare una cosa alla volta, e il primo passo era raggiungere Fairvale. Sulla carta stradale la distanza non superava i dieci centimetri. Una linea rossa di dieci insignificanti centimetri. Ma c’erano volute diciotto ore per arrivare fin lì, diciotto ore di vibrazioni continue, passate a strizzare gli occhi per la luce del sole o per quella dei fari, diciotto ore sempre nella stessa scomoda posizione a lottare con la strada, con il volante, con la stanchezza sempre crescente. Ora al bivio aveva sbagliato strada, pioveva, si era fatta notte, e lei si era persa in quello strano posto. Guardò per un istante nello specchietto retrovisore e scorse il vago riflesso del suo volto. I capelli neri e i lineamenti regolari erano quelli di sempre, ma il sorriso era scomparso, le sue labbra carnose non erano più che una linea sottile. Dove aveva già visto quell’espressione tesa, contorta? Nello specchio, dopo la morte della mamma, quando qualcosa dentro di me si era spezzato… Fino a quel momento aveva avuto l’impressione di essere calma, fredda, perfettamente padrona di sé. Nessun segno di paura, o rimorso, o senso di colpa. Ma lo specchio non mentiva. Lo specchio diceva la verità. Diceva, pur senza parole, di fermarsi. Non puoi presentarti da Sam con un aspetto simile, non puoi arrivare in piena notte con quella faccia e con quel vestito da cui si capisce chiaramente che sei fuggita in fretta e furia. Certo, gli dirai che volevi fargli una sorpresa, che morivi dalla voglia di dargli la buona notizia, ma devi avere l’aria di una donna tanto felice da non farcela più ad aspettare. C’era una cosa sola da fare: fermarsi a dormire da qualche parte, 24


riposarsi decentemente, arrivare a Fairvale l’indomani mattina, fresca e lucida. Se fosse tornata indietro fino al punto dove aveva sbagliato strada, avrebbe potuto riprendere la statale e cercare un motel. Annuì, sforzandosi di resistere all’impulso di chiudere gli occhi, poi si tirò su e scrutò il paesaggio ai lati della strada, immerso nel buio di quella cupa notte piovosa. Fu allora che vide l’insegna all’imbocco di un viale privato che portava a un piccolo edificio. motel – camere libere. L’insegna era spenta ma forse si erano solo dimenticati di accenderla come lei si era dimenticata di accendere i fari quando, quasi all’improvviso, era scesa la notte. Mary imboccò la stradina. Anche le luci del motel erano spente, perfino quella della stanza con l’ampia vetrata che molto probabilmente fungeva da ufficio. Forse era chiuso. Rallentò, provò a guardare all’interno, poi si rese conto che le ruote stavano passando su uno di quei contatti elettrici che trasmettono un segnale di avvertimento. Vide che c’era una casa sulla collina, alle spalle del motel; le finestre erano illuminate, probabilmente il proprietario si trovava là. Sarebbe arrivato in un minuto. Spense il motore e rimase in attesa. Sentì il monotono scrosciare della pioggia sul tetto dell’auto e poi il sospiro del vento. Riconobbe il suono, pioveva proprio così il giorno in cui avevano seppellito la mamma, il giorno in cui l’avevano calata in quel piccolo rettangolo buio. E ora quel buio era lì, la circondava. Era sola al buio. Niente poteva aiutarla, né il denaro, né Sam, perché al bivio aveva preso la strada sbagliata e ora si trovava in quello strano posto. Ma non poteva farci nulla: si era scavata la fossa con le proprie mani, non le restava che stendercisi dentro. Ma cosa andava pensando? Perché? Non una fossa, un letto. Era ancora sovrappensiero quando una grande ombra nera emerse tra le altre ombre e le aprì lo sportello della macchina. 25


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